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Autore: QWERTYUIOP00    03/01/2016    3 recensioni
La fitta nebbia che aveva ottenebrato la mia mente in quegli anni d’oblio si dissipò, mi fu chiaro di nuovo chi ero, cosa volevo e perché.
Ricordai cosa era successo in quella baracca dieci anni prima e osservai il crollo della mia convinzione.
“Non c’è niente che tu possa possedere che io non sia in grado di portarti via”
Ma io ero andato avanti, convinto che mai, nessuno mi avrebbe rubato il ricordo, la mia vita, che qualcuno mi avrebbe portato via me stesso.
E invece era proprio quello che avevano fatto, ero diventato lo schiavo di coloro che disprezzavo e compativo, il servo dei dimenticati; e io ero stato dimenticato, mi ero dimenticato di me stesso.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Pian piano emersi dalle ombre.
La testa smise di girarmi, ma la vista era ancora annebbiata.
Sfilando il braccio destro da sotto una roccia cominciai a tastarmi intorno seguendo l’irregolare superficie fredda del terreno col palmo della mano pulsante per il dolore.
C’era della pietra, pietra dappertutto, ne ero circondato.
Alcuni massi erano sopra di me; li sentivo pesanti sulle gambe mentre cercavo di muoverle vanamente.
La vista tornò più in fretta di quanto avessi immaginato e mi permise di osservare le mie condizioni.
Ero stato colpito da una frana, intorno a me era tutto buio.
Ma dove ero?                  
I miei occhi si fecero largo tra le ombre lottando contro l’oscurità che mi circondava salendo, salendo, sempre più in alto.
Un pallido bagliore illuminava la caverna.
Caverna? No, quella non era una caverna. Era un regno.
Il soffitto di roccia si elevava sospeso a centinaia di metri dal suolo mentre, a tratti, si ergevano solenni colonne di pietra, più simili a torri, che si impiantavano fino al cielo roccioso nel quale brillavano, come stelle, piccoli minerali.
In mezzo all’immane spazio si ergeva una costruzione rivestita e decorata con travi all’apparenza dorate o sottili decorazioni dello stesso materiale.
Sospesa, al centro di tutto, vi era una sfera che emanava una calda luce ambrata.
Vedendo con i miei stessi occhi quell’immensità, capii dov’ero.
Mi trovavo nel reame perduto dei nani, nella casa abbandonata di innumerevoli tesori, nella tomba di immensi segreti.
Ero a Blackreach.
Ma perché ero lì?
Come ero giunto a quel punto, fino alla tana dei più grandi pericoli, in circolazione da secoli?
Sorrisi caldamente nel tirare fuori da sotto un ciottolo il mio braccio sinistro, dello stesso colore di quelle rocce, del colore della cenere di Vvanderfell.
La risposta era semplice.
“Niente che tu possa possedere…”
La mia mente cominciò a vagare nel ripensare alla mia vita al Quartiere Grigio appena un’ottantina di anni prima.
Mio padre lavorava tutto il giorno alla fattoria dei Hlaalu, per la quale veniva pagato molto bene dal proprietario per una vecchia amicizia sopravvissuta al disastro mentre mia madre… non si poteva parlare con lei senza che riprendesse a raccontare dell’Anno Rosso, degli amici che aveva perso, dei nonni e dell’argenteria.
Io ero un bambino, non mi importava di quello che era successo un centinaio di anni prima, volevo vivere e andare avanti e passavo le giornate fuori casa, correndo tra i piccoli vicoli del quartiere e ammalandomi di continuo.
Il freddo, oh se faceva freddo a Windhelm . Quel freddo che ti trafigge dopo averti schiaffeggiato per bene e che non ti lascia più, quel freddo che ti scortica la pelle a furia di infierire.
Come me, molti altri dunmer bazzicavano in giro tutto il giorno perché senza lavoro mentre altri preferivano passare il tempo impegnando i loro risparmi alla cantina Nuova Gnisis.
Ogni mattina, mentre io giravo per i vicoli a caccia di skeever da uccidere col mio randello, un ragazzino, accompagnato da una guardia, faceva n giro del quartiere.
I suoi genitori glielo proibivano continuamente, ma il cocciuto Sirgar Aretino continuava a far visita alla zona più povera di Windhelm, principalmente per esibire la sua ricchezza e i preziosi regali che riceveva.
Ogni giorno, puntualmente, il ragazzo si faceva vedere seguito da una donna in armatura insultando gli abitanti e mostrando il nuovo pugnale decorato in oro o la nuova corazza proveniente da Orsinium.
Appresi, qualche anno fa, che Sirgar aveva mantenuto la sua predilezione allo sfoggio incontrollato delle ricchezze e che la famiglia Aretino aveva perso gran parte dell’antico prestigio e degli averi.
Ed io ero lì, sempre presente, a guardare cosa il giovane avrebbe mostrato ai poveri Dunmer come me.
Era come andare a guardare, provare o assaggiare i prodotti delle botteghe, fare un giro nel mercato cittadino che normalmente ci era precluso.
La finezza di quelli oggetti ci veniva quasi sbattuta in faccia, ma io non ne potevo fare a meno, dovevo andare a vedere come sarebbe stata la nuova esibizione del ragazzo nord.
Molti, da bambini, sognano il loro futuro, immaginano cosa vorrebbero fare; c’è chi vuole fare il guerriero, chi l’Arcimago, chi il Nerevarine… io volevo fare quello che faceva Sirgar.
Di notte, mentre all’esterno il gelo tornava all’assalto più forte di prima, io mi rimbacuccavo tra le troppo leggere coperte di lana e sognavo di essere l’uomo che tutti, al suo passaggio, avrebbero guardato, che avrebbero ammirato, che avrebbero invidiato, quello superiore alla comune marmaglia e che, conscio di ciò, non fa che ribadirlo mostrandolo.
Tra i mercanti che passavano in città, si era sparsa velocemente la voce del ragazzo che comprava qualsiasi mercanzia e tutti i commercianti in sosta a Windhelm facevano visita alla Residenza Aretino per propinargli qualsiasi oggetto dal vago valore.
Un giorno, un vecchio che si ergeva a malapena era arrivato nella città di Ysgramor e, di consuetudine, aveva mostrato alcune vesti finemente ricamate che non erano state degne dell’attenzione di Sirgar.
Il vegliardo, disperato, aveva estratto il suo reperto più prezioso.
Un piccolo pugnale nanico solo leggermente danneggiato dal tempo spuntava tra le dita tremanti dell’anziano venditore strette a pugno.
Lentamente, la mano si era abbassata e aperta per mostrare nella sua interezza il reperto dwemer al giovane.
Io non credevo ai miei occhi.
“Un vero pugnale nanico!” pensai incredulo.
Rimasi fermo, semi nascosto tra le ombre, ad osservare la scena mentre maledicevo Sirgar per l’opportunità capitata al Nord.
La faccia del ragazzo si trasformò a mia sorpresa in una smorfia di disinteresse mentre la mano goffa impugnava l’arma e la girava per rendere l’osservazione migliore.
-Ma è vecchio!-  si lamentò il ragazzo rivolgendosi al vegliardo che aveva visto scomparire l’ultima speranza.
-Ne ho abbastanza della tua robaccia- aggiunse Sirgar con voce colma di disprezzo e lanciò via il pugnale, che volò contro un muro –sparisci dalla mia vista-.
Il mercante, dapprima dubbioso, si mosse per andare a prendere il reperto ma fu interrotto dall’urlo del Nord : –Ora!-
Velocemente, il vecchio tremante prese le vesti e si si avviò a passi veloci verso la piazza principale.
Aretino e la guardia tornarono in casa mentre io rimasi fermo basito per qualche secondo.
Non ero sicuro di aver capito quello che era appena successo, ma, appena vidi il pugnale ancora per terra, tornai in me stesso e mi avventai sull’arma.
Non ci potevo credere: un pugnale dwemer era lì, abbandonato… ed io potevo prenderlo.
La mia mano scese tremante per l’emozione fino a toccare terra e a raccogliere il reperto.
Mi raddrizzai mentre le mie ginocchia oscillavano in parte per il freddo in parte per la gioia.
Stringevo in una mano la gelida impugnatura color bronzo mentre con l’altra accarezzavo lentamente il bordo della mano.
Velocemente il grigio indice si ritrasse prima che io lo mettessi in bocca per succhiare il sangue che usciva dal lieve taglio.
Osservai quella lama affilata il cui bordo si si tingeva del colore dei miei occhi, sentendomi per la prima volta… potente.
Il mio sogno poteva avverarsi finalmente.
Passai le giornate ad esibire il mio antico pugnale per tutto il Quartiere Grigio: lo facevo vedere ai braccianti di ritorno dal lavoro, ai bambini che lo ammiravano chiedendomi di poterlo provare, agli anziani che, alla vista dell’antica arma, cominciavano a raccontare storie vecchie di secoli.
Ma a me non importavano le storie, volevo solo le attenzioni, volevo che tutti ammirassero me e la mia daga.
Sirgar, però, notò questo  mio nuovo atteggiamento, notò le mie assenze dove prima mi vedeva in prima fila e non passò molto tempo prima che scoprisse del pugnale.
Cominciò a seguirmi, a guardare quanto ero felice e orgoglioso con il reperto; non ero più il ragazzo che invidiava Aretino al suo passaggio, ormai lo avevo dimenticato, ero come un suo pari. Anzi.
 Era lui, in quel momento, ad essere invidioso di me, era lui a volere il pugnale.
Ed io, notandolo, non facevo altro che essere ancora più esplicito nell’esibire il mio trionfo.
-Dammi il pugnale- mi ordinò un giorno, con dietro la guardia che osservava solenne.
-Perché dovrei?- risposi io sprezzante-Tu…  tu che cosa mi dai in cambio?-
-In cambio?!- esclamò il Nord sinceramente incredulo e confuso –Tu… tu sai chi sono?-
-Certo- continuai sicuro. Aveva uno strano effetto su di me quel pugnale.
-Se io voglio il pugnale- minacciò Aretino –tu devi darmelo-
-Non credo- troncai io.
La conversazione rimase ferma per qualche secondo, immersa nel silenzio violato solamente dal leggero tocco della neve che cadeva.
-Come vuoi- decise Sirgar incrociando le braccia, con espressione sicura.
-Fjalga- ordinò rivolgendosi alla guardia dietro di lui.
La donna sospirò pesantemente prima di farsi spazio e avanzare verso di me.
Il freddo smise di essere la causa del tremare delle mie gambe.
Veloce estrassi l’arma che aveva causato la discussione puntandola con mano per niente ferma verso Fjalga la quale, con un calcio, la scaraventò contro un muricciolo.
Gemetti per qualche secondo agitando la mano pulsante in aria e girandomi intorno saltellando, poi guardai la mia assalitrice, che, chinandosi prese il tesoro e lo diede al ragazzo Nord.
-Come vedi, pelle grigia- disse quello –Non c’è niente che tu possa possedere che io non sia in grado di portarti via-
L’incantesimo si era rotto, il mio pugnale nanico non era più tra le mie mani, ero tornato una persona comune. Una persona comune davanti ad una donna armata.
Scappai.
Scappai, naturalmente, inseguito dalle sguaiate risate di Sirgar che mi inseguivano come mastini.
-Scappa, scappa, pelle-grigia!- urlava –E impara a stare al tuo posto!-
In lontananza, nel pallido bagliore che permeava Blackreach, alcune figure si muovevano in gruppo.
Aguzzai la vista e riuscii a distinguere quei bianchi corpi emaciati, ricurvi che camminavano come scimmie, le teste cadaveriche con occhi che roteavano scrutando il terreno, pur non riuscendo a vedere nulla, e le orecchie punta, unico lascito dei loro antenati elfici.
Perché ero lì? Perché facevo quello che facevo?
Per non essere dimenticato, per non diventare come loro, che vagavano nell’oscurità dell’oblio, persi e dimenticati, ritenuti quasi leggende, senza alcun senno o emozione.
Ecco perché facevo quello che facevo. Ecco perché ero lì.
Sollevai lo sguardo puntando ad un’esile torre che conteneva niente poco di meno che la conoscenza.
-Mzark- sussurrai con voce fioca.
Il gruppo di Falmer scomparve dopo pochi minuti, e per un’ora, tornai solo nell’oscurità.
Inarcando la schiena riuscii a prendere la mia spada di vetro, rubata una decina di anni prima in un accampamento di mercenari.
Sollevai l’arma ammirandone la lucente fattura mentre la rigiravo nelle mie mani illuminando i miei occhi cremisi con la sua luce.
Un rumore di passi.
Con uno scatto fulmineo abbassai l’arma, maledicendomi per la mia stupidità.
Qualcuno si stava avvicinando nell’oscurità, ne riuscivo a vedere la sagoma.
Forse…
Fruki era tornata?
Cominciavo a ricordare, i falmer ci avevano attaccato, ci eravamo riparati nella rientranza rocciosa e poi… poi c’era stata la frana.
Oh, come avevo fatto a non pensarci? Era Fruki!
Con cautela sollevai la lama agitandola lentamente.
Quando i passi si fecero più distinti cominciai a sussurrare: -Ehi, Fruki. Sono qui! Sono, qui, Fruki!-
Sopra di me comparve una figura che mi guardò per qualche secondo.
-Tranquillo, ora ti tiro fuori di qui- disse; non era la voce di Fruki.
Dall’ombra comparve un’asta che venne usata per fare leva sul macigno che mi opprimeva le gambe.
-Io sono Sinderion- si presentò il soccorritore tendendomi la mano gialla.
Cosa ci faceva un Altmer a Blackreach?
Mi aggrappai alla mano sicura dell’Elfo Alto  e mi sollevai.
L’oscurità cominciò a vorticare intorno  a me, si presentarono le fitte vertigini mentre ponevo il mio braccio sopra le spalle di Sinderion che, per permetterlo, si era chinato.
-Riesci a reggerti in piedi?-  mi chiese l’Altmer sopportando gran parte del mio peso.
-Non molto- sussurrai con la gola secca.
-Purtroppo non ho acqua con me- disse l’Elfo Alto –ma ce n’è alla mia baracca, vieni-
Camminammo per qualche metro mentre io mi mordevo la lingua per il dolore, ma, fatto qualche passo, inciampai, Sinderion riuscì a riprendermi prima che cadessi a terra.
Con fatica, guardai su cosa ero inciampato.
Le mie ginocchia si fletterono e io caddi battendo la testa.
Svenni.
 
 
Mi risvegliai dolorante in un letto, con le gambe come macigni.
Mi sollevai con le braccia per avere la schiena eretta, appoggiandola al muro di pietra.
Guardando meglio mi accorsi che anche il letto sul quale ero seduto era in pietra grigia, con i bordi in metallo nanico.
Mi voltai intorno e vidi l’elfo che mi aveva salvato.
Sinderion, seduto ad un tavolo di spalle stava osservando una pianta  con striature cremisi che, a intervalli regolari, emanava un bagliore che scompariva poi nel suo candido centro.
Uno strano suono acuto accompagnava la luce, un suono che penetrava le mie orecchie,  un suono che recava con sé memorie di altre epoche, di tempi antichi, lo trovavo insopportabile.
-Cos’è?- chiesi schiarendomi la voce.
Sorpreso, l’Altmer si voltò di scatto, per poi osservarmi per qualche secondo.
-Una radice di Nirn cremisi- rispose tornando alla posizione di prima –era di fianco alla tua compagna-
Un’altra frana mi investì con le sue parole.
Fruki era stata colpita alla testa dai massi precipitati dalle pareti, il suo cranio era grottescamente deformato mentre alcuni fluidi del corpo avevano cominciato ad uscire dal cadavere.
“È colpa mia?” mi chiedevo  fissando il pavimento mentre Sinderion aveva ripreso ad osservare la Radice di Nirn, annotando qualcosa su un diario.
“Ha scelto lei di venire” mi dissi sicuro “i momenti in cui poteva tornare indietro non sono stati pochi, è colpa sua”
-Perdonami se mi intrometto in affari che non mi riguardano ma… perché eravate a Blackreach?- chiese l’elfo alto.
Guardai il mio soccorritore negli occhi, senza muovere un muscolo.
“Non posso dirglielo”
L’altro ridacchiò.
-Non vuoi dirmelo? Va bene- acconsentì –Non ti fidi ancora di me… nonostante ti abbia salvato la vita. Hai paura che ti rubi il tuo tesoro nascosto? Credi magari di trovare pregiate armi ornate o fantastiche anfore in metallo nanico? Beh, risparmiati, allora. Non troverai nulla qui che valga la pena di vendere, i razziatori sono passati spesso nelle ere tra queste austere sale. Sei arrivato tardi…-
-Io non sono qui per quelle frivolezze!- esplosi alzando le braccia del colore della cenere.
Sinderion mi fissò per qualche momento, poi girò la propria sedia per mettersi più comodo nel parlare con me.
-Ah sì?- chiese curioso –e allora perché tu e la tua amica vi siete avventurati fin in queste antiche caverne nel cuore delle montagne, fin nel glorioso regno dei Dwemer rischiando, e subendo, la morte?-
Perché?
Ovvio.
“Non c’è che tu possa possedere che io non sia in grado di portarti via”
-Ricordo. Memoria- risposi freddo -Gloria-
Sinderion cominciò a ridere incessantemente mentre gli occhi gli si facevano lucidi.
-Questa è la cosa più ridicola che abbia mai sentito- dichiarò –la gloria… ah! Non ho rispetto per i ladri di tombe, ma almeno ne riconosco le motivazioni. Voi cerca-gloria invece… perché? La tua compagna ti ha accompagnato ed è morta… per la gloria?-
-Ha scelto lei di venire- digrignai furente.
Chi era quell’elfo per trattarmi così? Chi era? E cosa ci faceva lui lì?
-E tu perché sei qui?- chiesi fermando la sua risata.
Il suo volto si fece serio mentre, voltatosi di nuovo verso il tavolo, prendeva la Radice di Nirn che risaltava nelle sue tinte scarlatte sulle pallide mani gialle dell’Altmer.
-Questa- mostrò –questo è il motivo per cui sono qui. Ho passato tutta la vita a studiare questi esemplari nella loro forma normale, ero il più esperto in materia di tutta Tamriel, te lo garantisco. Poi, anni fa, un certo Obeth, un cacciatore di tesori, passò per la mia umile dimora nel sotterraneo della locanda West Weald, a Skingrad, portandomi una Radice di Nirn… Cremisi! Mi feci dire dove l’aveva trovata e partii subito… ed eccomi qua. Anni e anni di ricerche. Ecco perché sono a Blackreach, ecco la mia ragione di vita… la ricerca. Credi che i Dwemer avessero creato tutto questo per essere derubati nelle generazioni, nelle ere future? Credi che l’abbiano fatto per gloria, perché chiunque avesse saputo che loro, i Dwemer, sono i maestri in tutti i campi? Lo hanno fatto per sapere, loro volevano capire cosa era l’universo, perché succedeva quello che succedeva, il come. La gloria… quella è venuta dopo, dopo il loro successo, dopo che ebbero rotto l’equilibrio dell’universo, dopo aver modificato l’impianto stesso della Creazione attraverso ciò che per noi rappresenta tutto ciò che è irraggiungibile: il Cuore di Lorkham. Credi che quello fosse stato per la gloria? In tal caso… hai ancora molto da capire e molto poco tempo se continuerai a mettere la tua vita e quella deli altri in pericolo-
-Sarà almeno per una causa- ribattei.
-Oh, anche la mia morte, stanne certo- riprese l’elfo alto –ma una causa giusta-
Il silenzio tornò in quella baracca mentre ci fissavamo.
-Lei… dov’è?- chiesi infine.
Sinderion si voltò verso la Radice di Nirn cremisi rispondendo: -Dove l’abbiamo trovata. Quel posto era brulicante di falmer e tu eri svenuto; dovevamo muoverci il più possibile-
Chinai il capo, fissando il freddo pavimento roccioso.
Lei non ce l’aveva fatta. Fruki aveva fallito.
Sarebbe stata dimenticata, tutto ciò che sarebbe rimasto di lei era il suo gelido cadavere celato dai massi.
Ma io non potevo fallire, io non sarei stato dimenticato.
Alzai lo sguardo verso Sinderion.
-Quando sarò in grado di partire?- chiesi.
-Tra un paio di giorni- rispose l’altro –come hai cominciato questa “professione”? Non hai una casa, una famiglia?- domandò.
-Sono dovuto scappare di casa dopo aver preso un oggetto da un nobile della città- risposi.
-Preso?- chiese l’Altmer curioso.
-Quell’oggetto era mio- ribadii contraendo la mascella.
-Capisco- si limitò a dire Sinderion.
Mi sdraiai lungo il letto fissando il soffitto.
-La prenderò, Fruki- sussurrai –per tutti e due-
 
*10 anni più tardi*
 
Un acuto stridio mi pervase la mente mentre una spada arrugginita scorreva rumorosamente lungo il bordo della porta metallica.
Subito aprii gli occhi, guardandomi intorno nervosamente come un topo che controlla se ci sia il gatto e mi alzai dalla pelliccia stesa per terra.
I miei piedi nudi si appoggiarono sulla gelida roccia squadrata mentre il Falmer sull’uscio se ne andava.
Intorno a  si alzarono i miei silenziosi compagni, anche loro vestiti i stracci con gli occhi spenti, colmi di vuoto.
Raramente parlavamo tra di noi durante le giornate e ognuno sapeva poco o niente sugli altri, a stento io riuscivo a ricordarmi qualcosa di me stesso.
Non c’erano nomi, possedimenti, ricordi, tutto era grigio, vuoto, dimenticato.
C’era “lo smilzo”, c’era “la rossa”, “l’orco”… io ero “cenere”.
Silenziosamente uscimmo dalla piccola baracca in pietra in fila indiana dondolando leggermente, “lo smilzo” anche appoggiandosi a qualsiasi cosa incontrasse.
Aveva preso una qualche malattia una settimana prima e tutti gli stavano lontano quando potevano per non essere contagiati ma, durante la notte, era impossibile stare a distanza.
Avanzammo lungo un sottile pendio roccioso, chinando il capo passando davanti ad alcuni Falmer che rovistavano sui resti di alcuni automi ragno dei Dwemer.
I discendenti degli antichi Elfi della Neve si fermarono per qualche secondo a guardarci, per quanto ciechi.
Arrivati ad uno spiazzo ai piedi della costruzione centrale, la rossa si rivolse a noi con la sua tipica voce soffocata, quasi rotta. Da cosa, non l’ho mai capito.
-Dobbiamo muoverci se vogliamo recuperare qualcosa prima che gli altri gruppi lo facciano- esordì –ho notato una piccola zona semi nascosta, c’è anche una baracca-
Nessuno disse niente ma tutti si mossero nella direzione indicata, come non morti in preda ad un incantesimo.
Raggiunsero la baracca circondata dalle ombre, l’unica fonte di luce era lieve luccicare della porta in metallo nanico che rifletteva il timido bagliore delle piante.
Cominciammo tutti a  cercare per terra, gattonando per vedere meglio; qualsiasi fonte di cibo, acqua, o qualche reperto prezioso da portare ai padroni veniva afferrato e messo in rozze bisacce che portavamo a tracolla.
Io ero di scarsa utilità nel trovare cibo, ma sentivo un certo fascino nel raccogliere i manufatti dwemer nascosti, non sapevo perché.
Dopo aver frettolosamente osservato il campo davanti alla casa, che mi appariva famigliare, mi diressi verso l’uscio metallico.
Violentemente spalancai l’uscio e mi gettai sulla prima cosa che vidi, un comodino nanico coi bordi decorati in metallo, e cominciai a rovistare tra i cassetti che con emozione spalancavo e richiudevo.
Al termine del controllo, sbattei furioso l’ultimo cassetto e cominciai a fissare il muro davanti a me.
E in quel momento rimasi immobile.
Un suono raggiunse con calma e allo stesso tempo decisione le mie orecchie, un suono nuovo ma che mi appariva vecchio di secoli, di millenni, ma soprattutto, un suono che conoscevo.
Cominciai a tremare, ero spaventato.
Quel suono l’avevo già sentito.
Lentamente, mi alzai e mi voltai.
Distesi sul pavimento vi erano due cadaveri che, entrando, non avevo notato, da tempo in decomposizione, il loro odore mi raggiungeva  violentemente le narici solo in quel momento; il primo era un Altmer, o ciò che ne rimaneva, il suo torace era stato trafitto più volte da alcune frecce, mentre il secondo era un Falmer, la faccia contratta in una smorfia di dolore per l’eternità.
Quell’ultimo cadavere aveva un piccolo pugnale nell’attaccatura tra la spalla e il collo, l’impugnatura spuntava appena, leggermente opaca per il passare del tempo.
Il mio cuore cominciò a battere, ad ingrossarsi, per rompere il sigillo che lo aveva tenuto chiuso per così tanti anni; io mi inginocchiai mentre con timidezza la mia mano tremante si avvicinava sempre di più all’impugnatura color del bronzo.
Le mie dita grigie si strinsero salde, al sicuro dopo anni, in una dimora da tempo perduta… e ritrovata.
Con forza estrassi l’arma dal cadavere e cominciai a mirarla, rigirandola tra le mie mani, e tutto mi fu chiaro.
La fitta nebbia che aveva ottenebrato la mia mente in quegli anni d’oblio si dissipò, mi fu chiaro di nuovo chi ero, cosa volevo e perché.
Ricordai cosa era successo in quella baracca dieci anni prima e osservai il crollo della mia convinzione.
“Non c’è niente che tu possa possedere che io non sia in grado di portarti via”
Ma io ero andato avanti, convinto che mai, nessuno mi avrebbe rubato il ricordo, la mia vita, che qualcuno mi avrebbe portato via me stesso.
E invece era proprio quello che avevano fatto, ero diventato lo schiavo di coloro che disprezzavo e compativo, il servo dei dimenticati; e io ero stato dimenticato, mi ero dimenticato di me stesso.
E avevo dimenticato Fruki; era possibile che davvero Sinderion avesse ragione? Che lei fosse morta per la mia sete di vanagloria?
E non sapevo rispondere alle mie domande, ero certo solo di una cosa.
Con quello che avevo fatto, con quella che era stata la mia vita negli ultimi dieci anni, Fruki era morta invano, caduta nell’oblio, dimenticata per sempre.
E Sinderion? Lui era morto per ciò che aveva sempre vissuto, la sua ricerca, i suoi appunti.
Mi ricordai di quando il primo Falmer arrivò, quello che giaceva ancora morto nella casa, e io gli piantai la lama dwemer nel collo, Sinderion aveva preso subito il suo libretto degli appunti e lo aveva riposto in un mobile di fianco alle Radici di Nirn Cremisi.
Mi diressi verso il mobile, aprii il cassetto e presi in mano il libretto tastando la sua rilegatura di cuoio, poi lo misi vicino al cadavere dell’Altmer.
Poco prima che arrivassero i Falmer, mi ero appena caricato lo zaino sulle spalle.
-Sei sicuro di voler partire?- mi aveva chiesto Sinderion.
-Assolutamente- avevo risposto deciso dirigendomi verso la porta.
-Perché?- aveva domandato un’altra volta l’Altmer.
-Ognuno ha bisogno di trovare le sue radici- avevo risposto –alle quali inevitabilmente deve ritornare. Le tue sono la ricerca, lo studio delle Radici di Nirn, le mie… forse grazie alla pergamena riuscirò a trovarle-
Alzai di nuovo il capo, in lontananza si riusciva a intravedere la Torre di Mzark, che mi era stata così vicina per anni… decisi, sicuro grazie alla forza che quel pugnale mi aveva sempre dato, che era giunto il momento di prenderla.
Per secoli era stata lì ad aspettarmi… ma in quel momento era lì, io ero lì.
L’Antica Pergamena era a portata di mano.
Mi diressi subito fuori dalla baracca di Sinderion e cominciai a correre.
Corsi veloce tra i campi seguito dai richiami dei miei compagni –Ma dove vai, cenere?-
Quello era lo smilzo.
-Non sono cenere- sussurrai.
-Non sono cenere!- ripetei urlando –Io sono Gorven Nerethyl!-
Avanzai veloce tra le ombre, saltando gli ostacoli, schivando le piante, abbassandomi sotto i passaggi bassi, corsi, corsi sempre più veloce.
Arrivai alla pedana che permetteva di salire sulla costruzione centrale a Blackreach e cominciai a salire, senza fermarmi un attimo.
Io continuavo a correre, ad andare avanti, a salire.
Mi allontanavo sempre più dalle tenebre e mi avvicinavo sempre di più alla calda luce che la sfera in cima alla costruzione emanava.
Nella mia mano destra rimaneva stretto il pugnale nanico.
Raggiunsi la cima.
Per la prima volta da dieci anni, il mio viso veniva inondato di luce, ma io non mi fermai e continuai a correre, correre verso la torre, verso la Pergamena.
Verso la gloria.
Un Falmer mi sentì e si diresse verso di me sguainando la spada.
Velocemente feci una piroetta, con una forza ritrovata, e, con un calcio, feci volare la spada, per poi piantare la daga nella  sua giugulare.
L’Elfo della neve si accasciò cercando di gridare e tastandosi con le dita ossute lo squarcio nel collo rugoso, dal quale sgorgavano fiotti di sangue.
Mi fermai per un attimo per assaporare il momento facendo entrare dentro le mie narici l’odore del sangue.
Alcuni Falmer avevano sentito il clangore della lama per terra ed stavano arrivando per controllare, quindi ripresi a correre.
La torre, con il sottile ponticello che la collegava, non era lontano.
Rapidamente, voltai il capo e vidi lo smilzo, la rossa e l’orco, sbucare dalla rampa e indicarmi.
Presto tutti i Falmer di Blackreach mi sarebbero stati addosso, quindi decisi di correre ancora più veloce.
La mia bocca si apriva e si chiudeva a intermittenza per respirare più velocemente, i miei piedi scalzi evitavano gli oggetti per terra, le buche e le frecce che gli Elfi della Neve cominciavano a lanciarmi.
I miei compagni mi erano dietro, l’orco, con le sue grandi falcate mi stava per raggiungere.
Ero spacciato.
Ero sicuramente spacciato, sarei morto in quell’impresa.
Ma avevo in mano il pugnale, e con il pugnale io potevo fare tutto.
Passando per un sottile pendio osservai sotto di me la vastità di Blackreach, riconobbi uno dei tre ingressi, quello dal quale ero entrato dieci anni prima, la baracca di Sinderion, riuscii a ricordare anche il luogo della frana, dove forse vi era ancora il corpo di Fruki.
 Ed eccola lì.
La Torre di Mzark si ergeva come una colonna alta decine di metri, l’unica cosa che la separava un sottile ponticello in pietra.
E un Centurione Dwemer.
Un colosso di ingranaggi e aste di metallo nanico, lo stesso materiale che era stretto nella mia mano sotto forma di pugnale, dalle sembianze dei suoi antichi creatori.
Mi fermai pietrificato, ad osservare la macchina, mentre sentivo l’orco che indietreggiava preoccupato.
-Torna in te, cenere- mi disse con tono nervoso –possiamo ingannare i Falmer, fargli credere che tu sia scappato… non farlo. Tornerà tutto come prima-
“Come prima” pensai “giorni, mesi, anni di vuoto, di grigio, di cenere”
Mi voltai verso l’Orsimer.
-Fammi un piacere, orco- gli dissi –Ricordati di me-
I suoi occhi si dilatarono, rassegnati, ma al tempo  stesso stupiti.
In lontananza stavano arrivando la rossa e lo smilzo, seguiti da un gruppo di Falmer.
-Lo farò, cenere- promise ricominciando ad indietreggiare.
-No- lo corressi, inspirando –Gorven Nerethyl, questo è il mio nome-
L’orco annuì.
-Dillo- gli ordinai –di’ il mio nome-
-Gorven Neretyl- ripeté –Gorven Nerethyl-, la seconda volta con più forza e decisione.
Chiusi gli occhi per assaporare anche quel momento, il mio nome che veniva ripetuto da qualcuno dopo tanti anni; mi fermai a respirare per lasciare entrare quell’istante, per renderlo eterno.
-Ricordati di me, orco- conclusi, e, puntando in avanti il misero, consunto pugnale, cominciai  correre verso il centurione urlando.
Dietro di me, le parole di orco, che si era fermato, osservando immobile la scena, mi raggiunsero come dei cani che corrono a salutare il padrone appena tornato a casa: -Addio, Gorven-.
E in quel breve attimo ripensai a mia madre, alle sue storie dell’Anno Rosso, a mio padre e alle sue chiacchere con Hlaalu, a Sirgar e ai suoi oggetti da esibizione, a Fruki, il suo entusiasmo che rendeva ogni giornata sempre nuova, a Sinderion, che anche nella morte aveva vicino i suoi appunti e una Radice di Nirn Cremisi accompagnato nell’Aetherius dal suono tipico della pianta.
Continuai a correre verso l’automa che, messosi in moto, emetteva un fragore simile a quello di una frana.
Mi guardai attorno allarmato e, in pochi istanti, i miei occhi cremisi e quelli azzurri di Fruki si specchiarono, identici tranne che per il colore in un’espressione terrorizzata.
-La gola sta crollando…- riuscì soltanto a dire la Nord.
Entrambi scattammo verso l’uscita per cercare di metterci in salvo, le creste rocciose, una decina di metri più in alto, tremavano in maniera disturbante.
Accelerammo, ognuno spinse al massimo della propria forza, ma le rocce si staccarono e cominciarono a precipitare.
-Addio, Gorven…- sentii Fruki dire.
L’intera volta rocciosa di Blackreach ci sembrò crollarci addosso, persi di vista la Nord, e, in pochi attimi, rimasi travolto dalla frana, dopo aver lottato invano.
Precipitai inerte tra le ombre.
 
 
 

 
   
 
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