Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: chocobanana_    30/12/2015    6 recensioni
[Questa fic partecipa al contest And this, kids, is how I met your father indetto da hirondelle_]
| Rivetra | Introspettivo; Malinconico; | Giallo | What if?; Character death |
[...] «Quel peluche è davvero irritante… non capisco come le sia venuto in mente di regalartelo…» mormorò, passandosi una mano sul viso stanco, ombroso, mentre un’espressione amara si dipingeva lentamente su di esso. E più lo guardava, più ripensava a lei. Quella donna forte e fragile allo stesso tempo. Quella donna che aveva scelto la via del soldato anche quando aveva qualcosa da perdere. [...]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo, personaggio, Petra, Ral
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Shingeki no Kyojin
Prompts: Peluche, Albero  
Pairing: Rivaille/Petra
Genere: Introspettivo; Malinconico.
Rating: Giallo.
Avvertimenti: What if?; Character death.
Note: Vorrei fare delle precisazioni! Per chiunque se lo stesso chiedendo, il titolo significa “il profondo legame emotivo tra due persone, specialmente se separate da distanza o morte”, ed è una parola ebraica. Appena ho letto il significato ho pensato che potesse essere un titolo piuttosto interessante e che, soprattutto, centrasse con la storia che andrete a leggere. 
Poi, non ho voluto specificare il nome della bambina perché in realtà mi piaceva di più lasciarlo nel vago. Non ho un motivo davvero preciso per giustificare questa cosa, mi piaceva semplicemente così ecco. Spero che possiate apprezzare e che, soprattutto, non vi infastidisca! Magari mentre leggete vi verrà in mente un bel nome e potrete immaginarla con quello. 
Come ultima cosa volevo specificare il canonverse. La fic è prevalentemente divisa in due parti se così si può dire. Be’ una parte la immagino come prequel (ovviamente), mentre l’altra come una sorta di sequel che però, come capirete, non segue l’opera originale (sono capitan ovvio ahah) anche perché viva il What If yo!

Con queste note, vi lascio alla lettura! Prima però vorrei ringraziare la mia beta, la mia mitica Ohana (happley qui su efp) ❤︎
Spero che la fic possa piacervi (è stata tipo un parto okay ahah, anche perché non avevo mai scritto su snk essendomi appassionata da poco va). Be’, Alla prossima!
chocobanana_ 

 
Mizpah
 

Si chinò, borbottando le solite lamentele contro il disordine perpetuo di quella casa. Eppure le parole “non lasciare cose in giro” non gli sembravano poi così difficili. Ma, puntualmente, si ritrovava ad inciampare sugli oggetti più disparati: un giocattolo, un piatto, uno strofinaccio. Tutto. Strinse gli occhi, per mettere a fuoco ciò che aveva raccolto dal pavimento. Le dita si erano chiuse attorno a qualcosa di soffice, di morbido, e allo stesso tempo ruvido, un tessuto che sotto la pelle dei polpastrelli sembrava piuttosto rovinato. Il buio non lo aiutava particolarmente nel suo intento. Riuscì a riconoscere    l’oggetto solamente quando se lo ritrovò ad un palmo dal suo naso. Un peluche di pezza. Quel peluche di pezza. Quello di cui non riusciva a sopportare nemmeno la vista. 
Chi l’avrebbe mai detto, il Caporal Maggiore Rivaille, l’uomo più forte del genere umano, che non riusciva a sostenere la vista di un insulso coniglio finto. Lo innervosiva, diceva. Ma sapeva benissimo che non era quello il problema. Non bastava il viso deluso e dispiaciuto della propria figlia per convincerlo a dire ad alta voce cosa lo turbasse veramente. 

«Odio trovare questi maledetti giocattoli in giro» biascicò, a denti stretti, mentre si ritrovava ad aprire lentamente la camera della bambina. Dormiva profondamente. Il respiro lento, il piccolo petto che faceva ritmicamente su e giù. Ogni tanto si agitava, scalciando appena le coperte pesanti sotto le quali si era rifugiata. L’uomo posò il peluche a fianco alla nuca di quell’essere così piccolo. Si fermò ad osservare meticolosamente i lineamenti di sua figlia. Era incredibile come fosse così simile a lei. Era incredibile come lui, proprio lui, si era ritrovato a fare il padre, o almeno ci provava. Era consapevole di non essere poi così bravo. Per un sorriso che riusciva a strapparle, c’erano altri cento bronci, altre cento smorfie e, soprattutto, altre cento lacrime. Lei sarebbe stata sicuramente più brava. Lo avrebbe aiutato e sarebbe stata la mamma perfetta, quella che ha sempre una parola dolce da dire, una carezza da dare. L’avrebbe difesa nonostante gli errori commessi, l’avrebbe punita, ma gentilmente. Mentre squadrava il viso addormentato della bambina ed il muso rattoppato del peluche, avvertì una fitta in mezzo al petto, lancinante ed acuta. Invisibile. Un dolore che nemmeno il più duro dei combattimenti avrebbe potuto procurare. Un’altra persona avrebbe pianto, ma lui, ormai, non credeva avesse senso farlo. Il tempo continuava a passare e disperarsi su ciò che era stato sarebbe stato completamente inutile. 

«Quel peluche è davvero irritante… non capisco come le sia venuto in mente di regalartelo…» mormorò, passandosi una mano sul viso stanco, ombroso, mentre un’espressione amara si dipingeva lentamente su di esso. E più lo guardava, più ripensava a lei. Quella donna forte e fragile allo stesso tempo. Quella donna che aveva scelto la via del soldato anche quando aveva qualcosa da perdere. L’unica donna che gli aveva fatto provare qualcosa di concreto, quella con cui aveva avuto perfino una figlia. Petra Ral, in un modo o nell’altro, riusciva sempre ad essere nei suoi pensieri, in positivo e in negativo. La ricordava con affetto, ma anche con un’infinita nostalgia. Sì, gli mancava, e quel peluche non faceva che sbattergli in faccia quella cruda verità. Lei era morta, e aveva lasciato lì solo due cose: una bambina da accudire e uno stupidissimo coniglio di peluche che sembrava prendersi gioco di lui. D’accordo, Petra l’aveva regalato alla loro bambina per non farla sentire sola. Ma lui proprio non lo sopportava. Sicuramente faceva da compagnia alla piccola, ma per lui era solo un incentivo a sentirsi ancora più solo. 


Si passò una mano sulla fronte, sudato. Odiava quel caldo appiccicoso, così come l’odore che si diffondeva nel campo di addestramento per via dell’afa a dir poco insopportabile. Eppure doveva essere lì, a camminare lentamente sui ciottoli di quella strada rovinata, ad osservare tutte quelle reclute che si dimenavano, combattevano, facevano finta di aver trovato un pretesto per vivere. Salvare l’umanità, dare una speranza. Quelli che erano sogni irrealizzabili. Perché l’uomo, si sa, è debole. È un problema di razza. Sbuffò, terribilmente annoiato. Guardare tutti quei cadetti gli riportava alla memoria eventi del suo passato. Cose che avrebbe tenuto nascoste, sepolte. Lui non era mai stato un semplice cadetto. Lui si era trovato davanti ad una scelta ben diversa dalla loro. Un battito di ciglia e si era trovato lì, sotto al sole cocente, indossando una divisa che all’inizio non aveva nessun significato. Lui viveva per sé stesso, per Furlan, per Isabel, non per l’umanità.  Ma alla fine quella era stata la sua decisione. La Legione Esplorativa. Aveva lasciato sbollire l’idea di un’inutile vendetta per continuare a vivere sotto quel cielo terso che prima gli sembrato troppo lontano. Invece loro, tutti quei ragazzi, sapevano di poter avere tre possibilità. O almeno due: vivere o morire. Rivaille era stato costretto a scegliere la seconda, eppure riusciva ancora a combattere. 

L’uomo dai capelli corvini si fermò, si guardo intorno, poco interessato. Fece per riprendere il passo quando un corpo gli cadde rovinosamente davanti. L’osservò, scarsamente incuriosito e, anzi, infastidito per la polvere che si era depositata sulle proprie scarpe. La figura che un secondo prima era accasciata ai suoi piedi, si alzò di scatto per tornare all’attacco. Rivaille squadrò quel corpo così esile, i capelli castano chiaro che gli ricadevano sulle spalle, ora impiastricciati di terriccio, i movimenti rallentati dal dolore per la caduta subita. Un attimo e quella ragazza era ancora a terra. Ansimava, cercava invano di rialzarsi, per poi ricadere sui gomiti. Un gemito sofferente, un tentativo di ripresa, un altro gemito, un’altra caduta rovinosa. Eppure, nonostante il dolore, nonostante i calci, lei era lì, distesa, che continuava a provare, senza mai arrendersi. Rivaille pensò che dovesse essere proprio stupida. Se non si è abbastanza forti per vivere allora tanto vale arrendersi. In più, quella era solo una ragazzina, piccola e debole. Le lanciò uno sguardo rassegnato. Meglio continuare quell’ispezione, magari avrebbe trovato qualcuno degno di nota. Ma le sue gambe non si muovevano, le sue iridi grigie continuavano a seguire i movimenti stanchi di quella ragazza. Riuscì soltanto a muovere un passo nella sua direzione.

«Mi sembra abbastanza» affermò, parandosi davanti al corpo ormai inerme di lei. Il ragazzo che la stava affrontando fece una smorfia, ma indietreggiò senza dire una parola, in cerca di qualcun altro, magari di qualcuno alla sua altezza. Rivaille abbassò gli occhi verso di lei. Non era preoccupato. Ma continuare a colpirla sarebbe stato solo uno spreco di tempo e di energie. Tra di loro, nessuno poteva permetterselo. Inutile umiliare una stupida e incosciente ragazzina se poi si moriva solamente per un gesto scoordinato di qualche maledetto gigante. 

«Alzati» ordinò con tono fermo e piatto, «non è il momento di riposare» aggiunse, prima di voltarsi per andare via. Si arrestò quando udì la ghiaia scricchiolare alle sue spalle. La ragazzina dai capelli castani si stava lentamente rialzando. Le gambe tremanti, le braccia livide. Rivaille se la immaginava. Il viso pieno di polvere, uno squarcio sulla guancia, il labbro gonfio, violaceo, sangue che gocciolava dal naso, dalle scorticature. Non c’era bisogno di guardarla, la sua immagine era nitida davanti a sé nonostante le desse le spalle. Lui non disse nulla. Non si mosse. 

«Se lei… se lei è della Legione Esplorativa cosa ci fa qui?». La domanda della ragazza squarciò il silenzio. Rivaille fece mente locale. Perché era lì? Perché gli era stato ordinato. Non aveva chiesto il motivo di quella decisione. Sapeva soltanto che presto sarebbe rientrato. Che probabilmente, a breve, ci sarebbe stata un’altra spedizione a cui partecipare. Quindi, riflettendoci, non aveva una vera risposta a quel quesito. Ma, effettivamente, non era qualcosa che riguardava quella donna. L’uomo rimase immobile, nessun suono fuoriuscì dalle sue labbra. «Lei non dovrebbe essere qui, no? Dovreste essere lì fuori! Dovreste proteggerci tutti!» esclamò, sperando di avere una risposta, o almeno un segno dall’uomo che aveva davanti. Eppure l’altro sembrava sordo, indifferente, distante. 
Rivaille era già stufo di tutte quelle parole, sempre le stesse. Le uniche che venivano enunciate quando si trattava della Legione Esplorativa. Come se potessero passare l’intera vita a girovagare fuori le mura. Sarebbe stato uno spreco di risorse. Le loro spedizioni erano complesse, studiate nel particolare. Ma cosa potevano saperne gli altri? Quelli che si godevano la vita da un posto privilegiato, da un posto al sicuro. Quella ragazzina era come tutti gli altri. Stesse convinzioni, stesse parole, stesso disprezzo per quelli che, ogni giorno, davano la vita per lasciare aperta la via del progresso, della speranza, all’umanità. Basta, era stufo. Tutto quel disordine lo infastidiva, così come il caldo, i gemiti sofferenti, le urla. Aveva bisogno di silenzio. Solo e soltanto di quello. 

«Quando mi arruolerò nella Legione Esplorativa… non perderò nemmeno un minuto!» aggiunse, alzando il tono della voce, che all’ultimo venne meno, interrotta da una forte tosse. Parlava come se lo stesse accusando. Gli aveva appena detto, tra le righe, che stava perdendo tempo. Rivaille digrignò i denti, irritato. Forse non avrebbe dovuto interrompere la lotta. Si voltò, e raggiunse la ragazzina, prendendola per il colletto della camicia. «Io non ti devo nessuna spiegazione. Se proprio devi dare aria al cervello, ringrazia» sibilò, tra i denti, per poi metterla giù. Eppure la sua espressione rimaneva sempre la stessa: c’era sempre quella rabbia ad illuminarle gli occhi, quella voglia di rivalsa che per nulla gli era estranea. Le iridi color ambra continuavano ad essere severe, fisse su di lui, come a giudicarlo. Non che gl’importasse particolarmente. Rivaille borbottò qualcosa, poi si voltò, si allontanò da lei, con il peso di quello sguardo a gravargli sulle spalle. 

Mentre camminava, attraversando velocemente il campo, trattenne un risolino. Quella ragazzina davvero credeva di poter combattere i giganti? Sarebbe morta subito, invano, come tanti altri. Chissà perché, lei che poteva scegliere, voleva correre dritta in bocca alla morte. Bruciando le tappe, bruciandosi la vita. Le persone che avevano la possibilità di “vivere” la buttavano, non le davano abbastanza peso. Chiunque, da dove veniva lui, avrebbe dato qualsiasi cosa per una vita all’interno delle mura. In trappola, ma pur sempre alla luce del sole. 

 
XXXXX

Rivaille passò per la seconda volta davanti alla fila dei nuovi soldati. Alcuni avevano uno sguardo serio, altri impaurito. Non erano tantissimi, ma nemmeno così pochi. Avevano preso una decisione stupida o, forse, coraggiosa, nessuno poteva dirlo con certezza. La Legione Esplorativa andava piano piano fallendo sempre di più nel suo intento, eppure c’era ancora chi ci credeva. Chi poneva nelle ali della libertà la propria speranza. E mentre li squadrava, uno per uno, eccoli lì, quelle iridi color ambra, che alla luce sembravano ancora più chiare, quasi irreali. Rivaille non credeva esistesse un colore simile. Stavolta non avvertiva rabbia, ostilità, ma solo determinazione. I loro sguardi si incrociano per qualche secondo, niente di più. Rivaille si avvicinò ad una donna alta, dalla lunga chioma castana e un sorriso poco raccomandabile sul volto. Non ebbe il tempo di chiedere nulla che subito l’altra parlò: «La ragazzina si chiama Petra Ral, dicono che sia davvero promettente». Rivaille la guardò ancora una volta, mentre nella sua mente la vedeva cadere ancora una volta ai suoi piedi, sconfitta. Promettente, dicevano. Scosse piano la testa, non molto convinto. «Non ci conterei troppo» disse, senza aggiungere altro. 
 
XXXXX

Petra alzò il viso. Guardava dritto davanti a sé, mentre tratteneva la voglia di voltarsi, di osservare i lineamenti, il viso dei suoi nuovi compagni. Si costrinse a reprimere la curiosità. I suoi occhi incrociarono quelli del loro capitano. La persona che li aveva scelti, a cui dovevano obbedire. Petra ripensò a quel loro primo, bizzarro incontro e si lasciò sfuggire un leggero sorrisetto. Chissà se l’avrebbe trattato in quel modo se avesse saputo chi era, se avesse saputo cosa sarebbe diventato quell’uomo. Avrebbe insultato il soldato più forte dell’umanità? Forse sì, forse no. Fatto sta che quel giorno, quando lo aveva visto lì, non era riuscita a controllarsi. Aveva dato voce ai propri pensieri, quando avrebbe soltanto dovuto pronunciare un “grazie” perché, in fondo, in un certo senso l’aveva salvata pur non essendo tenuto a farlo. Chissà se il capitano lo ricordava quel giorno, chissà se si aspettava di vederla arrivare fin lì. Probabilmente no. Ma era stato proprio lui a riconoscere il suo valore come soldato. Petra non era più una ragazzina, era diventata un soldato, uno dei migliori. La Squadra Operazioni Speciali. Così si chiamava il suo nuovo team, quello per cui avrebbe svolto tutte le missioni (le più difficili), quello per cui avrebbe dato la vita, se necessario. 

«Non ho altro da dire» disse Rivaille, osservandoli tutti, ancora una volta. Erd, Gunther, Oruo e Petra si lanciarono occhiate fugaci. C’era chi si conosceva già, chi si era ritrovato davanti ad un altro in combattimento, chi non era mai stato notato durante l’addestramento. Ma ora erano una squadra. Dovevano imparare a conoscersi, a collaborare, a fidarsi gli uni degli altri, evitando passi falsi. «Potete andare» affermò Rivaille, un po’ seccato, «e iniziate a mettere in ordine» aggiunse, ancora più serio. I soldati gli lanciarono uno sguardo veloce. Quella strana richiesta sarebbe diventata la loro routine, e si sarebbero abituati presto. Ma in quel momento, quando sentirono per la prima volta quelle parole, rimasero straniti. Rivaille fece un gesto scocciato con la mano, e gli altri uscirono dalla stanza, pronti ad eseguire gli ordini senza chiedere spiegazioni. 

Petra si bloccò davanti all’uscio della porta, esitò, prima di trovare il coraggio di dire qualcosa: «Glielo ricordo, non perderò tempo, ho intenzione di fare il possibile per aiutare le persone a mantenere viva la speranza della gente». La voce le tremava un pochino. Strinse il pugno e fece per andarsene, sicura che non avrebbe ricevuto nessuna risposta. «Non c’è bisogno di perdere tempo per ripetermi le cose» ribatté l’altro. Si ricordava benissimo il loro primo incontro, e tutto quello che gli era stato detto. Petra sorrise. Non sapeva bene perché ma quel sorriso era nato in modo spontaneo al sentire quelle parole. «Ora vai a pulire» ordinò Rivaille, sbuffando. La ragazza annuì con forza ed uscì dalla stanza per raggiungere gli altri. Rivaille osservò la porta che si richiudeva alle sue spalle. Quella ragazza, quella donna, era cresciuta. Continuava ad irritarlo, ma la rispettava. Rispettava la sua forza e la sua determinazione. Sicuramente, in quel momento, non si sarebbe mai sognato di amarla. Legarsi a qualcuno, in quel mondo, era come suicidarsi. Ma nel corso della vita di una persona avvengono sempre cose inaspettate e lui, alla fine, aveva ceduto. Quella ragazza che gli era caduta davanti, che continuava a rialzarsi, che correva fuori dalle mura, che combatteva i giganti meglio di tanti altri soldati, che continuava a credere nella libertà avrebbe attirato un po’ troppo la sua attenzione. Se ne sarebbe accorto troppo tardi.

 
XXXXX

Odiava quando quelle due non rispondevano. Quando sgattaiolavano fuori di casa e andavano chissà dove. Sprecavano il tempo che avrebbero potuto passare come “famiglia”, quello tra una spedizione e l’altra, quello che non era mai sicuro ci sarebbe stato. Ed eccole ancora lì, ancora una volta sotto quel maledettissimo melo. Ridevano. Madre e figlia. Felici. Una felicità che emanava luce. Rivaille quasi la invidiava. Appunto, quasi. Non si era mai fermato a pensare alla felicità. A come si realizzasse, a come si perdesse. Ma sapeva riconoscerla, chissà come. S’incamminò verso l’unico albero che ancora sopravviveva intorno a quella casa tutta da sistemare (il disordine che regnava lì dentro lo faceva impazzire). Sua figlia gli corse incontro, con un sorriso luminoso sul volto, in mano stringeva trionfante qualcosa. 

«Papà, papà! Mamma mi ha fatto un regalo!» esclamò, tutta felice, prima di inciampare e rotolare nell’erba, senza smettere un attimo di ridere. Rivaille si avvicinò al corpicino della bambina e osservò la faccia indifferente (ma che lui considerava idiota) di quel pupazzo per una manciata di secondi. «È orribile» sentenziò, facendo una smorfia. La bambina sbuffò e si rialzò, per tornare di corsa dalla madre e raccontarle le parole del papà. Petra scoppiò a ridere. Una risata cristallina che catturò l’attenzione di Rivaille. 

 «Lascia stare il nuovo membro della famiglia e vieni qui» rise la donna, riversando il viso un po’ all’indietro. L’uomo scosse la testa, borbottando qualcosa sul dover “sistemare casa” e tornò indietro. Allontanandosi dalle donne più importanti della sua vita. Sedersi su quel prato? Nemmeno per sogno. Le avrebbe aspettate a casa, seduto al tavolino, a leggere documenti. Petra sarebbe andata presto da lui, con una tazza di tè fumante in mano, la bambina al seguito e un sorriso dipinto sul volto. Rivaille l’avrebbe baciata, per poi lasciarla andare nuovamente. E, un giorno, si sarebbe pentito di non aver passato più tempo con loro, sotto quell’albero di mele. 


Rivaille aprì lentamente la porta di casa. Sì, la loro casa. Quella che Petra aveva voluto con tutte le sue forze. Era stanca degli incontri notturni, dei gemiti e delle risate sommesse, dell’oppressione di quelle mura che le ricordavano soltanto la morte, delle promesse effimere in quel mondo maledetto. L’uomo strisciò i piedi, poi si fermò. Appoggiò la schiena al tronco umido di quell’albero che aveva visto crescere sua figlia, si lasciò cadere. L’erba era soffice. Solitamente non si sedeva mai lì, sotto quei rami. Odiava perfino quello. Ma si sentiva troppo abbattuto per potersi allontanare da quel posto. La vedeva, proprio lì, vicino a lui. Petra stava accarezzando i capelli della loro bimba, amorevolmente, ai piedi di quell’albero. Sotto quelle fronde Petra aveva regalato quel maledetto peluche alla figlia, sotto quelle fronde le aveva insegnato qualche parolina, sotto quelle fronde le aveva letto le fiabe, e sotto quelle fronde non era più tornata. Aveva lasciato un vuoto, aveva lasciato erbaccia. Mentre ancora la loro bambina la cercava lì in quel posto. Si sedeva, parlava con il peluche, guardava l’orizzonte. Osservava. Aspettava. Aspettava l’eternità, perché la sua mamma non sarebbe tornata. La sua mamma la proteggeva dall’alto delle nuvole. Anzi, li proteggeva, e li amava. Dopo un po’ la bambina dai sottili capelli castani aveva smesso di cercarla. Se n’è andata per realizzare il suo sogno, le aveva detto, se n’è andata perché Petra non si era mai arresa. Aveva sempre combattuto per lui, per lei, per se stessa, per tutti gli altri. Aveva scelto di morire invece che di vivere con il rimpianto di essersi fermata. Petra lo sapeva, sapeva benissimo che tutti, prima o poi, muoiono. E così era stato per lei. Però, almeno, era morta per dare speranza, avrebbe sicuramente detto, convinta delle proprie parole. 

«Papà, perché sei sotto l’albero? Ti ha detto di aver visto la mamma?» la bambina lo fissava con quei grandi occhi grandi. Poi zampettò al suo fianco e gli si sedette vicino, sempre stingendo il suo amico peluche. «L’hai ritrovato tu, papà? O è stata la mamma?”». Rivaille non rispose, si limitò a stringerla a sé, in un gesto goffo, ma di cui sentiva di avere l’esigenza. La bambina rimase in silenzio, nonostante la risposta non arrivasse. Alzò gli occhi verso i rami dell’albero. «Sono sicura che lei continui a sedersi qui e non ci dica niente» mormorò, aggrappandosi al padre. Rivaille abbassò lo sguardo verso di lei, «non possiamo saperlo». 

Si alzò, prendendo in braccio la propria figlia, stringendola forte. Si strofinò i vestiti per ripulirli almeno in parte e si avviò verso casa. Un attimo prima di entrare di voltò verso quel grande albero di mele che continuava a sovrastarli. Se la immaginò di nuovo: i capelli ormai lunghi fino alla vita, le rughe d’espressione più marcate, il suo solito sorriso gentile, un po’ stanco. Aveva la mano alzata, la scuoteva. Li stava salutando un’ultima volta. Sotto le fronde di quell’albero c’era tornata. Era passata per un fugace e ultimo addio. Rivaille sentì un nodo mozzargli il respiro. Accarezzò i capelli della bambina e abbassò lo sguardo sulla sua nuca. 


 
«Ah, piantala di lasciare cose in giro, soprattutto quel maledetto coniglietto di peluche, è davvero orribile». 

 
   
 
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