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Autore: Milla Chan    20/12/2015    3 recensioni
Ha un legame speciale con quel ragazzino, tanto grande e tanto piccolo al contempo. Lev non è arrivato da molto, è il suo primo anno in quella scuola e il primo anno in cui gioca a pallavolo, quindi Yaku può capire che a volte si possa sentire poco integrato o disorientato. Forse è proprio per questo che ha una preferenza genuina per lui, come se lo avesse preso sotto la sua ala, anche se lo sgrida più spesso di quanto non lo complimenti.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Lev Haiba, Morisuke Yaku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è così facile vivere quando a quindici anni superi già il metro e novanta, specialmente in Giappone. Non che a Lev dispiaccia così tanto essere al centro dell’attenzione (non osa immaginare come sarebbe, per una persona timida, svettare tra la folla in quel modo), ma a un certo punto diventa irritante. Diventa irritante dopo quindici anni di domande e sguardi sempre uguali, ma Lev è una persona naturalmente serena e giocosa, non è proprio nelle sue corde mettere il muso quando qualcuno gli chiede se sa parlare il russo.
Risponde sempre di no perché in questo modo è molto più facile sentirsi e dimostrarsi completamente giapponese, completamente integrato, nonostante l’aspetto così diverso. La verità è che il russo lo sa parlare abbastanza bene e lo capisce alla perfezione, dal momento che sua madre gli ha quasi sempre parlato nella sua lingua madre, soprattutto nei primissimi anni della sua vita.
Prova una sorta di vergogna all’idea di parlare quella lingua con qualcun altro che non siano i suoi genitori, perché è fatta di vocaboli legati alla sua infanzia, suoni che associa istintivamente al calore familiare, all’atmosfera di casa sua, ed è qualcosa di estremamente privato e intimo. Dire una frase in giapponese, ai suoi occhi, è totalmente differente dal dirla in russo: in russo sembrerebbe immediatamente più dolce, spensierata, leggera, proprio come se un bambino parlasse alla madre.
Certo, quando si trova sul campo di pallavolo non potrebbe essere più felice della sua altezza, è un vanto, ne va è estremamente fiero: gli basta alzare un braccio per superare la rete senza problemi, ha un sacco di agevolazioni, le battaglie a mezz’aria sono facilitate, è fantastico, ma questo non gli risparmia problemi quotidiani e gli occhi di tutti puntati addosso. È sempre stato leggermente più alto degli altri bambini, ma nell’ultimo anno e mezzo era cresciuto di circa trenta centimetri e all’improvviso il mondo era diventato minuscolo. Doveva abbassarsi  per entrare in casa, batteva le ginocchia sotto i tavoli, in macchina si ritrovava sempre alle strette, trovare pantaloni lunghi abbastanza era un’impresa.
Lev ha comunque quindici anni. È normale avere momenti di insicurezza, sensazioni di disagio, giornate in cui nulla sembra andare come dovrebbe, in cui vorrebbe non attirare tutti quegli sguardi, in cui vorrebbe sentirsi più al sicuro e meno esposto al mondo.

Yaku capisce quando succede. Lo capisce quando Lev, senza dire una parola, si siede sul pavimento della palestra, davanti alla panchina sulla quale è seduto lui, e lo abbraccia. Sembra molto più piccolo, così.
Sarà che è all’ultimo anno, sarà che la sua posizione di libero lo spinge a salvare la situazione anche al di fuori delle partite, ma Yaku si preoccupa sinceramente per i suoi compagni. Sa quando sgridarli e quando ricompensarli, e nonostante Lev lo faccia sospirare pesantemente per le sue pessime ricezioni, non può di certo negargli conforto quando lo cerca così espressamente. Gli passa una mano tra i capelli finissimi e con l’altra gli batte gentilmente la spalla, lasciando che la sua faccia si nasconda contro il suo petto, e sa che Lev si sente sempre un po’ meglio quando lo fa.
Ha un legame speciale con quel ragazzino, tanto grande e tanto piccolo al contempo. Lev non è arrivato da molto, è il suo primo anno in quella scuola e il primo anno in cui gioca a pallavolo, quindi Yaku può capire che a volte si possa sentire poco integrato o disorientato. Forse è proprio per questo che ha una preferenza genuina per lui, come se lo avesse preso sotto la sua ala, anche se lo sgrida più spesso di quanto non lo complimenti. I suoi apprezzamenti sono nascosti proprio tra le sue critiche: lo tratta così per abituarlo a lavorare sodo (cosa che deve assolutamente imparare a fare) e aiutarlo ad arrivare dove vuole.
Può essere dura, ci vuole pazienza, ma Yaku è disposto a fare tutto il possibile pur di mantenere la sua squadra nelle sue condizioni ottimali, anche se questo significa aiutarli con i loro problemi personali. Se gli andava di farsi abbracciare perché a quanto pare lo faceva star meglio, andava bene, non c’era assolutamente niente di strano in ciò, era normale. Forse. Insomma, non l’aveva mai fatto con nessun’altro, ma è… una cosa normale! Tutte le persone sono diverse, quindi magari per lui funziona così. Sono compagni di squadra dopotutto, no? Non fa certo quelle cose perché una parte di lui non vede l’ora di stringerlo per qualche secondo come se potesse proteggerlo, nossignore, lo fa unicamente in nome della profonda amicizia che lega le persone che praticano attività sportiva in gruppo, anche se in quel contesto il gruppo non c’entra poi così tanto. Ah, ma che ragionamenti sono? Perché non dovrebbe sostenerlo? Ecco, quando arriva a questi livelli, Yaku si impone sempre di fermarsi e prende un respiro profondo per spezzare quel flusso di coscienza che gli affolla la testa.

Lev in genere cerca quegli abbracci quando in palestra non è rimasto più nessuno, o quasi. Meno gente c’è e meglio è. Si vergognerebbe, se ci fosse qualcun altro. Insomma, è comportamento inusuale, non ha più dieci anni e Yaku non è sua mamma! Però le sue pacche sulle spalle lo rassicurano in modo incredibile, così come le parole che all’apparenza sembrano dure, ma celano un affetto inverosimile. È come se gli facesse scivolare via lo stress e la frustrazione e lo spronasse a dare il meglio di sé. Gli è grato, anche se spesso scappa o si lamenta ad alta voce perché non ha più voglia di ricevere. Schiacciare, lui vuole schiacciare, vuole attaccare!
“Se vuoi davvero diventare l’asso, prima devi essere un pallavolista completo, è questo significa che non puoi permettere di non saper difendere un pallone, soprattutto qui al Nekoma!” gli rispondeva Yaku, come una cantilena.
Nei momenti in cui Yaku si lascia abbracciare senza chiedergli cosa diavolo gli sia preso, a Lev piace farsi piccolo e immaginare di esserlo, anche solo per qualche secondo: se lui è incredibilmente alto, Yaku è incredibilmente basso, questo è innegabile, ma ha comunque diciassette anni e per lui quell’età è un traguardo lontanissimo.

- Cпасиба.- sussurra, e Yaku trattiene il respiro ma non un sussulto. Smette di aggiustarsi la scarpa e raddrizza la schiena con lentezza mentre si volta a guardarlo con gli occhi sbarrati. Sono gli ultimi in spogliatoio, Lev è seduto sulla panchina, ha ancora il respiro corto e un velo di sudore in fronte. Ha le testa leggermente reclinata all’indietro, gli occhi chiusi, un sorriso appena accennato, una borraccia tenuta fiaccamente in mano. Sono stanchi, entrambi, ed entrambi sentono ancora l’adrenalina in corpo.
Yaku non sa cosa gli abbia detto, non sapeva neanche che potesse parlare russo, ma quel tono lo rapisce e non riesce a staccargli gli occhi di dosso, non riesce a staccarsi dal suo petto affannoso, dalle labbra sottili piegate verso l’alto.
Quanto dev’essere importante, quella parola, Yaku può solo immaginarlo. La sente, in un certo modo, gli vibra dentro, anche se pensa che sia un’immagine eccessivamente poetica, è esattamente quello che pensa.
Non può fare nient’altro, non si possono più nascondere nulla, la vergogna si è annullata con una presa di coscienza, una resa emotiva. Gli basta un passo, gli toglie la borraccia dalle dita con una mano, e l’altra gliela passa tra i capelli chiari, spostandoglieli indietro e spronandolo a rimanere in quella posizione, col viso rivolto verso l’alto. Lev socchiude gli occhi appena in tempo per vederlo chinarsi su di lui e non pensa neanche di allontanarsi quando lo bacia. È dolce, almeno metaforicamente, perché in realtà è piuttosto salato.
Yaku pensa che a volte vorrebbe prenderlo a calci, e una parte di sé lo vuole fare anche in quel momento perché si sente quasi tratto in inganno, affascinato da un incantesimo pronunciato in una lingua esotica, mai sentita in vita sua. Gli piace. Gli piacciono anche quegli occhi verdi dal taglio pungente, gli piacciono un sacco di cose.

-Yaku-san, Yaku-san!- lo chiama dalla porta della palestra, affrettando il passo per raggiungerlo. Non che ci vada molto, comunque.
Yaku si volta, si ferma per aspettarlo e socchiude gli occhi perché il sole al tramonto gli dà fastidio, anche se la luce calda che emana e tinge tutto di arancione è confortante.
Lev salta due gradini per volta e gli é subito accanto. Si stiracchia e sorride in quel suo modo indecifrabile, guardando il ragazzo dall’alto. -Sto migliorando a vista d’occhio, vero?-
Yaku ci mette un attimo a capire che sta parlando della pallavolo. Non avrebbe alcun senso, altrimenti.
-Insomma, più o meno. C’è ancora tanta strada da fare.- commenta alzando le spalle e tornando a camminare, seguito dall’altro.
Lev non perde la sua espressione. -Però io mi sto impegnando!-
Yaku annuisce e rimane in silenzio per un po’ prima di guardarlo di traverso. -Tutto a posto?- chiede con calma.
-Uh? Cosa?- risponde l’altro, chiaramente spiazzato e con una chiara nota di terrore.
Yaku gli dà un’amichevole spallata mentre continuano a camminare e Lev si ritrova a camminare storto per mezzo secondo. Rimangono di nuovo in silenzio e il russo si guarda intorno con un leggero nervosismo. È un po’ imbarazzante pensarci a posteriori. Era già imbarazzante pensare al modo bambinesco in cui lo abbraccia di punto in bianco, figuriamoci ora. Eppure a guardarlo gli viene quasi voglia di sollevarlo, tanto sembra piccolo e… carino.
-Dico sul serio, se è stato un problema devi dirlo.- dice Yaku con una marcata nota di serietà e apprensione, notando la sua inquietudine.
-No!- esclama subito l’altro. -Solo che, uh…- si interrompe a metà, come se all’improvviso gli fosse sparita la voce, ma si riprende subito con una risata un po’ impacciata. -Non c’è niente che non va, ecco, anzi… woah.- conclude con voce paradossalmente calante, guardando ovunque meno che verso l’interlocutore. Non ci crede, l’ha detto davvero. In modo assolutamente non chiaro, ma l’ha detto.
Yaku ridacchia e gli dà un paio di pacche sulla schiena, ma in realtà sta urlando dentro.
-Non usare questo bacio come scusa per trascurare gli allenamenti.- risponde, con una fatica considerevole. Suona convinto, ma non lo è per niente. Vede il suo pullman che sta arrivando in fermata e fa una breve corsa per riuscire a salire in tempo. -Però non dimenticartene.- dice mentre si allontana.
Lev sente le guance calde e non riesce più a contenere la gioia. Dimenticarsene? Non potrebbe mai.
Osserva Yaku salire sul pullman e agita la mano nella sua direzione. Si apre in un sorriso tremolante e gli occhi gli si riempiono di luce più di quanto non fossero già. Vorrebbe saltare ed esultare, come se avesse appena segnato il punto decisivo. Non avrebbe mai potuto spiegare a Yaku quanto fosse importante per lui. Quanta sicurezza gli desse, quanto si sentisse una persona migliore grazie a lui. Una parola, una sola parola in russo era uscita dalla sua bocca in un momento a metà tra la veglia e il sogno, spossato dall’allenamento e travolto da un fiume di sensazioni che nessuna diga avrebbe più potuto trattenere. Era arrivato al limite, ed era così felice che gli sembrava che quello stesso fiume fosse diventato ancora più impetuoso e incontenibile, come se fosse riuscito a trovare la strada che avrebbe dovuto percorrere fin dall’inizio, senza barriere, senza freni.

Yaku guarda fuori dal finestrino con la borsa della palestra appoggiata ai suoi piedi. Da quando erano entrati in spogliatoio per cambiarsi, si era sentito come in trance ed era quasi come se ogni gesto che avesse fatto l’avesse compiuto senza pensarci. Gli ha chiesto di non dimenticarsene perché non vuole che rimanga un bacio dato quasi per caso, bloccato nel tempo.
Si era sempre sentito come la madre di tutti in quella squadra, ma aveva trascurato troppo a lungo che quello che sentiva per Lev era tutt’altro. Non era mai successo in tre anni, con nessuno.
Tutti i suoi pensieri, i suoi flussi di coscienza: era quella la loro conclusione logica. In fondo erano tutte cose che sapeva che avrebbe fatto, prima o poi: forse è per questo che non sente alcun tipo di ripensamento o senso di colpa, è perfino più calmo di quanto pensava che sarebbe stato. Ne è incredibilmente felice, è stato emozionante ma, nel contempo, anche tranquillizzante.
Chiude gli occhi e appoggia la testa al sedile, lasciandosi cullare. Sente il telefono vibrargli in mano e riapre un occhio per guardare il display: mentirebbe nel dire che è sorpreso nel vedere il nome di Lev. Per un attimo ha quasi paura, sente il cuore stringersi.


“ho sete ma mi hai fatto dimenticare la borraccia in spogliatoio! 。・゚゚・( >д<)・゚゚・。”

Yaku ride e scuote la testa. Non si pente di niente, e glielo scrive in risposta.
   
 
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