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Autore: SpenteStelle    06/12/2015    3 recensioni
E allora sentì che un’ infinità di tempo prima, in quel luogo, era stato amato. In un modo disperato, struggente, immenso, spezzato. In quel luogo, era stato cullato. Era stato abbracciato. Era stato felice.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL DONO DELL'ALBERO



Il giovane principe viveva sereno nel grande castello. Era in quel tempo breve della vita in cui l’infanzia sta per cedere il posto all’adolescenza ma il dono dell’innocenza non è ancora stato sottratto; e così quello della semplice, pura, limpida gioia di essere al mondo. Le sue giornate scorrevano lievi, tra le piccole e dolci cose che amava. Amava imparare le arti della spada e della lancia,che erano ancora un bellissimo gioco privo di crudeltà. Amava esplorare da solo i luoghi più misteriosi del castello e nell’ombra fresca delle cantine, lungo i passaggi desueti, attraverso le soffitte dimenticate, vivere immaginarie imprese e fantastiche avventure. Amava le ore di studio, sapere dei grandi del passato e delle imprese dell'uomo. Amava imparare a leggere e a scrivere, apprendere parole nuove. Scorrere lo sguardo su un manoscritto che fino a ieri era un insieme di simboli indecifrabili e incontrarvi, tra tanti, un vocabolo che conosceva era come aggirarsi in una folla, confuso e un po' smarrito, e improvvisamente riconoscere un volto amico.

Amava le mappe delle terre conosciute, che gli aprivano nuovi mondi e nuovi sogni. Amava i grandi libri dalle rilegature pesanti custoditi sullo scaffale più alto e i mondi che racchiudevano, i titoli dorati che promettevano meraviglie e i disegni sgargianti all'interno delle lettere miniate all’inizio dei capitoli, così piccoli eppure così ricchi di minuscoli dettagli e di vita che potevi guardarli fino a perdertici dentro. Amava i grandi racconti di avventura e i cicli di leggende, e quando la nutrice o il maestro, come premio, gliene leggevano delle pagine, i suoi occhi brillavano mentre ascoltava le gesta dei valorosi cavalieri senza macchia e senza paura.

Ma soprattutto amava il momento in cui, una volta a settimana, l'istitutore svolgeva sul tavolo le mappe della volta celeste. Erano grandi cartigli polverosi ed un po' sbiaditi dal tempo, ingialliti e in alcuni punti strappati lungo i margini, dove erano stati toccate da dita di molte generazioni ormai inghiottite dalle ombre scure del tempo. Eppure, ogni volta, che venivano aperti, davanti a lui si schiudeva l'incanto. Cessavano di esistere il tavolo massiccio, i muri coperti di arazzi: nella stanza, davanti ai suoi occhi si spalancava il firmamento, l'universo che lasciava senza fiato, l'infinito stupore. Nelle notti in cui il cielo era più limpido, saliva da solo sulla cima della torre più alta. Nella quiete immobile della notte, mentre tutto il regno, fino al confine lontano delle montagne, era avvolto nel sonno, alzava lo sguardo all'immenso splendore della Via Lattea che attraversava la volta celeste da parte a parte come uno strascico di luce. Rimaneva a lungo a contemplare quella silente meraviglia, lasciando che gli occhi e il cuore si colmassero di bellezza, fino a provare un senso di vertigine, uno sgomento inquietante e piacevole allo stesso tempo. Poi cercava nel cielo i nomi che aveva imparato sulle mappe, le costellazioni che stava imparando a conoscere. Quella è Aldebaran, sussurrava tra sè il giovane principe; e quella Vega. E poi Lupo, la Fanciulla, la Sentinella... e man mano che sapeva dare loro un nome era come se smettessero di essere puntini di luce infinitamente lontani e gli diventassero amiche.


E amava il dono bellissimo che aveva ricevuto il giorno del suo decimo compleanno, e da allora non era più uscito un momento dalla sua vita e i suoi pensieri: un cavallo tutto suo, non grande ma di aspetto nobile e fiero come quello dei cavalieri, eppure così mite e gentile da sembrare una creatura fatata, dal manto talmente candido che era stato come se il suo nome, il nome che il giovane principe gli aveva dato, in realtà fosse giunto insieme a lui: Luce del Mattino.

Così, lieve, scorreva la vita. Le mattinate erano dedicate alle lezioni, ma i pomeriggi del giovane principe appartenevano a lui solo. Quasi sempre li trascorreva con Luce del Mattino, soprattutto da quando, da qualche tempo, aveva il permesso di cavalcare da solo a lungo, anche fuori dalle mura del castello. Così passava lunghe ore felici percorrendo i possedimenti immensi del Reame, le stradine ben tenute, le ordinate distese di campi coltivati. Ma, più di tutto, il giovane era attratto dai boschi. La varietà di alberi, alcuni severi e cupi, quasi minacciosi, altri lievi e colmi di delicata grazia, degni del più prezioso dei giardini. I fiori, di mille fogge e colori diversi. Il semplice dono, a volte, di piccoli frutti selvatici, umili, spesso minuscoli e asprigni, ma che a lui sembravano più deliziosi della frutta sopraffina e ricercata servita al Castello. I piccoli animali, che lo riempivano di incantata sorpresa e mai avrebbbe pensato di cacciare od uccidere.


E fu così che, un giorno, il giovane principe giunse all’albero del sonno.


Luce del Mattino non era un cavallo recalcitrante, né pauroso; sembrava offrirsi alla vita con la stessa fiducia gioiosa e senza ombre del giovane Principe. Ma in quel pomeriggio di inizio estate, sulla soglia di una piccola radura, senza alcun motivo apparente Luce del Mattino si fermò.

Al centro sorgeva un unico albero isolato, in nulla diverso da mille altri.

Non sapeva, il giovane principe, che aveva appena trovato l’albero più inquietante del bosco, quello dalla fama più sinistra. Si raccontava infatti che nel profondo della foresta vi fosse un albero particolare, alto ed imponente, immobile come ogni suo simile ma pericoloso come una fiera in fredda attesa; perchè dotato del malvagio, oscuro potere di far cadere chiunque entrasse sotto l’ombra dei suoi rami in un sonno profondo e senza più risveglio, molto simile alla morte.


Ma le voci esagerano sempre, le leggende sono storie per spaventare i bambini. Ben altre paure conoscerai, e in ben altre oscurità ti porteranno i tuoi passi; ma ora non lo sai e allora shhh!, non fare rumore; che non abbiano a destarsi i i folletti sotto i mobili.
O forse no: forse, alle voci credono anche gli uomini. Perchè è più facile affrontare la paura del mostro dalle due teste in agguato nel bosco, raccontato, fuori e lontano, che quella della spada che davvero, qui e adesso, ti può strappare la vita. Perchè a volte un paura finta, costruita, distrae lo sguardo e il pensiero da quella vera.
E allora le voci nascono e crescono, strisciano e corrono. Di un sassolino la paura fa un masso, e l’ignoranza completa il lavoro rendendolo montagna.

Così in realtà l’albero non era né particolarmente grande, né lugubre nell'aspetto, o sinistro. E soprattutto, non era malvagio. Anzi, il suo animo era delicato e gentile. Possedeva realmente il potere del sonno, ma era un dono non richiesto; qualcosa che gli era stato dato così come altri alberi ricevono dalla sorte foglie ombrose e ristoratrici, o frutti gradevoli o disgustosi, o fiori il cui languido effluvio attira le farfalle
Quel pomeriggio il giovane principe era accaldato per la lunga cavalcata sotto il sole di inizio estate e anche un po’ stanco, di quella stanchezza quasi piacevole, propria solo di chi è molto giovane, che è soltanto del corpo e un’ora di sonno ristoratore è sufficiente a soffiar via. Così smontò da cavallo, si avvicinò all'albero e, come sempre sereno e senza ombre sul cuore, abbassando il capo entrò nell’ombra fresca dei rami. Sedette a terra, la schiena appoggiata al tronco. La verde volta di foglie si dispiegava sopra di lui e arrivava fin quasi a terra, come un tendaggio appena mosso dalla brezza che lo animava di un sussurro appena percepibile. L’erba era fine e morbida come un tappeto; silenziosamente invitava a sraiarvisi, al riposo, all'abbandono fiducioso delle membra e del cuore. Il giovane principe si distese, un braccio ripiegato sotto la testa, gli occhi socchiusi che si colmavano dolcemente dei giochi di luce dei raggi di sole attraverso il verde scuro delle foglie che stormivano appena al vento
E, quasi subito, si addormentò.


E dormì.

Dormì per settimane, mesi.

Anni.


L’albero amava il giovane principe. Era giunto a lui come un dono inaspettato, in quella parte della vita in cui si stava ormai rassegnando che i suoi vecchi rami non portassero più fiori. E, a poco a poco, era diventato il suo fiore.
L’albero amava quella piccola vita dischiusa da poco, tenera e delicata; quel bocciolo che si era appena aperto al sole ed era ancora così pieno di incanto e stupore per ogni cosa, così puro e senza macchia. Lo commuoveva saperla così fragile ed effimera, miracolosa nella sua perfezione e capace di mille cose, eppure così disperatamente vulnerabile, come ogni vita umana. E per la prima volta l’albero, forte e saldo nel terreno e resistente alle tempeste ben più della maggior parte degli uomini, ma condannato dal suo genere all'immobilità ed alla solitudine, sentiva che gli era stato affidato un dono speciale. Il dono della responsabilità. Di qualcosa di cui prendersi cura. Di qualcosa da proteggere.

E davvero lo desiderava, proteggerlo. Proteggerlo dai passaggi difficili, dalle persone che gli avrebbero fatto del male; dai momenti che lo avrebbero ferito, piegato, spezzato. Come un padre lo avrebbe voluto proteggere dai pericoli della vita, dalle insidie che avrebbe incontrato, dai tranelli che gli sarebbero stati tesi; come una madre lo avrebbe voluto cullare in un abbraccio trattenuto, lieve per non fargli male... Un abbraccio di quelli che si sentono appena, poco più che due corpi che si sfiorano quel tanto che basta per sentire il calore della persona amata. Sapere che esiste, che è lì. Che c’è. Quasi nulla; ma un meraviglioso nulla che basta per sentirsi felice.
Come una madre avrebbe voluto crescerlo, fantasticava a volte il vecchio albero, nei lunghi pomeriggi d'estate, mentre le nuvole correvano veloci in un cielo di lapislazzuli. E gioire nel vederlo farsi ogni giorno un po’ più grande e un po’ più forte, anche se quella gioia sarebbe stata sempre attraversata dal filo scuro di un dolore antico. Una gemma limpida tagliata da una vena diversa, cupa, opaca alla luce. Perché crescendo si sarebbe allontanato; e ogni suo passo lo avrebbe avvicinato un po’ di più alla soglia che un giorno avrebbe varcato per non tornare più. E come una madre, poi, si sarebbe consumato in un pianto silenzioso e senza lacrime, invisibile al mondo, quando lui infine se ne fosse andato per la sua strada, dimenticandosi di lei; e da quel giorno avrebbe vissuto del dolce veleno del rimpianto.
Poi si riscuoteva da quei pensieri e si sentiva così tristemente goffo e ridicolo; così patetico. Perchè ciò che tanto desiderava non era né nella sua natura, né alla sua portata.
Perché era solo un albero. L’albero del sonno.


Così, di tanti doni meravigliosi che avrebbe voluto offrirgli, gli diede il solo che l’ordine del mondo gli aveva concesso. Ma quell’unico omaggio volle renderlo speciale, rivestirlo con tutta la premura e la tenerezza di cui era capace. Per questo, solo per amore, gli donò l’oblio del più dolce e sereno dei sonni, popolato di sogni mille volte più belli della realtà che neanche il più fortunato degli uomini mortali avrebbe mai potuto vivere ad occhi aperti. E, insieme al sonno, costruì intorno a lui una bolla davanti a cui persino il tempo si sarebbe dovuto fermare, non avrebbe mai potuto sfiorarlo con il suo fiato gelido. E gli donò una perpetua, immutevole, intatta infanzia.


Riesci a vederlo? Da molto tempo il giovane principe giace addormentato ai piedi del gande albero. Lentamente radici sono cresciute a cingerlo come un abbraccio, ed una gli sostiene il capo. In primavera l’erba intorno a lui si colora di fiori: i primi bucaneve, pionieri cauti e stupiti, i crochi, tra la neve a chiazze, e i timidi nontiscordardimè, che lo guardano incantati; e poi il profluvio di colori, la festa della primavera, l'esplosione di vita dell'estate. Fiordalisi e pervinche, come riflessi frantumati del blu del cielo. Distese di margherite sono il suo tappeto, petali di rose di bosco portate dal vento la sua coperta. Senti il codirosso e gli usignoli? Cantano per lui, perché non si senta mai solo. Non temere per lui, per la sua vita. Non ha fame ne’ sete, il giovane principe, perché l’albero lo nutre con la sua linfa, i suoi succhi sono il suo sangue. Non ha freddo, il giovane principe, perché il vento fa un giro più lungo per evitarlo; e se entra sotto la cupola verde dei rami lo fa solo nei lunghi pomeriggi d'estate, perchè non debba soffrire il caldo; e il suo tocco, allora, è delicato e dolce, come una carezza. D’inverno la neve cade più lieve e non è fredda, lo ricopre come una coltre soffice e leggera, immacolata come il suo cuore. Il suo sonno è dolce e senza peso, i suoi pensieri sono sogni, i sogni terre incantate.


I pensieri del giovane principe scorrono nella linfa del grande albero, i sogni del principe sono i suoi sogni.
Ma a volte qualcosa di estraneo si affaccia nel cuore del giovane principe: un turbamento che non appartiene più al mondo dell’infanzia ma ad un' età successiva e più inquieta, scura; un terrore che arriva da altri luoghi del tempo e della vita. In quei momenti l'albero e il principe non sono soli, nella radura. C'è un’ombra cupa ferma, in attesa, poco oltre la cerchia protettiva dei rami del grande albero. L’albero riesce a scorgerla, a volte, in certe nelle notti luminose e fredde, quando ogni cosa è immobile e silenziosa e anche gli animali tacciono, restano nelle loro tane intimoriti da qualcosa che non si vede con gli occhi ma si percepisce nell’aria, si sente col cuore e si sa che non è amico. Riesce a vederla, in queste notti: è lì in attesa con il carico che ha preparato per lui; lo stesso che, dall'inizio dei tempi, porta agli umani. Una giovinezza che sembra eterna e durerà una stagione soltanto; e, insieme, la sensazione illusoria ed effimera di trovarsi nel cuore palpitante del mondo. Qalche promessa che non verrà mantenuta ma adesso risplende luminosa. Progetti e sogni che andranno in mille pezzi al primo contatto con la realtà ma, oggi, ti accendono lo sguardo di stelle. Gingilli da poco rivestiti di oro finto, balocchi da poveri che perderanno presto il luccicore, messi sopra il resto per confondere lo sguardo e ingannare gli sprovveduti: i suoi vecchi, tristi trucchi da imbonitore di fiera. E, sotto, senza alcuno splendore nè incanto, la sua merce vera. Opaca, tagliente, plumbea. Carichi troppo pensanti per le spalle che le dovranno portare. E l''ombra è lì per il giovane principe: è venuta a prenderselo, reclama quello che è suo. Allora il giovane principe si agita nel sonno, mormora parole soffocate; con una mano fa un gesto come per allontanare qualcosa, o aggrapparsi per non cadere. In quei momenti anche il suo viso sereno e limpido cambia. Vi compare qualcosa di serrato, teso, contratto; cala un velo che non appartiene all’infanzia ma ad un’età più adulta, un'età che conosce il dolore. L'albero, in quei momenti, sa cosa deve fare. Sospirando risucchia il sogno ed i pensieri attraverso la sua linfa e lascia che gli scorrano dentro, fino alla punta delle foglie, verso il cielo; e poi giù, giù nell’abisso buio delle radici e poi ancora, più e più volte; finchè ha assorbito in se’ la paura e il dolore del giovane principe. Il giovane viso torna sereno. L'eterno viandante volta le spalle, sconfitto, e anche questa volta si allontana. Se tu passassi lì accanto in quel momento vedresti le foglie del grande albero fremere da sole, nonostante non ci sia un alito di vento, con un suono come di cicale ma con qualcosa di più sinistro, duro, aspro, come un dolore. Vedresti molte foglie, verdi fino ad un attimo prima, improvvisamente seccare e cadera, come lacrime silenziose, mentre un brivido di cui non conosci il motivo ti corre lungo la schiena. Allora sapresti che quello era un dolore del giovane principe che l’albero ha preso dentro di sé, perché il suo cuore conosca solo il sorriso.



Il re aveva cercato a lungo il figlio scomparso. Ma il tempo era passato, e gli anni succedutisi agli anni avevano portato con sé una cupa rassegnazione.
Finchè un giorno gli dissero che un cacciatore di uno dei villaggi raccontava di averlo visto nel folto del bosco, il giovane principe, addormentato ai piedi dell’albero del sonno. Immediatamente il cacciatore venne prelevato ed interrogato; e torturato, perchè se si fa un lavoro, è meglio farlo bene. E il giorno dopo, quando il sole si levò, l’albero non era più solo nella piccola radura. Di fronte a lui c’era il sire del regno. Era abbigliato magnificamente, in viso aveva un’espressione dura ed era scortato dai suoi campioni più valorosi. Un’altra parte dell’esercito, molto più consistente, attendeva, nascosta, poco lontano: il re non amava i confronti pacifici; “una buona lama convince più di mille saggi”, soleva dire. L’albero non aveva occhi e non poteva vedere, ma sentì che qualcosa di totalmente nuovo era presente vicino a lui. Qualcosa di sconosciuto e possente; e malvagio. Ne avvertiva la minaccia in ogni fibra, come un gelo tagliente e crudele che in un attimo corse attraverso la sua linfa, dal profondo delle radici su fino alle foglie che si agitarono e stormirono come per un vento invisibile. Allora capì, il vecchio, dolce albero, che tutto stava per finire. Ma sapeva anche -in fondo lo sapeva da molto tempo, forse da sempre- che tutto quello era giusto. Il giovane principe gli era stato solo affidato, non gli apparteneva. E per quanto fosse straziante si sarebbe inchinato di fronte all’amore di un padre, quello stesso amore che lui tanto avrebbe voluto offrire al giovane principe, ma che la natura gli aveva negato. Gli fosse anche dovuto costare più della sua stessa vita.

Il re guardò il giovane addormentato ai piedi del grosso tronco. Le radici lo cingevano come un abbraccio (“come un gabbia”, pesò il re, che di abbracci da tanto non serbava memoria); il suo viso era ancora quasi infantile, come se persino il tempo implacabile avesse avuto per lui un riguardo speciale, rallentando il passo, e sulle labbra si era posato un sorriso lieve come una farfalla di primavera.
“Ridammi mio figlio”, disse il re, con una voce tagliente.
“E’ il mio primogenito, che erediterà il mio regno. Deve diventare il più grande dei cavalieri, colui che farà risplendere ancora di più l’onore della mia casata. Presto inizierà ad essere formato, istruito, addestrato; ogni istante della sua vita sarà speso per questo, perché egli è il prescelto. Combatterà guerre e le vincerà; conquisterà nuove terre e fino al lontano orizzonte i popoli piegheranno il capo di fronte al suo potere, che è anche il mio, e quello ereditato dai padri dei miei padri.”
Non c’era la minima traccia d’affetto nelle sue parole; solo ambizione, durezza e freddo egoismo.
“Questo è l’amore di un padre?” si chiese l’albero, incredulo e sgomento. Allora seppe che i suoi miseri doni, il suo povero, sterile, sbagliato amore valevano mille volte di più del gelo che il re portava nel cuore ed offriva al principe. E le sue radici rimasero serrate intorno al giovane. Proprio in quel momento, del tutto ignaro della immobile battaglia che si stava combattendo vicino a lui e per lui, questi camminava da solo molto lontano da lì, lungo le strade incantate di un sogno dolcissimo. Il suo sorriso lieve si accentuò appena. Era felice.
La voce del sire risuonò carica di minaccia. “Restituiscimi ciò che mi appartiene, o sarà peggio per te.” Lo scontro era impari; l’albero sapeva bene che il re avrebbe vinto. Eppure rimase sconcertato quando sentì le parole successive: “Lascialo, o farò incendiare tutto il bosco. Da qui fino ai piedi della collina, ogni cosa che ha foglie o occhi, ogni essere che cresce, fiorisce, cammina, corre, salta o striscia: tutto arderà e verrà distrutto, nulla resterà in vita. Non rimarrà più un albero, un animale, un cespuglio, un fiore.” Il cuore dell’albero avvampò di dolore. Perchè conosceva ed amava ogni albero intorno a lui, ogni singola foglia, ogni bocciolo o stelo d’erba. Dai cespugli di rose canine che bordavano la radura come un vezzoso giardino, dalle timide violette selvatiche o campanule pudiche, giù fino alla rozza, ispida bellezza degli epilobi pionieri sul greto sassoso del ruscello: e tutti erano cari al suo cuore. Il solo pensiero di essere causa della loro sofferenza era qualcosa che non poteva sopportare. Sconfitto, lentamente l’albero lasciò che le radici si ritraessero, che cadessero di lato come braccia spezzate, vinte.

E il giovane principe, lentamente, dolcemente, iniziò a svegliarsi.

***

Il re aveva ottenuto ciò che chiedeva. Eppure prima di andarsene, per noia, divertimento o pura crudeltà, fece ugualmente appiccare il fuoco alla foresta. I suoi soldati a cavallo corsero per ogni dove gettando torce accese sulle foglie secche, tra i rami indifesi, godendo nella distruzione tanto più era facile, gioendo nel ferire tutto ciò che era privo di difesa, tutto ciò che fino ad un attimo prima era stato bello, innocente, vivo. Le lepri, con le corte tenere zampette che le costringevano tropo vicine al suolo, arse, morirono per prime. Morirono in trappola i cervi imponenti, dopo aver corso impazziti e mugghianti cercando tra le fiamme ed il fumo un varco che non c’era. Morirono i quieti daini, il dolce cuore spezzato dal terrore di un'impossibile fuga. Morirono le farfalle variopinte, le ali impalpabili carbonizzate dal fuoco. Morirono soffocati i codirossi e gli usignoli, disorientati e terrorizzati. Morirono nel crepitio di un attimo i grilli pettegoli e le frivole cicale. Morirono le caute volpi e i tassi mansueti, le innocue lucertole e le calunniate, timide serpi.

Quando l'ultima fiamma si spense, dopo una settimana e un giorno, di tutto il bosco non erano rimasti che monconi neri e fumanti, lugubri scheletri degli alberi ombrosi e splendidi che erano stati. E cenere. E silenzio. Le fiamme, appiccate dall’esterno della macchia mentre il corteo del re usciva dal folto, avevano impiegato giorni a raggiungere il grande albero. Ma quando il fuoco rapace lo aveva lambito alla base, come per saggiarlo, e poi si era lanciate deciso su per il tronco, non aveva più potuto fìrubare nulla: l’albero del sonno era già morto, per lo strazio ed il dolore.



***

Molti anni erano passati. Il giovane principe era stato istruito, formato, addestrato, forgliato, temprato; proprio come era nei piani di suo padre. Il fanciullo di un tempo era diventato un uomo adulto. E alla morte del re, gli era succeduto sul trono.

Aveva conosciuto molti grandi cavalieri, scoprendo in loro molte paure e molte, moltissime macchie. Aveva creduto di essere lui stesso un grande cavaliere, ma un giorno si era guardato dentro e aveva scoperto di non essere molto migliore di loro.

Aveva amministrato la giustizia cercando di essere saggio e facendo del suo meglio. Aveva preso molte decisioni giuste ed alcune sbagliate. Le prime le aveva dimenticate, le seconde le portava incise nel cuore come un marchio nella carne.

Era sopravvissuto ad una congiura ai suoi danni e aveva sofferto, non tanto per la lama passata a un dito esatto dal cuore, quanto per aver scoperto tra i cospiratori i suoi amici più cari.

Aveva amato una donna, molti anni prima. L’aveva gettata via con leggerezza, per il brivido effimero di una nuova conquista. Di lei gli avevano raccontato poi di un albero, di una notte troppo lunga e con troppa disperazione da sopportare. Del viso fino a ieri bello da fermare il respiro, il viso tanto amato, che il mattino aveva trovato enfiato e livido per la corda che ne aveva serrato il fiato. In infiniti altri letti aveva cercato, poi, un’altra che le somigliasse. Che avesse il suo sorriso, le sue mani, il suo sguardo. Che gli toccasse il corpo ed il cuore allo stesso modo. Non l’aveva mai trovata.

Aveva combattuto e vinto molte guerre; ma a volte la notte non riusciva a prendere sonno perché, mentre ogni cosa era avvolta nel silenzio, nella sua testa risuonavano grida assordanti. Non tacevano un istante, non gli davano pace. Mentre ogni cosa intorno era avviluppata nella pace spessa del sonno, il re sentiva ancora le grida disperate dei feriti sui campi di battaglia e poi, nel silenzio spettrale che seguiva il massacro, le suppliche flebili di chi, agonizzante e straziato. implorava invano dai vincitori incuranti la misericordia atroce del colpo di grazia. Rimaneva insonne per ore, per notti intere, il re, prigioniero di un inferno solo suo, che divampava nella sua testa e nel suo cuore. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un brandello di sonno, per zittire quelle voci; ma non era possibile. E poi, a volte, accadeva. A volte, improvvisamente, dopo ore o giorni, le grida si quietavano. Ma il silenzio che calava allora era ancora più assordante; perché era il silenzio gelido dei morti. Il silenzio dei cadaveri allineati in file ordinate come truppe schierate di un esercito grottesco e folle, perchè lui potesse passare in rassegna la prodezza dei suoi soldati. Il silenzio delle campagne devastate, delle case incendiate. Il silenzio degli sguardi attoniti dei bambini a cui avevano appena incendiato la casa, stuprato a morte la madre, sventrato per divertimento la mucca pelle e ossa che era stata l’unico sostentamento. Il silenzio irreale dei villaggi che attraversava dopo che i suoi soldati li avevano bruciati, cumuli di macerie fumanti e cenere dove fino a poche ore prima c’erano state persone, famiglie, animali, sorrisi , sudore, speranze, stanchezza, calore, danze, amori, liti, fame, pianti, fatica.
Dov'era la gloria, in tutto questo?
Dov'era il trionfo, l'esultanza? Dov'era la gioia della battaglia vinta, la soddisfazione di aver fatto esattamente ciò che era buono e giusto? Dov'era tutto ciò che gli avevano raccontato, che aveva letto nei libri; dov'era, soprattutto, tutto ciò in cui aveva creduto?


Non contemplava più le stelle recitandone i nomi. Avevano smesso di aiutarlo da quando, perso in una notte disperata che sembrava non dovesse mai più finire, le aveva guardate dal campo di battaglia. Carponi a terra come un animale, per lo sfinimento del corpo e dell'anima, ansimando quasi senza fiato, il cuore che si dibatteva selvaggiamente nel petto come una preda in trappola e terrorizzata, istintivamente aveva alzato lo sguardo, come a cercare l'antico, dolce conforto. E attraverso il velo rosso del sangue che gli scorreva sugli occhi le aveva ritrovate, le scintillanti, silenziose amiche dell' infanzia lontana. Aldebaran, Lupo, La Sentinella... Ma erano così irraggiungibili; così lontane. Lontane da quel campo di battaglia, da quel massacro; dallo stridore delle spade e dalle grida di strazio di chi veniva colpito e dal rumore disgustoso, osceno, intollerabile della carne quando veniva trapassata; da tutta la furia e l'odio e la follia e il male che erano ovunque intorno a lui, su quell'insignificante grumo di terra sporca di pianto e sangue e disperazione a cui era incatenato.


Tu non lo sai, ma a volte, verso il tramonto, il re sale da solo sulla torre più isolata. E lì, solo, mentre un altro giorno finisce, lascia correre lo sguardo lungo il regno che si distende sotto di lui. Rimane a lungo a guardare il cielo percorrere tutte le sfumature del celeste, azzurro e indaco, fino al velluto nero della notte. Tutto ciò vedo è mio, pensa il re; dal giardino del castello alla distesa di campi e villaggi, sino ai boschi e all’orizzonte delimitato dall’orlo delle colline, netto come una lama e più sottile di un capello. Eppure, pensa in quelle sere, sono il più povero degli uomini. Perché, da qui all’orizzonte, non esiste cosa che possa darmi pace.


Finchè il dolore che portava dentro lo spinse ad allontanarsi dal castello. Lasciava la corte per giorni e giorni, da solo, senza dire ad alcuno dove andava. Vagava, senza una meta precisa. Si lasciava condurre dal cavallo, Ombra della Sera –Luce del Mattino era morto ormai da tanto tempo- bevendo alle sorgenti, nutrendosi di bacche o dei doni casuali del bosco e riposando per terra avvolto nel mantello, come l’ultimo dei suoi sudditi.


E adesso guardalo, il tuo re. Guardalo ora, il padrone di queste terre, il sovrano al cui cospetto hai appreso esser d’obbligo l’inchino, l’ossequio ed un cauto timore. Il suo viso è segnato e stanco, la sua veste quella di un servo. Sentieri di solitudine percorrono i suoi passi e dentro di sè reca il fardello di un dolore scuro e profondo come una malattia senza cura, di cui mai ha parlato ad alcuno. Guardalo, adesso, il tuo re: vedrai un uomo come qualsiasi altro uomo.
Ferito.
Spezzato.
Solo.



Finchè un giorno il suo vagabondare lo portò fino alla Collina Arsa. Sapeva che era chiamata così perché molti anni prima era stata devastata da un incendio enorme, che aveva distrutto ogni cosa. Era successo quando lui era un bambino, o poco più; quindi lo stupiva non averne ricordi. Il bosco non si era mai ripreso. La sola vegetazione era un sottobosco incerto, stentato, arido: solo ontani quasi secchi e dei cespugli di una qualità che esisteva solo in quel luogo, bassi e contorti, ostili; con tozze spine acuminate e ricurve come artigli che parevano fatte apposta per ferire con più dolore e cattiveria possibile, attraverso cui anche il cavallo stentava a farsi strada. Sotto era ancora ben visibile il terreno grigio scuro, arso. Non c’erano fiori, né cresciuti da terra né sui cespugli; sembrava che ogni bellezza e consolazione fossero stata bandite per sempre da quelle zone desolate.


Ombra della Sera si era arrestato all’improvviso, e questo era strano. Non era un cavallo recalcitrante; era troppo indifferente ed ostinato per essere pauroso, affrontava la vita con la stessa stanca indifferenza del suo re. Ma in quel pomeriggio di una primavera incerta che stentava a scalzare l'inverno, sulla soglia di ciò che era stata una piccola radura, senza alcun motivo apparente, Ombra della Sera si fermò.
Al centro sorgeva un unico tronco bruciato, in nulla diverso da mille altri. Improvvisamente il re provò una sensazione di familiarità, come se avesse già conosciuto quel luogo; eppure era certo di non esserci mai stato. Ma fu solo il lampo di un momento; una di quelle impressioni fugaci e quasi inafferrabili che un attimo dopo svaniscono nel nulla. C’era qualcosa, però, che spirava da quel posto; qualcosa che pareva attrarlo. Smontò da cavallo e, a piedi, entrò nella radura. Il silenzio era totale, irreale, simile a quello dei suoi incubi: non il canto di un uccello a ricamare l’aria, né il sottofondo pettegolo de grilli. Nulla. Eppure qui il codirosso e gli usignoli cantavano tutto il giorno disse una voce dentro di lui, senza nessun motivo. Il luogo era desolato ma emanava un’atmosfera particolare, che non avrebbe saputo definire; una specie di sacralità. La percepiva nettamente; anzi, in qualche modo che non avrebbe potuto spiegare avrebbe potuto persino affermare che si irradiava dal grande albero bruciato, lì al centro. E quello era il punto verso cui i suoi passi, quasi da soli, lo stavano portando.
Mentre camminava, lasciò scivolare a terra la cotta di maglia che indossava sopra le vesti modeste e il casco metallico. Da anni –dal giorno della congiura- non li toglieva mai. Avrebbe dovuto sentirsi vulnerabile, esposto, indifeso; invece provò un senso di benessere. Di sicurezza, quasi. Come se fosse stato tolto di dosso un peso, che non era quello del metallo. E come se qualcuno, o qualcosa, in quel luogo, cercasse di proteggerlo, ben più di una povera armatura. Non c’era mai il vento; e d’inverno la neve cadeva più lieve… Un altro di quei pensieri. Da dove giungevano, e perchè? Continuò a camminare, lasciandosi guidare dai suoi stessi passi. ...fiordalisi e pervinche, blu come frammenti del cielo… Tutto quello era assurdo, irreale; eppure, il re non aveva paura. Anzi: in quel luogo provava una sensazione dimenticata da tanto… qualcosa di lontano e perduto. Qualcosa di simile alla pace. Era giunto accanto al tronco del grande albero. Si sedette ai suoi piedi, sentendo –ma come? perchè? - che era la cosa giusta da fare. E a contatto con ciò che restava dell’albero le percezioni che aveva da quando era entrato nella radura divennero improvvisamente molto più acute; i pensieri – o ricordi? Ma ricordi di che cosa? di chi?- si fecero più nitidi. Parole senza voce; disegni fugaci nell’aria che si componevano e poi svanivano appena tendevi la mano per afferrarli per poi ricomporsi di nuovo un attimo dopo, un passo più in là. L’albero era morto da molto tempo ormai. Ucciso dal fuoco e da un dolore; e poi prosciugato dal sole, marcito dalla pioggia, spaccato dal gelo. Da decenni la linfa non scorreva più nelle sue vene portando via il dolore dai sogni del principe, le foglie non sussurravano più un dolce canto senza parole per cullare il suo sonno. Ma qualcosa di un amore lontanissimo doveva essere rimasto, assorbito dal terreno, confuso con l’aria. Il re lo sentiva così bene, ora. E improvvisamente ebbe la certezza nitida e precisa che un’infinità di tempo prima, in quel luogo, era stato amato. Di un amore disperato, struggente, immenso. Spezzato. Lì, in quel luogo, era stato abbracciato.
Era stato cullato.
Era stato felice.


Allora, per la prima volta da molto tempo, il re seppe cosa doveva fare. Il sopore lo stava già avvolgendo; se lo avesse assecondato si sarebbe addormentato facilmente e quel sonno era il più prezioso dei doni, il solo che desiderasse. Perché era stanco. Immensamente stanco. Per tutta la vita aveva cercato risposte... ma forse il sollievo, il solo possibile, sarebbe stato l'assenza di domande. Ma doveva fare qualcosa, prima. Mentre le palpebre già si volevano chiudere estrasse dal fodero il corto pugnale che portava sempre con sé. Appoggiò l’elsa verticale al suolo e si chinò in avanti, quasi coricato prono, reggendosi sui gomiti, la punta della lama che lo toccava all’altezza del cuore e solo la residua, calante forza delle braccia che li separava dal divenire una cosa sola.
Non dovette aspettare molto.
Il sonno, il vecchio dono dell’albero, da chissà quale luogo lontanissimo e chissà per quali oscure vie trovò un varco, giunse fino a colui che lo invocava, colui che l’albero aveva amato. Gli si offrì e lo avvolse come un mantello; come un abbraccio. Delicato e pieno di affetto ma fermo, sicuro. Accogliente e misericordioso. Così misericordioso che quando la lama lacerò la stoffa leggera ed iniziò ad aprirsi la sua gelida strada nel buio lui era già in salvo in un luogo lontano, in cui il dolore non poteva più raggiungerlo. Un ultimo pensiero gli attraversò la mente mentre ogni cosa si spegneva e scivolava nel nulla opaco e senza sogni, un pensiero lieve come il battito d’ali di una farfalla ma netto, nitido e scintillante come un bagliore di luce:

Sto tornando.

Sto tornando a casa.


   
 
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