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Autore: Yoko Hogawa    26/12/2015    7 recensioni
« Forse è più grave di quanto pensassi, » borbottò il consulting detective, lasciando perdere il telefono e avvicinandosi a John, cominciando ad analizzare il brutto bernoccolo che aveva dietro la nuca.
Un comportamento che non faceva assolutamente nascere un fiotto di panico nel petto di John, dicono.
« Sherlock? » chiamò il medico, ma l’amico lo ignorò. « Sherlock, piantala di toccarmi la testa e spiegami cosa c’è che non va, » ordinò quasi e il detective tornò ad incrociare il suo sguardo.
E notoriamente, Sherlock non era padrone delle mezze misure.
« John, Mary non esiste. »
[Scritta per il TCATH Secret Santa 2015 per e su prompt di Macaron]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per il TCATH Secret Santa per e su prompt di Macaron:

Rating a piacere --> Crossover con Black Mirror. Potendo scegliere mi piacerebbe tanterrimo la 1x01, quella del maiale insomma, con Mycroft protagonista ma vanno bene tutte le puntate, scegliete quella che vi ispira tranne magari la 2x01 (Be right back, quella del clone) che ci ho fatto una shottona immensa. Non deve andare tutto come nella puntata scelta, può essere solo d'ispirazione o come canovaccio per le atmosfere.

Non ho scelto la 1x01 perché non è fra le mie preferite, e Mycroft si pone come uno scoglio insuperabile per me come personaggio da muovere.
Perciò, è ispirata allo special di Natale "White Christmas". Non commento sul fatto che doveva essere una cosa felice ed è uscita... così. Mi conoscete: non ce la posso fare. Neanche a Natale.

Spero che ti piaccia Cey <3 ti mando millemila sacchi di bene e ti auguro un buonissimo Natale <3
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La Scatola di Schroedinger
 
 
 
Si svegliò di scatto, preda di una strana sensazione. Come in un incubo, una mano invisibile aveva afferrato le sue viscere e le aveva strette in una morsa, instillando nel suo cuore la paura che stesse succedendo qualcosa di strano e pericoloso e urlandogli di aprire gli occhi subito, ora, o non avrebbe avuto salva la vita.
Si aspettava quasi di vedere deserto e roccia intorno a sé, sabbia e sangue, odore di polvere da sparo e fumo. L’unica cosa che vide fu il volto di Sherlock.
« C-cosa...? »
« Hai ripreso conoscenza. Bene. »
Ci mise un po’, John, a mettere a fuoco la stanza quando il volto di Sherlock uscì dal suo campo visivo. Libri e documenti, una scrivania, un divano, quella particolare carta da parati... Avrebbe riconosciuto quel posto anche senza lo smile giallo bucherellato dai proiettili e il teschio sopra la mensola del camino.
221 B Baker Street.
Era già un inizio.
« Cos’è successo? » domandò il medico militare, rendendosi conto di essere seduto sulla propria poltrona. Il camino era acceso per combattere il freddo pungente di dicembre e le luci di Natale appese allo specchio – e arrotolate intorno ad un abete che aveva visto giorni migliori ma che comunque lottava per sopravvivere – erano l’unica fonte di illuminazione della stanza. Girò la testa per cercare Sherlock ma una fitta di dolore gli suggerì che era meglio stare fermo.
« Sei caduto da una finestra, » lo aggiornò il suo migliore amico, allungandogli un bicchiere d’acqua e due compresse di paracetamolo. « Dal primo piano, » aggiunse.
John le ingoiò senza nemmeno pensarci. Persino sbattere le palpebre gli provocava la nausea.
« Meraviglioso... » ironizzò amaramente. « E ovviamente il pensiero di portarmi al pronto soccorso non ti ha minimamente sfiorato, vero? »
Il sopracciglio di Sherlock si alzò in quel modo strano che faceva sempre capire a John di avere appena fatto una domanda stupida. « Sei un medico, John » disse il consulting detective, come se quella fosse la soluzione a tutti i suoi mali.
John sospirò profondamente.
« Inoltre, non ti sei fatto niente. I sacchi della spazzatura hanno ammortizzato la caduta. Forse hai una lieve commozione cerebrale, niente che un po’ di riposo non possa guarire. »
« Lo spero per te, » borbottò il dottore, facendo comunque un veloce check-up del proprio corpo. Riusciva a muovere tutto perfettamente e a parte uno strano indolenzimento e un portentoso mal di testa non sembrava avere niente di rotto. Mai che Sherlock avesse torto, una volta ogni tanto.
« Come sono arrivato qui? » domandò il medico, cercando di fare mente locale su cosa stesse facendo prima di fare un volo di quattro metri (minimo) dentro un cassonetto dell’immondizia.
« Lestrade, » rispose subito Sherlock, aggrottando poi le sopracciglia. Si fermò in piedi di fronte a lui, osservandolo attentamente. « Non te lo ricordi? »
John scosse la testa, imprecando poi a denti stretti a causa della fitta che quel movimento gli causò. « No, » disse dunque, preferendo usare la voce.
« E il caso a cui stavamo lavorando? » insisté Sherlock.
Dopo un attimo di raccoglimento, John negò di nuovo. « Dev’essere stata una bella botta, » scherzò leggermente, più per tranquillizzare Sherlock che se stesso. Conosceva il suo migliore amico e sapeva leggere la preoccupazione sotto quella finta aria composta. « Ricorderò. È colpa della commozione cerebrale, » aggiunse, ma tutto sommato non aveva bisogno di dirglielo; entrambi avevano il cranio più ammaccato di una squadra di giocatori di rugby, sapevano entrambi come affrontare situazioni mediche di quel tipo. « Dimmi solo che non stavamo facendo niente di illegale, e che non è per quel motivo che hai escluso una visita al pronto soccorso. »
Sherlock rimase in silenzio per qualche istante, avvicinandosi al caminetto e allungando le mani verso il calore della fiamma. Il completo che indossava era sporco di terra a livello delle ginocchia e i pantaloni erano schizzati di fango fino al polpaccio. Il colletto della camicia viola era spiegazzato e stropicciato, come se qualcuno lo avesse afferrato con violenza, e c’era un brutto strappo sulla cucitura della spalla sinistra.
Doveva essere stata una giornata movimentata.
« Niente di diverso dal solito. Furto con scasso, violazione di proprietà privata, danneggiamento, percosse... ma erano criminali dunque non penso che ci denunceranno, » rispose Sherlock come se niente fosse, e John si chiese per l’ennesima volta come era finito a considerare routine quella lista infinita di reati minori per i quali sarebbero, normalmente, più volte finiti in galera senza passare dal Via. John era sicuro che il responsabile di tutto ciò fosse Lestrade, che per avere l’aiuto di Sherlock era disposto a coprire le sue malefatte davanti agli occhi della Legge. E sicuramente anche Mycroft c’entrava qualcosa.
« Beh, ma che fortuna, » ironizzò amaramente, tastandosi poi le tasche in cerca del proprio cellulare. « Dov’è il mio telefono? » chiese infine e Sherlock gli indicò il tavolino da caffè.
« Puoi passarmelo, per favore? Devo chiamare Mary, sarà preoccupata. »
Sherlock, che nel frattempo si era avvicinato al tavolino e aveva allungato la mano per prendere il cellulare, si fermò improvvisamente con le dita a mezz’aria e guardò John come se gli fosse appena spuntata un’altra testa.
« Mary? »
« Sì, Mary. Mia moglie. » disse il dottore alzando la mano sinistra, dove la fede d’oro rifletteva il bagliore fioco delle luci di Natale.
La mascella di Sherlock si serrò e per la prima volta assunse un’espressione effettivamente preoccupata. I suoi occhi azzurri saettarono da una parte all’altra della stanza, forse cercando qualcosa o forse seguendo i propri pensieri, e quando arrivò alla soluzione che stava cercando aggrottò le sopracciglia e tornò a guardare il dottore.
« Forse è più grave di quanto pensassi, » borbottò il consulting detective, lasciando perdere il telefono e avvicinandosi a John, cominciando ad analizzare il brutto bernoccolo che aveva dietro la nuca.
Un comportamento che non faceva assolutamente nascere un fiotto di panico nel petto di John, dicono.
« Sherlock? » chiamò il medico, ma l’amico lo ignorò. « Sherlock, piantala di toccarmi la testa e spiegami cosa c’è che non va, » ordinò quasi e il detective tornò ad incrociare il suo sguardo.
E notoriamente, Sherlock non era padrone delle mezze misure.
« John, Mary non esiste. »
La prima cosa che provò John fu incredulità. Ricordava nettamente Mary Morstan, la sua fidanzata e ora signora Watson, capelli biondi e carattere sbarazzino. Non poté fare a meno di mettersi a ridere.
Sherlock non ne sembrò colpito, e la sua reazione – o mancanza di reazioni – piantò il seme del dubbio nel cuore del dottore, che smise di pensare che fosse tutto uno scherzo e cominciò a prendere la cosa seriamente.
« Non può essere. Sono sposato! » disse John, mostrando la mano sinistra (e la fede nuziale) a Sherlock. Non sembrava una fede nuziale finta, usata per un ruolo sotto copertura, tecnica che Sherlock usava spesso ma in cui non coinvolgeva mai John. Molte volte il medico aveva chiesto spiegazioni in merito a quella sua decisione e Holmes gli aveva risposto senza mezzi termini che era un pessimo bugiardo e un attore ancora peggiore. Per questo motivo dubitava che quell’anello fosse falso.
Senza dire nulla, Sherlock alzò la sua mano sinistra, dove una fede gemella a quella di John circondava il suo anulare magro e affusolato.
Il silenzio che seguì era pesante, carico di incredulità ed imbarazzo.
« È uno scherzo, vero? C’è Lestrade dietro tutto questo, » se ne uscì infine il dottore.
Le sopracciglia del detective si alzarono alla davvero-John-è-questo-il-massimo-a-cui-puoi-arrivare. « Potrei offendermi se non sapessi perfettamente che la tua amnesia è dovuta alla commozione cerebrale, » ribatté.
John sospirò di nuovo – lo faceva molto spesso con Sherlock – e portò le mani a massaggiarsi le tempie, come se quel gesto potesse aiutarlo a distinguere fra le due realtà mescolate insieme nel suo cervello.
« Ti dispiacerebbe spiegare? » domandò dunque a Sherlock. Non voleva credere di essersi inventato Mary, i ricordi che aveva di lei erano persino troppo reali nella sua mente, ma allo stesso tempo qualcosa di ciò che Sherlock gli aveva mostrato – di ciò che Sherlock aveva chiaramente sottointeso – tirava i fili della sua memoria in modo fastidioso.
Il consulting detective lo guardò in silenzio, come se stesse ponderando se e cosa raccontargli. John cominciava a spazientirsi. Sherlock Holmes era solitamente un tipo loquace, soprattutto per quanto riguardava i suoi casi e le intuizioni geniali che ne seguivano, e quando decideva di stare zitto c’era, probabilmente, motivo di preoccuparsi.
Tuttavia Holmes annuì e si sedette sulla sua poltrona, le gambe accavallate e le mani unite sotto al mento. Poi cominciò a spiegare ciò che John non riusciva a ricordare o, per meglio dire, ricordava in modo errato.

 
***
 
« Sei una macchina! Al diavolo. Al diavolo. Rimani qui, se vuoi, da solo. »
« Stare da solo è tutto ciò che ho, mi protegge. »
« No. Gli amici ti proteggono. »
Sherlock ignorò la sgradevole sensazione alla bocca del proprio stomaco quando John uscì dalla porta del laboratorio, deglutendo il retrogusto amaro delle sue parole.
Evitò di sottolineare quanto poteva essere pericoloso andare a Baker Street, soprattutto ora che erano ricercati dalle autorità, perché dire una cosa così ovvia era ridondante ma soprattutto inutile. Sapeva benissimo che non gli sarebbe successo niente. John era al sicuro, per ora. Moriarty voleva solo lui, voleva concludere la partita con un vis a vis, e John non era necessario allo scopo di continuare quel loro gioco strategico di botta e risposta. Ormai era come affrontare la mosse finali di una partita a scacchi potendo muovere solo il Re.
Probabilmente Moriarty aveva sottovalutato il vero valore di John, il grande cuore che sopperiva a quella normalità che sembrava persino noiosa, ma il Napoleone del Crimine non aveva avuto occasione di conoscere davvero John Watson e, non in minima parte, Sherlock era grato per questo risultato.
Non a torto il detective aveva definito John “catalizzatore di luce”. Il medico militare di ritorno dall’Afghanistan con una zoppia psicosomatica e una preoccupante assuefazione al pericolo era tutto ciò che Sherlock non stava cercando ma che, in fondo, non vedeva l’ora di trovare. L’equilibrio nel caos, la calma nella tempesta, la fiammella di una candela nell’oscurità della notte. John Watson era entrato nella sua vita per caso, portando con sé una normalità che Sherlock detestava ma in cui si immergeva comunque ogni giorno, alla ricerca della sensazione di pacata armonia che la tanto detestabile quotidianità regalava alle persone.
No, il valore di John Watson non era l’intelligenza, la scaltrezza, o l’audacia. Certo, di coraggio ne aveva da vendere, così come di forza di volontà, ma nemmeno quei tratti definivano davvero ciò che era; troppo distorti, impuri, più vicini all’essere vizi che virtù.
John era empatia pura e semplice. Era il bene di una decisione giusta presa con semplicità, delle parole adatte al momento opportuno, di un carattere semplice e nobile e tuttavia imprevedibile. Tutte caratteristiche che Sherlock aveva imparato a conoscere con il tempo, ma che Moriarty non riusciva nemmeno a vedere.
E andava bene così.
Per quanto cercasse di nasconderlo, o per quanto desiderasse ignorare quel sentimento, Sherlock Holmes era geloso di John Watson. Le mani di Moriarty avevano mosso i fili di John già una volta, in quella piscina in cui sarebbero potuti morire tutti in pochi istanti, e da quel momento tutto ciò che componeva il suo istinto gridava di tenere John lontano da James Moriarty.
Sentimenti e istinti sopiti da talmente tanto tempo che Sherlock non ricordava nemmeno che sapore avessero sulla lingua, ma che ora appartenevano a John.
Sherlock era più che disposto a sacrificare il Re per proteggere il Cavallo, nonostante una strategia simile fosse sinonimo di sicura sconfitta.
Il trillo del suo cellulare lo distrasse dai suoi pensieri e lesse il messaggio nonostante conoscesse già il mittente.
 
Sto aspettando...  – JM
 
Non era sorpreso che Moriarty sapesse quale fosse il metodo giusto per allontanare John da lui. Era logico fare leva sul suo animo buono, sul suo amore per gli altri e sul senso di protezione verso le persone che amava. Quel tratto del carattere di John era chiaro e brillante come il sole e rappresentava tutto ciò che persone come lui e Moriarty consideravano come una debolezza.
E lo era, certo che lo era. Ma a volte era tutto fuorché quello.
Si alzò velocemente dalla sedia, sistemandosi la giacca e infilandosi il cappotto. Sapeva già dove andare. Menti simili non hanno bisogno della comunicazione verbale, raggiungono istantaneamente un livello di sincronia che solo un’altra cosa può creare: una profonda conoscenza di un’altra persona, sviluppata negli anni e con fatica.
Conoscenza di lui che John non aveva, non proprio. Perché non si può conoscere davvero uno come Sherlock Holmes, così complicato e intricato e con un’intelligenza troppo sconfinata per non essere considerata un sintomo piuttosto che un motivo di vanto.
Ma John Watson era lì, in piedi di fronte alla porta quando Sherlock la aprì per uscire, con l’espressione seria e le sopracciglia aggrottate nel dubbio, come se già si pentisse della sua scelta di rimanere ma sapesse di doverlo fare. E Sherlock pensò che doveva essere stato qualcosa di illogico come l’istinto del soldato – o dell’uomo? – perché non era possibile che John avesse capito il suo piano, o quello di Moriarty, o fosse arrivato a capo di tutta quell’assurda situazione che si era creata anticipando le mosse del Re e decidendo autonomamente di sacrificarsi per lui.
No, John non sapeva nemmeno quali pezzi erano rimasti sulla scacchiera. Però qualcosa gli aveva detto di non uscire e rimanere lì e osservò Sherlock come se si aspettasse da lui una risposta per il proprio comportamento.
In un’altra occasione, Holmes avrebbe abbracciato la distorta tenerezza di quel gesto. In quel momento si limitò al silenzio.
« C’è qualcosa che non mi stai dicendo. Lo so, perché c’è sempre qualcosa che non mi stai dicendo, » disse John.
« Non ti sto nascondendo niente. »
« Bugiardo, » lo accusò subito il medico.
« Non ti sto neanche mentendo. »
« Non giocare con la retorica Sherlock, non me lo merito. »
Aveva ragione, probabilmente non se lo meritava. Ma non si meritava nemmeno di morire al suo fianco, o di affondare con lui negli abissi nel caso che il suo intricato schema di causa/conseguenza non fosse andato come aveva previsto. Moriarty aveva risparmiato John per un proprio capriccio ma non significava che non lo avrebbe ucciso per fare a Sherlock un dispetto.
« Non vai da Mrs. Hudson? » domandò allora il consulting detective, cercando di convincerlo a lasciare il Bart’s. La scelta di John di non andare a Baker Street stava già cambiando le carte in tavola, secondo dopo secondo.
John assunse un’espressione accigliata. « Dovrei? » domandò.
Sherlock fece spallucce. « La telefonata sembrava importante. »
« Eppure. »
« Eppure cosa? »
« Eppure tu non sembri preoccupartene. » ribatté il medico.
L’espressione del consulting detective si fece cupa. « Ho cose più importanti da fare. »
« Non ti credo. »
Sherlock finse un’espressione sconcertata. « Non credi che riabilitare il mio nome e smascherare Moriarty sia sufficientemente importante? »
« Non in quel senso, Sherlock, » e questa volta la voce del medico era seriamente scocciata. « Non credo che ci sia qualcosa di così importante che ti impedirebbe di correre da Mrs. Hudson nel caso fosse davvero in punto di morte. Hai quasi ucciso un uomo solo per averle dato uno schiaffo. »
« Questo l’hai già detto. »
« Perché è vero, » insisté il dottore.
« E se ti sbagliassi? »
Sherlock osservò l’espressione di John farsi ancora una volta dubbiosa. Poteva leggerlo come un libro aperto, tirare tutte i fili che potevano fargli del male, provocargli vergogna, insinuargli il dubbio. Poteva giocare con John Watson nel modo che preferiva eppure, tutte le volte che ci provava, John trovava sempre il modo di eludere le sue regole e sorprenderlo con un nuovo comportamento, un nuovo pattern che Sherlock non aveva previsto.
Come faceva? Come poteva una persona così... così normale e prevedibile ingannarlo a quel modo?
Si aspettava che John si stancasse e se ne andasse. Così come era successo qualche minuto prima, si aspettava di venire lasciato solo con un insulto.
Non accadde.
« Posso convivere con un errore se fatto in buona fede. »
Sherlock sbuffò una risatina incredula. « A costo di una vita? »
Jonh inarcò un sopracciglio. « Sul serio, Sherlock? Lo vieni a dire a un soldato? »
« Al costo della vita di una persona a cui tieni? » rincarò la dose, consapevole di colpire un nervo scoperto.
La mano di John ebbe uno spasmo ma il dottore non si scompose. « Per quanto io voglia bene a Mrs. Hudson, tengo di più a te. Se dovessi trovarti in una situazione senza via d’uscita senza di me, non me lo perdonerei mai.
L’angolo delle labbra di Sherlock si alzò brevemente. Non faceva fatica a credergli: era quella la pasta di cui John era fatto, dalla punta dei piedi fino a quelle dei capelli. Cocciutaggine, cameratismo e disarmante sprezzo del pericolo.
Era sconfitto. Avrebbe potuto vincere innumerevoli battaglie contro John Watson, annientarlo con la logica e il sotterfugio, ma John avrebbe sempre e comunque trovato un modo per vincere la guerra.
Sherlock prese fiato e cominciò a spiegargli il piano.

 
***
 
John guardò con le sopracciglia aggrottate il bicchiere d’acqua mezzo vuoto che ancora teneva in mano, pensieroso. « Me la ricordo in modo diverso, » confessò, confuso.
« Cosa ricordi? » domandò il detective dalla poltrona di fronte. Lo scoppiettio dei ceppi nel camino era un rumore fastidioso nel silenzio che circondava la loro conversazione.
Ricordava quel giorno con la forza di un incubo rivissuto più e più volte. I suoi insulti, la porta del laboratorio che sbatteva, la sua corsa in taxi verso Baker Street. Il momento in cui aveva visto Mrs. Hudson perfettamente in salute e si era accorto che era tutto un inganno – di Sherlock, di Moriarty, che importanza aveva? Era tardi, troppo tardi, e lui si era lasciato convincere come un cretino, era stato giocato come un’idiota.
« Ricordo di essere andato a Baker Street. Non mi sono fermato nel corridoio, me ne sono andato e basta. E... »
E il dopo. La strada infinita per tornare al Bart’s, la telefonata, l’addio. La caduta.
Era tutto nella sua mente, inciso a fuoco nella sua memoria; un nastro rotto che ripeteva la stesse due strofe della stessa canzone in continuazione.
Sherlock sembrò capire dove fossero finiti i suoi pensieri e scosse il capo. C’era una pazienza nelle sue azioni che John non riusciva nemmeno a ricollegare all’uomo che conosceva, ma di nuovo, l’uomo che era convinto di conoscere non era diventato suo marito, da quel che (non) ricordava.
Dio, tutta quella storia non aveva senso.
Gemette di frustrazione, strofinandosi gli occhi e la radice del naso con le dita. Sentiva il mal di testa peggiorare ad ogni frase di quella conversazione.
« Forse ho capito, » se ne uscì improvvisamente Sherlock, alzandosi con calma e dirigendosi in camera sua (loro?). Ne uscì poco dopo trasportando un dispositivo bianco simile ad un uovo, con una piccola luce sulla sommità, ora spenta.
John sapeva benissimo di cosa si trattava: un Cookie. Una sorta di dispositivo di controllo in cui veniva inserita una copia digitale della propria coscienza. Normalmente i Cookies venivano usati come robot domestici; tramite collegamenti wi-fi potevano controllare svariate parti della casa, dalle tapparelle alle serrature alla caffettiera. Impieghi più importanti volevano i Cookies utilizzati durante gli interrogatori di polizia, per spingere i criminali reticenti a confessare, o negli ospedali psichiatrici, dove i medici potevano studiare le terapie appropriate per ogni paziente con una percentuale di successo maggiore. In segreto, l’esercito utilizzava la tecnologia Cookie per selezionare i soldati adatti a ruoli di comando, o per testare la fedeltà di un soggetto particolarmente reticente alla disciplina militare. Essendo i Cookies una perfetta replica della coscienza di una persona, era come se si facesse una copia digitalmente accessibile della persona stessa. Questa copia valeva perciò come un individuo anche se una persona vera e propria, in definitiva, non lo era.
Ma questo non voleva dire che la copia non pensasse di esserlo.
Il fatto che la copia pensasse in tutto e per tutto di essere reale era ciò che rendeva questa tecnologia così controversa e infiammava i dissensi di molte fazioni politiche e umanitarie. Non era semplice convincere un Cookie a diventare poco più di un soprammobile domestico con le funzioni di maggiordomo. Nessuna persona, probabilmente, accetterebbe mai di essere lo schiavo di se stesso, così come nessuno potrebbe accettare come vera la nozione di non essere reale, in carne e ossa. I Cookies domestici venivano letteralmente sottomessi prima di essere inseriti nel sistema della casa, resi innocui e malleabili, privati di ogni volontà. Un apposto programma veniva installato nel pod bianco che conteneva il Cookie e con esso la persona incaricata di spezzare la volontà della copia digitale poteva giocare con tutto; tempo, spazio, ambiente. Poteva ricreare stanze, quartieri, persino intere città se il programmatore era esperto. Era facile portare all’esasperazione un Cookie quando si possiede il potere di far passare sei anni nel giro di pochi minuti.
Per questo John non appoggiava l’utilizzo di quella tecnologia. Aveva la sensazione di creare qualcosa per lo solo scopo di distruggerla e renderla schiava. Non avrebbe riservato quel trattamento a nessuno, vero o finto, figuriamoci a se stesso.
Ma questo non significava che John Watson non avesse una copia digitale di se stesso.
Era stato costretto due volte a sottoporsi al processo, lungo una settimana, della copia della propria coscienza. Una volta durante il servizio militare, quando dovettero decidere se promuoverlo a Capitano, e un’altra volta...
« Quattro anni fa... » cominciò Sherlock come se stesse rispondendo ai suoi pensieri, « ...quando ci siamo trasferiti a Baker Street e tu hai cominciato a lavorare ai miei casi a tempo pieno, abbiamo concordato di fare una copia digitale delle nostre coscienze, » disse.
John annuì. « Me lo ricordo. Nel caso ci fosse successo qualcosa, » disse. Non li avevano mai usati come Cookies attivi; Sherlock era sempre stato indifferente a quella tecnologia e John si era fermamente rifiutato al loro utilizzo. Tenevano il pod con i loro Cookies spento, accendendolo solo saltuariamente per aggiornare le loro copie, processo che impiegava ventiquattro ore per essere portato a compimento. Le usavano praticamente come schede di memoria.
John non ne era convinto, all’inizio, ma Sherlock aveva insistito. I Cookies avevano valore legale e, nel loro ambito di lavoro, una sorta di piano di riserva nel caso di incidente era indispensabile. Un testamento si poteva impugnare nei modi più disparati, un Cookie no.
« Avevamo pattuito di non accenderlo mai se non per aggiornarli. Per questo motivo abbiamo creato una riproduzione del nostro salotto all’interno del pod, in modo che le nostre coscienze non sapessero di essere delle copie e pensassero di passare semplicemente una giornata come tante altre, » spiegò Sherlock.
John annuì di nuovo. Si ricordava del loro accordo quando aveva dato al consulting detective il consenso a fare una copia della propria coscienza.
Senza che Sherlock dovesse continuare il discorso, John arrivò al punto. « Abbiamo infranto l’accordo, vero? » domandò, quasi rassegnato.
Il detective annuì.

 
***
 
Quando riprese coscienza fu l’odore, sopra ogni cosa, a fargli capire che era andato tutto secondo i piani.
Disinfettante e plastica. Odore d’obitorio e di sacchi per cadaveri.
Prese un profondo respiro e subito convenne con se stesso che non era stata una buona idea: la sua cassa toracica pulsava di un dolore sordo che Sherlock non sapeva se provenire dalle ossa o dai muscoli. Se lo aspettava, tuttavia; per quanto fosse una farsa, era comunque caduto dal tetto dell’ospedale.
Non dovette nemmeno aprire gli occhi prima di sentire una presenza accanto a lui. Lo riconobbe dall’odore, in realtà, così particolare e così suo da non poter nemmeno essere descritto, e la voce di John riuscì persino ad essere confortante.
« Resta fermo, » disse, la voce bassa e roca. Alcuni istanti dopo un panno morbido e imbevuto di disinfettante passava gentilmente sulla sua fronte, seguendo le linee scarlatte di sangue che gli avevano sporcato viso e capelli.
Aprì gli occhi e, nonostante si aspettasse la nausea e i capogiri causati dal mix di farmaci che gli aveva causato la sincope, dovette comunque aspettare qualche minuto prima di mettere a fuoco la stanza – e il viso di John.
Aveva gli occhi gonfi e la punta del naso rossa. Il colorito pallido e le labbra erano piegate in una linea strana, dandogli un’espressione a metà fra la preoccupazione e lo spavento. Toglieva il sangue dalla sua pelle con movimenti meccanici e nemmeno il suo respiro faceva rumore, lasciandoli immersi in un silenzio che sembrava la tanto fantomatica quiete prima della tempesta.
« Hai pianto, » disse Sherlock quando ritrovò la voce, e non era una domanda.
John soffiò una risata amareggiata. « È stato tutto fin troppo reale, » fornì come scusa. Non provò nemmeno a negare.
Per un istante, Sherlock si trovò a riflettere su cosa sarebbe successo a John se il piano si fosse svolto come lo aveva pensato all’inizio, cioè senza la collaborazione consapevole del dottore. Lo trovò un pensiero sgradevole e preferì concentrarsi su altro, lasciando quel ragionamento da parte per un’analisi successiva.
« Non lo era, » disse Sherlock, rimanendo fermo mentre John ripuliva il sangue, cercando forse una ferita che in realtà non c’era.
John serrò la mascella. « Lo so, » disse solo, facendo intuire al detective che il discorso era finito.
Lo lasciò lavorare in pace. Supponeva che quel tentativo inutile di medicare una ferita inesistente fosse un procedimento terapeutico per John, un modo per convincersi che quel volo giù dal tetto del Bart’s fosse stata davvero una barzelletta, una recita bene orchestrata in cui tutti – John incluso – avevano recitato la propria parte con maestria. Solo quando il medico ebbe finito di rimuovere tutto il sangue Sherlock si mise seduto, lentamente per non sforzare troppo il suo corpo dolorante, e poi in piedi. Doveva passare alla seconda parte del piano ma, per qualche strana ragione, era reclutante a lasciare John senza dire niente.
Anche se non sapeva nemmeno cosa dire.
Fu John a sopperire a quella mancanza.
« Un’auto nera ti aspetta all’uscita ambulanze. Immagino sia Mycroft. »
Sherlock annuì. « Hai portato tutto? » chiese allora.
John si irrigidì ed estrasse dalla tasca del giubbotto il pod contenente i loro Cookies e il piccolo computer che ne controllava il funzionamento.
Sherlock lo prese e si sedette alla scrivania di Molly, collegando tutto in pochi istanti e cominciando a digitare sulla piccola tastiera del sistema di controllo. In una decina di minuti creò magistralmente uno scenario credibile del Bart’s e riscrisse letteralmente la storia di ciò che era accaduto. All’interno del pod, la copia di John Watson e la sua stavano rivivendo il momento del suo suicidio come se fosse tutto reale e non un piano particolareggiato di Sherlock per averla vinta sul sottile gioco in cui Moriarty lo aveva incastrato.
« Funzionerà? » domandò John da sopra la sua spalla, osservandolo lavorare, teso come una corda di violino.
« Ne sono quasi sicuro, » rispose il detective. « Verrai interrogato dalla polizia, John, è una certezza. Tu non parlare. Non aprire bocca, nemmeno se fosse Lestrade a chiedertelo. Non avranno altra scelta che usare i nostri Cookies e loro diranno alla polizia ciò che noi vogliamo che dicano: che mi sono suicidato buttandomi dal tetto del Bart’s e che tu non hai colpe, » spiegò velocemente mentre la perfetta ricostruzione delle loro ultime 48 ore riempiva la memoria del piccolo dispositivo.
« E cosa succede se decidono di prelevare un altro Cookie direttamente dalla mia testa? » domandò allora il medico.
Sherlock scosse il capo. « Non lo faranno. E anche se lo facessero, la nuova copia saprebbe del piano e non mi smaschererebbe. »
« Come fai a dirlo, Sherlock? Possono usare qualsiasi mezzo per avere le informazioni che servono loro, possono ricreare qualsiasi circostanza. Come fai a sapere che non direi tutto preso da un momento di sconforto? »
« Perché mi fido, » fu la sua semplice risposta. John ammutolì.
Il tempo stringeva. Sherlock chiuse il programma una volta che il falso aggiornamento dei Cookies fu concluso e disattivò il pod, riconsegnando tutto a John. Il medico lo guardò con un’espressione illeggibile ed entrambi si ritrovarono nuovamente dentro un silenzio teso.
« Dubito che ci vedremo prima di qualche anno, » disse poi il detective, porgendo la mano a John. Ora che era arrivato il momento di salutarsi, anche se non per sempre, non sapeva come lasciarlo.
Watson osservò la mano tesa di Sherlock ma non la strinse in risposta. Prese un profondo respiro e lo guardò negli occhi, prendendo mentalmente chissà quale decisione, e senza dare al detective il tempo di capire quali fossero le sue intenzioni allungò il collo e fece incontrare le loro labbra. Fu un bacio breve, dato nella fretta di un addio imminente e con il terrore che non fosse gradito, ma nonostante la vergogna John lo guardò negli occhi come se fosse la cosa più giusta che avesse fatto in vita sua – e Sherlock pensò, da qualche parte nel suo sconfinato cervello, che probabilmente lo era.
« Apri le orecchie, Sherlock Holmes, e ascoltami bene. Torna a casa. Non mi importa quanto ci metterai, quanto tempo starai lontano, ma torna a casa. Se me lo prometti, ti aspetterò. »
« E se non potessi prometterlo? » domandò di getto il detective.
John non vacillò nemmeno per un istante. « Ti aspetterò comunque. »
Le labbra di Sherlock si piegarono in un sorrisetto ironico e dolce allo stesso tempo. John ne rimase incantato. « Non è molto credibile come minaccia, allora, » disse il detective.
« Prova a morire davvero. Ti raggiungerò all’Inferno e allora ti renderai conto di quanto fosse concreta, la mia minaccia. »
Sherlock non specificò che non credeva in una vita dopo la morte, né chiese esattamente come il medico intendesse raggiungerlo all’Inferno (come Orfeo, convinto di poter riportare alla vita Euridice, o come Achille, che seguì Patroclo nella morte? Non voleva saperlo, decise.) Fece semplicemente un passo avanti, avvicinando il volto a quello di John, e in un gesto fin troppo impulsivo per i suoi gusti sfiorò con le labbra la guancia ruvida del medico. Ebbe quasi la voglia di sussurrare una promessa, ma non lo fece.
Non poteva.

 
***
 
Una bolla di silenzio seguì il racconto di Sherlock, lasciando John in uno strano limbo di ricordi incompleti fatti di sensazioni.
Non ricordava niente di ciò che Sherlock gli aveva detto, ma sapeva che la mente aveva modi strani e infami per difendere se stessa da traumi di diversa natura. Non era impossibile che il suo cervello, a causa della caduta e del successivo trauma cranico, avesse deciso di rendere reale una situazione che non lo era.
Ricordava Mary e la sua vita con lei, dalla prima volta in cui l’aveva vista alla sera del loro matrimonio, ma allo stesso tempo sentiva che le parole di Sherlock non erano false, non potevano esserlo. Sapeva benissimo che avrebbe seguito Sherlock fino alla fine del mondo e oltre, lo aveva deciso sin da quel primo caso quattro anni prima; tutto ciò che Sherlock doveva fare era chiedere.
E se lo avesse effettivamente fatto?
Era così difficile credere che quella fosse la sua realtà? Una vita con Sherlock, accanto a Sherlock, immerso nella follia e nell’adrenalina e nel pericolo un giorno sì e l’altro pure; un’esistenza passata al fianco della persona che era migliore amico, fratello, mentore e anima gemella tutto insieme.
Non sembrava sbagliato. Quell’idea portava con sé una tale sensazione di tranquillità e pace che poteva essere solo la verità.
Incuriosito, si tolse la fede. Incise al suo interno, le iniziali “J” e “S” e la data del loro matrimonio, poco più di due mesi prima.
Inarcò un sopracciglio, una domanda sulla punta della lingua, ma Holmes lo anticipò. « Ci hai messo tanto per perdonarmi, » spiegò vagamente.
John sorrise, intenerito e divertito al contempo. « Per i due anni in cui sei sparito? »
« Per aver definito la mia stessa proposta di matrimonio come una “mera formalità”. »
A questo, John ridacchiò. « Sì, sembra tipico di te. » Si rigirò la fede fra le dita per qualche altro istante prima di prendere di nuovo parola. « Quindi Mary...? » lasciò cadere.
Il volto di Sherlock si rabbuiò. « Un’idea di Mycroft. Non sapevamo se gli uomini di Moriarty ti stessero tenendo d’occhio o meno, così elaborò una strategia a lungo termine per toglierti dalle calcagna qualsiasi occhio indiscreto. Non sei stato felice di dovertene andare da Baker Street, e nemmeno Mrs. Hudson, ma era necessario per permettere allo spettacolo di proseguire. Per tenerti d’occhio da vicino fino al mio ritorno ti fu assegnato un agente dell’MI6 che divenne la tua fidanzata e assunse il nome di Mary Morstan, » spiegò.
« Usare agenti operativi dei servizi segreti per proteggere l’amico del fratello minore. Sì, suona molto Mycroft Holmes, » commentò John, massaggiandosi le tempie con aria infastidita.
« Più per proteggere l’unico testimone oltre a lui del fatto che io ero in vita, ma sì, il concetto è quello, » precisò il detective.
Le parole di Sherlock rievocavano ricordi inequivocabili: Mary e la sua incredibile mira con le armi da fuoco, il suo passato misterioso, le sue menzogne. Una sgradevole sensazione di essere stato ancora, per l’ennesima volta, preso in giro da una delle uniche due persone al mondo che amava più di se stesso.
Ma c’era qualcosa di strano, di diverso; i suoi ricordi stavano cambiando, mutando, e all’improvviso al ristorante non c’era Mary, ma c’era Sherlock, e non stava facendo lui la proposta di matrimonio, ma era Holmes che la stava facendo a lui, con la sua solita verve minimalista e pratica e il tono di uno che vuole farsi prendere a pugni. Lo aveva effettivamente aggredito, quella sera, un paio di volte contando un commento inappropriato sui suoi baffi, e forse... forse era stato per via di quella proposta di matrimonio inappropriata e strana.
C’era troppa confusione nella sua testa e il dolore non aiutava la sua memoria a schiarirsi.
Sembrava quasi di ricordare due storie diverse, due vite distinte. In una, Mary aveva un abito da sposa sobrio ed elegante e chiedeva a Sherlock quale piega preferisse per i tovaglioli e il colore esatto dei fiori del centrotavola; in un altro ricordo, Sherlock si aggiustava nervosamente la cravatta del suo vestito, già perfetta, e continuava a guardare la propria fede di nascosto, come se non fosse ancora abituato all’oggetto (o a ciò che significava).
In un ricordo, Sherlock aveva composto una melodia per violino per lui e Mary. In un altro, l’aveva composta per lui solo, come regalo di nozze, e la suonava magistralmente davanti a tutti gli invitati.
In un ricordo, Sherlock se ne andava prima che si aprissero le danze, tornando da solo a Baker Street. In un altro, Sherlock intonava un lento con la voce e lo faceva mentre ballavano nel silenzio, loro due soli in un ristorante ormai vuoto, così tardi da essere quasi presto.
In un ricordo, Mary sorrideva nervosamente nel dire “lo voglio”. In un altro, Sherlock piegava le labbra in modo dolce e privato e annuiva la sua promessa di donargli la sua vita in cambio di quella di John, senza bisogno di parole.
Qual era la verità?
Poteva essere Mary, la donna che lo aveva ingannato sul suo passato ma che lui ricordava di avere perdonato, o era Sherlock, il punto di arrivo di un’amicizia che era per lui più cara di qualsiasi altra, più di qualsiasi cosa?
Sarebbe stato facile cedere alla consapevolezza che Sherlock era suo, e lui apparteneva a Sherlock. Due entità che avevano smesso di essere separate, poiché il nome di Sherlock Holmes senza John Watson perdeva di significato, e quello di John Watson senza Sherlock Holmes cessava di esistere.
Insieme come se non fossero mai stati davvero da soli, solo in attesa di ritrovarsi di nuovo.
Sarebbe stato facile e facile, alla fine, fu.
« Sì... sì. Credo di avere semplicemente bisogno di dormire, » disse John, facendo forza sui braccioli della poltrona per alzarsi. Sherlock fu da lui in un secondo e lo aiutò, sorreggendolo finché non ritrovò una parvenza di equilibrio e la stanza smise di fare le capriole.
« Ti accompagno? » domandò il detective. John sorrise e negò, approfittando della vicinanza per appoggiare il capo sulla spalla di Sherlock. Il detective lo abbracciò senza la minima esitazione e il sorriso di Watson si allargò.
Il medico posò un bacio sul collo del detective, sentendo con le labbra il suo battito cardiaco calmo e regolare. L’acqua di colonia che Sherlock usava di solito era ormai sparita, cancellata dall’appostamento e dalla notte burrascosa da cui erano da poco rientrati, ma questo metteva in risalto l’odore naturale della pelle di Sherlock ed era tutt’altro che sgradevole. John lo inspirò a pieni polmoni, grato di poterlo fare.
Non avrebbe rinunciato a questo per nulla al mondo.
« Scusa se ho dubitato di te... di noi. »
« John, non credo ci sia bisogno di scusarsi. »
« Mh... scusa comunque. »
Sherlock sospirò piano, posando le labbra sulla sua tempia in un bacio dolce. « Come vuoi. Ora riposa. Domani starai meglio. »
« Vieni anche tu? » domandò il dottore, non attendendo la risposta prima di allungare il collo e di baciare Sherlock sulle labbra.
« Più tardi, » rispose Holmes, indicando con un cenno del capo il violino.
John sorrise, comprensivo. « Allora buona notte. »
« Buona notte, » rispose il detective.
Il mondo non era esattamente stabile sotto ai suoi piedi, e la testa pulsava in modo fastidioso, ma John aveva tutta l’intenzione di fare sì che il trauma facesse il suo corso e guarisse per conto proprio. Entrò nella stanza che lui e Sherlock condividevano – era innegabile: i suoi maglioni erano in bella mostra all’interno dell’armadio aperto e c’erano le sue cose in quella stanza, compreso il libro che stava leggendo sul comodino dalla sua parte del letto. – John sospirò profondamente e, senza nemmeno svestirsi, si buttò sul letto e cadde in un sonno profondo.

 
***
 
Sherlock osservò John sparire dietro la porta della camera da letto, contando passi e respiri, osservandone la traiettoria incerta. Il sorriso pian piano sparì dalle sue labbra.
Era sempre stato facile, ingannare John. La fiducia che aveva in lui era inalterabile, indistruttibile. Ed era questa fiducia il punto debole su cui puntualmente Sherlock faceva leva per ottenere facilmente ciò che voleva.
Holmes non metteva in dubbio l’amore di John per lui. Così come John si fidava di lui in modo totale e completo, Sherlock si fidava di John alla stessa maniera. Non c’era persona al mondo oltre John a cui Sherlock avrebbe affidato la sua vita, la sua esistenza, la sua mente. John le possedeva tutte. John possedeva tutto.
Ma John non era suo.
Distolse lo sguardo dalla porta chiusa solo quando il silenzio della casa gli permise di sentire il lieve russare di John e si avvicinò piano alla finestra, osservando una Baker Street calma e spolverata di neve e, al di là, una Londra talmente perfetta da sembrare stampata su di una cartolina.
Il vero Sherlock aveva fatto un lavoro coi fiocchi. All’insaputa di John, aveva lavorato a quel progetto per anni, ampliando il codice ed inserendo vie su vie, parchi e palazzi, negozi e pub. Tutto a memoria, strada dopo incrocio dopo strada, fino a ricreare quella Londra che adorava e che avrebbe sempre portato nel suo cuore.
Sherlock era lui, e lui era Sherlock, ma forse non concordava con la sua scelta.
Certo, aveva sempre reagito male all’abbandono, questo era vero. Mycroft non smetteva mai di ricordargli ciò che era successo a Redbeard come monito di come affezionarsi a qualcuno – o qualcosa – portasse solo dolore, alla fine. Ma questo non perdonava, forse, intrappolare l’unica altra cosa che Sherlock avrebbe sempre avuto cara in una realtà falsa, un mondo dentro ad una scatola.
Tuttavia, Sherlock era sempre stato geloso delle cose che gli appartenevano, o che lui vedeva come tali, e Sherlock era lui quindi, davvero, capiva l’urgenza, capiva la logica dietro a quell’azione. Ne condivideva la necessità.
Ma, forse, era ingiusto.
Ingiusto per John.
Era esattamente ciò che gli aveva detto.
 
« Forse è ingiusto. »
Sherlock – il vero Sherlock – lo aveva guardato dall’altra parte dello schermo, le sopracciglia leggermente aggrottate. Potevamo capirsi senza parlare, davvero. Dopotutto anche lui era Sherlock, e il fatto che fosse consapevole di essere una copia non significava che non sapesse pensare come l’originale.
Anzi.
« Lo è, » confermò l’originale.
« Allora perché? »
« Perché mi serve. »
La copia capiva.
« John non ne sarebbe contento. »
« Lo so. »
Il mondo del pod era ancora vuoto, bianco e asettico in modo tale da essere quasi fastidioso, ma pian piano forme e contorni cominciavano a formarsi in lontananza, le idee dell’originale che prendevano forma nello spazio vuoto del Cookie.
La copia osservò il volto dell’originale; le occhiaie profonde, le rughe d’espressione, il pallore. Il labbro spaccato e quel livido violaceo alla radice del naso. La preoccupazione, l’ansia nei suoi occhi azzurri e stanchi. Il panico di quando si sente scivolare via dalle mani quel qualcosa che si era dato per scontato.
Sherlock non aveva mai reagito bene all’abbandono ed era geloso delle cose che gli appartenevano e John, una cosa che gli apparteneva, lo stava abbandonando. John aveva scelto di appartenere ad un’altra persona.
Per quanto fosse eccentrico, lunatico e caratterialmente imprevedibile, Sherlock non era egoista. Non nei confronti delle persone che amava. Aveva letto l’intenzione negli occhi di John, la sua dedizione per Mary, e aveva capito in pochi secondi che a lei avrebbe perdonato tutto, sempre. John la amava.
Per quanto Sherlock gli appartenesse, John non era suo.
Così aveva deciso di creare una realtà fittizia in cui lo sarebbe stato.
« Una situazione in cui esistono, contemporaneamente, un mondo in cui John è tuo e un mondo in cui non lo è, » disse la copia. « Paradossale. »
« Una situazione in cui esistono, contemporaneamente, un mondo in cui sono felice per John e uno in cui sono felice con John, » lo corresse l’originale, e la copia non faticò a cogliere la differenza. « Solo perché è un paradosso non significa che non possa esistere. Basta non aprire la scatola. »
Una scatola di Schroedinger.
« Questo ti soddisfa? » domandò la copia. « Sapere che dentro il Cookie io e John stiamo vivendo la vita che tu non avrai mai. »
L’originale si fermò per un attimo, aggrottando le sopracciglia. I suoi pensieri erano lontano, la copia poteva quasi sentirli, ma ciò non gli impedì di rispondergli.
« No. Ma sarebbe peggio senza. »
Sherlock era lui, e lui era Sherlock, e la copia capiva, davvero. L’opportunità che l’originale gli stava dando valeva quanto una vita intera, era una vita intera, e lui non l’avrebbe rifiutata, al costo di inventarsi bugie su bugie da raccontare alla copia di John per farlo stare lì, con lui, fino a che il pod contenente i loro Cookies avrebbe avuto energia sufficiente. Per amarlo, e onorarlo, anche a costo di ripetere dieci, cento, mille giorni tutti uguali.
Fino a che il loro mondo sarebbe finito, e la scatola aperta nuovamente.

 
***
 
Nel salotto del 221B di Baker Street, Sherlock Holmes stava aspettando.
Mrs. Hudson lo aveva aiutato a decorare il salotto, passandogli i fili di luci da appendere allo specchio e al camino, e Lestrade si era presentato con una scusa indecente, aiutandolo a decorare l’albero. Molly aveva telefonato dicendo che avrebbe portato il dolce e Anderson, che dal suo ritorno sembrava cercare ogni scusa buona per vederlo, aveva assicurato che le bollicine non sarebbero mancate.
Sarebbe stata una bella festa della vigilia, al 221B di Baker Street, ma Sherlock non aveva apprezzato il tentativo maldestro di aiutarlo. Quelle erano cose che organizzava John, di solito, e non sarebbe stata la pietà ad impedirgli di notare ancora di più la sua assenza.
Il ticchettio incessante dell’orologio stonava con il silenzio, interrotto solo dallo scoppiettio dei ceppi nel camino. Sherlock non era capace di rimanere a lungo senza pensare così si concentrò sul suo segreto; quel Cookie sul comò in camera sua dentro al quale lui e John, forse, stavano organizzando una festa di Natale simile a quella e sghignazzavano, ironizzando sui vari modi di uccidere un uomo con le decorazioni natalizie.
Il suo piccolo paradosso dentro una scatola che non poteva aprire.
Stava considerando uno spartito per violino, qualcosa per ingannare l’attesa e permettere a se stesso di trovare un equilibrio fra l’insofferenza e la sopportazione, ma la sua melodia preferita invase il silenzio e, per un istante, Sherlock respirò meglio.
« Sherlock? Siamo arrivati! »
La voce di John.
Il sorriso nacque spontaneo, ma quando vide il suo riflesso allo specchio si sbrigò a cancellarlo. La voce di Mary accompagnava quella del marito e, in sottofondo, la risata della loro bambina fece esclamare Mrs. Hudson, che li stava accompagnando di sopra.
« Ah, ci sei! » disse John una volta entrato, aiutando subito Mary a togliersi il cappotto. « Sai, oggi la piccola ha detto la sua prima parola! » disse felice, un sorriso abbagliante sul volto.
Sherlock si dipinse sulle labbra il suo solito sorrisetto strafottente. « Ovviamente la sua prima parola è stata “Sherlock” » ironizzò.
John gli lanciò un’occhiataccia, Mary rise. « In realtà è stata una sillaba ma John continua a dire che era metà della parola “papà”. »
« Lo era! » disse il medico. « Ne sono sicuro! »
Sherlock deglutì il risentimento e stirò le labbra in un lieve, cauto sorriso. Guardò John negli occhi senza dare a vedere la gelosia, la possessività, il fastidio che quella scena gli provocava. Pensò ad un mondo in cui tutto era solo loro ed in esso trovò il conforto che gli permise di non far tremare la sua voce nel pronunciare le parole che ne seguirono.
« Meraviglioso, John. Sono felice per te. »
   
 
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