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Autore: Alyss Liebert    28/11/2015    17 recensioni
Si sentiva intrappolato in una gabbia, attanagliato dalle sue insicurezze.
Più provava a reagire, più veniva oppresso dagli inganni dei nemici.
Ogni giorno combatteva da solo contro i propri demoni, ogni giorno perdeva un frammento della sua dignità.
Aveva bisogno di certezze, di una ragione per vivere.
Desiderava riscoprire le sue genuine debolezze, le sue innocenti fragilità che lo distinguevano da una bestia, il suo sentimento di solidarietà, la sua fiducia verso il prossimo.
Voleva indietro l’umanità che da tempo era stata sottratta alla sua indole.
Solo lui poteva portarlo fuori dalla prigione del suo orgoglio, solo lui poteva infondergli speranza.
“Non devi lottare da solo. Non sei fatto per questo”.
Erano parole che non avrebbe mai dimenticato. L’aveva giurato… per chi gli stava vicino e per se stesso.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kurapika, Leorio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Disclaimer
I personaggi e le ambientazioni non mi appartengono, ma sono proprietà di Yoshihiro Togashi; al contrario, il racconto che state per leggere è una mia creazione.
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 
 
≈*≈



 
 

~ Humanity ~
 
 

Il respiro era affannoso, la fronte imperlata di sudore, il cuore furioso e celere.
Kurapika non ricordava il momento in cui aveva iniziato a correre, ma sapeva che era trascorso parecchio tempo; il suo corpo provato gli faceva percepire ciò.
Il cervello gli suggeriva di fermarsi e riprendere fiato, ma le gambe ormai stremate gli imponevano di proseguire poiché bloccarsi avrebbe comportato una maggiore sensazione del dolore e l’impossibilità di riprendere il cammino, sopraffatto dalla stanchezza.
La fitta foresta che stava percorrendo assunse sfumature sempre più scure, dense e macabre, non appena il sole cocente fu in procinto di tramontare per lasciare spazio alla pallida luna e alla gelida notte. L’essere immerso in quell’atmosfera gli diede una profonda angoscia e lo spinse ad avanzare e a non voltarsi per nessun motivo, quasi come se fosse inseguito da una creatura minacciosa o avesse paura di essere inglobato nell’oblio di quel luogo.
In cuor suo, però, era certo di stare facendo la strada giusta. Pur non vedendo ancora qualcosa all’orizzonte che gli ricordasse i resti del suo villaggio, il suo senso dell’olfatto non lo tradiva; fra un fiato spasmodico e l’altro poteva sentire un odore sempre più forte di fumo e materiali bruciati, mischiato ad uno sgradevole miasma di sangue e carne combusta.
Nella sua mente era viva l’immagine di quella pagina di quotidiano dedicata al massacro della tribù dei Kuruta. Ricordava i telegiornali e i cittadini più pettegoli discutere sull’accaduto, ma lo ripugnavano soprattutto le false maldicenze sulla sua famiglia rese note nel giro di qualche ora senza la minima riservatezza.
Non voleva crederci. Doveva vedere con i suoi occhi prima che qualsiasi altra feccia del genere umano potesse fare irruzione nel suo amato villaggio, investigare, toccare con le sue luride mani qualcosa che gli apparteneva e magari rubarla come aveva fatto la Brigata con gli occhi scarlatti dei suoi compagni.
 
Appena sbatté le palpebre, si scoprì inginocchiato a terra con le mani sull’arido terreno e le braccia tremanti. Boccheggiava e tossiva, non riusciva a deglutire; sentiva i muscoli pesanti ed intorpiditi, teneva lo sguardo basso e vedeva le gocce del proprio sudore cadere di fronte a lui. Osservò le lievi ferite sui dorsi delle mani assieme al vestito sporco e sgualcito: si era imbattuto persino in alcuni sentieri stretti, pieni di arbusti taglienti e fosse.
Quando riuscì a sollevare il capo, trasalì facendo una smorfia di ribrezzo. Corpi ammassati senza bulbi oculari giacevano di fronte ai resti delle piccole case annientate dalle fiamme; alcuni erano legati ad enormi pali inchiodati al terreno e avevano ancora impressi sui volti espressioni di terrore e patimento.
Il Kuruta si ritrovò all’improvviso in piedi, attorno alla moltitudine di cadaveri martoriati, e notò con orrore che molti erano stati decapitati.
Per un bambino di dodici anni quella visione era a dir poco raccapricciante; nonostante ciò, non aveva la forza di gridare o piangere, bensì guardare lo scenario sbigottito. L’incredulità e lo shock erano probabilmente così travolgenti da impedirgli di focalizzarsi sulle successive reazioni emotive.
 
Ad un tratto sentì una voce chiamarlo. Il suono non era molto nitido, ma aveva un tono alquanto austero e giunse alle orecchie dell’interessato assieme ad una folata di vento.
Appena si girò, vide emergere dai corpi dei suoi fratelli quello del padre che reggeva fra le braccia la madre. Entrambi erano privi di occhi, ma lui rimaneva in piedi con il volto serio e puntato verso il figlio, a differenza di lei che sembrava del tutto priva di vita.
«Papà… mamma…», li chiamò Kurapika con voce tremante, sperando forse in una loro inverosimile sopravvivenza.
«Perché sei qui?», gli domandò l’uomo. La sua voce era più definita. «Perché sei tornato?»
Appena il giovane tentò di replicare, nessun suono uscì dalla sua bocca. Era come se la sua voce si fosse smorzata in gola.
«È solo colpa tua», continuò il padre aggrottando la fronte, «È successo tutto questo… per colpa tua».
Kurapika rimase attonito di fronte a quelle parole.
«Per colpa della tua prepotenza, ostinazione, testardaggine…», proseguì. Il suo sguardo si fece cupo. «Mio figlio… è la vergogna dei Kuruta».
Udita quella frase, non ebbe neanche il tempo di reagire che vide di fronte a sé un cadavere a lui familiare. Aveva le mani legate dietro la schiena e anche a lui mancava la testa, ma Kurapika riconobbe subito di chi si trattava. Quella costituzione esile, quel vestito color cremisi ormai sciupato e bruciato…
Era proprio lui, il suo caro amico Pairo. Non era sopravvissuto neanche lui.
Il suo corpo cedette, cadde sulle ginocchia e avvicinò a sé con delicatezza il fisico freddo e gracile del suo compagno. Lo strinse forte al suo petto in un vano desiderio di scaldarlo o sentirlo sussultare e fu in quel momento che tornò a sentire la propria voce sotto forma di singhiozzi. La sua vista venne annebbiata dalle lacrime che cominciarono subito dopo a rigargli le guance.
Non poté più trattenersi e ruppe in un pianto angosciato; ascoltava le sue urla e i lamenti sofferenti, senza essere in grado di fare niente per fermarli, e continuava a circondare con le braccia le spoglie di colui a cui aveva promesso di vivere tante avventure nel mondo esterno, ma soprattutto di curare la sua malattia.
Mentre si sfogava, sentiva la voce severa del padre penetrare nelle sue orecchie, causandogli un’ulteriore angustia.
«Non meriti né di trovarti qui, ne di piangere. Con il tuo fare ribelle ci hai abbandonati, nonostante ti abbia proibito di frequentare coloro che ci hanno discriminati. Tu non meriti di farla franca…»
Il suo tono mutò in maniera drastica, come se a parlare non fosse più suo padre.
«Tu non meriti di restare in vita».
 
Tutto intorno al Kuruta si fece nero; il corpo di Pairo sparì assieme all’ambiente circostante. Dal nulla comparvero una decina di mani che lo afferrarono per il vestito e lo inchiodarono a terra.
Si sentiva debole e stremato dal pianto; non riusciva a liberarsi da quella stretta.
«Non puoi restare incolume».
Risentì quella voce che stava diventando sempre più sgradevole al suo udito; non era più certo che chi gli stava rivolgendo la predica fosse il suo vero genitore e per un attimo lo scosse un brivido.
C’era qualcuno sopra di lui che lo osservava, ma non ne identificava il volto, forse per la troppa oscurità o per la visione ancora velata dalle lacrime.
Una mano di quell’individuo andò ad accarezzare una sua guancia umida.
«Anche tu devi provare la stessa sofferenza dei tuoi fratelli, non credi? I tuoi splendidi occhi non possono passare inosservati: hanno un valore inestimabile».
Il pollice e l’indice circondarono le palpebre del suo occhio sinistro, probabilmente divenuto scarlatto assieme all’altro, e le divaricarono.
Nel momento in cui quell’uomo approssimò ulteriormente il viso al suo, Kurapika riconobbe con orrore il volto del responsabile di quel massacro: Kuroro.
«È questo che voglio vedere, mio giovane Kuruta: un’espressione di puro sgomento mischiata al rammarico per i tuoi miserabili sensi di colpa». Un sorriso maligno gli increspò le labbra. «Ora mostrami l’espressione del tuo puro strazio».
«LASCIAMI!»
Dopo quel grido, vide la figura di Kuroro frantumarsi come cocci di vetro e il giovane precipitò nel vuoto.
Era una strana sensazione: respirava, ma sentiva il proprio corpo immerso in una sostanza fluida che rallentava la velocità della caduta. Poteva affermare di stare annegando in quel particolare etere ed era una sensazione piacevole, tanto da lasciarsi cullare da essa.
«Non meriti di vestire i panni di un Kuruta». Di nuovo quella voce risuonò nella sua mente, ma non si curò di comprendere da chi provenisse. «Li hai pure venduti, li hai barattati… perdendo parte della tua dignità».
 
Era di nuovo in piedi, sempre circondato dal buio, e l’unica cosa che poteva vedere di fronte a lui era una teca di cristallo che superava di poco la sua altezza, illuminata da alcune piccole luci poste in corrispondenza degli spigoli.
Al suo interno qualcuno aveva posto il vestito che aveva indossato quando si era recato a York Shin, il suo preferito; colui che lo indossava era un manichino senza testa. Sembrava pronto per essere venduto ad un’asta e la cosa gli diede un certo fastidio.
Un’ulteriore folata di vento gli fece rendere conto della situazione in cui si trovava: era completamente nudo, senza qualcosa che lo coprisse, sebbene qualche istante prima avesse addosso un altro indumento.
Non lo disturbava la possibilità di essere visto, poiché era certo di essere solo in quel luogo così tetro, bensì il disagio causato da quel freddo intenso; la rigida brezza non cessava di soffiare ed il suo corpo rabbrividiva a contatto con essa.
Il biondo non poté trattenere i fremiti e in maniera istintiva si strinse nelle sue braccia. Fu in quel momento che, osservandosi, vide che era cresciuto: non era più il bambino dodicenne che si addolorava per la perdita dei compagni, ma aveva un fisico da adolescente.
Senza meravigliarsi tanto, focalizzò l’attenzione sul bisogno di rivestirsi. Allungò una mano per tastare la tersa facciata della teca in cui era contenuto il suo abito, ma proprio in quell’istante sentì delle catene avvilupparsi intorno a lui ed allontanarlo dall’oggetto del suo interesse; la presa di esse si fece più forzata in corrispondenza dei polsi e delle caviglie, giacché Kurapika stava tentando di divincolarsi ed opporsi a quella nuova sequenza di eventi.
Finì inchiodato contro un’altra superficie, della quale il colore fosco si mescolava con le tenebre di quella dimensione surreale. Vide in seguito la figura di una donna dal volto impercettibile, vestita in maniera succinta, apparire accanto alla teca ormai lungi dal proprietario del suo contenuto e, come se essa fosse stata posta su un carrello, la trascinò con facilità via dalla vista del Kuruta, scomparendo.
Il ragazzo non fece in tempo a protestare che si materializzò di fronte a lui una scena. Riconobbe subito quella situazione: era un suo recente ricordo.
Si trovava nel salone di un ricco uomo di malaffari che possedeva un paio di occhi scarlatti. Non era stato facile contattarlo ed arrivare ad un pacifico accordo; la maestria di Kurapika nella persuasione aveva reso ciò possibile, ma ad un caro prezzo.
Indossava un’elegante divisa nera e stava dialogando con quel boss. L’individuo aveva posto su un tavolo vicino a loro la vetrinetta contenente i bulbi oculari, mentre il giovane reggeva un involucro che racchiudeva il suo abito prediletto dei Kuruta accuratamente piegato: stava avvenendo uno scambio.
Il ragazzo si era dovuto documentare per stimare l’immenso valore che poteva avere il vestito, comparato a quello degli occhi; aveva realizzato carte false per far credere all’uomo che il suo precedente capo l’avesse ottenuto ad un’asta e per provare l’inequivocabile autenticità della veste, senza palesare informazioni sulla sua vera identità. Alla fine l’aveva convinto ad accettare il baratto.
«Meraviglioso!», esclamava il boss togliendo l’abito dall’involucro ed ammirandolo nella sua interezza, «E dire che probabilmente si tratta dell’unico indumento dei Kuruta rinvenuto intatto fra le macerie di quella carneficina!»
Con le stesse mani che commettevano ogni giorno atti peccaminosi, carezzava ed esplorava minuziosamente l’indumento con espressione compiaciuta.
«Che tessuto delicato! È molto diverso da quelli che adoperano per foggiare ciò che in genere indossiamo; ciò rende la veste ancora più pregiata», constatava, «E conserva un profumo così gradevole…»
Kurapika doveva mantenere tutto l’autocontrollo possibile per non lasciar trasparire la minima manifestazione di ripugnanza. Avrebbe preferito morire piuttosto che osservare quell’uomo stropicciare ed annusare con bramosia ciò che gli apparteneva.
«Non ho intenzione di rivendere questo splendore. Questo significa che ora è di mia proprietà e posso farci quello che voglio», proseguiva l’interlocutore tendendo varie volte la stoffa, come se volesse slabbrarla.
«Le converrebbe conservare il vestito con cura e tenerlo lontano da occhi indiscreti», era riuscito a suggerire il biondo con un tono di voce in apparenza pacato, mentre veniva assalito da una fastidiosa morsa allo stomaco.
«Sciocchezze!», fu la risposta, «Se a mia moglie aggrada, glielo faccio indossare per qualche cerimonia importante. Purtroppo sono troppo alto per la sua misura; in ogni caso non mi lamento tanto, visto che l’aspetto dell’abito non fa comprendere se appartenesse ad un uomo o una donna. Siccome le dimensioni non sono notevoli, non penso ci siano problemi di sesso!»
Con un sorriso alquanto beffardo aveva detto al ragazzo: «Gli occhi scarlatti sono tuoi, ma non rimpiango affatto questo baratto. Molte altre persone in questo mondo sono in possesso di altre paia di occhi, invece non ne ho ancora conosciuta una che abbia un indumento di quella tribù; i bulbi cremisi sono rari e di gran pregio, ma ciò che ora mi stai dando è irreperibile altrove. In questo apparente scambio equo, sei tu quello che mi sta fornendo la cosa più squisita! Ma ormai è fatta: questo vestito non ti appartiene più».
 
La scena scomparve dinanzi al Kuruta denudato ed incatenato nel buio, ma l’ultima frase di quel boss continuava ad echeggiare nella sua testa.
Apparve dopo qualche attimo un altro ricordo riconducibile al momento in cui stava contemplando gli occhi scarlatti che era riuscito a recuperare, mentre levava preghiere per i suoi defunti compagni.
Mizaistom, un membro dello Zodiaco, gli aveva appena chiesto di collaborare alla spedizione per il Continente Oscuro e lui aveva accettato poiché uno dei diretti interessati, il principe di Kakin, si era procurato gli ultimi occhi cremisi rimasti.
I pensieri di Kurapika a riguardo si diffusero nell’ambiente dove si trovava egli stesso. Fu come ascoltare una registrazione.
“Ho minacciato, persuaso e persino pagato alcune persone”.
“Ho perso qualcosa ogni volta che ho recuperato gli occhi di un mio compagno”.
“A quanto pare il mio viaggio sta per iniziare, ma poi… dove andrò?”
“Non esiste un posto in cui tornare e nessuno che attenda il mio ritorno a casa”.
 
Un energico fascio di luce lo abbagliò, frastornandolo. Sentì tutt’ad un tratto un vociare caotico di parecchie persone, ma il chiarore non si attenuò; non afferrava di cosa stessero discutendo, perciò fu costretto ad aprire lentamente gli occhi.
Ciò che vide lo spiazzò. Si trovava al centro di un grande palcoscenico, ancora svestito e in catene. Affianco a lui c’era un individuo, forse il presentatore, che teneva in mano un microfono ed incoraggiava il pubblico.
«Signori, si tratta dell’ultimo esemplare di Kuruta ancora in vita! Giovanissimo, dai lineamenti androgini e dalla corporatura snella! Pare anche godere di buona salute e non bisogna dimenticare i suoi magnifici occhi scarlatti. Un aspetto davvero grazioso! Vista la sua età, può essere istruito in diversi modi…»
Gli uomini in smoking e le donne vestite in modo provocante che stavano in quell’immensa sala erano animati dalle parole dell’uomo e continuavano a gridare delle cifre numeriche sempre più alte per potersi aggiudicare ciò che interessava loro. Avevano tutti gli sguardi puntati su Kurapika, lo divoravano con quegli occhi carichi di cupidigia, lussuria e follia.
Al ragazzo fu tutto più chiaro: lo stavano vendendo ad un’asta. Non potendo contenere una profonda avversione, la sua vista divenne in poco tempo color rosso sangue; osservando quell’avvenimento, la folla lanciò uno strepito di sorpresa.
Vergogna e sdegno si riversarono in lui; richiuse gli occhi per la soggezione e volse la testa alla sua destra. Si chiese come avesse fatto ad arrivare a quel punto, come fosse potuto cadere così in basso e, mentre lo pensava, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Non c’era nessuno che conoscesse, nessuno che potesse salvarlo… Gli tornarono in mente Gon, Killua e Leorio; chiese loro perdono innumerevoli volte, in preda al panico per l’umiliazione che stava subendo.
Tentava inutilmente di divincolarsi dalla stretta di quelle dannate catene, ma più si muoveva, più esse si aggrovigliavano intorno a lui, immobilizzandolo con fermezza al muro retrostante e facendogli distendere le braccia e le gambe.
All’improvviso sentì una mano afferrargli il mento e voltargli con violenza il viso a sinistra. Il Kuruta riaprì subito gli occhi ed incontrò l’espressione intimidatoria di colui che presentava.
«Sei troppo irrequieto per i miei gusti», cominciò a dirgli, «Non puoi permetterti di continuare così: potresti suscitare cattive impressioni. È meglio che ti assopisca un po’».
Non fece neanche in tempo a realizzarlo che l’altra mano dell’uomo premette contro il suo naso e la sua bocca un panno umido, in modo che potesse inalare il narcotico intriso in esso.
 
Il fermento che provò Kurapika nel tentare di liberarsi dalla presa bastò per svegliarlo. Dopo aver gettato un urlo, si ritrovò seduto sul letto della sua stanza avvolta nella penombra.
Ci volle un po’ di tempo prima che comprendesse di essere stato vittima di un altro incubo. Quel sogno angoscioso lo tormentava da diverse notti, ma quella in particolare sembrava averlo giovato più del dovuto; le sensazioni che aveva provato erano fin troppo moleste e verosimili.
Il suo corpo e la sua mente risentivano di quell’esperienza: ansimava, tremava ed era sudato. Non lo calmava neanche la consapevolezza di essere in realtà in un luogo sicuro.
Toccandosi le guance bagnate, capì che aveva pianto nel sonno e con le maniche del suo pigiama grigio se le strofinò assieme agli occhi ormai tornati al colore naturale.
Quella camera stava diventando per lui asfissiante e aveva bisogno di prendere un po’ d’aria. Si alzò dal letto cercando di fare poco rumore, si diresse verso la porta-finestra della sua stanza, la aprì ed uscì nel piccolo balcone. Non faceva per niente freddo e il vento era fievole: non era necessario coprirsi con una vestaglia.
Il giovane contemplò la bellezza di quella notte dal secondo piano dell’edificio in cui alloggiava. Il cielo era privo di nuvole e nelle strade non circolava nessuno; le uniche fonti di illuminazione erano gli imponenti lampioni. Non si curò di osservare l’orario, ma di certo era ancora presto per alzarsi perché la luna e il buio regnavano incontrastati.
Pensò di nuovo al ruolo che aveva accettato di ricoprire: il topo dello Zodiaco, sostituto di Pariston Hill, assieme a Leorio nel ruolo del cinghiale.
Sarebbe stato in grado di completare quella missione? Aveva preso la giusta decisione? Cosa gli sarebbe accaduto in quel continente rischioso? Avrebbe ottenuto quello che cercava? Era l’ultima avventura che avrebbe dovuto intraprendere? Cosa lo aspettava dopo? Dove sarebbe andato?
Mille domande continuavano ad affliggerlo e nessuna delle sue riflessioni era in grado di proporgli una risposta soddisfacente. Non si era mai sentito così desolato.
 
Un rumore di passi circospetti fece tornare il Kuruta alla realtà; qualcuno aveva messo piede nella sua stanza e si stava avvicinando al balcone dove c’era lui, ma Kurapika non si voltava e preferiva fare finta di niente.
Appena l’individuo raggiunse la porta-finestra, sbatté il quinto dito di un suo piede contro uno spigolo; il grido trattenuto che emise assieme ad uno sbuffo fece capire al biondo di chi si trattava.
Dopotutto, solo uno come lui poteva essere così maldestro.
«Tutto ok, Leorio?», domandò senza girarsi.
Dopo qualche secondo l’interessato chiese sorpreso: «Come hai fatto a capire che sono io?»
«Intuito», fu la replica, «Non ti sforzi neanche di essere più prudente. Se questo fosse stato un vero pedinamento e ti avessero scoperto?»
«Piantala di farmi la predica! Volevo solo accertarmi che stessi bene», confessò il moro.
«… Come mai?»
«Beh, dalla mia stanza ti sentivo urlare e lamentare. Ero preoccupato, così ho deciso di vedere cosa sta succedendo. Non era mia intenzione disturbarti o tediarti con una conversazione…»
Il più giovane rimase in silenzio. Era logico che Leorio l’avesse udito: nell’edificio abitato provvisoriamente dai membri dello Zodiaco loro due avevano le camere accanto e il malessere di Kurapika non poteva passare inosservato.
Quella circostanza lo infastidiva, ma non perché Leorio si fosse premurato per lui.
«Perché non sei a letto? È successo qualcosa?», domandò ancora l’amico.
«Avevo caldo», tagliò corto il Kuruta.
«Quindi ti metti ad urlare quando hai caldo! Interessante, me lo segno…»
«Piantala, Leorio», gli ordinò, «Non sono in vena di spiritosaggini in questo momento».
«E perché?»
«…Torna a dormire. Sto bene, non vedi?»
«Mi dispiace, non lo vedo: non ti sei ancora girato verso di me. Non è tanto gentile da parte tua».
«Leorio…»
Il biondo non sapeva più cosa rispondere.
In fatto di ironia pungente Kurapika superava sempre il collega, ma quando un asso come lui era giù di morale ed abbassava la guardia, poteva essere spiazzato dall’altro con poche semplici parole. Quando accadeva, però, non lo prendeva come un affronto; era come se, attraverso quel metodo, Leorio volesse fare breccia nel suo cuore ed esplorare la sua psiche per creare una sorta di empatia, per aiutarlo, per stare al suo fianco anche spiritualmente.
In realtà, il Kuruta desiderava quel tipo di contatto, ma faticava ad ammetterlo; lasciarsi andare in confessioni e sentimentalismi era contro la sua natura.
I suoi ragionamenti svanirono quando scorse con la coda dell’occhio il più grande avvicinarsi alla sua destra e poggiare le braccia sulla ringhiera del balcone.
«Si sta davvero bene qui fuori!», constatò.
«… Concordo», replicò il biondo guardando in un’altra direzione.
«Mi sta passando la voglia di dormire, sai?»
Kurapika sbuffò.
«Devi dirmi qualcosa, Leorio?»
«Potrei chiederti lo stesso».
«Bene, ti dico che vorrei essere lasciato solo… per favore».
Vedendo il Kuruta chinare il capo e stringere i pugni, il volto del suo compagno divenne serio.
«Kurapika… non sto scherzando».
«Nemmeno io».
«Possibile che non riesca a fidarti di me? Vedo che c’è qualcosa che non va e che stai soffrendo! Voglio aiutarti!»
«Mi fido di te, ma mi aiuteresti molto se pensassi alle cose tue».
«Beh, non ci riesco! Mi è impossibile rimanere indifferente quando si tratta del mio…»
Si bloccò per un attimo, arrossendo. Lui stesso non sapeva come volesse concludere l’affermazione, ma ormai aveva pronunciato quelle parole.
«… del mio migliore amico… e compagno di squadra», terminò alla fine un po’ imbarazzato.
 
Restarono qualche secondo senza dire nulla, evitando di guardarsi in faccia. Kurapika non ebbe più la forza e la voglia di ribattere: era inutile tentare di avere la meglio contro una persona ancora più testarda. Inoltre, la dichiarazione del moro l’aveva messo in uno stato di lieve soggezione e non sapeva spiegarsi bene il perché; si era reso conto da molto tempo che la loro relazione non fosse più di una consueta amicizia, ma il diretto interessato era Leorio e non poteva credere che un impacciato come lui avesse la capacità di intimidirlo e confonderlo fino a quel punto.
Sospirò e chiuse gli occhi: in fondo aveva bisogno di quel ragazzo tanto goffo quanto benevolo, non poteva negarlo.
«Ho sognato il massacro della mia tribù», cominciò a dire cercando di apparire imperturbabile, «Anzi, sono molte notti che lo sogno».
Leorio non replicò ed aspettò che proseguisse con interesse.
«Adesso non ricordo di preciso le circostanze a cui ho assistito, ma tutto l’incubo si focalizzava… sugli errori che ho commesso in passato e che continuo a commettere. C’erano tante persone che mi rivolgevano prediche, mi rammentavano i miei peccati ed esigevano che patissi le stesse identiche cose».
Ebbe un brivido e strinse i denti quando ricordò l’ultima parte del sogno.
«Ho perso tutto, Leorio», confessò, «La mia famiglia, i miei averi e la mia dignità. Non ho più niente… non ho più nessuno. Non so neanche perché abbia accettato di punto in bianco questa missione, senza prima averci riflettuto su: ormai sono diventato un soggetto pericoloso e il mio potere è vano contro quelle persone. Forse l’ho fatto per disperazione…»
Rendendosi conto di aver parlato a sufficienza, si limitò a terminare il discorso con: «Nonostante il mio dolore… continuo a soggiacere al resto del mondo. Curioso, vero?»
 
Il più grande rimase stupito da quell’improvvisa confidenza, ma ancora di più rammaricato per ciò che il Kuruta stava provando. Più tempo passava, più si rendeva conto di trovarsi di fronte ad un giovane consumato in prevalenza dalla sua stessa malinconia; non voleva permettere che quest’ultima potesse inglobarlo completamente.
«Non ti senti un po’ meglio dopo esserti sfogato?», gli chiese.
«E tu sei soddisfatto del mio racconto o devi riempirmi di altre domande?», gli rinfacciò il biondo con una punta di sdegno.
In quel momento Leorio perse la pazienza: non tollerava più quell’atteggiamento così falsamente distaccato.
«Quando ti decidi a gettare via quella maschera da arrogante? Tu non sei ciò che vuoi far credere agli altri di essere: l’ho capito dal primo giorno in cui ci siamo incontrati».
Non ricevendo nessuna risposta, il moro gli ordinò: «Voltati e guardami negli occhi! Detesto chi mi ignora!»
L’amico non obbedì.
«Kurapika!»
Afferrò con entrambe le mani le sue spalle, dirigendole nella sua direzione ed obbligandolo a guardarlo in faccia. Quando i loro sguardi si incontrarono, un brivido percorse Leorio lungo la schiena.
L’orgoglio con il quale il Kuruta sosteneva lo sguardo contrastava con il suo aspetto esteriore. Aveva le guance totalmente rosse, forse per la rabbia o per l’imbarazzo; gli occhi lucidi, tipici di una persona che aveva appena versato delle lacrime e che era pronta a versarne ancora, resero esplicita al moro la sua emotività in quell’istante.
Eppure, malgrado la prepotenza con cui l’amico l’aveva forzato a mostrargli quella fragilità, il biondo non aveva fatto nulla per impedirlo.
Bisogno di comprensione o mera tracotanza per dimostrare di non essere un debole? Qualsiasi fosse la risposta corretta, Leorio non poteva fare a meno di contemplare quella figura così delicata e vulnerabile, perdendosi nel glauco intenso dei suoi occhi che a volte si mescolava con tinte vermiglie. Pensava a quanto tenesse a quel ragazzo, a quanto fosse felice di essere in sua compagnia per quella missione, a quanto amore volesse dargli, a quanto lo adorava, a quanto fosse sciocco per non saperlo esprimere…
Erano entrambi in quel balcone, da soli. Era un momento perfetto per rimediare alle sue insicurezze e dargli un assaggio di ciò che provava.
«Nessuno è perfetto, Kurapika», cominciò a dire, «Tutti noi abbiamo commesso degli errori e in futuro sbaglieremo di nuovo! Ora stiamo vedendo e percependo le conseguenze delle nostre cattive scelte, ma è una cosa normale. Fallire è umano! La vita è fatta anche di questo!»
Dopo aver chiuso per un attimo gli occhi e fatto un respiro profondo, proseguì.
«Di sicuro stai pensando che le tue colpe siano troppo gravi per non essere prese in considerazione, e infatti non ti sto dicendo di dimenticarle». Il suo sguardo tornò serio. «Devi invece reagire, imparare da esse e non rimuginare su ciò che non puoi più modificare. Prova agli altri di essere diventato una persona migliore! Vivi nel presente!»
Avvicinò il suo viso a quello di un Kurapika parecchio stupito.
«Tutto ciò che hai combinato in passato non cambierà l’opinione che ho di te. Io ti ringrazio di esistere e di essere qui accanto a me, perché non sai quanto mi sei mancato! Mi mancavano i nostri battibecchi, le nostre risate, i nostri momenti tristi e sereni… Diamine, mi mancava tutto di te, anche il tuo solito modo di fare da sapientone! Adesso mi manca il tuo sorriso. Voglio vederti sorridere come quando ci siamo incontrati a York Shin, e sai perché? Beh, è semplice: ho bisogno di te al mio fianco come tu, del resto, necessiti me. Ammetto di non poter affrontare questo viaggio da solo e sai benissimo di essere nella mia stessa condizione. Voglio, perciò, trasmetterti allegria e coraggio, e gradirei che facessi lo stesso perché… fra amici ci si aiuta!»
Nel dire ciò, Leorio si era reso conto di avere le lacrime agli occhi. Gli faceva un male terribile pronunciare la parola “amici” e non potergli confessare cose più esplicite, ma almeno sperava di sortire con quelle parole qualche effetto positivo sul Kuruta.
«E se continui a dire di non avere più nessuno, ti riempio di botte! Chi sono io per te? Chi è Gon? E Killua? Senritsu? Tutti gli altri che hai conosciuto e ti sono stati vicini? Vuoi farmi credere che noi non significhiamo niente? O forse sei troppo cocciuto per ammetterlo? E sappi che, se lo fai per preservarci dai tuoi problemi, noi tenteremo comunque di fare irruzione nella tua vita per aiutarti!»
Lasciò le spalle del giovane e si portò una mano al petto.
«Per quanto mi riguarda… ogni volta che avrai voglia di sfogarti, piangere o raccontarmi qualcosa, io ci sarò sempre. Non sentirti mai solo, ricordalo».
Con quell’affermazione concluse il suo discorso. Rendendosi conto di ciò che era appena uscito dalla sua bocca, non poté evitare di arrossire; si vide costretto a spostare lo sguardo verso alcuni edifici in lontananza, non riuscendo a sostenere quello di Kurapika.
Comunque, era fiero di aver presumibilmente scosso il Kuruta. Da troppo tempo voleva rivolgergli quelle parole: non si era pertanto saputo trattenere oltre un certo limite.
 
All’improvviso il suo turbine di pensieri venne stroncato da un moderato ma solerte pugno allo stomaco.
Sconcertato dal colpo ricevuto da Kurapika e colto impreparato, indietreggiò di un passo e tossì un paio di volte.
«EHI! Che ti prende!?», sbottò tornando ad osservare il compagno che teneva la testa bassa.
«Smettila…», ordinò il biondo cominciando a tremare, «Smettila di parlarmi in questo modo!»
«Kurapika…»
«Credi di sapere tutto di me? Cosa pretendi di insegnarmi? Cosa…?»
La sua voce venne interrotta da un gemito che non poté controllare, mentre le lacrime gli rigavano di nuovo il suo viso arrossato.
Leorio non poteva credere ai suoi occhi: stava piangendo per lui.
«Sei un idiota… un idiota…», balbettò il più giovane senza riuscire a frenare i singhiozzi. Girò la testa dall’altra parte, mordendosi il labbro inferiore per cercare di calmarsi e strofinandosi gli occhi con le mani, ma ciò non bastò a frenare il suo sfogo.
Non riusciva più a dire una parola; continuava a versare lacrime di fronte all’amico, senza potersi contenere.
Si sentiva così male: il discorso di Leorio l’aveva spiazzato, risvegliando in lui una profonda tristezza e commozione allo stesso tempo. Non sapeva se essergli grato per questo, ma riconobbe che aveva bisogno di quello stimolo.
Sentì ad un tratto una mano del moro accarezzargli la testa e dirigerla verso il suo petto. Subito dopo l’altro braccio gli circondò il trepido corpo, stringendolo a sé.
Capendo cosa significava quell’abbraccio inatteso, non riuscì più a reprimere l’avvilimento e si lasciò andare in un pianto disperato, afferrando e stropicciando la maglietta del compagno.
Non serviva più intimidirsi di fronte a lui, poiché capiva che necessitava ciò. Comprese che con Leorio poteva farlo, perché non c’era niente da nascondergli: lo conosceva così maledettamente bene.
Esigeva più di ogni altra cosa essere avvolto, confortato e protetto in quelle braccia rassicuranti. Voleva affondare il suo viso nel petto di qualcuno e piangere quanto desiderava senza dare troppe spiegazioni o chiedere poi scusa. Solo Leorio gli donava quella sicurezza; con lui si sentiva amato, amato in maniera sconvolgente.
Era una dimora accogliente in cui poteva rifugiarsi ogni singola volta.
 
 
~ ♦ ~
 
 
Passarono molti minuti, forse quasi un’ora; dovevano essere le tre di notte. Il buio regnava ancora sovrano e a volte alcuni gruppi di ragazzi, probabilmente usciti da qualche discoteca, passavano per le vie vicine all’edificio barcollanti e assonnati.
Intanto, Kurapika e Leorio stavano ammirando il meraviglioso cielo stellato di quella tarda sera, l’uno affianco all’altro con visi sereni.
«Non ti ho mai chiesto delucidazioni sulla tua religione, ma credi negli angeli custodi?», chiese il più grande.
«Più che angeli, io mi riferisco alle persone defunte con la parola “anime”. Penso a loro come spiriti curiosi o inappagati che vagano per questo pianeta in cerca di una colpa da espiare o una vendetta da compiere. Non mento quando dico di poter ancora udire i lamenti dei miei compagni ed avvertire la loro collera», rispose il Kuruta.
«Quindi hai fede in queste entità, a modo tuo… Non pensi che possano anche proteggerti? Voglio dire… rifletti su tutte le cose che hai affrontato finora. Secondo me, se ce l’hai fatta, è stato anche merito loro!»
Sentendo quell’esclamazione, Kurapika tornò ad osservarlo.
«Un uomo non può mai essere solo, perché le anime delle persone a lui care lo seguiranno sempre, ovunque egli vada, e lo custodiranno in ogni situazione. Questo discorso vale anche per me e per te; basta guardare le stelle».
Il biondo seguì il dito di Leorio che puntava al cielo.
«Quelle più luminose sono i tuoi compagni e i tuoi genitori. Stanno bene lassù e vegliano su ogni cosa che fai. Certo, vedono anche le cattive azioni che compi, ma ricordati che sei un membro di quella grande famiglia e non arriveranno mai ad odiarti», concluse il moro.
 
Dopo aver fissato per un attimo quella volta celeste così limpida, Kurapika abbassò di nuovo la testa e gli sfuggì un lieve risolino.
«Ho detto qualcosa di stupido?», domandò Leorio accorgendosi di ciò.
«Affatto», replicò l’altro, «Anzi, non sapevo che avessi un lato così sensibile e sentimentale».
«Eh? C-Che dici? Non è una mia considerazione: molti credono a queste cose e alla fine mi hanno influenzato», spiegò tentando di essere convincente, «E poi l’ho detto per tirarti ulteriormente su il morale».
«In ogni caso… ti ringrazio, Leorio, per tutto quello che mi hai detto e per ciò che hai fatto per me fino ad oggi. Io… ti sono debitore», disse il Kuruta regalando all’amico un sorriso radioso.
Il compagno non poté sostenere quell’espressione così armoniosa e, a suo giudizio, angelica che gli stava rivolgendo e fu costretto a guardare da un’altra parte vergognato.
«M-Ma figurati! Sai che esserti d’aiuto mi fa sempre piacere. Non mi sentirò mai obbligato».
Ritrovando poi il coraggio, gli confessò: «Tu mi parli della mia sensibilità, ma anch’io sono parecchio sorpreso per la tua! Non avrei mai pensato che un ragazzo così freddo e indipendente potesse celare una tale affettività e tenerezza. Mi hai commosso!»
«… Beh, è normale: sono un essere umano», gli ricordò Kurapika distogliendo lo sguardo e sentendosi un po’ a disagio.
«Lo so, ma i nostri colleghi conoscono solo il tuo lato impavido. Potrei raccontare quello che è successo…», cominciò a stuzzicarlo.
«Ti taglierei la lingua prima che potessi farlo», smentì con rapidità il più giovane, lanciandogli un’occhiata guardinga.
«Posso scrivere: ho le mani».
«Ti priverei anche di quelle».
«Allora mi servirei di un computer e digiterei la storia con le dita dei piedi».
Kurapika lo guardò stranito.
«Sto scherzando! Mi credi veramente?», palesò Leorio ridacchiando.
Il Kuruta si lasciò contagiare per un po’ dall’allegria dell’amico, poi rivelò: «Comincio a sentire di nuovo il bisogno di dormire. Vado a letto».
«… Ah, davvero?», chiese conferma l’altro con un misto fra stupore e dispiacere. Quando stava con lui, era come se il tempo non trascorresse mai. La sua sonnolenza era svanita: se Kurapika avesse voluto, sarebbe rimasto in balcone assieme a lui fino alla mattina seguente.
«Sì…», fu la risposta, «… e ti consiglio di fare la stessa cosa. Domani dovremo proseguire con i preparativi per il viaggio».
«Hai ragione…»
Dopo un istante di silenzio, Leorio ebbe l’audacia di chiedergli: «Sicuro che riuscirai a chiudere occhio? Non hai paura di avere di nuovo quell’incubo?»
«Non per questo dovrei passare la notte in bianco», ribadì il biondo.
«Certo che no! Mi chiedevo solo se ti sentissi veramente a tuo agio e fossi pronto ad affrontare il resto della notte… da solo», precisò.
«Penso di sì. Come mai?»
«Beh, ecco…», cominciò a dire grattandosi nervosamente la nuca, «… se sei ancora un po’ scosso e la proposta non ti infastidisce… puoi dormire con me. Nel mio letto c’è sufficiente spazio per due persone».
 
Kurapika esitò a dare una risposta.
Continuava a fissare abbastanza incredulo colui che gli aveva detto quella frase. In fondo al suo cuore si aspettava un invito del genere da parte sua, ma era altrettanto convinto che, prima di arrivare al dunque, il moro avrebbe fatto inesauribili giri di parole.
Ciò, al contrario, non successe ed il più giovane era rimasto stupefatto dalla sua apparente sicurezza.
Era forse convinto che avrebbe accettato per farlo contento… o sapeva che, in fondo, lo desideravano entrambi?
Kurapika non poteva ricusare l’inquietudine che il ricordo di quello sgradevole sogno ancora gli provocava, ma non voleva neanche assecondare troppo il collega per l’alto livello di intimità che sarebbe conseguito e per non mostrare ulteriore debolezza.
 
«Va bene, grazie».
La sua bocca aveva pronunciato l’esatto opposto, il suo cuore l’aveva tradito e non poteva tornare indietro. Cercò di camuffare la sua espressione sbigottita: per la prima volta ciò che aveva detto non corrispondeva ad una decisione dettata dall’intelletto, il quale era sfuggito al suo controllo.
Il rincrescimento cessò quando osservò il volto raggiante e pieno di letizia dell’amico e cominciò a subentrare la convinzione che quella non fosse una scelta così cattiva.
«Sono contento!», esclamò il moro entusiasta.
«Però…», iniziò a puntualizzare il Kuruta, «… devi sottostare ad alcune regole».
«… Sarebbero?»
«Di solito ho il sonno leggero e qualsiasi cosa può disturbarlo. Gradirei, quindi, che non ti muovessi troppo, che non russassi, che non ti appropriassi delle coperte e che non invadessi la mia metà di letto», sentenziò.
«Ma… non posso badare al mio corpo mentre dormo! Come faccio, per esempio, ad essere certo di non russare?», protestò Leorio perplesso.
«È semplice: se russi, ti tiro un cuscino», spiegò l’altro.
«Oppure mi prendi a cazzotti come hai fatto quando eravamo nell’hotel di quell’isola?»
Udendo il pungolo e ricordando quel momento imbarazzante, Kurapika sollevò un pugno.
«Mi stai tentando», gli intimò.
«Chiedo perdono», disse il più grande con ironia.
«… Forza, torniamo dentro: sono davvero stanco», cambiò il discorso il Kuruta.
«Ok».
 
 
~ ♦ ~
 
 
Gli era impossibile cadere fra le braccia di Morfeo; continuava a fissare il soffitto con occhi spalancati.
Leorio si chiedeva come mai facesse così tanta fatica ad assopirsi e non comprendeva quale fra le tante motivazioni fosse la più sincera.
Non sentiva il bisogno di riposare? Lo teneva sveglio il timore di fare troppo rumore? Oppure era proprio la presenza del biondo vicino a lui a destabilizzarlo?
Gli sembrava un sogno avere accanto colui che amava così rilassato ed inerme; faticava a credere che quel ragazzo dal volto innocente avesse ucciso delle persone e commesso malefatte.
Si girò lentamente sul fianco sinistro per ammirare la figura che aveva, a sua volta, il corpo ed il viso rivolto verso di lui.
Dormiva beatamente. Il suo respiro era lieve e con le dita di una mano teneva stretto un lembo della coperta che lo avvolgeva fino al collo.
Kurapika detestava stare scoperto, al contrario di Leorio che poteva quasi sempre fare a meno della trapunta, persino in inverno.
Una cosa che, invece, sorprese il moro fu la rapidità con cui aveva preso sonno.
“Doveva essere esausto”, pensò.
All’opposto di quanto credeva, era come se il Kuruta si sentisse confidente, protetto in sua presenza e il compagno si compiaceva di ciò.
“Non aveva il sonno leggero?”, rifletté divertito, “Adesso non lo sveglierebbe nemmeno una bomba”.
 
Emise un leggero sospiro, domandandosi quando sarebbe riuscito a dirgli ciò che provava. Avrebbe voluto farlo nel momento in cui aveva stretto a sé il ragazzo in lacrime, ma la paura di sconvolgerlo oltremodo aveva preso il sopravvento. Per Kurapika quello fu un momento delicato e di profonda titubanza, lo sapeva bene, ma vedere il biondo così sconsolato e sentirlo gemere fra le sue braccia fece crescere in lui un desiderio vivo di confessargli tutte le cose che teneva celate nel suo cuore, premere le labbra contro le sue ed assaporarne ogni centimetro, affondare le dita fra i suoi capelli, saggiare la sua pelle ed unirsi a lui.
Ma non poteva, non ancora.
Senza neanche essersene accorto, aveva allungato una mano verso colui che stava contemplando per scostargli una lunga ciocca di capelli dal viso; nel farlo, ne approfittò per carezzargli la fronte ed una guancia.
Si stupì nel vedere che la cosa non lo aveva disturbato. Allora, azzardando un altro tentativo, puntò il polpastrello del suo pollice verso le sue labbra socchiuse.
 
Prima che potesse sfiorarle, al Kuruta sfuggì: «Non ci provare».
Leorio si irrigidì e dopo un paio di secondi allontanò la mano dalla sua faccia.
«S-Sei sveglio?», domandò intimidito.
Non ottenne risposta. L’amico continuò a dormire normalmente.
Quando aveva pronunciato quella frase, i suoi occhi non si erano aperti ed aveva una voce flebile; il più grande credette – e sperò – che avesse parlato nel sonno.
Comunque, ciò gli bastò per seguire l’esempio di Kurapika e cercare di addormentarsi. L’indomani avrebbero certamente avuto parecchie faccende da sbrigare: doveva essere il più possibile sveglio ed energico per affrontare al meglio quella giornata.
C’era tempo per chiarire le cose.
 
Nessuno dei due era sicuro di tornare sano e salvo dal Continente Oscuro; poteva essere l’ultimo viaggio della loro vita, l’ultima avventura insieme.
Entrambi, però, erano determinati a dare anima e corpo per portare a termine quella missione e proteggere i colleghi. Non temevano nulla.
Per quanto potessero nasconderlo, in realtà ai due era mancato un sostegno morale prima del loro ritrovo.
Avevano da sempre cercato qualcuno per cui lottare, qualcuno che rendesse la loro faticosa vita degna di essere vissuta e che li potesse completare… e quel qualcuno si era incarnato in una persona ben precisa.
Kurapika per Leorio, Leorio per Kurapika.
La temperanza per la fortezza, la prudenza per la giustizia.

 
 
≈*≈
 
 
Angolo dell’autrice
 
Dopo due anni mi rifaccio viva con una fanfiction. Sono una persona orribile…
Non potrei mai smettere di amare HxH. Sono troppo affezionata alla storia e ai personaggi: significano tanto per me. Pur detestando le frequenti pause di Togashi, mi è impossibile stancarmi del suo capolavoro.
Vorrei spendere alcune parole su questa one-shot per chi è interessato! :)
Chi mi conosce avrà notato che mi sono convertita alla Leopika; il mio lungo periodo di meditazione(?) mi ha portata a questo. Vi risparmio l’elenco dei motivi per cui prima non sopportavo questa coppia ed ora non ne posso fare a meno; sappiate solo che li adoro insieme e che sono tornata a scrivere anche grazie a loro.
L’ultima cosa che ho scelto per la fanfiction è il titolo. Dire che mi sono scervellata è poco; non riuscivo a trovare una o più parole per sintetizzare il “succo” della one-shot. Stavo per intitolarla “Worthy to live”, ma mi convinceva poco perché non è esattamente la voglia di vivere che manca a Kurapika. Poi mi è venuta un specie di illuminazione: “Humanity”. Racchiude ciò che, a parer mio, necessita di più quel testardo: riscoprire la sua vecchia indole e le sue umane fragilità.
“Fallire è umano”, come ha detto Leorio, e continuare a lottare a fianco alle persone più care è indispensabile. Questo è anche un piccolo incoraggiamento che faccio a voi e a me stessa per il periodo che stiamo passando. Non siamo soli! ♥
Nonostante nei miei progetti iniziali la one-shot dovesse essere focalizzata interamente sui sentimenti di Kurapika, ho voluto poi dare spazio anche a quelli di Leorio in alcuni momenti (specialmente nell’ultima scena). Adoro analizzare pure i suoi pensieri; è un personaggio che apprezzo e stimo.
La scena del sogno è stata la più difficile, non solo per il fatto di rendere bene la dimensione onirica in cui Kurapika si trovava, ma anche per concatenare con una certa logica le scene e le varie allusioni.
Da come Togashi ha delineato il padre di Kurapika, non penso fosse una persona severa, ma era comunque contrario alle scelte del figlio; nell’incubo ho deciso di renderlo più austero poiché non si tratta del vero padre, bensì di come Kurapika concepisce la sua collera.
Chi è al passo con il manga, si sarà accorto dei riferimenti al capitolo 344 (e nessuno mi toglie la convinzione che la testa mostrata dal principe nel capitolo 349 sia di Pairo… Prevedo dolori quando Kurapika la scoprirà).
Inoltre, ho inserito un mio headcanon personale: il nostro Kuruta ha barattato il suo vestito per avere un paio di occhi scarlatti. Non è detto che sia vero; può anche darsi che abbia cambiato stile per la posizione di rilievo che ha assunto nella Mafia, ma a me piace anche pensare a ciò come un’intima costrizione che dimostra il suo cambiamento.
Le ultime due cose: per realizzare la fanfiction e il prologo mi sono ispirata ad una canzone degli Ashes Remain intitolata “On my own”. Se non la conoscete, vi consiglio di ascoltarla: penso rispecchi bene lo stato d’animo di Kurapika.
Infine, la fanart che ho inserito non appartiene (ovviamente) a me, ma ad un artista su Pixiv di nome Polaris. Questo è il link che riporta alla sua illustrazione (sperando funzioni, altrimenti copiatelo ed incollatelo nella pagina di Google): クラピカ | Polaris [pixiv] http://www.pixiv.net/member_illust.php?mode=medium&illust_id=34208709
 
Spero che questa one-shot vi sia piaciuta e vi abbia intrigato almeno un pochino… Mi scuso in anticipo se doveste trovare qualche errore di grammatica o di battitura.
EFP mi è mancato davvero tanto… Non ho intenzione di lasciare di nuovo questo clima meraviglioso!
Vi ringrazio tantissimo per aver dedicato parte del vostro tempo a questa lettura. Mi farebbe anche piacere leggere i vostri commenti a riguardo!^^ Grazie a voi posso sempre migliorare.
Alla prossima fanfiction!
Un saluto a tutti,
Scarlet. 
  
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