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Autore: Pizee_01    14/11/2015    4 recensioni
[Tratto dall storia]
l giorno dopo partimmo per Parigi. A me era sempre piaciuta l'idea di viaggiare, ma ovviamente da quando arrivai a New York non ci pensai neanche più.
Però, avevo sempre desiderato andare a Parigi. Come tutti, del resto.
Arrivammo lì di pomeriggio. Mi ricordo, era il 12 Novembre 2015. Non sarei neanche stata in grado di immaginarlo...
Questa one-shot è un finale alternativo della mia long "La Legge del gioco", ma non bisogna necessariamente aver letto quest'ultima per capire la one-shot.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale
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La Guerra a Parigi
 
-Courtney, vuoi sposarmi?-
Oh, me lo ricordo bene quel giorno.
Era autunno, ma ormai il freddo stava prendendo il sopravvento, nonostante fosse solo inizio novembre.
Duncan mi fece quel poetico discorso, così romantico, per farsi perdonare per il fatto che aveva fumato.
Io ero arrabbiata, sì, quando me lo chiese, mi era sembrato come se fosse solo un modo per farmi calmare e per fare in modo che lo perdonassi. Ma no, lui ci aveva pensato davvero. E io, in quel momento non potei fare altro che accettare con tutto l'amore che avevo nel cuore per lui.
Sì, lo amavo tanto. Noi eravamo le tanto raccontate anime gemelle, così diverse, ma tanto da potersi incastrare. Così facemmo noi due. Quante ne passammo insieme. Da un tribunale all'altare, chi l'avrebbe mai detto? Io no di certo. Quante volte avevo cerato di reprimere i miei sentimenti... per paura? Forse, ma non ne sono così sicura. Forse il sentimento che provavo per lui era talmente grande e forte che avevo il timore che mi potesse totalmente stravolgere. Cosa che in realtà è effettivamente successa.
All'inizio, lui pensava di fare le cose in fretta e furia. Andiamo in comune e sposiamoci. Era così semplice per lui. Ma io gli chiesi un po' di tempo. Magari potevamo mettere da parte un po' di soldi per i vestiti. Forse ero troppo vanitosa, ma a me non andava per niente a genio l'idea di dovermi sposare in jeans e felpa.
E lui mi assecondò.
Però, una cosa che non gli avevo detto era che non mi andava neanche di non avere nessun ospite.
Avevo provato centinaia di volte a chiamare Gwen, ma non mi rispose mai. Mi dispiacque molto, ma la capii, in fondo. Chi c'era d'altro? La mia famiglia era totalmente fuori discussione. Figuriamoci, mi avrebbero mandata a quel paese. Così, pensai bene di chiamare la sua famiglia; in fondo, quando chiamai sua madre per chiederle se lo poteva ospitare sopo la scarcerazione, lei mi sembrava entusiasta del fatto di poter rivedere il figlio.
La chiamai, mentre Duncan era al lavoro. Io le spiegai tutto. Lei piangeva di gioia per suo figlio, gli voleva molto bene.
Lei disse che lei e suo marito sarebbero arrivati lì il giorno seguente, con dei vestiti eleganti. Io le avevo chiesto di non regalarci niente, figuriamoci se Duncan avrebbe mai accettato regali da qualcuno, era troppo orgoglioso. Lei mi promise che l'unico dono che ci avrebbero fatto sarebbero stati i due vestiti. Io acconsentii, mi piaceva l'idea di avere in casa i vestiti del nostro matrimonio.
In quel momento, dovevo solo trovare un modo per dirlo a Duncan, lui si sarebbe arrabbiato molto, ma la cosa non mi importava. Loro in quel momento erano la nostra unica famiglia, e non potevamo ripudiarli.
Quando glielo dissi si arrabbiò un po', ma mi perdonò subito, capendo le mie ragioni. Lui mi confidò inoltre che la cosa che più lo preoccupava era il padre: sapeva benissimo che la madre gli voleva ancora bene, ma il padre era un poliziotto, ed era sempre stato molto duro e severo con lui quando era ragazzo. Io lo rassicurai dicendogli che ormai era un uomo, e che suo padre lo sapeva.
Arrivarono il giorno dopo con due scatole abbastanza grandi, contenenti i nostri abiti.
Io non vedevo l'ora di vedere il mio, così letteralmente chiusi fuori di casa Duncan e suo padre, dato che sua madre si era gentilmente offerta di darmi una mano. Era una donna così dolce.
Era magico quell'abito. Non era fantastico, non era favoloso, era magico.
Era come se fosse avvolto da una speciale aura, come se fosse vivo.
Era un abito lungo, senza velluto, aveva solamente un contorno di pizzo lungo la scollatura a cuore. E poi, il colore, a prima vista poteva sembrare semplicemente bianco, ma in realtà era di un colore azzurro talmente chiaro da essere invisibile ma allo stesso tempo visibile.
Io ero entusiasta, e volevo subito uscire per farlo vedere a Duncan, ma sua madre mi fermò. Lei era molto superstiziosa, e quindi mi aveva bloccato con una paura negli occhi che mi aveva fatto scoppiare a ridere. Dopo pochi secondi mi resi conto che era abbastanza irrispettoso riderle in faccia, ma appena il pensiero mi attraversò la mente anche lei si mise a ridere.
Facevamo un baccano enorme, così Duncan aprì la porta per sapere cosa c'era di così tanto divertente, e sua madre tornando seria in un nano secondo gli chiuse la porta sul naso. Lui fece un gemito di dolore e disse una frase che in quel momento mi scaldò in maniera esponenziale il cuore: “Ahia, mi hai fatto male, mamma!”.
Sua madre si prese circa dieci secondi per metabolizzare la frase, poi aprì la porta e lo abbracciò. Io vidi Duncan arrossire alla stretta della madre, ma era felice, felice di sapere che quel “mamma!” gli era venuto fuori di istinto. Questo voleva dire che lui era una persona buona, lui era un essere umano, un imperfetto essere umano.
Poi non vidi più niente: la madre, accorgendosi che lui mi poteva vedere, sbatté la porta.
Quello fu un bellissimo giorno.
Il giorno dopo a quella stessa ora eravamo già in comune. Era pieno. C'era gente che andava a destra, gente che andava sinistra, gente che parlava arrabbiatissima al telefono. Andammo alla reception, dovemmo aspettare circa dieci minuti, ma in fondo era il comune di New York! Dicemmo alla signorina che stava seduta dietro al bancone che ci volevamo sposare.
Lei stava per scoppiare a ridere. Ci disse che bisognava aspettare circa due mesi, la lista d'aspetto era chilometrica.
Io stavo letteralmente per urlarle contro. La mamma di Duncan, che poco dopo sarebbe diventata mia suocera, chiese se c'era un qualsiasi modo per farci salire nella lista d'aspetto. Era palese che la voleva corrompere. Io mi stavo per opporre, non volevo che spendesse soldi per noi. Ma la segretaria sembrava molto interessata all'offerta, così la mia futura suocera le passò cinquanta dollari.
Lei ci fece passare. Ci disse di andare verso il corridoio dell'ala est, seconda porta a destra; me lo ricordo ancora.
Ci andammo. Lì, nel corridoio, c'erano delle coppie che aspettavano. Appena arrivati, neanche il tempo di sederci che una vecchia signorina ci chiamò. Le altre persone ci guardavano male, in fondo noi eravamo appena arrivati, e chissà da quanto tempo loro erano lì ad aspettare.
Entrammo. La vecchia signora ci disse che i due sposi si potevano cambiare nei due camerini che erano ai due lati opposti della stanza.
Io andai nel mio camerino con la mia futura suocera, e Duncan con suo padre. Mentre mi cambiavo, ogni volta che la guardavo, la vedevo sorridere, guardandomi; lei mi considerava già come sua figlia. Quella apparentemente piccola cosa mi rese infinitamente felice.
Duncan non mi ha mai voluto rivelare cosa si fossero detti lui e suo padre in quei miseri dieci minuti. So solo che appena uscito da quel camerino aveva un sorriso che non riusciva a contenere sul viso.
Mi guardava come se fossi una dea, la cosa mi mise leggermente in imbarazzo. Lui indossava un classico smoking nero, ma era comunque bellissimo. Era speciale.
Poi diventammo marito e moglie. Quello fu il giorno più felice della mia vita.
Io mi ricordo che delle lacrime si erano andate formatosi agli angoli dei miei occhi, ma non piansi, perché lui detestava vedermi piangere, lo sapevo, e poi perché avevo passato troppo tempo della mia vita piangendo, non avevo intenzione di farlo al mio matrimonio.
Ci baciammo. Poi lui mi prese in braccio e mi portò lungo il corridoio, fino a portarmi in strada. E urlare: “Siamo sposati!”. Io non avevo mai immaginato che lui fosse capace di spingersi così in là. Io mi sentivo le guance in fiamme. Ma quello era mio marito e il mio matrimonio, il giorno più bello della mia vita, e non sarebbero certo state delle fastidiosamente normali persone che si giravano per guardarci a rovinarmi quel giorno!
Dopo andammo a cenare in un ristorante lì vicino, avremmo veramente voluto pagare io e Duncan, ma non avevamo materialmente neanche un dollaro, perciò pagarono i miei suoceri.
La madre di Duncan ci chiese di raccontargli come ci fossimo rincontrati e quindi innamorati. Gli raccontammo da quando seppi del caso a quel giorno. Non gli volevo nascondere niente.
A fine cena, prima di dividerci, noi dovevamo andare nel nostro appartamento, invece loro nel loro albergo, i miei suoceri ci dissero che dovevano darci una cosa importante. Ci diedero una busta, ma ci chiesero di non aprirla prima di essere tornati a casa.
Noi assentimmo, curiosi ma ancora provati dall'intensa giornata.
Appena tornati a casa, aprimmo la busta.
In quel momento io non ci credevo. C'erano due biglietti aerei per Parigi con tutte le carte riguardo la prenotazione dell'albergo, una carta di credito, e poi c'era una lettera.
La leggemmo.
Loro ci avevano scritto di sapere che io e Duncan eravamo due persone molto orgogliose e che a loro sarebbe dispiaciuto se ci fossimo arrabbiati, ma a loro sembrava doveroso che noi ci prendessimo una vacanza dopo tutto quello che avevamo passato.
Inoltre, ci assicurarono che per qualsiasi cosa loro c'erano. La cosa mi fece sentire in una gabbia d'oro, in quel momento avevo finalmente delle persone a cui potermi appoggiare.
E, stranamente, Duncan non si era per niente arrabbiato, anzi, era addirittura felice. Anch'io ero felice.
Guardai la data secondo cui noi saremmo dovuti essere in Francia, sui biglietti, e il volo sarebbe partito nove ore dopo. Lo dissi a Duncan. E lui sorrise, se lo aspettava, io non conoscevo bene i suoi genitori, ma lui non sembrava particolarmente sorpreso o spaventato.
Il giorno dopo partimmo per Parigi. A me era sempre piaciuta l'idea di viaggiare, ma ovviamente da quando arrivai a New York non ci pensai neanche più.
Però, avevo sempre desiderato andare a Parigi. Come tutti, del resto.
Arrivammo lì di pomeriggio. Mi ricordo, era il 12 Novembre 2015. Non sarei neanche stata in grado di immaginarlo...
Portammo i nostri bagagli all'albergo, sistemammo tutte le varie scartoffie burocratiche e uscimmo subito a visitare Parigi.
Quell'albergo era in centro Parigi, quindi riuscimmo ad individuare facilmente, usando una cartina, dove fossero le cose che dovevamo necessariamente visitare; i vari Torre Eiffel, il Luovre eccetera...
Io e Duncan eravamo eccitatissimi. Eravamo così felici...
Il giorno dopo io... io volevo andare in un parco, volevo vedere il verde, allora, dato che era vicino al nostro albergo, Duncan mi portò al Square du Bataclan. Passeggiamo per circa mezz'ora, poi ci... dannazione... ci venne fame. Così, camminando ci imbattemmo nel Bataclan Café.
Io, sorridente, gli proposi di fermarci a prendere un caffè e un croissant. Era una giornata un po' nuvolosa, e il cielo rendeva tutto un po' più scuro.
Mangiammo, e notai che di fianco al bar c'era un teatro dove stava per iniziare un concerto rock e mi venne voglia di entrarci; non ho idea del perché. Forse volevo fare una specie di regalo a Duncan, a lui è sempre piaciuta la musica rock.
E sì, lo ammetto, riuscimmo ad imbucarci. Non pagammo il biglietto. Noi non dovevamo essere lì. Ma c'eravamo, e ne abbiamo pagato il prezzo.
Ora sono qui, morente, mi hanno sparato. Duncan è vicino a me. Ha gli socchiusi e mi guarda, nessuno dei due ha la forza di parlare, l'unica cosa che facciamo è avvicinare le nostre mani. Noi stiamo morendo, ma almeno ho avuto i miei due giorni di felicità. Perciò sono comunque contenta.
La pazzia umana non ha limiti.
E ora non ha più catene.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Ok. Io so che questo è un argomento molto delicato, ma ho voluto dare il mio contributo, seppur nel mio piccolo, a non far dimenticare a nessuno ciò che è successo.
Questo è un finale alternativo di “La Legge del gioco”. State tranquilli, la storia non finisce veramente così.
Tutti noi abbiamo il dovere di ricordare ciò che è successo, ma soprattutto di non aver paura, perché è proprio ciò che loro vogliono.
Be', io ho detto la mia. Ditemi cosa ne pensate voi con una recensione. (Scusate se non sembro molto energica, ma sono abbastanza depressa a causa di questo fatto)
Alla prossima
 
 
Pizee_01

 

   
 
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