Il mio protettore
Brennan lavorava fino a tardi quella sera. Come la sera prima e quella prima ancora.
Brennan doveva finire quel lavoro. Un caso irrisolto, un caso che aveva la priorità assoluta su ogni sua serata.
I capelli le scivolarono sugli occhi. La stanchezza era così attanagliante da impedirle anche il piccolo movimento necessario a riportarli dietro l’orecchio. La maglia era sporca dei campioni di terriccio che aveva prelevato per Hoggins, le mani le tremavano dal sonno. Ma c’era qualcosa che le sfuggiva in quella storia e doveva capire cosa.
I guanti impedivano alle dita sottili di respirare mentre osservava per l’ennesima volta il volto sfigurato dalla morte di Marie Stewart. La ragazza, appena diciassettenne, era stata torturata e alla fine uccisa in un vecchio magazzino in periferia. Era terribile come il respiro non potesse portar via con sé anche le emozioni di una persona. Quelle non se ne andavano mai, rimanevano scolpite nelle ormai fragili ossa della vittima anche dopo che non le era rimasto altro e un occhio esperto poteva ritrovarle con estrema facilità.
Improvvisamente sentì il freddo del tavolino in acciaio del laboratorio svegliarle la guancia e si rese conto di essere crollata ancora.
Brennan non aveva ancora cenato quella sera. L’orologio batteva le nove e mezzo e lei sentiva il suo organismo protestare per quella mancata soddisfazione. E la giovane donna non sapeva come rispondergli.
Ma proprio non se la sentiva di alzarsi. Cosa avrebbe risolto se si fosse sforzata di raggiungere una posizione eretta? Le mancava la voglia di andare a riempirsi di pizza in qualche locale angusto, di quelli che sembrano essere stati creati per rimarcare la tua solitudine e portarla più a fondo, fino a che non ne sei completamente assorbita e non scompari alla vista delle altre persone.
Si passò una mano sul viso e ricontrollò per l’ennesima volta la scapola perforata dello scheletro davanti a lei, sua unica compagnia.
-Finirai per decomporti, Bones!-.
L’antropologa si voltò stupita. Un agente dell’FBI alto, robusto, dal cipiglio allegro e un po’ sarcastico, con un costante sorriso familiare sulle labbra la guardò preoccupato.
-Hai una brutta cera, Bones…- le disse fissandola negli occhi lucidi di stanchezza.
Lei li spostò velocemente sul suo paziente –Quante volte ti ho detto di non chiamarmi Bones, Booth?-.
L’uomo evitò la domanda, come sempre, e le buttò un pacchetto unto proprio accanto ai resti del radio di Marie. Brennan lo osservò curiosa.
-O pensato ti servissero un po’ di proteine.- le spiegò.
-Veramente nella pizza ai peperoni ci sono ben poche proteine…- rispose leggermente in imbarazzo per quel gesto di affetto.
Seeley le si avvicinò fino a sfiorarle il naso, la impietrì con lo sguardo e le sorrise ironico.
-Mangia e basta, Bones.-
La donna non poté fare a meno di sorridergli. Ancora una volta il suo protettore era lì, ad aiutarla, a portarle un po’ di calore, a salvarla da sé stessa. Ancora una volta sapeva che la morte non l’avrebbe mai spaventata. Per questo riusciva a fare il suo lavoro: perdere la vita non era un grande male, ma perdere il suo angelo sarebbe stato peggio di mille ferite, ferite di cui lei sapeva ogni cosa oramai, ferite che che con Lui non avrebbero mai potuto scalfirla.