Chiedo perdono.
Penso di aver raggiunto il massimo
della mia demenza.
suni
FAZZOLETTO
Konoha era immersa in un’estate
tanto calda da portare il corpo umano rasente la soglia di liquefazione dei
solidi. Il sole picchiava senza alcuna pietà, con raggi come randellate
che stordivano chiunque azzardasse l’insana temerarietà di
avventurarsi fuori dalle cantine, dalle docce e dalle bacinelle colme di
cubetti di ghiaccio. Davanti alla macelleria c’era uno sparuto gruppetto
di coraggiosi che si davano sollievo l’un l’altro lanciandosi
secchiate d’acqua, mentre facevano la fila nell’attesa del proprio
turno per passare una rigenerante mezz’ora nella cella frigorifera. I
quarti di bue e le coste di maiale, derubati del proprio posto, giacevano sotto
il sole cuocendo lentamente.
Per cena, braciolata
in piazza. Era evidente.
Shikamaru Nara gemeva
ininterrottamente un lamento straziato e flebilissimo
da almeno quattro ore. L’intelligentissimo shinobi aveva costruito una
sommaria amaca sospesa a pelo d’acqua sulla riva del lago: sdraiandosi
lì aveva metà del corpo a mollo. E poteva dormire.
Ma quella era comunque una buona
occasione per lamentarsi, e lui non l’avrebbe sprecata.
In quel generico clima di spossatezza
e calura generalizzata, solo un pugno di eroi – o di stolti, secondo i
punti di vista – resisteva impavido e incurante della canicola.
Naruto Uzumaki non aveva fatto caso al
caldo. E se anche se n’era accorto, s’era detto che ci sarebbero
voluti ben più di trentasette gradi all’ombra
per interrompere l’allenamento intensivo del futuro Hokage di Konoha.
Siccome il suo cervello impediva al corpo di percepire qualunque cosa che non
fosse lui stesso a stabilire, Naruto non stava soffrendo il caldo. Aveva
già perso due chili e mezzo di sudore nelle ultime cinque ore e grondava
come un annaffiatoio, la sua faccia era pericolosamente paonazza e ustionata,
ma lui non sentiva caldo.
Kiba, sporgendosi
alla finestra con un grosso asciugamano fradicio avvolto intorno alla testa,
aveva scommesso ore prima un pranzo da sei portate con Choji
che il jinchuuriki sarebbe entrato in coma entro sera, ed ogni tanto si
affacciava a controllare che fosse ancora in piedi. Al momento, comunque,
Naruto resisteva.
L’altro psicopatico –
quella era la definizione che i più, a giusto titolo, gli attribuivano
da quando era tornato al villaggio – che si ostinava a non cercare riparo
prima che una commozione cerebrale o un colpo apoplettico lo stroncassero
anzitempo, privando Konoha per la seconda volta del suo ultimo sharingan
naturale, era Sasuke Uchiha. A chi azzardava timidi quesiti sul motivo che lo
spingesse a restare al sole senza apparentemente far nulla di preciso,
inframmezzate ai ringhi e agli sbuffi, aveva fornito più risposte
differenti, tra le quali :
-
Se lo può fare il dobe,
figurati se non posso io.
-
Sono un Uchiha, e gli Uchiha non si fanno influenzare da
piccolezze come le condizioni atmosferiche.
-
Caldo? Io non sento affatto caldo (rantolando).
-
Stai dicendo che secondo te non ho il fisico per
resistere alla temperatura di ebollizione? Come osi?
A quel punto aveva cercato di freddare
il malcapitato interlocutore, all’occasione Konohamaru, e nessuno aveva
più osato chiedere nulla. Del nukekin redento
avevano timore un po’ tutti, ché in più frangenti aveva
dato prova di una certa brutalità. Famoso il resoconto dell’episodio
in cui aveva spezzato le scapole di un avversario a mani nude,
all’età di dodici anni.
Che cosa stava facendo Sasuke Uchiha?
Era seduto a braccia incrociate su un
masso, a pochi metri dal punto in cui Naruto insisteva nel lanciare jutsu contro una parete rocciosa per perfezionarsi. Era
immobile, compito, sotto il sole cocente. Il suo kimono gocciolava lentamente e
maestosamente, con ticchettii perfettamente ritmati, e il suo aristocratico
sudore formava una graziosa pozza ovale ai piedi del sasso. Il suo incarnato
niveo stava acquisendo un’inquietante sfumatura carminia
che prometteva di passare in tempi brevi al viola purpureo. L’insolazione
era garantita, ma Sasuke aveva l’espressione impassibile di chi sta
prendendo il fresco in riva al mare in autunno. Di tanto in tanto lanciava commenti
edificanti, variando dal “E quello sarebbe un rasengan?”
a “Ti somiglio più io di quel clone,” ad ancora “Hai
mirato ad occhi chiusi o il kunai volevi veramente
lanciarlo a caso?”
Se non fosse già stato ripetuto
dal giovane genio milioni di volte che del compagno di squadra non
gl’importava un accidenti e che la stessa esistenza di Naruto lo
sprofondava nella massima indifferenza, si sarebbe potuto supporre che Sasuke
stava abbrustolendo al solo scopo di punzecchiarlo. Ma di certo, colpi di sole
o meno, nessuno era così pazzo da avanzare una simile ipotesi ad alta
voce.
Accanto a Sasuke c’era
l’unico che veramente non stesse soffrendo: Hozuki
Suigetsu, membro del Falco e provvisorio abitante di Konoha da quando il suo
leader vi aveva fatto ritorno, si trastullava liquefacendosi e poi
ricomponendosi in un corpo fisico tra una provocazione e l’altra lanciata
da Sasuke all’indirizzo di Naruto.
Non era l’unico a trattenersi
lì: la presenza del vendicatore del clan Uchiha, infatti, ne comportava
anche altre. C’era chi, pur di avere un suo sguardo, avrebbe affrontato
ben più di un torrido clima equatoriale ben insolito per quella
latitudine.
Detto altrimenti, Sakura e Karin si
fronteggiavano immobili, con occhi colmi d’odio e posture minacciose, da
metà mattina, una al lato destro e l’altra al lato sinistro
dell’ambita preda – il suddetto Sasuke, appunto. Dopo
un’attenta analisi tattica della situazione, Suigetsu era giunto alla conclusione
che si trattava di un match particolarmente lento e teso di «Jutsu acchiappino», comunemente noto come il gioco del fazzoletto. Detto
fazzoletto, ovviamente, consisteva nella persona di Sasuke. Probabilmente,
aveva supposto Suigetsu, al momento di scattare le due ragazze
l’avrebbero invitato a mangiare o a bere qualcosa o anche solo a pulirsi
i sandali sulle loro facce, ma evidentemente entrambe aspettavano che fosse
l’altra la prima a muoversi , per batterla sul tempo.
Sasuke, quando l’amico gli aveva
reso note le sue conclusioni, aveva sbuffato sprezzante e scosso appena la
testa con remota esasperazione, prima di scoccare ad entrambe un’occhiata
feroce che non aveva sortito l’effetto voluto, ovvero quello di
dissuaderle.
Inoltre, per ragioni su cui nemmeno
Suigetsu sembrava interessato a far chiarezza, Naruto scandiva ogni
impercettibile movimento delle due kunoichi –
dal grattarsi il naso allo sciogliere una gamba indolenzita da quella
prolungata immobilità – lanciando colpi particolarmente potenti e
non scevri d’una certa ferocia. Sai aveva suggerito che si potesse
trattare di gelosia nel vedere l’amata Sakura continuare a tributare
tanta attenzione al rivale, ma Shikamaru, giocherellando con le mani affondate
nell’acqua accanto all’amaca, aveva risposto sibillino, con un
accenno di bonario disgusto, che forse la parola più consona da usare
non sarebbe stata “rivale” bensì “fazzoletto”.
L’arguta osservazione era
piovuta in un perplesso silenzio.
Dunque, alle quattro di pomeriggio la
situazione era statica.
Alle quattro e sei minuti, secondo
Suigetsu, il piede sinistro di Karin si mosse di almeno tre centimetri in
avanti. Parimenti, il braccio destro di Sakura oscillò di
un’analoga ampiezza, come per darle un microscopico slancio.
Sasuke sbuffò regalmente,
Naruto sfondò uno spuntone di roccia con tre dita.
Alle quattro e quindici, Sakura
socchiuse le labbra, forse sul punto di parlare. Karin raddrizzò il capo
di scatto, pronta a reagire.
“Dobe,
lo sai che quello è vandalismo?” commentò Sasuke,
ignorandole totalmente.
“Oh, teme, che palle! Mi
è sfuggita la mano, va bene?” berciò il jinchuuriki in
risposta, contemplando il faggio che aveva appena tirato giù per errore.
Si terse la fronte con il dorso della mano e le gocce schizzarono ad un raggio
di sei metri di distanza.
Alla quattro e ventisei Karin strinse
i pugni e serrò
“Ops,”
borbottò Naruto impacciato, grattandosi la nuca.
“Che idiota,”
osservò Sasuke, neutro.
Alle quattro e trentanove, Sakura
scattò in avanti, e Karin fece immediatamente altrettanto. La prima
balzò verso Sasuke a piè pari, tendendo le braccia di slancio,
mentre la seconda si tuffò decisa in avanti col busto, con
l’intento più disinibito di atterrargli direttamente addosso.
Sasuke, impassibile, piegò la
schiena indietro senza cambiare espressione, e Suigetsu allungò
distrattamente una mano per reggere il suo peso. Karin e Sakura entrarono in
collisione alle quattro e quaranta spaccate, schiantandosi l’una contro
l’altra con strilli acuti e indignati.
“Tu! Maledetta! Levati,
c’ero prima io!” esclamò Sakura risentita.
“Ma stai scherzando, zoccoletta?” sbraitò Karin stridula. “Sono
anni che lo tampino!”
“Bella, quando io ho cominciato a corteggiarlo tu non sapevi
nemmeno dove fosse Konoha!” ribatté Sakura, stringendo
minacciosamente le mani a pugno. “Sas’ke-kun
sarà mio, com’è giusto che sia,” aggiunse, sognante.
E Naruto, in sottofondo,
abbatté l’intera parete rocciosa con un unico, devastante rasengan.
L’ipotesi di Sai sulla gelosia
verso la ragazza iniziò ad acquisire sostenitori. Shikamaru, sulla sua
amaca galleggiante, sorrise pigramente con condiscendenza, saputo.
“Giusto un cazzo, carina!”
rispose Karin bellicosa, senza lasciarsi intimidire. “E di Konoha sai
quanto me ne…?”
“Razza di arpia!”
sbottò Sakura inviperita. “Tu non puoi portarmelo via ! Ora
levati e lasciami parlare o…” E con un feroce bagliore nello
sguardo sollevò la mano, caricando un pugno.
“Provaci, pivella!” la
schernì Karin tagliente.
“Certo che sì!
Perché ora inviterò Sas’ke-kun a
mangiare insieme a me, ho preparato io stessa dei deliziosi involtini
che…” inizio l’altra rapita, arrossendo leggermente.
“Ora ti faccio vedere dove
infilarli, gli involtini! Io intendo portarlo a bere un bel tè
e…” replicò Karin con decisione, mentre volava un primo
spintone. E un secondo. E un cazzotto. E un calcio.
E Naruto spezzettava macerie, torvo.
Suigetsu, lui sorrideva beffardo.
E Kiba si
chiedeva quando Naruto sarebbe svenuto.
Choji, lui mangiava
patatine. Surgelate, per rinfrescarsi.
Shikamaru, sull’amaca, sospirava
borbottando che tutto quel baccano era seccante.
E fu allora che, senza il minimo
preavviso e passando paradossalmente del tutto inosservato finché non
prese la parola, Sasuke si alzò in piedi, maestoso e noncurante. Fece
due passi in avanti, risoluto, e infilò le braccia senza tante cerimonie
tra le due contendenti, dividendole.
“Sas…” inizio Sakura
speranzosa, mentre Karin cinguettava “Sa…”
“Permesso,” scandì
lui, glaciale.
Marciò avanti composto, nel
florilegio della propria alterigia, finché non fu giunto a un paio di
metri dall’angolo in cui Naruto torturava focosamente i sassi. Lì
sembrò perdere un filo di sicurezza, incassò le spalle e
cacciò le mani in tasca con quello che avrebbe potuto addirittura essere
nervosismo.
Naruto sollevò lo sguardo su di
lui di scatto, con mistica aspettativa.
Sasuke storse il naso, impacciato.
Shikamaru sbuffò stancamente,
scuotendo piano
Naruto barcollò di un passo
avanti facendo un gesto con le mani, in un incitamento che non poteva voler
dire altro se non “E dai ! Dai, cazzo, parla!”
Sasuke prese un respiro, arricciando
poi il naso con ritrosia. Sakura e Karin, raggelate, lo guardavano
interrogative.
“E…eh ?”
esalò Naruto, senza potersi più trattenere.
Sasuke spostò lo sguardo a
terra, dondolando leggermente sulle gambe e restando fermo sul posto.
“Pensavo…”
iniziò rigido, con tono casuale.
“Sì?” ragliò
Naruto, trepidante.
Sasuke si bloccò nuovamente,
Naruto continuò a guardarlo adorante e Suigetsu sogghignò con
scherno all’indirizzo delle due fanciulle, che avevano conquistato
l’ennesima buca.
E poi Shikamaru si rivelò
ancora una volta l’uomo-chiave per la salvezza del villaggio.
“QUALCUNO DEI DUE LO CHIEDA, KAMI!” urlò, con
voce tediata e strascicata, dalla sua postazione in riva al lago.
Sasuke avvampò, ancor
più fucsia e indispettito, mentre Naruto espelleva un sorriso vergognoso e
un po’ smortino. Voltarono contemporaneamente
lo sguardo in direzioni opposte.
“Ti va un ramen?”
borbottarono, in perfetto sincrono.
“GRAZIE!” commentò
Shikamaru, sollevato.
Entrambi gli shinobi rimasero immobili
e con gli occhi un po’ sgranati, sorpresi – mai quanto Sakura e
Karin, pallide, slavate ed atterrite, Suigetsu che sembrava sul punto di
vomitare, Kiba che per lo stupore quasi si
ribaltò giù dal davanzale, Ino che
strillò allibita scrollando un Sai poco interessato e Kakashi che, in
mutande e mascherina dentro casa con le gambe a mollo nell’acqua ghiacciata, ebbe la
precisa percezione che qualcosa di catartico stava per accadere e chiamò Pakkun perché andasse a dare un’occhiata.
“Non mi sento mica tanto
tranquillo,” commentò pensoso.
E poi, mentre l’intera Konoha
allibiva tra l’orrore e la meraviglia, Naruto ridacchiò
scioccamente e si passò la mano tra i capelli.
“Mi sembra un’ottima idea,
teme,” azzardò, splendente entusiasmo.
Sasuke, muto, annuì brevemente.
Si voltò impettito ma rimase fermo finché l’altro non
l’ebbe raggiunto, per poi mettersi elegantemente in marcia.
“M-ma
Sas’ke…” pigolò Karin, sconvolta.
“Sas’ke-kun,
cos…?” gemette Sakura , sull’orlo del pianto.
Il genio le ignorò totalmente,
senza nemmeno spostare lo sguardo su di loro. All’ultimo Naruto si
voltò indietro, con un sorriso sornione e un’espressione
soddisfatta.
“Sapete,” commentò
vittorioso, apostrofandole con fare confidenziale, “credo vi sia sfuggito
un particolare su Sas’ke, ragazze.”
Ridacchiò baldanzoso, prima di
balzellare avanti e raggiungere di nuovo Sasuke, che lo guardò con
sufficienza.
“Non riesci a non pavoneggiarti,
vero?” commentò asciutto. “Idiota.”
Naruto rise angelico, strappandogli
uno sbuffo rassegnato dietro un vaghissimo sorriso.
E si allontanarono verso Ichiraku, fianco a fianco, abbandonando Konoha al suo
sbigottimento.
Ma in fondo, che quei due erano sempre
stati strani lo sapevano tutti.
“Mi devi un pranzo, Choji,” sbadigliò Shikamaru noncurante,
stiracchiandosi sull’amaca, nell’avvertire lo sciabordio provocato
dall’amico che si avvicinava. Socchiuse un occhio, e Choji
annuiva sorridendo.
“Quello che ho appena vinto a Kiba,” confermò, sgranocchiando patatine
surgelate.
Shikamaru annuì soddisfatto,
richiudendo le palpebre nel breve silenzio successivo.
“Sai,” riprese Choji, ammirato. “Quando mi hai detto quella cosa del
fazzoletto, tre ore fa, non pensavo fossi serio. Credevo te lo fossi
inventato.”
Shikamaru sbadigliò distratto,
scrollando le spalle.
“E’ cosi. Ma era adatto comunque:
se il jinchuuriki non va al fazzoletto…”
“…Il fazzoletto va al
jinchuuriki,” concluse Choji, diligente.
“O si incontrano a metà strada,” precisò Shikamaru.
E sorrise tra sé con indolenza, compiaciuto.