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Autore: LunaMoony92    17/11/2015    3 recensioni
Roberta vive ormai da 8 mesi a Berlino e il suo tempo in città sta scandendo. Tra poco meno di un mese dovrà tornare in Italia, alla sua solita vita. Per svagarsi, un pomeriggio decide di uscire per andare in uno dei suoi posti preferiti, l'Hard Rock Cafè. Sta leggendo tranquillamente un libro, quando uno sconosciuto attira la sua attenzione. Ma appena i loro occhi si incrociano, lei si rende conto che quello sconosciuto è Chris Evans.
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Il mattino dopo.
 
Ho abbracciato Chris Evans stasera, cosa che non avrei mai neanche osato sognare, e ho inzuppato la sua felpa di lacrime. All’inizio non mi sono resa conto della portata di quel gesto. Avevo davvero bisogno di sentire che c’era qualcuno lì per me. Avrei dovuto  staccarmi subito, scappare via e non farmi più rivedere. Ma lui era lì e, stretta fra le sue braccia, ho sentito riempirsi il buco che ho nel cuore, che sento ogni giorno. E lui non mi ha allontanata, perché?
“Andrà tutto bene” ha continuato a ripetermi mentre mi accompagnava fuori dal locale, tenendo la sua mano sul mio braccio. Ha continuato a ripeterlo mentre singhiozzavo seduta su una panchina, standomi semplicemente seduto accanto.
Non so perché quella frase, uscita dalle sue labbra, mi è subito sembrata sincera, ha acquisito un nuovo significato. Sembrava dicesse sul serio, che ci credesse. Vorrei crederci anche io.
Ci è voluto un po’ più del necessario per calmarmi dopo la crisi di pianto. Lui non lo sa, ma non era soltanto per la storia dell’Erasmus che ho iniziato a piangere, non credo abbia più importanza adesso. Ho tanto posto per i miei segreti nel mio cuore, sono abituata a tenermi tutto dentro, ho già condiviso abbastanza.
 
 
Siamo arrivati alla Residenza in silenzio. Io non sono riuscita a dire niente, bloccata a causa di ciò che era successo, iniziavo a fare i conti con la mia vergogna. Lui probabilmente non sapeva cosa dire, per paura di sbagliare o di farmi piangere di nuovo. Il livello di imbarazzo segnava cifre allarmanti. Gli devo essere sembrata davvero una mammoletta, pensandoci bene. Che importa ormai, non credo lo rivedrò più, anche se ci siamo scambiati i numeri di telefono… Da parte mia, ho deciso che non farò mai quella telefonata.
Ha insistito tanto nell’accompagnarmi fino casa...
“Non mi costa nulla fare una passeggiata. Mi farò venire a prendere.” ha risposto quando ho sollevato l’argomento e con questo mi ha zittita. Non avevo poi tanta voglia di controbattere, in realtà ero felice, ma non volevo ammetterlo, neanche a me stessa. Ho paura ad essere felice perché quando lo sono, poi succede sempre qualcosa di brutto, soprattutto se si tratta di essere felice CON QUALCUNO. Anni di esperienza possono confermare questa tesi. Sono stanca di vivere in un loop di fallimenti relazionali in campo di amicizie e non.
Arrivati alla Residenza, ho insistito anche io per aspettare che la macchina di Chris venisse a prenderlo. E’ grande e grosso e, con gli occhiali da sole e il cappellino alle 22:30, probabilmente non lo avrebbe riconosciuto nessuno, ma mi faceva piacere fare qualcosa per lui, come lui aveva fatto per me. Era il mio modo di chiudere la questione in parità.
Ha cercato per tutto il tempo dell’attesa, breve in realtà, di farmi sorridere, ricordando la faccia del cameriere, i pinguini che saltavano di qua e di la come impazziti mentre io cercavo di scattargli una foto, la nostra pasta “verde”. Ripensarci adesso ha un sapore dolce-amaro. Potrei chiamarlo qualche volta, ha bisogno anche lui di qualcuno in città. Forse dovrei semplicemente cancellare il numero e archiviare tutto.
Scuoto la testa per impormi un contegno e, scalciando via le coperte, decido di alzarmi per la colazione. Sembra che un tir mi sia passato addosso, non ho proprio voglia di fare nulla. Non ho ancora risposto al messaggio dei miei che si è andato ad unire ad altri 10. Credo stiano per chiamare la polizia, apprensivi come sono; devo dargli un segno di vita o gli verrà un colpo. Gli dirò che ho studiato fino a tardi e ho dimenticato il telefono in biblioteca. Odio mentire, ma ho detto una bugia più grossa, cioè che tornerò a casa e non so ancora come porvi rimedio. Prima o poi ne verrò a capo, ormai ho preso la mia decisione.
 
 
Scrivo velocemente il messaggio, cercando di non leggere cosa mi hanno scritto ma, inevitabilmente, mi cade l’occhio su una parola in particolare: arrivo.
Adesso, causa panico crescente, sono costretta a leggere tutto  il messaggio.
“Amore di mamma, perché non rispondi? Volevo dirti che sono riuscita ad avere un permesso da lavoro. Fra due giorni arrivo da te per aiutarti con i bagagli. Non vedo l’ora di vederti, chiama appena puoi.”
Cosa faccio adesso? Ha già fatto i biglietti, non posso fermarla. E cosa significa questo per me? Dovrò tornare a casa? Dopo la discussione con Chris, mi ero convinta a restare, nonostante questo potesse far stare male la mia famiglia ma adesso, adesso mia madre viene qui, convinta che io stia per tornare a casa. Come posso dirle che non voglio, come posso farle così male?
 
 
Credevo che quello prima di un esame importante fosse panico, ma mi sbagliavo: questo è il vero panico. Rimango bloccata con il telefono in mano per dieci minuti buoni, cerco di reagire, ma il mio corpo semplicemente si rifiuta. In seguito arriva la fase del pianto isterico e mi ritrovo a impilare vestiti e raccattare libri in men che non si dica.
Non so nemmeno cosa sto facendo, ma continuo a farlo. Sembro un automa impazzito, sono come fuori dal mio corpo, agisco, ma non so perché lo sto facendo e a cosa questo mi porterà.
Dopo un’ora fuori da me, il mio appartamento ha l’aspetto di un magazzino. Ho rimesso la maggior parte delle mie cose negli scatoloni in cui si trovava il giorno in cui mi sono trasferita, i miei vestiti sono tutti sul letto, accatastati come ad una vendita di beneficenza. Accidentalmente mi guardo allo specchio e non riconosco la persona che ci vedo riflessa.
Dovrei  chiamarla, dirle la verità? Fermarla prima che parta o parlarle quando arriverà?
In uno scatto d’ira, butto tutti i vestiti a terra e mi stendo sul letto. Vorrei solo chiudere gli occhi e non dover affrontare la realtà.
Sono sempre stata brava ad evitare le cose che non mi piacciono, una su tutte le situazioni spinose come questa. Ritardo il momento in cui dovrei parlarne, evito il discorso, ci giro attorno, è un loop di procrastinazione, che sempre e dico SEMPRE mi porta ad odiarmi e spesso a farmi odiare.
Ma stavolta si tratta della mia famiglia e se c’è una cosa che non voglio è deluderli, mi provoca male fisico il solo pensiero. In che casino mi sono cacciata? Avrei potuto dire la verità subito. Ci sarebbero rimasti male? Certo. Ci sarei stata male anche io e avrei finito per tornare a casa? Probabile. Ma sicuramente sarebbe stato meglio di ciò che sta per succedere, o forse no. C’è una parte di me, che nel momento stesso in cui ha letto il messaggio, ha preso una decisione. Lo capisco adesso, guardandomi attorno, con tutti i vestiti e gli scatoloni impilati in strane torrette instabili.
Tornerò a casa,  il mio tempo qui è  finito.
Qualcuno potrebbe pensare che io sia un po’ melodrammatica, ma  non conosce tutta la storia.
 
 
Sono molto brava a farmi venire i sensi di colpa, sin da quando ero bambina. E’ una cosa che odio, tanto, ma non riesco a fare niente per cambiare questa parte di me. Quando ho deciso di partire, è stato distruttivo per me. La mia famiglia è meravigliosa, lo è sempre stata, ma abbiamo avuto qualche problema finanziario.
L’Erasmus è pagato da una borsa di studio, ma sapevamo tutti che quei soldi non sarebbero mai bastati. Non volevo pesare sui miei più di quanto già non facessi con le spese dell’università, così avevo accantonato l’idea. Ma poi mia mamma ha trovato il dépliant in camera mia, ne ha parlato con mio padre… Ed eccomi qui. Adesso le cose vanno un po’ meglio, mamma ha finalmente trovato un lavoro e siamo di nuovo in piedi. Adesso però ha preso un permesso, ha comprato dei biglietti aerei… Non posso farle questo, devo tornare.
Non riesco a trattenere le lacrime. E’ dura vedere i miei sogni sgretolarsi in un cumulo di cenere. Il telefono squilla, ma io lo lascio fare. Non ho voglia di parlare con nessuno adesso, anche se dovrò farlo. Devo incontrare il professor Bauer, così da formalizzare la fine del mio periodo qui, sarà felice per le due settimane di preavviso.
 
 
Esco dalla Residenza per andare all’Università e mi sento come una condannata che si avvia verso il carcere in cui sconterà la sua pena. Ho dimenticato il libretto universitario a casa, i miei capelli sono un disastro, io sono un disastro, ma questa non è certo una novità. 
Attraverso le strade che ho percorso ogni giorno in questi 8 mesi e migliaia di ricordi mi affollano la mente: i primi giorni, in cui tutto mi era estraneo, le figuracce fatte chiedendo informazioni, le mille passeggiate in solitaria quando la nostalgia di casa si faceva sentire. Mi dispiace lasciare tutto questo, ma sono contenta della bellissima esperienza che ho fatto.
I miei piedi conoscono la strada a memoria, non ho bisogno di pensare al percorso che mi porta all’Università, alla metro da prendere o a quale fermata scendere. Evidentemente però, qualcos’altro si è messo di mezzo stavolta, perché,  quando esco dalla metro,  vedo stagliarsi di fronte a me Potsdamer Platz.
Come ho potuto fare tutta questa strada senza rendermi conto che mi stavo auto sabotando?  L’ho sempre detto: sono io la peggiore nemica di me stessa.
Mi mordo il labbro, in preda al nervosismo. E’ tutto ancora blindato per le riprese, questo significa che Chris sarà lì dentro e che io non dovrei stare qui fuori.  L’enorme orologio analogico piazzato sul grattacielo segna le 12:30 e il mio stomaco sembra lanciarmi segnali inequivocabili. Quando sono nervosa mangio, schifezze per lo più, e adesso sono molto, molto nervosa.
Il Mc Donald è proprio a un isolato da qui… Mando un saluto mentale, che poi è un addio a Chris, illudendomi che gli possa arrivare davvero e, stringendomi nella mia vecchia giacca, mi avvio a fare qualcosa  di cui mi pentirò dopo, tanto per aggiungere un’altra voce alla già lunghissima lista.
 
Come sempre, il locale è pieno e la fila è lunghissima. Dietro di me dei bambini stanno giocando a qualcosa di simile a “Un, due, tre, stella!” per ingannare il tempo. Sono così carini, tutti biondissimi e soprattutto spensierati, aspettano solo il loro Happy Meal. Davanti a me, ci sono due tizi altissimi, in giacca e cravatta, occhiali da sole e auricolare; probabilmente saranno nella security in uno dei tantissimi negozi della zona, gli occhiali da sole al chiuso sono il segno distintivo. Piacerebbe anche a me averne un paio adesso, avrò sicuramente delle occhiaie assurde e il fatto che i miei occhiali da vista le ingigantiscano… Non ci voglio pensare. Non voglio pensare a niente, solo mangiare. Mia nonna sarebbe fiera di me adesso.
La fila inizia a scorrere, così che mi ritrovo ancora più vicina ai due tizi in completo, tanto da riuscire a sentire cosa dicono.
“E così ieri sera ti sei fatto un bel giretto, ho sentito.”  dice uno dei due ridacchiando, con un accento americano.
“Sono rientrato stamattina. Ti rendi conto? Ma se il Capo chiama…” credo abbia risposto l’altro, facendo spallucce.
All’improvviso, uno dei bambini inciampa, finendo per spingermi contro le guardie, che si voltano di scatto squadrandomi dalla testa ai piedi. Vorrei sotterrarmi. Qualcuno mi dia una pala. Vi prego.
“Scusate, io non volevo….” inizio a balbettare, mentre uno dei due si toglie gli occhiali da sole e mi guarda.
“E’ tutto ok, non si preoccupi” mi risponde l’altro e torna in fila.
Quello che si è tolto gli occhiali sembra esitare un momento, poi li inforca di nuovo e mi volta le spalle, facendomi un mezzo sorriso.
Finalmente arriva il mio turno, così ordino il solito e parto alla ricerca di un tavolo libero. Dopo tre giri a vuoto, quando sto quasi per arrendermi buttando tutto nella borsa, intravedo la possibilità di un posto a sedere e mi ci butto a capofitto.
 
 
E’ proprio vero che il cibo guarisce tutti i mali, perché mentre ingollo una patatina dietro l’altra inizio a sentirmi un po’ meglio, ma è soprattutto il pensiero del McFlurry a farmi venire il buon umore. Credo lo mangerò fuori, facendo una passeggiata sulla via dei negozi, o seduta su una panchina a guardare i passanti. Poi, mio malgrado, tornerò alla realtà e andrò dal professor Bauer.
Fuori è uscito il sole e la gente ne approfitta per uscire un po’. L’atmosfera non è frenetica come al solito da queste parti, la maggior parte della confusione si concentra attorno al perimetro del set, luogo da cui cercherò di tenermi il più lontano possibile.
Faccio qualche metro nella direzione opposta, cercando con gli occhi una panchina libera, quando ne scorgo una, occupata da uno dei due tizi della security incontrati prima. Non ci penso due volte e vado a sedermi, l’occasione di godermi un po’ di sole in questo periodo è così rara che non mi pongo problemi, come farei di solito.
Non appena mi siedo, mi accorgo che il tizio in questione è quello che si è tolto gli occhiali e mi ha sorriso. Il suo collega non c’è, lui sembra impegnato a scrivere al  telefono, quindi decido di non rivolgergli la parola e continuare a gustarmi il gelato.
Non passa molto tempo, che arriva il suo collega, la faccia nascosta dagli occhiali e dal bavero della giacca rialzato quasi fosse un detective privato in incognito, e si siede tra noi due.
Ma quando si volta verso me e allunga la mano, come per rubarmi il cucchiaio dalle mani, ridendo in un modo che riconosco, per poco non mi affogo.
Vedendo come i miei occhi stiano iniziando a fare capolino dalle orbite, non riesce più a trattenersi e, tra uno spasmo e l’altro, si toglie gli occhiali.
Azzurro cielo, con gli angoli verso l’alto, le zampette di gallina che fanno capolino senza vergona.
Non ho più dubbi: è lui.
Non ho neanche il tempo di realizzare cosa stia succedendo, che Chris si alza, mi prende per mano e iniziamo a correre verso una macchina blu, il tizio della security è dietro di noi.
E in un flash mi ricordo della sua faccia: era sulla macchina in cui è salito Chris ieri sera, faceva parte della scorta, è la sua guardia del corpo.
Deve avermi riconosciuta quando sono caduta rovinosamente su di lui e il collega all’interno del McDonald…
 
Non appena lo sportello della macchina si chiude, mi rendo conto di quanto surreale sia la situazione in cui mi ritrovo, e che Chris si sta avventando su ciò che resta del mio gelato, rimasto miracolosamente attaccato al barattolo.
“Ti avevo chiamata stamattina, per prenderci un gelato… Non solo non hai risposto, ma poi vengo a sapere da Caleb che ne stai mangiando uno enorme proprio a qualche isolato da dove mi trovo io. Sei proprio cattiva con me.” mi dice infatti, mentre afferra il barattolo e ci tuffa dentro il cucchiaio.
Non so bene come reagire, vivo di nuovo un’esperienza fuori dal mio corpo, come mi è già successo stamattina. Vorrei ridere, davvero. E’ così allegro Chris, questa farsa da guardia del corpo l’avrà messo su di giri, ma sono bloccata.
Basta un secondo, un micro ricordo di stamattina, che la mia mente decide per me, si avvia un protocollo d’azione senza che io venga minimamente interpellata, e inizio ad urlare.
“COSA CAZZO TI PASSA PER LATESTA, EH? NON E’ CHE PERCHE’ SEI FAMOSO PUOI FARE QUELLO CHE CAZZO VUOI CON LA GENTE!”
Grido a pieni polmoni, sono fuori controllo, una scheggia impazzita. Non so cosa sto facendo, per la seconda volta, oggi.
Finisco il fiato e devo fermarmi. Chris è a bocca aperta. Caleb è in attesa.
Il mio respiro è affannato, poco ossigeno sta raggiungendo il cervello in questo momento, ma quel poco che arriva mi fa accendere una lampadina: stavo urlando in italiano.
Tutta la rabbia che mi era montata dentro, inizia a sciogliersi e, insieme a lei anche io. Voglio andare via da qui. Non posso sempre fare male alle persone. Non posso fare male a Chris, dopo quello che ha fatto per me, dopo che mi ero ripromessa di non sentirlo più, dopo che mi ha rubato il gelato come farebbe un bambino. Dopo che mi ha chiamata e io non ho risposto.
La macchina si è fermata, non so bene chi abbia dato l’ordine. Forse l’ho urlato anche io, nel mio raptus di follia. La mia mano stringe febbrilmente la maniglia, ma il mio cervello sembra non voler dare l’ordine di aprire lo sportello. E’ in atto un qualche tipo di rivoluzione anarchica in tutto il mio corpo, non sono più padrona di me stessa.
Chris mi guarda di sottecchi, il gelato è sparito dalle sue mani, impegnate adesso a tormentarsi. Non vorrei farlo, ma finisco per guardarlo negli occhi e veder la sua tristezza, quella tristezza che ho causato io, e lì perdo ogni remore e mi butto tra le sue braccia.
Lui non mi caccia, mi accoglie come se quello fosse il posto a cui appartengo, come se mi stesse aspettando, nonostante tutto, nonostante io sia io e lui sia lui e io non meriti nulla di tutto questo.
Il  flusso dei miei pensieri che mi aveva fatta andare in tilt viene interrotto e sento che la tensione mi abbandona piano piano. Sento le mie spalle rilassarsi, il mio respiro tornare, il vuoto che ho dentro, un po’ meno grande.
Non posso credere che sia successo di nuovo in meno di 24 ore.
Prendo un bel respiro e mi allontano da Chris. Devo fare qualcosa, gli devo delle spiegazioni e forse anche  un gelato.
  
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