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Autore: Ayepandayay    30/11/2015    3 recensioni
Tutta la terra ormai si è riunita in una sola zolla chiamata Elex.
Elex è divisa in quattro grandi regioni abitate da quattro tribù, ognuna con i propri motivi per odiare le altre.
Ma quando una forza superiore decide di manifestarsi ed abbattersi su tutti, le tribù realizzano di dover collaborare stavolta, se vogliono sopravvivere; sei ragazzi si ritrovano così ad affrontare un nemico che non è solo più potente, ma anche più intelligente di quanto immaginino.
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rainbow of Blood

 

[A questo capitolo è stata apportata qualche modifica, quindi se volete, potete… non so rileggerlo.]

 

“… L’erede non morirà

E se un giorno il suo sangue sarà versato

Dal sangue e dalle luci risorgerà

E le luci dei non caduti spegnerà per sempre.”

 

La ragazzina lesse per l’ennesima volta quella frase sul proprio ciondolo d’argento. Lo faceva per calmarsi –anche se ciò che vi era inciso non era esattamente rassicurante- e per un attimo ci riusciva, ma ripiombava quasi subito nel terrore. Si rannicchiò dietro al grande bidone dell’immondizia, sperando che tenesse fino alla fine della battaglia; ovviamente sapeva che una cosa del genere sarebbe stata molto improbabile, ma ci sperava comunque. Ed ecco infatti che vide una pallina nera cadere sul bidone; si portò velocemente le mani davanti occhi, e tutto ciò che l’aveva protetta fino a quel momento andò distrutto con un brutale “boom”.

Scostò le mani dalla faccia e con un rapido gesto si portò qualche ciocca di capelli castani e scompigliati dietro alle orecchie. Si alzò sulle gambe tremanti e corse più che poté verso un imprecisato luogo che non fosse tanto pericoloso; sapeva che lì comunque non sarebbe mai stata davvero al sicuro, quindi decise di superare tutti quegli edifici alti e neri che stavano cadendo a pezzi, e raggiungere la zona di confine tra la regione in cui si trovava e quella a nord. Ogni tanto scrutava il cielo grigio, controllando che non arrivassero altre palline-distruttrici. Suo padre detestava che lei chiamasse in quel modo quelle armi micidiali: secondo lui sminuiva la loro potenza. Dal canto suo, lei pensava che neanche “mine tascabili” fosse granché come nome, ma la Società Armante aveva deciso di chiamarle così, e nessuno contestava mai una decisione di quella grande organizzazione, e ora ne capiva il perché: non c’era un singolo oggetto in quel paesaggio che non fosse stato prodotto da essa. Dalle mine di varie dimensioni il cui suono si ripeteva senza fine, ai fucili con pallottole radioattive e i carri metallici di diversa grandezza che fluttuavano a cinque centimetri dal terreno, gli Holvux. Anche la mitragliatrice al laser costruita apposta per lei, ovviamente, era stata prodotta da quella società. Peccato che avesse perso l’arma appena qualche ora dopo l’inizio della battaglia…

 

Riuscì a superare il grande cancello di ferro battuto che simboleggiava l’entrata della città, venendo poi travolta da una ventina di uomini in divisa marrone; essi erano talmente focalizzati sulla battaglia da non accorgersi di lei: infatti, mentre marciavano, la colpirono diverse volte senza neanche rendersene conto. Le doleva tutto il corpo, ed era sempre più convinta che di lì a poco sarebbe crollata a terra. Nonostante tutto era contenta di aver mangiato tanto indefiniti giorni prima, almeno la fame non sarebbe stata la causa della propria morte. Non quella principale almeno. Era fortunata dopotutto, pensò. Il padre l’aveva fatta ingozzare, ma solo perché il giorno successivo sarebbe dovuta andare a combattere. Lei però non voleva farlo.

«Stiamo per andare in battaglia contro coloro che credono di essere più intelligenti di noi» le aveva detto mentre muoveva velocemente le dita sulla tastiera del computer sulle proprie ginocchia «e tu hai già tredici anni. Combatterai in prima linea, insieme a me e ai tuoi… fratelli.»

Poi l’aveva guardata negli occhi per avere una conferma, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un impercettibile movimento del capo. La ragazzina aveva il presentimento che egli non fosse abituato alla disobbedienza.

 

A un certo punto intravide una cosa che non avrebbe mai pensato di rivedere: una fonte d’acqua. Allora si fece coraggio e aumentò la velocità, e finì quasi per inciampare in un sasso.

«Fiume…» sussurrò con voce rauca quando ne fu ormai a pochi passi. Si diede un’ultima spinta in avanti e ficcò la testa completamente nell’acqua. Prima una sensazione di gelo… poi semplicemente di freschezza e sollievo. Riemerse alcuni secondi dopo, riprendendo a respirare.

Si rese conto solo in quel momento che l’odore di piombo e morte che c’era nella grande città era stato sostituito da quello dell’aria. Beh, in realtà l’aria non aveva nessun odore, ma era cento volte migliore dell’odore della sofferenza. E poi, i suoni. Com’era possibile che all’esterno di una città in guerra si udisse solo lo scroscio del fiume e il cinguettare degli uccelli sul ramo di un albero? Era tutto così irreale!

La ragazzina allora prese la borraccia che l’aveva tenuta in vita per qualche giorno e cominciò a riempirla con l’acqua del fiume. Inspirò profondamente… ma prima che potesse espirare, sentì qualcosa di grosso schiantarsi contro la propria nuca. Provò a urlare, ma tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu un rantolio che udì a malapena lei stessa. Ebbe appena il tempo di girarsi e fu colpita alla tempia destra da un sasso. Il terzo colpo fu molto più forte degli altri due precedenti, e il sasso si schiantò contro l’esatto centro della fronte. L’ultima cosa che la ragazzina vide fu un’uniforme bianca, immacolata, solo le maniche sporche di sangue.

 

«Ne sei sicura, Jeanne?» chiese Robert Gryphos per l’ennesima volta.

«Sì papà, ne sono assolutamente sicura.» rispose la figlia senza battere ciglio. Era buffo come suo padre, un uomo grande e grosso soprannominato “L’inflessibile Robert” si facesse minuscolo quando lei prendeva una decisione. Ma dopotutto era sempre sua figlia, e proprio come lui, quando si metteva qualcosa in testa, nulla le faceva cambiare idea.

«Va bene.» sospirò l’uomo tirando su col naso «Ma se non tornerai tutta intera, io…»

«Non preoccuparti.» lo rassicurò incurvando le labbra in un sorriso «E poi se non lo farò io, chi proteggerà Brian?» sussurrò divertita, mettendo un braccio attorno alle spalle del proprio ragazzo.

«Guarda che ti ho sentita.» le fece notare il diretto interessato, rifilandole un’occhiataccia attraverso i sottili occhiali appoggiati sul naso.

«E allora? È la verità!» ribatté la ragazza, dandogli una pacca sulla spalla che lo fece quasi cadere, dato il suo fisico tanto esile.

Robert rise. Per un attimo fu come se tutto fosse tornato normale, come se non stesse per mandare la propria figlia in battaglia.

Poi si avvicinò a Jeanne e le baciò la fronte. «Sei l’orgoglio degli Orsi.» le sussurrò, per poi lasciarla andare. La ragazza annuì, legò i lunghi capelli lisci e castani in un’alta coda, dopodiché balzò sull’Holvux insieme a Brian e altri sei ragazzi della sua età e partì per la città in cui si stava svolgendo la battaglia.

«Papà, Jeanne tornerà, vero?» chiese il piccolo Thomas a Robert. Aveva solo otto anni, ma sembrava davvero troppo rilassato, data la situazione in cui si trovavano. Era abituato a vedere la sorella alzarsi la mattina presto per andare a caccia o ad allenarsi, e per lui quella era solo una sorta di prova per dimostrare che quell’allenamento era servito a qualcosa. Doveva essere così, perché era ciò che Jeanne gli aveva detto con il suo solito sorriso, e le iridi castane che brillavano dall’emozione. Perché quella era emozione, vero?

«Certo che tornerà, Tommy.» gli rispose nel tono di voce più calmo possibile, anche se dentro di sé sapeva che nessuno sarebbe mai stato al sicuro in un territorio di guerra. Ed era ancora meno sicuro combattere contro una delle Tribù Nere. Forse non avrebbe dovuto neanche accennare alla battaglia… ma ormai era già troppo tardi.  «Non per niente ha preso da me.» cercò di sorridere, e posò con poca grazia una mano sulla spalla del bambino, facendolo tentennare, ma togliendola subito dopo a causa del solletico che gli provocavano i capelli non tanto corti di Thomas.

«Già.» bisbigliò il figlio, continuando a fissare con sguardo assente gli Holvux che partivano «Ha preso da te.»

Era vero, pensarono entrambi: Jeanne era la versione femminile del padre, tanto testarda quanto coraggiosa e combattiva. Eppure il senso di colpa cresceva a dismisura nell’uomo, sempre più preoccupato per la svolta che avrebbero potuto prendere gli avvenimenti.

 

Ormai si era fatta sera, e l’uomo non era riuscito a cenare per la preoccupazione. Si sentiva in colpa; cos’avrebbe fatto la moglie? Lei non parlava molto, ma quando lo faceva, sapeva sempre cosa dire. Stufo di starsene seduto in casa a farsi divorare dall’ansia e dalla preoccupazione, Robert decise di uscire dalla grande casa di pietra lavica per andare a fare quattro passi. Camminava con passo pesante mentre si accarezzava la lunga barba scura e faceva ricadere le grosse mani sull’altrettanto grossa pancia. Giunto al fiume, decise di sedersi a terra per continuare a tormentarsi ancora un po’.

«È tutta colpa mia.» disse tra sé e sé, coprendosi il volto con le mani. «Ma cosa avrei potuto fare per fermarla?»

“Qualcosa. Qualsiasi cosa, ma un padre che ci tiene almeno un po’ a una figlia avrebbe trovato un modo per fermarla.” Le parole di rimprovero della propria coscienza lo colpivano come lame affilate, ma avevano dannatamente ragione. L’aveva praticamente mandata a morire. Ovviamente si fidava di lei, sapeva che fosse la migliore in allenamento, ma… sapeva anche che la battaglia vera e propria è tutta un’altra cosa.

«Ho ucciso mia figlia… la mia bambina…» sussurrò, e le lacrime stavano per vincere contro la sua determinazione.

Posò lo sguardo sull’acqua, quell’elemento ritenuto tanto malvagio dalla sua tribù, e la sua attenzione fu attirata da qualcosa che galleggiava vicino alla riva.

Non qualcosa, qualcuno. Un corpo… un cadavere. L’uomo trasalì, e cercò di avvicinarsi il più possibile al corpo senza toccare l’acqua. Riuscì ad afferrarlo per i piedi e trascinarlo fino a terra, lasciando sulle pietre una scia di sangue.

L’uomo avvicinò le dita al polso del cadavere e spalancò gli occhi: anche se pochissimo, il battito c’era. Chiunque quella persona fosse, era ancora viva. La prese in spalla senza neanche controllare chi fosse e corse verso la propria casa; spalancò la porta con un calcio e poggiò il corpo sul tavolo della cucina. I figli, udendo tutto quel trambusto si precipitarono nella stanza. Arabelle, la terzogenita, corse alla porta per chiuderla, e cominciò a borbottare su quanto fosse sbagliato andare in giro di sera per poi tornare a casa tardi e svegliare tutti in malo modo. Poi però si accorse del corpo sanguinante sul tavolo e se non ci fosse stato Julian -il primogenito- a tapparle la bocca, avrebbe cominciato a strillare in tono isterico. Non che il sangue o i cadaveri le facessero impressione, semplicemente le dava tremendamente fastidio avere una cosa del genere in casa, sul tavolo dove ogni giorno preparava da mangiare.

Dopo diversi attimi di esitazione, la ragazzina si avvicinò lentamente al corpo sul tavolo: anche se aveva solo tredici anni e poteva apparire facilmente impressionabile, conosceva le arti mediche meglio della maggioranza degli Orsi. Difficilmente veniva associata a Jeanne: anche se facevano parte della stessa tribù ed erano sorelle, non si assomigliavano più di quanto un Orso non ne assomigliasse a un altro. Arabelle infatti aveva i tratti del viso meno marcati rispetto a quelli di Jeanne, ed era decisamente più minuta. Spesso si trovava a pensare che fosse normale dubitare della loro parentela: la sorella maggiore era una specie di guerriera nata, orgoglio del padre e di tutta la tribù, mentre lei era la sorellina carina e seria che aspirava a diventare un ottimo medico. Pensava che fossero un bel duo, dopotutto.

La prima cosa che la ragazzina fece quando diede una prima occhiata al corpo fu produrre un verso meravigliato. Sul tavolo era sdraiata una ragazzina circa della sua età dalla pelle pallidissima e i capelli castani e corti. Espirò lentamente, passandole le mani sul viso. Raggiunta la fronte, percepì in qualche modo che c’era qualcosa che proprio non andava; solo una persona con un tatto sensibile come il suo sarebbe potuta accorgersene: il cranio non era “lineare”, ma aveva un solco non troppo profondo proprio al centro della fronte. Delicatamente la girò a pancia sotto e scostò i capelli nel punto in cui erano più intrisi di sangue –o almeno quello che rimaneva del sangue, perché l’acqua ne aveva sciacquato via gran parte. Per un momento un’espressione turbata apparve sul volto della giovane Gryphos: sulla nuca c’era un solco molto più evidente. Sapeva che tutti in quella stanza attendevano che dicesse qualcosa, che li mandasse da qualcuno, o da qualche parte a prendere qualsiasi cosa, ma niente. Si sentiva impotente, e anche se sapeva benissimo di non poter fare nulla per ciò che aveva davanti, era così frustrante la consapevolezza di essere inutile.

«Penso sia meglio portarla in ospedale.» disse seccamente continuando a fissare il corpo.

«Non puoi fare niente?» azzardò a chiedere Julian. Sapeva anche lui quanto desse fastidio alla sorella non poter medicare qualcuno, eppure non poté nascondere il proprio stupore. Si passò una mano tra i capelli castani a scodella non appena la sorellina lo fulminò con lo sguardo: lo faceva sempre quando qualcuno lo guardava storto, e ciò succedeva piuttosto spesso.

«No.» rispose Arabelle scuotendo impercettibilmente la testa «Se si trattasse solo di quasi-annegamento, riuscirei senz’altro a fare qualcosa…» indicò il sangue sulla nuca «ma sono quasi sicura che sia successo qualcosa al cervello.» alzò lo sguardo sul padre «Non so come faccia a essere viva.»

Dopo un istante di esitazione, Robert prese nuovamente il corpo della ragazzina in spalla e si diresse verso l’ospedale seguito dai tre figli. Anche in quel momento di preoccupazione generale sia per Jeanne sia per il quasi-cadavere, Arabelle borbottò qualcosa sulla camminata sgraziata del padre, che in realtà voleva solo allungare il passo. Thomas rise per la prima volta in quella che sembrava una lunghissima, disperatissima giornata, mentre Julian li osservava con espressione neutra, chiedendosi se la sorella sapesse solo urlare e borbottare, se il fratellino stesse capendo effettivamente cosa stesse succedendo, e soprattutto perché lui stesso sembrasse quello meno preoccupato di tutta quella faccenda. Boh, si rispose, e ripose quelle tre domande nella parte della propria mente dove vi erano tutte le milioni di domande cui si era risposto “boh”. Anche il suo cervello era troppo pigro per rispondere a tutte quelle domande. Magari ci avrebbe dormito un po’ su, e in un paio di anni sarebbe giunto a delle risposte.

 

«Arabelle aveva ragione» annunciò il medico «la ragazzina ha una commozione celebrale davvero molto grave. Dev’essere operata subito.» continuò con tono grave.

«Oh.» fu tutto ciò che riuscì a dire Robert. Si lasciò cadere su una sedia del corridoio e lentamente riprese fiato. «Non è qualcuno della nostra tribù, vero?» chiese, tenendo a malapena aperti i piccoli occhi castani.

«Non saprei dirle, signore.» rispose il medico con una nota di preoccupazione nella voce «I capelli sono castani, ma la pelle… è pallida.»

«Un’ibrida?» domandò allora l’uomo chiudendo gli occhi, arreso alla stanchezza.

«Forse, signore.» rispose un’infermiera appena uscita dalla sala dove tenevano la ragazzina. «Vede, lei è troppo bassa.»

«Capiremo a quale tribù appartiene quando aprirà gli occhi.» intervenne Julian «Certo, se avesse anche gli occhi azzurri sarebbe un problema bello grosso, no?» sollevò un angolo della bocca, ma nessuno sembrò trovare divertente la sua battuta. O quella che sarebbe dovuta essere una battuta.

«In realtà non ci sarebbe bisogno di aspettare. Sarà già stato fatto il controllo delle pupille… no?» la giovane Gryphos si voltò verso l’infermiera senza battere ciglio.

«Sì…» annuì la donna, ma con una smorfia di incertezza «…ma la pupilla non c’è.» scosse la testa quando notò la confusione sui volti dei Gryphos. «Intendevo dire… che c’è, ma l’iride non si vede, è come trasparente.»

Lo stupore non diminuì, persino Arabelle guardò l’infermiera con cipiglio. Thomas invece sembrava più che altro incantato a guardare il braccialetto metallico della donna che tintinnava insistentemente mentre lei gesticolava.

«Un’altra cosa che non aiuta a riconoscere la tribù di appartenenza è l’uniforme…» continuò la donna.

«Perché? Di che colore è?» chiese Robert, cercando di scacciare il pensiero di una ragazzina tredicenne come sua figlia che combatte contro una delle Tribù Nere. L’infermiera alzò un sopracciglio, sorpresa dal fatto che l’uomo non l’avesse notato da sé.

«Bianca.» la precedette Arabelle «L’uniforme era bianca.»

 

Le ore passavano, dottori e infermieri entravano e uscivano dalla sala della ragazzina, ma nessuno diceva nulla. L’atmosfera si era fatta pesante nella sala d’attesa: Thomas si era ammutolito e continuava a fissare la bianca luce al neon che sembrava svuotargli la mente, come se facesse evaporare ogni suo pensiero; Arabelle aveva lo sguardo fisso sulle proprie unghie curate, ma stava pensando a tutto tranne che a esse. A quale tribù apparteneva quella ragazzina? Cosa avrebbero fatto se fossero riusciti a guarirla? E in caso contrario? E se suo padre avesse trovato Jeanne invece che la ragazzina? A volte detestava il proprio pensare troppo. Avrebbe voluto essere un po’ più istintiva, spericolata… un po’ più come la sorella maggiore, insomma.

Robert Gryphos invece era sull’orlo di una crisi di nervi. Doveva essere molto tardi, perché cominciava ad avvertire la stanchezza, ma non riusciva a rilassarsi; aveva gli occhi spalancati e fissi sulla porta della sala operatoria. Ogni tanto sospirava mentre immagini di battaglie cruente scorrevano nella sua mente come se fossero un parte di un documentario. Come potevano permettere a dei bambini di combattere? E come aveva potuto mandare lui stesso la propria figlia in battaglia? “Un capotribù non può andare in battaglia, salvo che la battaglia in sé non si svolga sul suo territorio.” Questa era una delle leggi del Codice delle Tribù –l’unico libro di leggi che le quattro tribù avessero in comune. Robert continuava a ripetersela per autoconvincersi di aver fatto la cosa giusta: aveva seguito il Codice restando nel villaggio e aveva rispettato la decisione della propria figlia; ma ovviamente non era per niente semplice. La colpa sarebbe stata solo e unicamente sua se le fosse accaduto qualcosa.

L’unico che sembrava stare tranquillo era Julian: anche lui stava fissando le luci al neon come Thomas, ma teneva le palpebre semichiuse per il sonno. In realtà il ragazzo era solamente bravo a nascondere la preoccupazione, ma anch’egli si faceva delle domande; non era mai andato particolarmente d’accordo con Jeanne perché l’uno era l’opposto dell’altra, ma era sua sorella, dopotutto. Aveva sempre detestato le battaglie, le guerre, i combattimenti, perché portavano inevitabilmente al dolore fisico e psicologico. Perché le persone non potevano accontentarsi delle parole? Il ragazzo sbuffò, pensando a quanti conflitti si sarebbero potuti risolvere senza la violenza. Ma ricchezza e potere erano ciò che aveva fatto andare avanti il mondo sin dai tempi più remoti, e le utopie di un ragazzo potevano restare soltanto tali.

 

Si era fatto giorno ormai, e l’intera famiglia Gryphos si era addormentata nella sala d’aspetto. L’orologio da parete in metallo segnava le otto, e l’ospedale era immerso nel più completo silenzio. Ma non appena la lancetta dei secondi si trovò perfettamente tra l’uno e il due del numero dodici dell’orologio, un’infermiera spalancò la porta della sala in cui si trovava la ragazzina quasi-morta.

Il primo a svegliarsi fu Robert, che balzò in piedi seguito da Arabelle, Tommy e infine Julian.

«È sveglia!» esclamò la donna, con gli occhi che le brillavano dall’entusiasmo. Tutti sembrarono rilassarsi leggermente.

«Possiamo entrare?» chiese Arabelle con tono serio, guardando l’infermiera dritto negli occhi.

«Sì» annuì la donna «ma uno alla volta. Non vogliamo che si stanchi troppo.»

«Certamente.» concordò Robert, e senza esitare fece il suo ingresso nella sala operatoria con gli sguardi dei tre figli fissi su di lui.

 

Si chiuse la porta alle spalle, consapevole del fatto che i figli lo stessero comunque osservando attraverso le fessure della finestra interna. Subito cercò qualcosa da dire, ma si rese conto che in quel momento doveva tirar fuori la propria parte razionale e scoprire prima di tutto la tribù alla quale apparteneva la ragazzina. Posò lo sguardo su di lei, che a sua volta lo stava osservando in silenzio. Spalancò gli occhi.

«Tu non puoi essere reale!» esclamò. Chi diavolo era quella ragazzina? E perché proprio a lui doveva capitare di trovare un quasi-cadavere del genere?

«Oh, sì che lo sono!» protestò lei in risposta «Che c’è, sono troppo bella per essere vera?» alzò le sopracciglia e sbattè le palpebre un paio di volte. Che lo stesse prendendo in giro?

«Ragazzina…» l’uomo mosse un passo verso di lei, e si chiese se magari non avesse avuto un approccio sbagliato. Dopotutto era solo una bambina. «come ti chiami?» le chiese quindi in modo più gentile.

«Io…» la ragazzina alzò la testa e contrasse la bocca per così formare una smorfia pensierosa, poi riportò lo sguardo sull’uomo «non lo so. Non me lo ricordo. Non ricordo niente… solo l’acqua.» si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi.

«Signore, la prego di non farla sforzare troppo.» intervenne l’infermiera di poco prima «Il cervello è comunque stato colpito, è normale che non si ricordi.»

«Mi scusi.» l’uomo alzò le spalle «Ma potrà recuperare la memoria, un giorno?» chiese.

«È improbabile.» la donna strinse le labbra «Decisamente improbabile.»

«Bene!» esclamò allora la ragazzina «Questo significa che ora ho una nuova vita, che bello!» cominciò a parlare velocemente, piena di entusiasmo «Allora, qui qualcuno deve spiegarmi tante cose. Dove sono? Cosa sta succedendo?» si guardò intorno «E perché diavolo tutti mi guardate come se fossi un’aliena?»

«Ottime domande.» mormorò Julian divertito dalla finestra, ma fu subito zittito da un’occhiataccia della sorella.

«Vedi…» Robert si sedette accanto alla ragazzina «Questa è una grande zolla di terra chiamata Elex. È divisa in quattro regioni: a est c’è Woox, abitata dalla tribù delle Volpi Argute; a sud Oceax, dove hanno dimora i Leoni Fieri; a ovest Towx, dove al momento si stanno affrontando le Pantere Sapienti e i Topi Inventori.» l’uomo fece una pausa, dopodiché spiegò orgogliosamente «E infine al nord ci siamo noi, gli Orsi Audaci di Mounx

«Siete poco fissati con le x, insomma.» commentò lei sarcasticamente, alzando gli occhi al cielo. Ricevette subito un’occhiataccia di rimprovero dall’infermiera, quindi sospirò pesantemente, provocando una risata di Julian.

«E ora passiamo al motivo per il quale siamo tutti così spaventati da te.» continuò Robert puntando il proprio sguardo severo sulla ragazzina.

«Spaventati?» lei alzò un sopracciglio «Oh, andiamo, non mi sembra di avere un’aura tanto minacciosa.»

«Non hai per niente un’aura minacciosa.» le rispose stavolta Arabelle in tono serio. Sembrava piuttosto annoiata da quella conversazione. Il comportamento di quella bambina la irritava in un modo pazzesco, quasi anormale. L’avevano salvata, non avrebbe potuto almeno ringraziarli?

«Ogni tribù ha delle caratteristiche fisiche ben precise.» Robert Gryphos continuò a spiegare imperterrito, senza farsi distrarre dai commenti altrui. «Le Volpi sono basse, con occhi verdi e capelli rossi; i Leoni alti, con occhi azzurri e capelli biondi; le Pantere e i Topi hanno una pelle estremamente pallida, capelli e occhi neri. Noi Orsi invece abbiamo la pelle olivastra, occhi e capelli castani.»

La ragazzina spalancò gli occhi, forse un po’ confusa da tutte quelle informazioni che le venivano inculcate in un colpo solo. Le ci vollero un paio di secondi per realizzare il tutto, poi ebbe l’inspiegabile sicurezza che non avrebbe mai dimenticato neanche una parola.

«Quindi tutte le persone di una stessa tribù sono uguali?» chiese con una smorfia. «Che cos’è questa, Stereotipolandia?»

Julian scoppiò a ridere, e stavolta anche Arabelle si unì a lui. In effetti anche lei aveva spesso pensato alle diversità fisiche delle tribù come a divisioni in base a stereotipi. A pensarci bene, quando le avevano detto che nelle Volpi c’erano sicuramente i migliori medici di Elex, si era sentita discriminata: perché un Orso non poteva essere un buon medico quanto una Volpe? Questo significava che anche con tutto l’impegno, non sarebbe mai stata all’altezza dell’altra tribù? Gli altri Orsi forse non ci pensavano più di tanto perché seguivano davvero lo stereotipo dei cacciatori che si affibbiava loro, ma a lei non stava bene. Ma che cosa avrebbe potuto fare o dire? Chiunque le avrebbe risposto che tutto ciò era per mantenere l’ordine tra le tribù o cose del genere… quale sarebbe stato il senso di ribellarsi a quel punto? Alla gente andava bene così, ed anche lei doveva accettarlo.

«Per questo noi non riusciamo proprio a capire a quale tribù tu appartenga.» disse infine l’uomo. Continuò a fissare la strana ragazzina finché lei non capì di dover dire qualcosa.

Si alzò dal lettino con esitazione e fece qualche passo verso lo specchio verticale che si trovava accanto ad un armadietto bianco. Guardò la ragazzina dalla pelle olivastra fuori che doveva avere all’incirca la sua età, e costatò di essere davvero bassa rispetto a lei. Bassa come una Volpe. La sua pelle era davvero pallida come quella di una Pantera o di un Topo, ma i capelli corti e ricci erano castani come quelli di un Orso. E poi c’erano gli occhi, grandi e azzurri come quelli di un Leone.

Guardando meglio, però, i capelli non erano solo castani: qualche ciocca era bianco-argentata, e per quanto sembrasse irreale, era sicura che fosse sempre stata così.

«Ho delle ciocche bianche.» fece quindi notare, avvertendo una nota di involontario orgoglio nella propria voce. Eppure lei non poteva dirsi “orgogliosa”, anzi, quelle ciocche le sembravano soltanto un particolare bizzarro in più.

«Beh, magari hai dei gusti un po’ strani in fatto di capelli.» suggerì Julian, ma fu come se non avesse mai parlato.

Robert Gryphos invece sembrava sorpreso dall’affermazione della ragazzina, quasi spaventato. Poi scosse la testa e assunse di nuovo la sua solita aria autoritaria. Lentamente si alzò dal lettino e si avvicinò alla strana ragazzina, rivolgendole uno sguardo complice.

«Beh, siccome dovrai restare con noi, mi sembra opportuno assegnarti un nome. Ma poiché hai perso completamente la memoria… che ne dici di sceglierne uno tu? Non so quanti nomi tu conosca, ma scegline uno, inventalo pure se vuoi.» e sorrise per la prima volta da quando era partita la figlia maggiore.

«Un nome, eh?» la ragazzina lo fissò, e improvvisamente la sua mente fu piena di elementi relativi alla parola “nome”.

 

«Helen, resisti!» l’urlo disperato di un uomo la fece sobbalzare, seguito da altre urla disumane di una donna «Ci sei quasi!» continuava a ripetere lui, ma le urla di lei non diminuivano. La ragazzina sarebbe voluta tornare alla sala d’ospedale, e provò una sensazione che riconobbe come “terrore”. Anche se non vedeva le persone che stavano urlando e cosa effettivamente stessero facendo, era terrorizzata all’idea che qualcuno stesse facendo del male a quella donna, anche se era la prima volta che udiva la sua voce.

Ci fu un ultimo urlo straziante e disumano, poi il silenzio. «Ce l’hai fatta!» esclamò l’uomo, stavolta con una voce colma di felicità. La donna invece si limitò a respirare pesantemente, e infine disse solo con una voce bassa e affannata:

«Dobbiamo darle un nome.»

 

La ragazzina sbattè le palpebre e si ritrovò nella sala d’ospedale con tutti che la fissavano. Era come se non avesse mai avuto quella specie di flashback, come se non fosse passato neanche un secondo da quando Robert le aveva chiesto di darsi un nome.

«Helen.» disse lei con una voce quasi metallica «Voglio chiamarmi Helen.»

«Molto bene, Helen.» il signor Gryphos si alzò e le sorrise amichevolmente «Benvenuta nella famiglia Gryphos.»

Arabelle spalancò gli occhi, mentre Julian e Thomas si batterono il cinque, entusiasti del nuovo membro della famiglia.

«Grazie…» sussurrò la ragazzina. Improvvisamente, però, si sentì incredibilmente stanca e spossata; le si annebbiò la vista, e l’ultima cosa che udì prima di perdere i sensi fu il sibilo stizzito di Arabelle che aveva tutta l’intenzione di rimproverare il padre per quella decisione.

 

Due anni dopo

 

«Migliaia di anni fa esistevano centinaia di zolle di terra separate le une dalle altre; ma in circa cento anni –un periodo brevissimo- tutte queste zolle si avvicinarono sempre di più, fino a scontrarsi. Inutile dire che lo scontro causò una serie di fenomeni naturali catastrofici, che misero a repentaglio la sopravvivenza stessa della razza umana. Ma una volta terminati i fenomeni naturali, i terrestri sopravvissuti fondarono delle tribù e ripopolarono l’unica enorme zolla di terra che si era formata.» affermò Thomas Gryphos gesticolando.

«Molto bene, Tommy.» Helen annuì mentre faceva scorrere lo sguardo sulle parole scritte sul libro di storia del fratellino. Poi arricciò il naso «Ma non hai dimenticato qualcosa?» e alzò la testa, attendendo una risposta. Il bambino scosse la testa, confuso, così lei gli chiese: «Come fecero le persone a sopravvivere?»

«Ehm…» il bambino esitò, poi rispose «gli astronomi dell’epoca trovarono un pianeta esattamente uguale alla Terra che si trovava oltre il Sole. La distanza di quel pianeta dal Sole era addirittura uguale a quella tra la Terra e il Sole stesso! Così, mandarono delle persone in una navicella su questo pianeta, che chiamarono Terra 2.0.» e qui il bambino si fermò per cercare di ricordarsi altro, mentre la sorella borbottava qualcosa sulla fantasia degli scienziati per aver chiamato un pianeta uguale alla Terra in quel modo. «Le persone vissero qualche secolo sulla Terra 2.0., e una volta terminati i fenomeni naturali sul loro pianeta d’origine, vi tornarono.» terminò con un sorriso soddisfatto.

«Bravissimo!» esclamò Helen, anch’ella soddisfatta «Domani prenderai sicuramente un bel voto!»

«Lo spero.» mormorò Thomas «A proposito, come sapevi che l’insegnante ci ha spiegato la sopravvivenza sulla Terra 2.0.?» alzò un sopracciglio.

«Beh, c’è scritto sul…» la ragazza abbassò lo sguardo sul libro per cercare il paragrafo sulla Terra 2.0., ma non trovò nulla. Possibile che se lo fosse immaginata?

Il bambino alzò un sopracciglio, confuso. Ormai vedeva Helen come una sorella, ma certe volte non poteva fare a meno di pensare che fosse davvero strana, e non solo per l’aspetto fisico. Poi scosse la testa e chiuse il libro di storia che la ragazzina aveva poggiato a terra; non amava particolarmente quella materia, ma doveva comunque studiarla non solo per prendere buoni voti, ma soprattutto per essere di maggiore aiuto alla tribù. Infatti, sembrava che si potesse apprendere molto dallo studio degli antichi metodi di caccia e battaglia, arti in cui gli Orsi eccellevano.

Vedendo il suo gesto, la ragazzina capì che la sua presenza non era più tanto necessaria, così salutò il bambino con un rapido gesto della mano e uscì dalla sua stanza.

Le era sempre piaciuta la camera di Tommy: era piccola ma accogliente, gioiosa e perlopiù occupata da piccoli quadri e libri di insetti, la sua grande passione. Anche se era di cinque anni più piccolo di lei, lo ammirava tanto, perché aveva un sogno e in un modo o nell’altro aveva intenzione di realizzarlo.

Helen percorse il lungo corridoio che portava allo studio di Robert Gryphos: non vi entrava spesso perché non voleva disturbare l’uomo, ma soprattutto perché vi erano una dozzina di armature e armi da collezione che sembravano quasi vive. La prima volta che l’aveva visitato, Arabelle –allora molto più robusta di lei- aveva provato a tenere in mano un’ascia apparentemente leggera, ma aveva dovuto posarla subito, perché se non l’avesse fatto probabilmente le si sarebbe staccato il braccio.

Quel giorno, però, Helen aveva intenzione di chiedere a Robert di poter partecipare alla gara cittadina di canto: ciò non sarebbe stato un problema se, una volta vinta anche la gara regionale non si fosse passata a quella nazionale. E “gara nazionale” significava competere con le altre tribù, tra cui quella dei Leoni, imbattuta da anni. La figlia del capotribù, inoltre, aveva vinto la gara nazionale dell’anno precedente, e si vociferava che volesse partecipare nuovamente. La ragazzina sapeva quanto Robert detestasse il capo dei Leoni, e non voleva deluderlo o, peggio ancora, farlo sfigurare.

La ragazzina aprì la porta della stanza e vi entrò silenziosamente. Cercò l’uomo con lo sguardo, ma sembrava che non fosse lì. Le uniche persone presenti in quello studio erano lei… e Jeanne.

La ragazza era girata di spalle e impugnava una lancia: sembrava che si stesse allenando a maneggiarla, ed evidentemente lo stava facendo da un po’ di tempo, perché stava sudando. La ragazzina restò per un po’ a osservare in assoluto silenzio la sorella: la maglia rossa e aderente faceva notare chiaramente i muscoli delle braccia, mentre l’espressione contratta dalla concentrazione metteva ancora più in evidenza la cicatrice verticale al lato sinistro della bocca. Oggettivamente non sapeva se Jeanne fosse una bella ragazza o meno, ma non aveva mai visto nessuno risultare tanto affascinante mentre maneggiava una lancia contro il nulla.

Allora fece un passo in avanti per osservarla meglio, ma la ragazza la udì, si voltò velocemente e le puntò la lancia alla gola. La ragazzina s’immobilizzò, aspettando un segnale della sorella per potersi muovere.

«Che ci fai qui?» chiese Jeanne con tono freddo e minaccioso.

«Io stavo… cercando…» si morse il labbro prima di pronunciare quella parola «…papà.»

Come previsto, la ragazza le lanciò un’occhiataccia: sebbene gli altri Gryphos –e anche qualche Orso- avessero accettato Helen come membro della famiglia, la sorella maggiore la mal sopportava. La vedeva come una nemica, un’estranea in casa propria, l’ultima persona che sarebbe dovuta stare lì. A detta di Arabelle, prima della battaglia della Città Nera (così in seguito era stata chiamata), Jeanne era una persona completamente diversa. Ma durante quella battaglia era successo qualcosa che l’aveva davvero scossa, e da allora non riusciva a fidarsi di nessuno che non fosse della sua tribù.

«Mio padre» disse, spostando la lancia dalla gola della ragazzina «è uscito. È andato nella sala del consiglio per una riunione.» spiegò, continuando a guardare storto la ragazzina. «Sicuramente ti starai chiedendo perché non sono con lui.» la ragazzina annuì appena, anche se quella era l’ultima cosa che si stesse chiedendo «Beh, ha portato Julian con sé. È lui il maggiore, dopotutto.» sbuffò «Ma è un incapace. Cosa ne può capire lui di ciò che dicono lì dentro?»

E dopo essersi sorbita un quarto d’ora di lamentele di Jeanne, Helen lasciò lo studio e camminò intontita fino alla propria camera, dove scivolò immediatamente nel letto.

 

«Bene Julian, sei stato davvero bravo.» si congratulò Robert Gryphos con il figlio.

«Grazie papà…» il ragazzo tentò di sorridere, ma era terribilmente annoiato. «…ma non ho fatto nulla. Ho solo annuito e detto di essere d’accordo.» ancora non capiva perché proprio lui dovesse partecipare a quel genere di cose. Se il padre non poteva portare Jeanne, sarebbe stato meglio non portare nessuno.

«Beh, la tua opinione vale, quindi hai fatto bene a dire di essere d’accordo.» l’uomo sospirò «Ah, però adesso le cose si fanno difficili.»

«Personalmente non credo che funzionerà» commentò il ragazzo «ma almeno proviamoci.»

«Oh, coraggio ragazzo, sii più ottimista!» esclamò il padre dandogli una gomitata che lo fece quasi cadere. «E così la prossima tappa è la Città Neutra, eh?» ridacchiò «È dal Trattato del Cambio dei Nomi di due anni fa che non ci andiamo.»

Anche il figlio ridacchiò: il “Trattato del Cambio dei Nomi”? Aveva sempre pensato che fosse un nome piuttosto stupido per un trattato.

«Il Trattato del Cambio dei Nomi…» sospirò «devo ancora capirne il senso.»

«Te l’avrò detto almeno un centinaio di volte.» borbottò il padre mentre si sedeva su una panchina di fronte all’edificio consiliare «Il nome di ogni tribù è stato cambiato come segno di umiltà e rispetto reciproco.»

«Capisco.» il ragazzo si sedette accanto al padre e soffocò una risata –tutto ciò era davvero ridicolo. «Quindi mi stai dicendo che cambiare l’aggettivo al nome di una tribù fa automaticamente cambiare anche la mentalità delle persone?»

«No, Julian…» l’uomo scosse la testa, consapevole che il figlio avesse ragione. «Cambiare il nostro nome da “Orsi Coraggiosi” a “Orsi Bruti”, non ci rende meno coraggiosi, ma non fa neanche in modo che le altre tribù ci vedano come più o meno bruti di prima della battaglia. Semplicemente, invece di un nome che accentui i nostri pregi, ne abbiamo uno che accentua i nostri difetti, tutto qui.»

«A questo ci ero arrivato anch’io.» sbuffò il figlio.

«Serve… a mostrare il nostro dispiacere.» mormorò l’uomo, insicuro delle parole che pronunciava «Per dire “È colpa di questi nostri difetti se sono morte tutte queste persone.”»

«Seriamente?» Julian alzò un sopracciglio, incredulo. Doveva essere davvero la centesima volta che il padre glielo diceva, ma lui ancora non riusciva a credere che i capi delle tribù –tra i quali anche Robert- pensassero che un cambio di aggettivi potesse fare qualche differenza. I morti restavano morti, non c’era niente da fare.

Il padre gli rivolse uno sguardo confuso, come se avesse appena detto qualcosa di inconcepibile. Poi sospirò e annuì appena, quanto bastava per convincere se stesso, ma non abbastanza per soddisfare il figlio.

«Pensi che non ci saranno più guerre in questo modo?» chiese il figlio a bassa voce, come se si vergognasse di ciò che stava domandando al padre: non voleva che fraintendesse le sue domande, di certo lui non stava criticando il suo modo di amministrare e governare Elex. Voleva semplicemente un suo sincero parere.

«Non posso assicurarlo, no.» borbottò l’uomo «Ma m’impegnerò personalmente affinché non ce ne siano più. Anche se…» alzò lo sguardo per ammirare il grande edificio consiliare in tutta la sua altezza «…non ci sarò sempre io come capotribù degli Orsi. Il mio successore potrebbe dichiarare guerra ai Leoni, per esempio.»

«Già.» concordò Julian. «Come le Pantere si sono ribellate ai Topi, così anche noi potremmo ribellarci ai Leoni.» il padre annuì, ma non convinto, il figlio aggiunse: «Ma la nostra situazione è diversa: le Pantere si sono ribellate ai Topi perché essi le sfruttavano e sottopagavano, prendendosi i meriti e i diritti delle loro opere. Noi di cosa dovremmo lamentarci, del fatto che i Leoni ci prendano in giro perché siamo meno “raffinati” di loro?» scrollò le spalle, e un abbozzo di sorriso sarcastico apparve sulle sue labbra. «Anzi, credo che la nostra parte di “ribellione” l’abbiamo già avuta. Dopotutto abbiamo combattuto al fianco delle Pantere contro i Leoni alleati con i Topi. In un modo o nell’altro ci siamo affrontati. E la vittoria è stata nostra.»

Anche se Julian non si definiva esattamente un “Orso modello”, non poteva negare di aver avvertito una certa soddisfazione nel pronunciare l’ultima frase. In fondo sapeva che i combattenti della propria tribù erano i più abili di tutta Elex, e ancora più in fondo era fiero di ciò.

Molto, molto in fondo era fiero di essere un Orso.

Ancora più fiero era Robert Gryphos, che lo guardava con gli occhi pieni di speranza e un sorriso di quelli che ti scaldano il cuore anche se sei nel bel mezzo di una tormenta di neve. Mise affettuosamente la propria mano sinistra sulla testa del figlio e gli scompigliò i capelli. Lo faceva di rado, ma sempre con lo stesso affetto e, talvolta, orgoglio. Non riusciva a capacitarsi del fatto che il ragazzo sottovalutasse tanto le proprie capacità: certo, non era un guerriero, o un cacciatore esperto come Jeanne, ma aveva altre qualità straordinarie delle quali non si accorgeva.

«Cosa credi che diranno gli altri capitribù?» chiese il ragazzo guardando il padre negli occhi, riferendosi alla conversazione che stavano avendo appena dopo esser usciti dalla sala consiliare.

«Non lo so.» ammise l’uomo. «È una questione davvero delicata…» fece scivolare la propria mano dal capo del figlio alla spalla «… se accettassero, non esisterebbero più le quattro regioni di Elex. Esisterebbe solo Elex.»

 

Angolino Autrice

Ciao a tutti! Ho deciso di cominciare a pubblicare questa originale... da un giorno all'altro mi è venuta questa idea e... adesso ecco qui il prologo (anche se lo sto scrivendo da agosto...).

Comunque! Spero che vi sia piaciuto, e ci terrei molto a sapere cosa ne pensate, sarei molto felice se lasciaste una recensione. E poi è la prima storia con più capitoli che m'impegnerò davvero a continuare e non cancellerò, quindi mi piacerebbe davvero sapere se piace(?).

Vi ringrazio di aver letto questo prologo, e mi cimenterò al più presto con il primo capitolo. Alla prossima.

 

-Ayepandayay.

   
 
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