T u t t o è u n a t u a c r e a z i o n e ;
Urlerò nei miei sogni il tuo nome, scriverò le tue poesie,
così ogni cosa parlerà di te.
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La corda — il laccio, il filo rosso — ci congiungeva in un tornante scombinato e argenteo; l’inizio di questo amore aveva le rose e i fiori di pesco, gli aghi di pino dolcemente immersi nella pelle che pareva vetro. L’amore possedeva una canzone dedicata a noi, qualificata da quelle sue parole impenetrabili che attiravano il nostro interesse; le frasi attorcigliate sminuivano in un coro forestale, e una voce a cui avresti dovuto prestare attenzione s’innalza ancora. Tutto ritorna concreto sull’orlo della fine del sogno, al termine del componimento ritmico, e ogni dettaglio compare adesso organico e tangibile, tranne te. Non c’è da soffrire, tuttavia: nell’evo passato in cui si viveva, quando l’estate e le farfalle erano una tua creazione, Gin, quando si rideva e si scherzava, la corda bianca appariva greve sul palmo emaciato e le falangi sottili: il tessuto uniforme pesava sul cuore. Ora, invece…
Chiudi gli occhi, non ti muovere, perché voglio avvicinarmi al tuo viso e svelarti un segreto: a me, la nostra materiale congiuntura non era mai piaciuta. Preferivo le poesie volate in cielo, scappate dalla tua bocca, oppure le occhiate lattee evase dalla felice maschera. Esistevo, io, per il legame astratto tra di noi, per i tasti monocromatici che avrei voluto vederti toccare, perché con quelle dita il ruolo di pianista ti sarebbe stato d’incanto. Magari saresti stato chiamato “compositore” per un ruolo importante in un lungometraggio senza voce che narrava di una tragedia in estate, di una storia di lucciole che si portavano con loro un ragazzo di età troppo acerbo, di una notte calda e di una corda bianca. Del pianoforte, però, tu avresti imparato i tasti candidi del colore dei tuoi capelli, quelli neri li avresti dovuti lasciare a me, così saresti rimasto incontaminato.
Non c’è bisogno di piangere, tuttavia: Gin, tu sei con me. Perché le stelle le vedo, il vento lo sento, la terra la tocco, e il sapore delle tue labbra lo ricordo. Tu sei qui, grazie a me e grazie a te; grazie alla fine che doveva arrivare dopo l’inizio e che mi ha allacciato al sottobosco profumato, facendomi incidere il tuo nome con lo sguardo, così che quando gli spiriti della sera arrivano, lo portano in un posto lontano, urlando, e tutto il mondo sa di te.
Ascoltami, non distrarti, il mio segreto non è ancora completo: sai, Gin, una volta ho provato a gettare via i ricordi della zuccherata dolcezza di un cocomero maturo, delle camminate infinite e della luna brillante, provando a fare spazio solo al tuo viso e alla corda bianca tanto odiata. L’ho fatto perché, dopotutto, la indosso ancora. Al polso, essa odora di frutta e d’incenso, odora di neve e delle lacrime versate per il desiderio d’incrociarti sull’erba mai sfoltita. Le ho buttate in un angolo, queste mie memorie, ho inspirato e le ho viste spiccare il volo: ho guardato dove andavano, dove conducevano il mio braccio e il mio corpo intero. Poi ho sorriso, le ho riprese, sussurrando loro queste parole, e le ho lasciate andare, arrendendomi al fatto che erano tue e capendo che correvano da te.
Ambivano d’oltrepassare l’inizio dell’infatuazione.
Le strade sterrate dell’affezione.
La trasformazione in desiderio.
La fine dell’amore e del tuo tocco, giungendo al limite del confine.
Saltando, entusiaste — sono sicura — sono precipitate nella tua mano e sul bordo dell’inizio di qualcosa di nuovo, di un frammento di vita che ora affronto senza di te. Non c’è bisogno di dirci addio, tuttavia, perché, Gin, all’inizio della corda bianca c’ero io, e io ci sono ancora. Io che un “ti amo” non te l’ho mai detto, ma che te lo posso dire adesso. Alla fine di essa, tu non vivi. Te qui non sussisti perché sei molto di più; sei al di là del limite, giaci tra gli incantesimi di purezza che non mi possono raggiungere, tra le stesse rose e i fiori di pesco, le lucciole e l’estate, le nuvole e il cielo, la pellicola muta e le canzoni d’amore. Ma non ho niente da invidiare a loro, perché io, volendo, volo più in alto, direttamente nel tuo abbraccio.
«Gin?»
«Hotaru?»
«Lo vuoi sapere un segreto?»
«Dimmi».
«Ti amo».