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Autore: innominetuo    21/11/2015    9 recensioni
Tutti hanno la loro versione di una leggenda molto antica.
Questa è la mia, redatta solo per diletto, per ritornare un po’ bambina e senza alcun fine di lucro.
Dedico la favola a mio nipote Andrea, luce dei miei occhi...
La dedico pure a tutti coloro che, come me, amano gli animali (veri e ... di fantasia!)
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Nonna, raccontami ancora la mia favola preferita!”

“Un’altra favola, tesoro? Ma te ne ho già narrate due stasera…”

Niente da fare. Gli occhioni verdi della nipotina non volevano chiudersi, e brillavano di una luce di speranza: per i bimbi di quell’età sperare vuol dire aspettarsi per cena un budino al cioccolato al posto del minestrone. Oppure ascoltare la favola preferita, prima di abbandonarsi al sonno… Questo lo sa benissimo ogni nonna che si rispetti.

Clotilde le sorrise, rendendo ancora più bello il dolce viso appassito. Ma si sa: una nonna sa essere bellissima a modo suo, nonostante le rughe e gli occhialetti d’oro sulla punta del naso… Sospirò, rassegnata.

“E va bene… sei proprio una monella. Dopo però farai la nanna: d’accordo?”

“Sicullo!”

"Si dice ‘sicuro’, amore. Allora…"


C-miniata’era una volta…



Aveva appena smesso di piovere.

L’aria era ora tersa e cristallina, profumava di terra e tutto ciò che è vivo: ogni singolo stelo di erba, ogni fiore, ogni foglia sprigionava il proprio fresco aroma, tutto d’intorno. La luce del sole pareva quasi giocare, apparendo a sprazzi tra un nembo di nuvola e l’altro. Tutto ciò che prima stava immoto ed in silenzio, in ascolto di quella speciale musica che solo la pioggia sa sprigionare, ora riappariva sulla scena: era il frullo d’ali di un passerotto. Oppure era il baluginare, tra l’erba, del candido, tondo codino di un leprotto.

Oppure era anche lo scintillio, più puro del cristallo, del corno della creatura, mentre essa scrollava fieramente la criniera, lasciando che mille e mille gocciole purissime le scivolassero giù per il candido mantello. Sbuffò, poi, in preda all’impazienza. Il suono del corno dei cacciatori appena udito non le era mai stato particolarmente gradito. Si mise al piccolo trotto, per poi passare al galoppo, inoltrandosi nel buio folto della foresta, ove nessuno mai avrebbe osato avventurarsi…

Anche perché nessuno può catturare un unicorno.

Nessun uomo, se è per questo… Solo una fanciulla può farlo. Un fanciulla pura, baciata in volto ancora soltanto dal sole e non da altre labbra…labbra d’amore, tanto per intenderci.

Il signorotto fece una smorfia, in preda all’impazienza, frenando l’andatura del suo morello. Nessuna preda per lui era appetibile… mai quanto quel dannato mostro leggendario. A che pro dispiegare tanti cacciatori, tanti cavalli e la muta dei suoi fedeli bracchi, se poi quel dannato animale sapeva nascondersi così bene già all’inizio della caccia? Non era possibile, né per lui, né per i suoi, inoltrarsi nel folto del bosco, così fitto di vegetazione… quasi impenetrabile sin dal sottobosco. Al massimo solo i cani potevano farlo: ma non avrebbero potuto affrontare da soli un feroce animale che li avrebbe sventrati a due a due con il suo corno, più tagliente di un pugnale e lungo quasi quanto una spada.

Né i cinghiali, né i daini, né le volpi erano però abbastanza… troppo facili da cacciare. Nessun altro animale avrebbe potuto consolarlo per la perdita dell’unicorno… ormai era un’ossessione, per lui, e da tanto tempo. Uno sbadiglio di noia gli alterò i fieri lineamenti, mentre i servitori gli si premurarono intorno, per liberarlo della pesante balestra, ora inutile, e per passargli una fiaschetta di vino. Era risaputo che quella bestiaccia amasse pascolare liberamente sui prati, appena dopo la pioggia: altrimenti, di solito se ne stava rintanata nel bosco! Con un cenno del capo ed un secco gesto delle dita, ordinò la ritirata. Che smacco! Il giorno dopo i signori del vicinato lo avrebbero nuovamente sbeffeggiato… ormai era divenuto l’oggetto abituale dei loro attacchi di ilarità! Gli pareva quasi di sentirli…

“…Chi? Il Cangrande di Rupegrossa? Quello fissato con gli unicorni? Ah ah, non me ne parlare! Sono anni, ormai, che cerca di catturarne uno… povero stolto!”

“Solo un folle può pensare di prender l’unicorno… è risaputo che non esiste al mondo bestia più scaltra!”

“Vero, sì.. che illuso! Giusto oggi ci ha provato di nuovo! Indovinate com’è finita?”


Lo aveva visto, però, anche se solo da lontano e troppo al di fuori della gittata della sua balestra. Lo aveva ammirato, in tutta la sua speciale bellezza. In realtà non era la prima volta che lo vedeva, anche se quasi sempre di sfuggita e solo per pochi istanti: ma ogni volta rimaneva rapito, come in preda ad un incantesimo.

Così simile ad un cavallo, ma più snello e sottile, dalla muscolatura più allungata, in modo da potersi meglio addentrare nel folto della vegetazione senza troppo impaccio. Pure la coda e la criniera erano meno folte di quelle dei cavalli, così da non impigliarsi nei rami e nei cespugli. Ma unico come nessuno mai… Non esisteva al mondo creatura più aggraziata ed agile: quando correva, pareva quasi sfiorare il terreno, come se galoppasse a mezz’aria. Infatti il manto erboso quasi non portava impresse le tracce del suo passaggio, non avendo ammaccato fiori e steli. E che dire del suo mantello? Candido ed opalescente come il più prezioso dei gioielli.

Il signorotto non era neppure convinto di volerlo uccidere, in realtà: magari si sarebbe limitato a catturarlo, tenendolo poi in una scuderia allestita solo per lui, in modo che tutti potessero ammirarlo. Ed allora sì, che i suoi maledetti vicini avrebbero smesso di deriderlo! Così rimuginava, seduto davanti al camino, bevendo un po’ di vino caldo: stava per finire l’estate e le serate cominciavano a farsi fresche.

“Padre, mi avete fatta chiamare?”

Cangrande alzò il capo, e mirò il volto della bruna figliola. Aveva quattordici anni ed era alta, per la sua età. Presto l’avrebbe fatta fidanzare e quindi maritare come prescriveva la consuetudine*, e lui si sarebbe ritrovato da solo, in quella casa così grande e già così vuota… com’era ormai da molti anni. Dal giorno, cioè, in cui il prete aveva dato l’estrema unzione alla sua povera moglie, morta di tisi a soli vent’anni.

“Matilda ti ho fatto chiamare perché ho bisogno del tuo aiuto. Siediti qui, vicino a me, che ti spiego cosa devi fare.”

Gli ripugnava abbassarsi a chiedere l’intervento di una bambina, buona solo a tessere, filare e giocare con le bambole di pezza che le cuciva la vecchia governante. La cosa importante era che nessuno ne sapesse nulla: altrimenti, sai che risate dal vicinato! Ma dopo molti tentennamenti, si era deciso. Quel dannato unicorno doveva essere suo! Naturalmente, poi avrebbe inventato una storiella convincente, in modo che nessuno osasse mai più dubitare delle sue capacità di cacciatore. Il fuocherello crepitava, allegro, mentre la fanciulla lasciava che il padre le spiegasse il suo intento.

“Quindi… devo andare nel bosco… da sola? Ma io ho paura! Ci sono animali pericolosi… non ci voglio andare!”

“Non essere sciocca. Di orsi non ce ne sono più ormai da anni. I lupi in questa stagione se ne stanno ancora su in montagna e se vedessi un cinghiale puoi sempre salire su un albero: la vecchia Peppa mi ha riferito che ti sai arrampicare benissimo sugli alberi da frutta del nostro orto! Ti arrampichi e te ne stai un attimo ad aspettare che l’animale se ne vada…”

“Ma ci sono i serpenti!!!”

“Vorrà dire che indosserai degli stivali rinforzati, così non potranno morderti!”

“E le vespe, i ragni, i…”

“Basta! Non una parola di più! Andrai nel bosco, avvicinerai l’unicorno e gli legherai il collo con la cavezza che ti darò! Lui ti seguirà docile fin dove vorrai… e lo porterai qui, da me! Hai capito, figliola?”

“Va bene…” sussurrò Matilda a capo chino, vinta.

“Brava la mia bambina obbediente.”

La baciò sulla fronte per la benedizione serale e la congedò.

Il giorno dopo fece svegliare Matilda da Peppa alle prime luci dell’alba. Sarebbe stata una giornata mite, dal cielo terso. Poche ore. Ancora solo poche ore, e l’unicorno sarebbe diventato suo! Villici e signori avrebbero fatto la fila solo per ammirarlo! E lui sarebbe diventato celebre: i poeti avrebbero composto ballate sulla sua abilità come cacciatore e sulla bellezza del suo animale!

Matilda venne fatta accompagnare da una coppia di anziani servi, marito e moglie: al limitare del bosco, scese dalla sua giumenta preferita.

“Allora… io vado…” farfugliò, in preda alla paura.

Non era abituata ad avventurarsi da sola fuori da casa sua: era una ragazzina tranquilla e riflessiva, che faceva tutto quietamente, anche quando giocava. Non capiva la bramosia del padre di possedere una creatura che, con tutta probabilità, non può appartenere al mondo degli uomini.

“Noi Vi aspettiamo qui, padroncina. Non temete: andrà tutto bene.” cercò di rassicurarla la donna, sorridendole, mentre il marito si limitò ad annuire.

Sentendo già il fresco dell’ombroso sottobosco, Matilda tirò su il pesante cappuccio di lana, rabbrividendo un poco. C’era un silenzio assoluto, in quello strano bosco. Pur essendo sicuramente popolato da moltissimi animali, non si udiva cantare nessun uccello. Gli unici rumori erano prodotti da Matilda stessa: il proprio affannoso respiro, il crepitio di un ramo spezzato…e nient’altro. La luce faticava a penetrare, nel folto della vegetazione: tutto, intorno alla ragazzina, era avvolto nella penombra. Matilda non sapeva da quanto tempo stesse camminando: cercava di orientarsi con la piccola bussola che il padre le aveva regalato al suo quattordicesimo compleanno, insegnandole poi anche come usarla. Ad un certo punto, stanca, si sedette su un grosso masso dalla superficie abbastanza levigata da costituire un sedile quantomeno comodo. Stava pensando cosa fare per trovare l’unicorno quando udì un lievissimo fruscio.

Eccolo.

Matilda rimase a fissarlo a bocca aperta. Non avrebbe mai potuto immaginare che potesse essere così bello… Se ne stette imbambolata, incapace di muoversi, mentre l’unicorno, seppur con un po’ di esitazione, si mosse verso di lei, muovendo il capo da destra a sinistra, per meglio metterla a fuoco. Alla fine le si accostò, alitandole sul viso il suo tiepido respiro. Emanava uno strano odore, indescrivibile a parole, non assomigliando a nessun’altra creatura al mondo. Un po’ incerta, Matilda sollevò una mano, per posarla sulla criniera. Mai aveva toccato qualcosa di così delicato: i peli le scivolavano tra le dita come la più preziosa delle sete. Poi osò toccarlo sul mantello: esso era stranamente fresco, come se nessun caldo cuore battesse all’interno di quel corpo. Rimasero a fissarsi a vicenda per qualche istante. Alla fine, l’animale si mosse al passo, ogni tanto volgendosi indietro per vedere se la fanciulla lo stesse seguendo: cosa che Matilda fece prontamente. Insieme percorsero, fianco a fianco un buon tratto della foresta, che pareva non finire mai… A differenza del suo arrivo e fino a pochi istanti prima, ora il bosco le si rivelava traboccante di vita e di colori: Matilda ammirò il volo di variopinti uccelli; scorse, in lontananza, le figure aggraziate di alcuni daini. Gli scoiattoli si rincorrevano tra i rami degli alberi. Un’intera famiglia di leprotti incrociò il cammino suo e dell’unicorno. Nell’aria si sprigionava, intanto, una complessa sinfonia di voci: ogni creatura vivente pareva volesse salutare la nuova ospite. Era quasi come se ora le creature del bosco avessero accettato Matilda.

Si giunse ad una radura, illuminata e riscaldata dai raggi del sole, che parevano quasi piovere dall’alto, essendo gli arbusti un po’ meno fitti. Un piccolo torrente faceva udire la sua bassa voce mormorante. Matilda congiunse le mani a coppa, per poter bere, avendo molta sete per la lunga passeggiata. Si sentì però schizzare l’acqua addosso.

"Ah, è così? Vuoi giocare? Ora tocca a me!”

Ridendo, si tolse il lungo mantello, rimboccò la lunga sottana e si tolse gli stivali e le calze di lana: un po’ rabbrividendo per l’acqua fredda, si immerse nel torrente fino ai polpacci. Gettò a piene mani l’acqua addosso all’unicorno, il quale se la scrollava di dosso scuotendo il collo, per poi renderle la pariglia, scalciando nell’acqua in direzione di Matilda, che si bagnò da capo a piedi. Continuarono a giocare per una buona mezzora, dimentichi di tutto. Matilda si tolse gli abiti, distendendoli su alcune rocce riscaldate dal sole: per non patire il freddo, essendo rimasta in camicia, indossò nuovamente il mantello. In attesa che i vestiti si asciugassero, raccolse dei fiori e, cantando, li intrecciò a ghirlanda: chiamò a sé l’unicorno, il quale, docilmente, le si accostò e, abbassando il capo, permise alla fanciulla di sistemargli la ghirlanda sulla criniera.

“Non ti metterò nient’altro al collo. La vedi questa?” mormorò Matilda, estraendo da una tasca del mantello la cavezza che le aveva dato il padre: “non intendo portarti via da qui. Tu appartieni a questo bosco.” concluse, gettandola via.

Era giunta a questa conclusione dal preciso istante in cui le era apparso l’unicorno tra gli alberi: decidere era stato facile, per lei. Anche se la cosa le ripugnava, non avendo mai mentito prima d’ora, si era risolta a dire al padre una bugia, ovvero di non aver trovato l’unicorno.

Semplice.

L’unicorno la fissava con i suoi grandi, umidi occhi, lucenti come il giaietto, mentre Matilda gli accarezzava lievemente la criniera.

Ad un certo punto, sentirono un fruscio tra i cespugli: apparve la massiccia figura di un grosso cinghiale, un esemplare maschio dalle lunghe zanne. Forse voleva solo abbeverarsi al torrente: ad ogni modo, come vide Matilda e l’unicorno, pensò bene di grufolare minaccioso e di correre alla carica contro di loro. L’unicorno non esitò a fronteggiare la grossa bestia, cercando per prima cosa di stordirla a calci, con i potenti zoccoli delle zampe posteriori: ciò però rese il cinghiale ancora più feroce ed accanito, rispondendo ai calci con i morsi, cosa che fece nitrire l’unicorno dal dolore. Matilda urlò, in preda allo spavento, sentendosi impotente ad aiutare il suo amico… urlò ancora di più quando vide che il cinghiale, caricando l’unicorno, gli aveva conficcato le sue zanne nel ventre, squarciandoglielo.

“Vattene via! Vattene!”

Disperata, raccolse delle pietre e le scagliò contro la bestiaccia, mentre l’unicorno si accasciava a terra… fu tutta una questione di secondi: il cinghiale, furioso, grugnì e picchiò la terra con la zampa, per prepararsi di nuovo a caricare. Matilda rimase impietrita dalla paura, incapace di darsi alla fuga… Ma non fu necessario fuggire. L’unicorno, con uno scatto subitaneo, si rimise in piedi e si frappose, ancora una volta, tra il cinghiale e la ragazzina. Abbassò il capo, ed affondò il suo corno fin nel cuore del cinghiale, che, con un rantolo, stramazzò a terra, morto, il sangue che gli colava dal grifo…

In lacrime, Matilda cadde in ginocchio accanto all’unicorno, per raccogliergli il capo sulle sue ginocchia, senza più staccare lo sguardo da quello del suo povero amico… rimasero così, a fissarsi, mentre la ragazza gli accarezzava il muso piangendo, finché l’occhio di nero giaietto non si spense. Matilda posò le labbra sul capo dell’unicorno, per dirgli grazie.

Fu allora che avvenne.

Le mani di Matilda rimasero vuote: l’unicorno era scomparso. Così com’era scomparso il corpo del cinghiale. Così com’erano scomparsi il torrente, la radura, gli alberi… al posto di quello che era stato un fitto, impenetrabile bosco, ora vi era una dolce pianura, inframmezzata solo da qualche albero sparso e da pochi cespugli.

Sbigottita, Matilda si rimise lentamente in piedi. Poco distanti da lei ritrovò i suoi abiti, completamente asciutti e, con le mani che le tremavano, si rivestì.

Ritornata al punto ove era morto l’unicorno, trovò, sparsi e un po’ ammaccati, alcuni dei fiori che avevano composto la ghirlanda… Matilda li raccolse, mentre nuove lacrime le scorrevano sul viso, silenziose: quei fiori erano gli stessi per il profumo e per la corolla, ma non più per il colore.

Da bianchi, erano diventati rossi: rossi del sangue dell’unicorno.

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*: anticamente le ragazze si maritavano molto giovani. Questa favola si ambienta in un non meglio precisato contesto medievale.

quadro-unicorno
“La vergine e l’unicorno” del Domenichino: lo si ammira a Palazzo Farnese (Roma)

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