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Autore: Kore Flavia    21/11/2015    1 recensioni
[Partecipante al contest di Sil su facebook: Letters to you] [Prompt:A viene lasciato/a all'altare così, arrabbiato/a, decide di scrivere una lettera in cui esprime tutta la sua rabbia, frustrazione, tristezza e anche amore verso lui/lei]
E' una lettera di delusione, di rabbia, d'amore.
Una lettera da un uomo alla donna che amava, che l'ha lasciato solo, sull'altare.
Estratto: "L’uomo osservò con disgusto la propria ombra seguirlo; l’unica cosa che l’avesse mai fatto, l’unica a non averlo mai lasciato, tradito."[...]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Note d'autore: Non credevo di riuscire a scriverla, a finirla. Forse non sarà commovente, bella, ma mi ci sono impegnata e sono contenta del risultato.
Spero che anche a voi piaccia e che si legga tra le righe l'impegno che ci ho messo.
Non ho molte cose da dire su questa storia perché penso, e spero, che parli da sola, che si spieghi da sola. 
Ringrazio Sil per avermi fatto scrivere questa storia. La ringrazio per avermi dato la possibilità di scrivere un tipo di storia non da me.
Bye bye
Kore



I would have waited for you


Una figura camminò penosamente avanti e indietro, le mani tremanti e i pugni chiusi, gli occhi arrossati dal pianto, le labbra, rosse come ciliegie mature a causa dei morsi, attraversate da cadenzati singulti, rigurgiti di parole rabbiose, disperate e innamorate.
L’uomo osservò con disgusto la propria ombra seguirlo; l’unica cosa che l’avesse mai fatto, l’unica a non averlo mai lasciato, tradito. Socchiuse gli occhi girandosi a guardare lo specchio in frantumi dietro di sé, quell’enorme specchio dall’elegante struttura il legno in cui lei soleva specchiarsi, giravoltando su se stessa, chiedendogli come stesse con quell’abito mentre lui era chino sui documenti da compilare. Domanda cui era avvezzo a rispondere con un borbottato sorriso, un piegamento di ciglia, un gesto della mano, uno scintillio nello sguardo.
Si avvicinò allo specchio, accarezzò con insolita e rancorosa dolcezza la struttura di legno, ne percorse i decori raffinati che lei tanto amava. Sospirò. (Era solo). Si avvicinò alla propria scrivania. (Sarebbe sempre stato solo). Raccolse la penna stilografica che lei gli aveva regalato e, tra gli scaffali, trovò un foglio immacolato (questa ne era la dimostrazione) e prese posto alla scrivania spostando malamente le scartoffie. Le labbra si chiusero un istante intorno alla penna, lasciandola poi andare in quello che avrebbe ricordato un fuggevole bacio.
La penna cominciò a tracciare linee eleganti, scure come le emozioni che gli ribollivano in corpo, su quel foglio bianco, come le mani di lei.
 
25/10/2015
Mia cara– anche se, mia, forse non lo sei stata mai – Livia,
Ti scrivo in questa serata autunnale, in quella che sarebbe dovuta essere la nostra serata, ma che sembra essersi trasformata nella tua.
Il mio più grande desiderio è quello di sputare il veleno che risiede nelle mie vene, di dirti quanto tu mi abbia ferito, di quanto tu sia stata egoista, poiché entrambi avevamo paura, ma solo tu sei fuggita. Ma non sarebbe questo un atto egoistico da parte mia? Costringerti a tornare, a vivere con un uomo di cui non sei realmente innamorata, con cui non vorresti condividere la tua vita. Non sarebbe questo egoistico? E io, Livia, non voglio rimproverarmi un atto di tale egocentrismo. Non dopo essermi reso conto della mia cecità in tutto ciò che ti riguardava.
Mi conosci, Livia, non ho mai amato esser al centro dell’attenzione, mentre tu eri nel mezzo della sala da ballo io rimanevo defilato, in compagnia dei bicchieri vuoti e tavoli imbanditi. Ti ricordi come rimasi impietrito sotto al tuo tocco quella sera? Quando mi invitasti a seguirti, perché io ti avrei seguita ovunque, seppur per te non fosse altrettanto, quando ridesti divertita sotto il mio sguardo confuso. Quanto amavo quella tua risata sbarazzina, dal suono leggermente acuto, che ti metteva in risalto le tue fossette e che ti illuminava gli occhi. La tua era sottile presa in giro, ti divertivano le persone strane, quelle diverse.
Come me.
Forse mi prendesti come una sfida, il divertimento di una sera, eppure tra i tuoi piani qualcosa andò storto e cominciasti a frequentarmi.
Eravamo solo due ragazzi, poco più di vent’anni e nulla di concreto nella testa.
Mi ricordo che pensai a quanto tu fossi bella, ti paragonai ad una ninfa gentile e ad una sirena incantatrice. Eri come le donne descritte nei miti, dalla pallida pelle e dai lungi sospiri. Ai miei occhi eri una dea e così rimarrai per sempre.
Ti ricordi quando, dopo quella serata, mi riaccompagnasti a casa? Io non avevo la macchina e tu ti prodigasti a darmi un passaggio, mi dicesti di contattarti e mi desti il tuo numero.
Quando rientrai a casa, quella mattina, mi feci una doccia e la tentazione di portarmi il foglietto con il tuo numero sotto il getto dell’acqua fu forte, tanto che non farlo fu doloroso. Se ci penso ora, cancellare la scritta con quel numero non sarebbe stata la scelta peggiore. Non ti avrei mai ritrovato, non ne avrei mai avuto la possibilità e ciò mi avrebbe risparmiato grandi sofferenze, ma forse proprio per questo quel giorno decisi di non metterlo sotto il getto.
Avevo bisogno di questa sofferenza.
Avevo bisogno di questo immenso amore.
Avevo bisogno di te.
Passarono un’infinità di minuti e poche ore prima che la tentazione di chiamarti fu troppa. Rimembro ancora la voce impastata e cortese con cui mi rispondesti. Stavi dormendo, non è vero Livia? Eppure non divenisti scortese, non mi riempisti di insulti come probabilmente avrei fatto io, anzi, ci tenesti a farmi sapere che non ti stavo arrecando alcun disturbo.
Tu eri fatta così, non avresti mai dato pesi inutili agli altri. Ti preoccupavi troppo per loro e troppo poco per te. Per questo è finita così, finalmente hai deciso di essere egoista come lo sono stato io per tutta la vita. Per questo non riesco a rimproverarti il tuo torto, ho la vista offuscata dall’innamoramento e dalla consapevolezza che è colpa mia. Sono io a non essere abbastanza per te, di non esserlo stato mai. Tu meritavi qualcosa di diverso, di migliore, di più simile a te, qualcuno che non fosse me.
Ti ricordi quando, quella mattina, mi proponesti di offrirti un caffè? Perché ne avevi un disperato bisogno e perché “Oggi è una di quelle giornata in cui persino il mio caffè ha bisogno di un caffè”. Ti piacevano questo genere di battute, ti facevano ridere. Una volta mi documentai per un pomeriggio intero su di esse, volevo far colpo su di te e ci riuscii. Ridesti così tanto che agli angoli degli occhi si formarono alcune lacrime. Pensai d’aver sbagliato, ma tu ti affrettasti a rassicurarmi: con la testa inclinata a destra – come eri solita fare – mi sorridesti e allungasti una mano ad accarezzarmi una guancia.
Ti facevo tenerezza poiché, come mi dicesti tempo dopo ero “così diverso, inadatto a vivere, proprio come me”. A me non era mai sembrato che tu fossi inadatta a vivere, ti avevo sempre visto come un esempio da seguire, ma ora capisco. Capisco quanto anche tu, in modo diverso, non sapessi vivere. Quel tuo sorriso, quei tuoi gesti svelti e leggeri erano tutti una dimostrazione, la dimostrazione dell’inadeguatezza in cui vivevi e che io riflettevo. Per questo ti eri innamorata di me e anche per questo ora non lo sei più.
Ti ricordi quando ci dicemmo per la prima volta quelle fatidiche due parole? Quelle parole che ci segnarono, che ora m’impediscono di andare avanti?
Doveva essere la serata perfetta, era un 25 ottobre, ma fu l’apoteosi dell’imperfezione. Per questo ce la porteremo dietro per sempre, nei nostri ricordi. Chissà che non lo racconterai ai tuoi figli, figli di un altro, di un uomo che per te sarà abbastanza. Chissà se non parlerai di me come un “uomo incredibilmente burbero ed egoista, ma così inadatto da affascinarmi” o come “un uomo che sembrava così solo, così bisognoso di me”. Spero che di me parlerai, spero che tu possa portare con te il mio ricordo, sottobraccio come un giornale.
Quella serata in cui tutto sembrava contro di noi, in cui fuggimmo dalla pioggia inaspettata, in cui ci riparammo sotto un portico e rimanemmo così, stretti stretti, i nostri nasi a sfiorarsi e i nostri respiri affannati dalla corsa e dalla vicinanza fondersi assieme. Poi quelle parole, sussurrate come fossero un segreto di cui neanche noi dovevamo entrare a conoscenza. Poi il fiato sospeso, in attesa di una risposta, di un altro sussurro segreto. Mi baciasti quel giorno, i capelli biondi arricciati dall’acqua a solleticarmi il collo, le tue mani pallide ad accarezzarmi il volto. Ancora oggi posso sentirne il tocco, posso sentirne il calore in quella sera fredda e pungente come uno spillo di metallo.
Pensavamo di rimanere per sempre assieme e, nell’arco di un anno, decidemmo di sposarci. Sembravamo così certi di noi stessi.
Ci crogiolavamo nell’arroganza della certezza. Arroganza propria solo dei giovani inesperti.
Posso ricordare con dolore e rammarico come all’avvicinarsi di oggi io non mi sia mai accorto dei tuoi sorrisi sempre più rari, delle tue carezze sempre più fredde. Così simili all’acqua di quella sera, così penosa e meravigliosa assieme. Proprio come te, Livia.
Non ti rimprovero la tua decisione, seppur la rabbia e la delusione che mi ribolle dentro siano enormi. Non ti rimprovero nulla poiché sono consapevole che tra noi due, l’unica ad aver fatto una scelta coraggiosa sia stata tu. L’unica ad esser cresciuta, a non aver più bisogno di sostegni, sei stata tu.
Con questo non mancherò nell’ammettere che la tua assenza la soffrirò sempre, finché questo mio corpo distrutto reggerà. Finché la mia sanità mentale non mi porterà alla morte. Lo sai, Livia, che quando ti attendevo in fondo alla navata, ritto e composto come sono sempre stato, ad analizzare minuziosamente ogni decorazione, ogni dettaglio dorato, tutte le gocce che componevano i lampadari, ti aspettavo con l’agitazione in corpo, ogni secondo sembrava durare un’eternità e le mie mani tremavano, tremavano come la prima volta che ti vidi.
Ti avrei aspettata per sempre.
Eppure in quell’eternità tu non arrivasti, me ne resi conto tardi, solo quando la gente cominciò ad uscire tra frasi di compassione e sguardi annoiati. Me ne resi conto solo quando in quella chiesa, la nostra chiesa, non ci fu nessuno. Nessuno tranne me.
Ti avrei aspettata per sempre.
Eppure tu non sei arrivata, mi hai lasciato lì solo, a crogiolarmi nel veleno che da quel momento ha cominciato ad avvenarmi, che questa sera, a poche ore dall’accaduto, mi impedisce di mangiare, di dormire, persino di piangere. Ti ricordi quando ti dissi che ciò di cui avevo veramente paura era non provare più nulla? E, guarda un po’ la coincidenza, questa mia paura si è avverata, inglobandomi in essa, poggiando la testa al suo seno, mentre vengo circondato dalle sue braccia grigie.
Non so quando questa mia lettera ti arriverà o se la leggerai. Se deciderai di lasciarmi un’ultima possibilità con cui esprimermi.
Ti auguro ogni fortuna che la mia presenza ti ha negato.
Ora tocca a me pensare agli altri, pensare a te. Ti sosterrò, Livia, ti sosterrò nel tuo egoismo, ti sosterrò sempre, poiché tocca a te essere egoista, pensare un po’ più a te e un po’ meno agli altri. Non devi badare a me, non avresti mai dovuto sentirtene obbligata.
Ti saluto, Livia, con il cuore in mano, cuore ti donerò sempre, semmai decidessi di tornare. Se avessi bisogno del mio sostegno, quello che mai ho saputo darti.
Rimpiango le mie colpe, Livia, e spero che tu possa perdonale.
Per sempre tuo, Silvio.
   
 
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