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Autore: Son of Jericho    29/11/2015    2 recensioni
Uno spaccato di vita quotidiana che vuole mostrare quanto possa diventare complicato il rapporto tra due persone, due colleghi di lavoro, quando alla mondanità subentrano emozioni che non avevano previsto.
*****
Siamo esseri umani e abbiamo tante, troppe debolezze.
Siamo incapaci di comprendere i nostri sentimenti, di accoglierli, di accettarli, e talvolta anche di dar loro un significato. Ed è così che finiamo per essere sopraffatti dalle nostre stesse emozioni.
Il destino crudele vuole però che innamorarsi sia, oltre che la parte più bella della nostra vita, anche la più difficile.
E allora cosa possiamo fare se, vedendo la ragazza dei nostri sogni, non riusciamo a capire se sia giusto o sbagliato?
Lasciateci conoscere il vero amore, tutti Sotto Un Unico Cielo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'A Rose to an Angel'
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Sotto un unico cielo



- Ma hai visto la maglietta che ha stamattina? -
Marco, con fare impassibile e silenzioso, premette un bottone sul pannellino di controllo e ruotò il sezionatore per le emergenze, facendo scattare la lampadina sopra di esso da un verde foglia ad un rosso vermiglio, ad annunciare lo stand-by del macchinario.
Mentre la fresa si fermava lentamente e con un cigolio agghiacciante che riecheggiò sopra le nostre teste, lui si sfilò i guanti e li poggiò sopra uno dei mobiletti adiacenti.
E come si voltò verso di me, quell’aria da finto indifferente mutò in un sorriso beffardo e radioso.
- Gesù, dire che le sta bene è poco! -
Automatico fu il mio sporgermi in avanti a ammiccare. - Però senza starebbe ancora meglio, vero? -
- Quello sempre! -
Scoppiò una risata condivisa e sincera, seppur contenuta per timore di essere sentiti, persi in chissà quali fantasie.
Andava a finire sempre così con Marco, e forse era esattamente per quello che trascorrevo alla sua postazione i miei momenti di evasione.



Arrivava regolarmente, ogni mattina, un punto in cui sentivo di aver raggiunto il limite, in cui non credevo di poter sopportare un minuto di più là dentro, dove l’aria si era fatta irrespirabile e carica di ogni genere di problemi e di rogne.
Quando nella testa suonava quel piccolo allarme che avvisava che, se fossi rimasto seduto a quella scrivania a schiacciare l’ennesimo pulsante sulla tastiera del pc, avrei rischiato seriamente di fare una strage.
Nell’istante in cui il proprio ufficio diventava nient’altro che un banco di nebbia ad offuscare il cervello, che iniziava a urlare disperato per un po’ d’aria.
In quei casi, non c’era niente di meglio che sparire dietro la porta e farsi due passi per gli altri locali dell’azienda, sperando magari di incontrare qualcuno che quella mattina stesse addirittura peggio.
Il sangue ricominciava a fluire quieto, mentre fissavo distrattamente gli interminabili scaffali del magazzino, pieni di scatoloni ricoperti di polvere, ognuno con la propria etichetta e codice.
Un rapido saluto ai due addetti allo stoccaggio, e poi dritto verso l’officina, alla fresa.



Mentre continuavamo a ridere, e la voglia di tornare ai nostri lavori scivolava via come se non ci fosse stato un domani, si avvicinò a noi Rosario, uno degli elettricisti.
- Ma che avrete da ridere, a quest’ora della mattina… -
Entrambi ci facemmo seri per un secondo, fulminandolo con un’occhiataccia che sembrasse almeno lontanamente minacciosa.
- Secondo te? -
Con un impercettibile cenno della testa, indicai in direzione dell’ufficio, mentre la durezza sul viso lasciava ancora una volta il passo ad un sorriso furbetto.
- Ho capito, vai… - Rosario scosse la testa, e cedette anche lui alla sghignazzata.
- Mai un attimo di pace. - aggiunse Marco, guardando con disprezzo il suo strumento di lavoro.
Lui si appoggiò con il gomito sul pianale della fresa, io al mobiletto dove prima aveva lasciato i guanti, e Rosario con la spalla alla parete. Un mesto sospiro si levò all’unisono.
- Che giornata è, Rosario? - gli chiesi, giusto per spezzare lo stallo.
- Di merda. -
- Ecco, appunto. -
Fece per allontanarsi, ma poi, con un rinnovato sorrisetto, parve ripensarci.
- Ieri ero di là a lavorare ad un quadro… - iniziò a raccontare, sollevando la nostra attenzione. - A un certo punto mi sono girato e me la sono trovata lì, davanti agli occhi, che doveva chiedermi una cosa. Fate conto che fosse a un metro… - indicò con un gesto della mano.
Trasse un lungo respiro, durante il quale sembrò indeciso sulle parole. - Dio, avevo il fuoco dentro! -
L’ultima frase ci fece esplodere in un’altra risata, fragorosa ma con un velo di timidezza.
- E ci credo! - gli rispose Marco, prima di afferrare uno dei guanti e usarlo per schiaffeggiarlo. - “I Fantastici 4”, e tu potresti fare l’Uomo Torcia! -
Un movimento scorto in lontananza portò improvvisamente l’austerità sul mio volto, e un barlume di incanto negli occhi.
Mi voltai rapidamente verso Marco e lo richiamai all’ordine con un lieve colpo sul braccio. - Oh, zitto… -
Seguendo la traiettoria del mio sguardo, notò dalla parte opposta del magazzino, una figura che appena uscita dall’ufficio, si dirigeva verso di noi.
- Arriva… - mormorai.
Sentii Marco rifilare una pacca sulla spalla a Rosario. - Ci vediamo dopo, “uomo lampo”. -
- Uomo lupo. - lo corresse.
- Uomo lompo, semmai. - conclusi io.
L’elettricista si congedò, lasciandoci a fissare l’orizzonte, in attesa di lei.
- Voi due sempre a chiacchierare, eh? - ci riprese con tono scherzoso, appena ci raggiunse.
Io e Marco ci scambiammo divertiti un’occhiata d’intesa, mentre lei continuava a fissarci.
- E tu che ci fai da queste parti? - le rispose Marco, utilizzando uno strano falsetto per evidenziare l’eccezionalità dell’avvenimento. - Non dovresti essere in ufficio, a stretto contatto con i Grandi Capi? -
- Cretino… - replicò scandendo bene ogni sillaba. Poi indicò me. - E lui, allora? -
- Ma lui può stare qui quanto vuole, è un bravo ragazzo. -
- E io no? -
- Dipende dalla giornata. -
Lei inclinò la testa, arricciando le labbra.
- Non mettere il broncio, dai. Lo sai che ti vogliamo bene. - recuperò Marco, mutando di nuovo la voce in una più impostata e profonda.
- Avevi bisogno di noi? - intervenni, mettendo fine al simpatico battibecco.
- In realtà no, avevo bisogno di Filippo. Mi deve controllare un ordine prima che chiami il corriere e lo possa spedire. -
- Ok… -
E come prese la via dell’ala ovest della ditta, i nostri sguardi non poterono trattenersi dall’ammirare quella perfezione geofisica, quell’opera scultorea che avrebbe fatto impallidire i grandi rinascimentali. In fondo, ciò su cui cade l’occhio di ogni uomo sulla faccia della Terra, quando ha davanti a sé una ragazza che si allontana.
- Lo so io cosa le controllerei… - commentò laconico Marco, riprendendo i guanti e preparandosi per la fresa.
Mi girai verso di lui, con il fiato mozzato per metà. - Abbiamo da arrivare alle cinque, Mark. Non cominciamo subito di prima mattina. -
Lui soffocò una risata e scosse il capo, mentre riaccendeva la macchina. - Accidenti… vai, vai. -
Tornai a guardarla a distanza, e ripensai con una nota di inquietudine a quanto si sprecassero le battute su di lei, ogni volta che io e Marco capitavamo sull’argomento. E stava succedendo sempre più spesso.



Sinceramente? Mi aveva colpito fin dalla prima volta che l'avevo vista, sin dal primo giorno in cui avevo messo piede dentro l’azienda.
Azzurra, l'impiegata addetta alle spedizioni.
Appena avevo innocentemente incrociato i suoi occhi, di un morbido e delizioso color nocciola, qualcosa dentro di me ci si era irrimediabilmente perso.
E da allora, ogni mattina quella parte di me si abbandonava e si lasciava cullare tra le onde del suo sorriso, dei suoi capelli, della sua voce.
Bella da far tremare i polmoni, dolce in maniera disarmante, simpatica e sempre pronta allo scherzo e alla risata, intelligente come poche.
Non poteva non diventare immediatamente il sogno, l'oggetto del desiderio di chiunque la conoscesse o venisse a contatto con lei, e nessuno, ripeto nessuno, di noi costituiva un'eccezione.
In un luogo come quello, che spesso appariva dimenticato anche dai santi, imbevuto di un clima di perenne tempesta, Azzurra non faticava a rappresentare uno dei rari raggi di luce che riusciva a spezzare il telo nero e opaco della fatica.
E cosa puoi fare, quando incontri qualcuno che incarna la perfezione?



Niente. Per l’ennesima volta, non riuscii a dirle nulla, una volta tornato in ufficio.
Mi sedetti alla mia misera scrivania, non prima però di averle scoccato un’occhiata di nascosto, un fugace momento in cui notai tutto ciò che si può notare in una ragazza.
Lei non mi degnò di uno sguardo, ma non potevo aspettarmi niente di diverso.
Non stavamo attraversando un gran momento.
C’era qualcosa, di qualunque cosa si trattasse, che si era intromesso tra noi e ci impediva di lavorare tranquillamente e con la mente sgombra.
Un paio di giorni prima eravamo arrivati persino a litigare, e da allora non avevo smesso di pensare a quell’episodio neanche per un secondo.
Ognuno con la testa distante in tutt’altri lidi, ci aveva portato allo scontro per ragioni che a entrambi doleva ammettere, ma che avevano mostrato per la prima volta, almeno a me, quanto in realtà fossimo simili.
Come uno spietato e imparziale giudice, la ragione era rimasta nel mezzo; avevamo tutti e due torto e non lo aveva nessuno.
Sentivo i minuti scorrere direttamente nel sangue, con il cuore a battere i rintocchi.
Un’impaziente attesa, di poterle parlare e di riuscire finalmente a vedere in maniera più nitida al di là di quella nebbia.
Invece mi alzai, e lasciai di nuovo l’ufficio.



Solo il cielo sapeva quanto avrei voluto avere le parole giuste, parole che non sarei mai riuscito a trovare, e che probabilmente aspettavano ancora di essere inventate.
Si meritava solo il meglio, e io non mi sentivo in grado di assicurarglielo in nessun modo.
Circa quaranta ore prima, durante la nostra discussione, avevo intravisto, per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, un elemento di disturbo nei suoi occhi.
Una luce ottenebrata, un’ombra che le andava a scurire quella rasserenante tonalità dell’iride, come un’eclisse di sole.
Ed io, incapace di rimediare allora come adesso, tormentato dall’incessante timore di non avere il potere di rimettere le cose al loro posto.



Tornai, come il viaggiatore ad un’oasi nel deserto in cerca di speranza, alla fresa di Marco, l’unico che conosceva questa storia.
- Non si va, Mark. - esordii con un tono sporcato da un orgoglio immalinconito.
- Ancora lei? - replicò, senza nemmeno alzare gli occhi dalla macchina.
- Già. -
- Cos’è successo oggi? Mi sembrava che… -
- Niente. - e in fondo era davvero così, non era successo niente quel giorno. Lei non mi aveva fatto niente, io non le avevo fatto niente, e nessuno dei due aveva detto niente all’altro. A malapena ci eravamo salutati all’ingresso.
Eppure, era come se, ad un livello più o meno profondo del nostro inconscio, stessimo facendo il possibile per evitarci.



Per quanto ancora avremmo potuto andare avanti così?


La considerai quasi un'intrusione inopportuna, quando Marco prese la parola interrompendo il mio ragionamento. - Non sono sicuro tu ci possa fare qualcosa. È così e basta. Cosa vuoi, che vi prenda le teste e ve le batta insieme? - avrebbe voluto farmi ridere, ma non ci riuscì.
Decisi comunque di finirla lì, forte soprattutto del fatto che non sapessi neanche più cosa dirgli.
Mi allontanai a testa bassa, ma dopo un paio di passi, mi rifiutai di proseguire e tornai da lui.
Sorprendentemente, un sorriso sincero mi si allargò sul viso. - Non ti pare che Azzurra stia diventando un argomento un po' troppo frequente? - lo provocai, forse senza neanche sapere io stesso dove volessi arrivare.
- Non è facile, lo so. - ammise, fermando la macchina. Si voltò verso di me e si puntò la testa con l'indice. - Pensa che io qui dentro me la porto spesso anche a casa! -
Accolsi quelle parole senza accettarle fino in fondo.
Non c'era alcun segno di rimorso o rimpianto in quella dichiarazione di colpevolezza, facendola invece sembrare come la cosa più giusta del mondo.
Una semplice risata andò a coprire la mia reazione, mentre mi domandavo perché non potesse davvero esserlo.
Gli voltai le spalle come non avevo mai fatto, e feci ritorno in ufficio.



Non credo fossero state veramente le parole di Marco, eppure c'era stato qualcosa in quello che aveva detto che, anche se mi pesava ammetterlo, mi aveva lasciato con l'amaro in bocca.
Non si trattava di gelosia, e questo come lo sapevo io lo sapeva anche lui. C'era sempre stato un solido codice di fratellanza tra di noi per quanto riguardava l'universo femminile, cosa che aveva raggiunto i limiti del grottesco quando, parlando di Azzurra, avevamo scommesso che uno avrebbe offerto una cena all'altro, in caso di "conquista".
Ed ero convinto, come lo sono tuttora, che valesse per entrambi l'intenzione di rispettare quella promessa.
E allora perché questa storia mi aveva instillato un fastidiosissimo tarlo nel cervello?



Quelle parole erano troppo scelte, troppo definite per essere state buttate lì a caso. Avevano un significato, e avevo bisogno di capirlo, prima che quel tarlo mutasse in qualcosa che non avrei voluto scoprire.
Un silenzio lungo ore si abbatté sulla nostra giornata, resa contemporaneamente serena e nebulosa da lei, Azzurra, inconsapevole e stupenda presenza.
Aspettai il rientro dalla pausa pranzo, per fermare Marco proprio sulla soglia e recuperare l'argomento.
- Dopo ci andiamo a bere qualcosa? - esordii tranquillamente.
9 volte su 10 avrebbe risposto di sì senza neanche pensarci, ma era evidente che quella non fosse destinata ad essere una giornata semplice.
- Volentieri, ma purtroppo devo portare mio figlio alla lezione di chitarra. -
- Subito alle cinque? -
- Inizia meno di un'ora dopo. -
- Bene, quindi ho solo adesso il tempo per farti una domanda. -
- Certo, spara. -
- Che significava quando mi hai detto... - e nello stesso istante in cui iniziai a pronunciare quelle parole, mi accorsi che in fondo non ne avevo realmente bisogno. Il problema non era quello che aveva detto.
- ... che "te la porti spesso anche a casa"? -
Marco aggrottò la fronte. - Intendi in testa? -
Annuii senza convinzione, ormai già consapevole di quale sarebbe stata la spiegazione.
E nonostante la risposta potesse pesare come un macigno, nella sua voce non lessi neanche una punta di malessere.
- Significa che la penso spesso, anche quando sono a casa. -
Quando si accorse che lo stavo fissando impassibile, riprese con un tono di voce più basso. - Anche quando dovrei essere con mia moglie, mi viene in mente lei. -
- Ma... in che senso... cioè... come? - balbettai.
Lui sembrò un po' spazientito, ma nient'affatto sorpreso dal mio intervento.
- Nel senso che io sono lì, non importa cosa sto facendo, e anche all’improvviso, mi viene da farmi dei film: mi chiedo “come sarebbe se lei adesso fosse qui con me” oppure “cosa farei se l’avessi tra le mie braccia”… -
Strinsi gli occhi e annuii in maniera impercettibile, domandandomi cosa dovessi rispondergli e soprattutto cosa dovessi pensare.



Il vuoto. Questo venne a formarsi nella mia testa nell'ora successiva. Un angolo di vuoto in cui facevo fatica a gettarci dentro pensieri su Azzurra, su Marco, o su tutte le storie che li stavano riguardando.
L’espressione sul mio viso dovette tradire qualcosa, perché quando rientrai in ufficio sbattendo la porta, lei se ne accorse e mi chiese immediatamente: - Tutto ok? -
Mi fermai al centro della stanza, infilandomi le mani nelle tasche e alzando lo sguardo al soffitto, soffermandomi su quel neon da sempre mal funzionante sopra la scrivania.
Era difficile persino guardarla negli occhi, senza sentire un sussulto dentro il petto. Trassi un lungo respiro. - Sì. -
- Sicuro? - l'occhiata inquisitoria e apprensiva che mi lanciò mi fece capire che aveva colto perfettamente l'ombra nella mia risposta.
- Sì, Azzurra, non ti preoccupare. -
Mentre, in realtà, ero io che mi stavo preoccupando.



- Non posso farci niente. Lei c'è, punto e basta. -
Tornammo a parlarne a metà pomeriggio, quando per una fortuita concatenazione di eventi il capo fu coinvolto in una riunione, lasciandoci campo libero.
E fu mentre lo ascoltavo, che compresi quanto Marco fosse a pezzi e nei guai.
- Sono proprio messo male! - esclamò scherzando, senza però accorgersi di quanto fosse effettivamente vero.
Tutti i tentativi di sdrammatizzare non avrebbero potuto sminuire l'importanza della questione.
In quel momento Marco era un uomo combattuto, che aveva dentro di sé due fazioni divise e impegnate in una sanguinosa campagna, dalla quale entrambe sarebbero uscite ferite e decimate.
Un demone che lo stava divorando dall'interno giorno dopo giorno, ogni volta che la vedeva.
Sembrava preso da Azzurra almeno quanto lo ero io, dovevo ammetterlo.
Venivo finalmente a scoprire i fantasmi, e ciò che realmente si nascondeva dietro le sempre più frequenti battute, talvolta anche pesanti, su di lei.
- È anche un periodo che con mia moglie le cose non stanno andando benissimo, a volte ci diciamo giusto due parole in croce... - Questo non migliorava certo la situazione, ma non capivo se stesse cercando di giustificarsi, oppure di farmi capire.
In ogni caso, io avevo capito benissimo.
Quel demone aveva il volto severo e ben definito della sua famiglia, di una moglie, dei figli, di un matrimonio che, nonostante fosse in crisi, durava da anni e che forse voleva ancora dire qualcosa.
Un matrimonio però che lui sembrava disposto adesso a mettere a repentaglio, per inseguire una Chimera, un sogno, un desiderio chiamato Azzurra.
- Non mi è mai accaduta un cosa del genere. Io non ho mai avuto altre donne all'infuori di mia moglie, da quando ci siamo sposati. - ora che si stava aprendo, il tormento interiore era sempre più evidente. - Ma sento di essere arrivato ad un punto di non ritorno, e Azzurra è stata la causa scatenante di tutto. La vedo tutti i giorni, ma ho continuamente l’impressione che non sia mai abbastanza. È come se avessi bisogno di lei in ogni momento. -
Annuii, ancora incapace di mettere insieme una frase intera.
Lui proseguì, chinando leggermente il capo. - La sola cosa che potrebbe bloccarmi... sono i miei figli. -
- Ma se avessi l’occasione… - dissi quelle parole a rallentatore, sapendo quanto fosse impervia la strada che stavo imboccando.
- Probabilmente… sì. Sì. -
- Sai perciò che lo faresti soltanto per te stesso. A questo punto io posso soltanto chiederti: ci tieni ancora al tuo matrimonio? -
- Certo, si tratta pur sempre di una forma di stabilità personale, di sapere che quando torno a casa c’è qualcuno che mi aspetta, che si prende cura di me, e qualcuno di cui devo essere io a prendermi cura. - fece una pausa recuperando fiato. - Ma non ho paura per il mio matrimonio. Niente di tutto questo mi fa paura. -
Raccontava tutto con estremo trasporto, senza minimamente preoccuparsi che fosse giusto o sbagliato. Non voleva saperlo, e probabilmente nemmeno gli interessava.
E io potevo solamente immaginare cosa stesse passando Marco, niente di più.
- E se decidessi veramente di fare il primo passo con Azzurra? - intervenni. - Senza dubbio, prima o poi, dovresti rivolgerti la famosa domanda “vado o sto?”. Rischiare di mandare tutto all’aria, o metterti l’anima in pace e continuare con la tua vita. -
- Neanche adesso ho l’anima in pace. -
- E riusciresti invece ad averla se… - esitai, non era facile per me dire una cosa del genere. - … se finissi per tradire tua moglie? Sapresti davvero tenere sotto controllo la tua coscienza? -
- Sì. -
Fu un “sì” sicuro, deciso, solenne. Di quelli che non potevi mettere in discussione.
Infatti non lo feci. - Allora… vai. -
Fu con quel sincero invito a buttarsi, a provarci, a fare ciò che secondo lui era più giusto, dando ascolto al cuore e al fegato piuttosto che al cervello, che mi congedai per tornare a lavoro.


O almeno fu quello che cercai di fare, senza tuttavia riuscirci.
Perché come passai accanto alla scrivania di Azzurra per raggiungere la mia, e gli occhi andarono inevitabilmente a posarsi su lei, una nuova scossa folgorò i miei tessuti.
Che fosse il delicato argomento appena affrontato con Marco, che fossero i problemi che stavo avendo con lei, o che fosse semplicemente il fatto che era e sarebbe rimasta per sempre nei miei pensieri, non aveva importanza.
Ciò che avvertii con certezza fu il desiderio di fare un ulteriore tentativo, prima di lasciare che le cose rischiassero di andare allo sfascio per tutti.
Tornai indietro e mi sporsi sopra la sua postazione, alla quale era impegnata a scrivere al computer. - Azzurra, puoi uscire un secondo? - le chiesi, trattenendomi dal farle sentire quanto fosse spezzata la mia voce.
- Non adesso, ho da fare. - Non ho idea in cosa fosse impegnata, ma la sua risposta ebbe l’effetto di gelarmi il sangue nelle vene e di renderlo acido come veleno.
Me ne andai e mi rimisi seduto a fissare lo schermo, lo sguardo perso tra le miriadi di icone colorate.
E come lasciai la mente riprendere a vagare come un’entità indipendente, questa fu in grado da sola di rimettere a posto tutti i pezzi del puzzle, e di farmi finalmente comprendere cos’era che mi stava disturbando così tanto.
Si trattava di una delle emozioni alla base di ogni essere umano, capace talvolta di guidarci attraverso comportamenti che non crederemmo nemmeno possibili.
Un nucleo che aveva ripreso a pulsare appena Marco aveva deciso di farmi sapere quanto fosse interessato ad Azzurra, e cosa avesse intenzione di fare per lei.
Un impulso che si era poi ricollegato al mio rapporto complicato con Azzurra, alle nostre ostilità, alle nostre discussioni, agli sguardi che le lanciavo di nascosto, ai miei tormenti interiori.
Non era gelosia. Non era amore. Era paura.
Paura che potesse essersi rovinato qualcosa che, col destino a favore, anche a costo di dover attendere un’altra vita, avrebbe potuto essere meraviglioso.
E allora mi vennero in mente le sfere di Natale, quelle con il paesaggio in miniatura e la neve dentro.
Un bellissimo manufatto da ammirare per il suo contenuto, così ordinato e preciso nei dettagli, un ideale e solido appiglio a cui rifarsi nel momento del bisogno; ma allo stesso tempo, se lo si gira facendo scendere la neve, un momento in cui lasciarsi cullare dai propri sentimenti, senza dover pensare ad altro, se non a quei candidi e morbidi fiocchi che vanno a coprire le palazzine di plastica.
Paura che il sottile vetro di quella sfera, esattamente come il legame tra me e Azzurra, potesse essersi incrinato in maniera irreparabile, impedendole così di mantenere all’interno ciò che di bello conteneva, e finendo per renderla un oggetto completamente inutile.
Io non ero innamorato di Azzurra meno di quanto lo fosse Marco.
Ma nonostante tutto, per quanto mi addolorasse ammetterlo, se c’era qualcuno che alla fine della giornata poteva sperare di avere una possibilità, anche una su un milione, con Azzurra, quello era proprio lui.
Mi voltai di nuovo verso la sua scrivania e la guardai come fosse per l’ultima volta.



Avrei voluto evitare di coinvolgerti in questa spirale di nevrosi e disarmonia che ci avvolge dall’inizio alla fine della giornata.
Avrei voluto regalarti un sorriso ogni mattina.
Avrei voluto farti capire quanto significasse per me anche solo la tua presenza, seduta a pochi metri da me.
Avrei voluto avere la possibilità di guardarti veramente negli occhi, e non di dovermi accontentare di fuggevoli sguardi sottratti alla tua attenzione.
Avrei voluto che il nostro luogo di lavoro assomigliasse a quei sereni paesini coperti dalla neve nelle sfere di Natale.
Avrei voluto farti capire quanto tu fossi speciale per me, e quanto valesse ogni singolo istante trascorso in tua compagnia.
Avrei voluto farti sapere quanto fossi innamorato di te, ma non ci riuscirò, perché c’è chi è disposto a mettere a repentaglio anche il suo matrimonio, pur di averti.



Siamo esseri umani e abbiamo tante, troppe debolezze.
Siamo nati con due occhi per apprezzare le cose che ci circondano, e destinati a conoscere persone che fanno nascere in noi feeling chimico, mentale e fisico.
Purtroppo la crudeltà vuole che sia proprio innamorarsi la parte più difficile.
Vediamo quella persona come la luce in fondo al tunnel, che ci fa sentire bene e fa sembrare tutto più bello.
Una luce però talmente abbagliante che ci impedisce ogni volta di accorgerci come la vera sfida sia mantenere il controllo.
Perché, nel caso di Marco, è come essere stretti tra due fuochi. Sai che prima o poi sei destinato a bruciarti dall’uno o dall’altro.
Il problema più grande, che forse è anche quello più semplice, è che nel momento in cui pensi di bruciarti, anche se non vuoi, ti sei già ustionato.



Dopo che l’assordante sirena ebbe proclamato la fine della nostra giornata, intercettai Marco al parcheggio, dov’era intento a lasciare lo zaino sul sedile posteriore della sua auto.
- Marco! - gridai, fermandolo con la portiera in mano.
Fu sufficiente un’occhiata da lontano, per fargli intendere di cosa volessi parlargli.
- Devo scappare. - mi fece, appena lo raggiunsi.
- Lo so. - annunciai lapidario.



Avevo deciso di puntare il mio personale euro su Marco… e poi non sarebbe rimasto altro che tifare per lui.


Avevo solo un consiglio da dargli prima di lasciarlo andare.
Semplice, ma così carico di significati che sperai riuscisse a coglierli tutti in tempo.
- Non fare cazzate, Mark. -





Angolo dell'autore:
Tengo a precisare che questo racconto trae ispirazione da fatti realmente accaduti, anche se, come si suol dire, "ogni riferimento a cosa, persona o luogo citato è puramente casuale e non vincolante".
Ringrazio tutti coloro che hanno dedicato il loro prezioso tempo a questa storia.
Voglio inoltre rendervi partecipi di un altro progetto legato alla ragazza, Azzurra, di cui avete appena letto.
Si tratta di una one-shot dedicata a lei, davvero molto importante per me.

 

 
   
 
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