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Autore: Amaya Lee    03/01/2016    2 recensioni
[ YumiKuri | Storia classificatasi #1 nel contest And this, kids, is how I met your father indetto da hirondelle_ sul forum di EFP ]
Basta una storia per ghermire l'attenzione di una bambina di otto anni, che sia quella del Piccolo Principe o dell'amore semplice di Forrest per Jenny. "La mamma era davvero così ricca?"
"Come una principessa," le rispondo, anche se non è esattamente così.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Altri, Christa Lenz, Nuovo personaggio, Ymir
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest And this, kids, is how I met your father indetto da hirondelle_ sul forum di EFP
Titolo storia: La risata di Pandora quando si ruppe tutte le ossa
Autore: Amaya Lee
Fandom: L'attacco dei Giganti
Pairing: YumiKuri (Ymir/Christa - Historia Reiss) 
Rating: Giallo
Note dell'Autore: Dopo tante (tante) paranoie, indecisioni e domande alla giudice del contest, perché sì, è il primo a cui partecipo, trovo estrema soddisfazione nel poter finalmente pubblicare la mia entry. E proprio l'ultimo giorno disponibile *si asciuga la fronte*. Ci tengo a precisare che, per ovvie esigenze di copione, ho reso l'adozione possibile per coppie omosessuali negli Stati Uniti. Titolo estremamente mataforico; nessuno si rompe le ossa, tranquilli. Grazie se vorrete continuare nella lettura, e spero che apprezzerete almeno un po'!

 



La risata di Pandora quando si ruppe Tutte le ossa



 

lei mi ha drenato come una luna febbrile
che insidia la rotazione del mondo.

I giorni passavano come ombre,
i minuti ruotavano come stelle.

(Fletcher McGee – Antology of Spoon River, Edgar Lee Masters)



 

Devo farlo io perché sono l'unica competente in questo ambiente di merde impomatate e spine dorsali convulse. So che si torturano la fisionomia con i posteri plastificati dei celebri bustini settecenteschi, certe di queste scenografe, truccatrici, costumiste e signore dagli sguardi discreti, predatori, con nei di bellezza solo a volte connaturati. So che è il botox a sorridere e non la carne. So molte cose su chi mi lavora a fianco, autentici bigliettini che mi affiggo nella testa per i motivi più svariati. Maravski ingurgita pancake al lampone e se li taglia via, i chirurghi si sdilinquiscono all'accento russo. È sciocco che Maravski non sappia niente di me; nè lei, nè nessuno.

Lei, come tante, sa fare due cose; annoiarsi e recitare. Non è competente a trasportare bottigliette d'acqua. Io lo sono.

Un set cinematografico sa incuriosire la gente; un luogo capace di artificiare emozioni non può essere troppo reale, pensa chiunque. E in effetti è così. Persino l'acqua è sterile, diversa, gelida.

E io, diversa, gelida, spingo la porta stile-saloon, di quelle che sembra di trovarsi nell'incrocio tra un film western e un ristorante di alta classe, entrando nel camerino 1, e chiudo gli occhi per i fari. Sono disposti in modo che concentrino la luce sul trono, attorno al quale uno stormo di truccatrici fa il lavoro di uno stormo di truccatrici. Vedo l'ape regina attraverso il riflesso dello specchio incoronato da lucine al neon.

Non è nulla di speciale. Qualche volta l'ho vista in uno spot pubblicitario di rasoi, con un sorriso soddisfatto, Depilarmi non è mai stato più rilassante!, e le gambine più splendenti della Qubbat al-Ṣakhra. Poi qualcuno ha deciso che doveva interpretare una graziosa parigina per le fumose strade del 1930, così le hanno annodato alla testa un foular crema e le sue labbra sfoggiano rossetto borgogna da decine di dollari, per una pellicola che ne varrà duecento milioni. Ma basta un'occhiata per capire che è una newyorkese doc. e un'ereditiera Reiss, e io magari valgo abbastanza da avvicinarmi al suo alveare per porgerle una bottiglietta d'acqua. Una truccatrice che le spalma pappa reale sulle palpebre vuole un frappuccino, e io le rispondo che non sono Starbucks.

Historia Reiss, che debutta in un cinema dove le comparse sono dello stampo di Megan Fox, invece, prende la bottiglietta e comincia a svitarla. Ha dita perfette, petit, nocche screpolate e unghie ben limate e rinforzate da tintura trasparente. Ha delle belle mani, Historia Reiss, mani che darà ad una fille un po' meno venusiana, di Parigi, di nome Christa.

Penso che sia uno strano nome per un'ereditiera, Historia, ma qui non sono nessuno per parlare.

L'ape regina, dalla sua seggiola di protagonista che non era la stella di papino prima degli spot, del rossetto e degli zeri sui conti bancari, sceglie di posare la bottiglietta in favore di conservare intatto il fottuto trucco. Forse berrà dopo. Fa niente.

Poi solleva gli occhi. E mi guarda. E mi sorride.

È nata nel reame dell'oro, quest'ape, e i suoi occhi sono venuti breccie celesti senza che nessuno lo volesse.



 

Certe luci della ribalta rovinano la carnagione, a una ragazza.

In Colazione da Tiffany, che ho visto una volta sola, c'è proprio questa frase, e l'eroina crede con tutta la testa a ciò che dice. E Historia è bella quando lo fa, e il palcoscenico non la rovina, ma le gravita attorno ai polsi. Per un minuto mi ha fatto credere che fosse Christa, e che stesse fuggendo per i vicoli sporchi con la stessa avvincenza di una Natalie Portman nella Londra di un futuro distopico. Ma con una borsetta di perle alla mano. Christa è una ladra, non l’insorgente Evey Hammond.

Mi è permesso osservare le riprese solo ogni tanto, quando il regista pretende un té freddo o a qualcuno serve assistenza perché abbuffatosi di pancake al lampone. Il paramedico, sempre presente nel caso a qualcuno venga un infarto per l'ansia del mondo dei ricchi, sbuffa continuamente.

McKenzie e Bodt fanno i simpatici all'uscita dalla sala di registrazione, perché che altro possono fare delle guardie del corpo sul set di una commedia romantica?, e ci scambiamo battute squallide cinque giorni su sei. Ma il sesto, il sesto è quello che conta, perché Historia veste in nero tailleur e Christa fa la stronza svelta in nero tailleur, e a completare il quadro sono orecchini di diamanti che splendono come costellazioni sulla ribalta e labbra rosse, piene, che a fine giornata si appoggiano appena sulla boccuccia di una bottiglia di plastica tenuta in mano da me mere ore prima. Ho preso l'abitudine di porgergliele direttamente.

Non escludo che sia stato il Destino – quello che ho sempre e prontamente mandato a fanculo – a farmi incrociare lo sguardo dell'Historia Reiss sulla scena, per pestarmi a sangue nella maniera più indelebile.



 

Il fatto è che io non appartengo a dove lei appartiene. Anzi, io non appartengo proprio a nessun posto. E non vuol dire che non vorrei.

Da settimane scivolo sullo slow rock del basso che ho ripreso in mano dalle scuole superiori. Una volta suonavo con la band nel mio garage, e portavamo cravatte verdi e giacche nere come una sorta di privata protesta, ode musicale all’Attimo Fuggente, che non andava più in là della recinzione. Brown, Hoover e Ann costituivano la mia santa trinità. E poi, dopo il college, piacerebbe a tutti sapere come sono finita a vendermi come tuttofare holliwoodiana per una paga irrifiutabile.

Non mi meraviglia che mentre le mie corde vibranti riempiono la stanza, spaccando la luce invadente del pomeriggio, ciò che mi affiora alla mente non è altro che Historia, nel prendisole rosso che non ha mai indossato ma è appeso lì, nel suo camerino, come un fuoco ammansito in una di quelle stufe moderne che io mi posso solo sognare. E Christa, se indossasse il fuoco, come si accenderebbe improvvisamente di vita?

Non sarà viva finché non capirà che la polvere del deserto che le accentua gli zigomi è solo una maschera e che lei questo non l'ha scelto, no. Non finché avrà paura di essere fino in fondo ciò che è stata creata per essere, dal momento che finché ne avrà paura non riuscirà ad ucciderlo. Mi sembra di conoscerla senza avrele mai detto una parola. Mi sembra di capirla.

Mi ci vogliono due settimane per capire che lo faccio. Non mi ci vuole neanche un minuto invece per capire di averla osservata più dell'ordinario, perché non sono un'idiota, e la sua attraenza non è arginata alle dita o al pallore delle ginocchia, o i polsi stretti avvinghiati da bracciali da battesimo cattolico. Mi concentro spesso sulla sua pelle, con quell'indecisione che si prova di fronte ai manti immacolati di neve, pacata e così semplice da marcare. E vorrei sbottonarle il cappotto, calpestare la neve.


 


 


"Oh capperi," Donald solleva gli occhi al cielo, come fa sempre quando dico che è stato lui a finire lo sciroppo d'acero. Solo un quarto delle volte è la pura verità. "E hai fatto per tanto tempo... solo... così?"

Per un momento non so cosa dirgli. "Ammirato dalla distanza? Guardare ma non toccare? Ho paura di sì."

I suoi occhietti si assottigliano sospettosamente. Sono la parte più bella di lui. "Ma– allora voglio che racconti la prima volta che vi siete parlate. Parlate sul serio."

"Sul serio, Donny?"

"Come, tipo... le hai chiesto di uscire, capperi." È una parola-surrogato che Historia ha trasmesso al suo vocabolario al posto delle volgarità che mi lascio sfuggire; come se lei fosse sui miei passi, mi coprisse le spalle. È bello pensarlo.

Susies si arriccia un boccolo paglierino attorno all'indice, gli incisivi separati bene in vista tra le labbrucce. "Ma è tutto vero?"

"Ogni particolare." La guardo bieco. "Perché, mento così spesso? No che non lo faccio."

Lei rovescia un pacco di biscotti alla vaniglia nella propria ciotola a pois. Non mi prendo la briga di rimproverarla. "Ma poi hai raccolto il coraggio e le hai parlato, no?"


 





"Da quanto è fidanzata, Ymir?"

Si toglie la parrucca rosa-confetto e usa l'inclinazione del capo per adocchiare la mia mano e l'anello argentato sul medio.

Solo una come lei potrebbe rivolgersi a me così educatamente. Mi aspettavo che la sua voce suonasse come un pigolio anche lontano dai riflettori – uno non può semplicemente fingere tutto tutto, vero? –, ma dovrei aver capito ormai che Christa non è Historia. Historia ha paura. Historia ti sorprende.

"Non lo sono," rispondo, porgendole una coppa di caffè espresso. Ogni tanto mi prendo delle libertà, quando so che la incontro nei retroscena durante una pausa e le truccatrici-avvoltoio non la trovano abbastanza in fretta. "Um. Regalo di compleanno." Sento il bisogno di distogliere la sua attenzione dall'anello. Non lo faccio.

"Davvero? Che fortunata." Historia sorride, e io vedo oltre. Vedo che è stanca di farlo come routine quotidiana, quando gli altri sanno che sta recitando e quando non lo sanno. "Io non porto anelli, generalmente. Ah, li portavo."

"Oggi il materialismo lo prescrivono direttamente dai 3 mesi."

"Non mi dire?"

"Non farmi parlare di quelle bambine con una coroncina nelle foto di famiglia."

Historia nasconde un sorriso che mostrerebbe troppi dentri e troppa cattiveria dietro la mano. "Le mie migliori amiche. Hai presente quelle scuole private senza maschi?"

"No. Io andavo in quelle per i maschi." E per quanto ne sa lei, se la mia t-shirt dei Bulldogs è di qualche aiuto, potrei essere cresciuta in un ambiente molto simile.

"Avrai avuto un'infanzia divertente," mi incoraggia.

"Beh. Mi sono rotta il braccio saltando da un balcone, una volta."

Lei alza gli occhi al soffitto. "Io mi sono rotta un dente mangiando una barbie."

Wow. I rischi di appartenere a una famiglia che potrebbe permettersi adornamenti d'oro su un autentico albero di Natale. Seguo il sorrisino di Historia come una falena, e mi appoggio al tavolo dello staff con il fianco.

È davvero una così bella ragazza, senza parrucche rosa e copioni contagiosi, e mi figuro tra le sue dita da principessa infreddolita una tabella oraria che non stabilisce orari di prove per anime falsarie, ma l'arrivo di treni, di un treno; con cui Historia, una come Historia, non viaggerà mai; su cui una come lei, che cammina sulle acque, non metterà mai piede; al cui rumore, una come lei, che schiocca le dita come il gioco di un Re di otto anni, di una religione su mille che si scopre vera per caso, diventa realtà statica, carica elettrica indeterminabile– una come lei non sussulterà mai di gioia pensando un'imprecazione insegnatale dal nonno, che prima che passasse a miglior vita trovava sempre in un solo posto, osannando bicchieri di whisky.

"Allora le ossa rotte contano?" chiedo, anche se non sono curiosa di natura.

Ho sentito di quelle principesse che quando viaggiano a Molto Molto Lontano soffocano con le pillole il jet-leg. Historia preferirebbe soffrire. E questo lo so perché vedo oltre ciò che le hanno messo addosso, e lei non si cura mai di negarlo.

Historia sorseggia il suo caffè, e pensa, a cosa? "Tutte le cose rotte dovrebbero contare. Le ossa e il cuore– doppi punti."


 


 


Non è che i ragazzi debbano sapere certe cose. Tutte le cose che Historia mi ha detto, tutte le cose che mi ha iniettato, al posto dell’oggettivismo e dei neon che mi abbagliavano solo dalle fessure attraverso cui sbirciavo la sua piccola Sala del Trono. Tutte le cose che ho scritto, volontariamente o meno, in forma di note musicali, note sul frigorifero, note a piè di pagine su romanzi che avrei dovuto leggere a sedici anni. O note mie, intagliate nel legno, nel vetro, in tutto ciò che trovavo che non aveva un cuore per urlarle. Chissà quale passeggero si è sentito curioso, indifferente, annoiato, posando gli occhi su quell'ape regina che incisi su un sedile del treno con un coltellino svizzero, sulla linea affollata Hollywood-Santa Monica.

Susies ha finito i suoi biscotti, ma non fa cenno di volersi alzare da tavola, con negli occhi quella stellare emozione. Basta una storia per ghermire l'attenzione di una bambina di otto anni, che sia quella del Piccolo Principe o dell'amore semplice di Forrest per Jenny. "La mamma era davvero così ricca?"

"Come una principessa," le rispondo, anche se non è esattamente così. "Fila a prendere il tuo zainetto."

Susies insiste per sentire il resto, tutto e subito, il bozzo di un broncetto, ma alla fine si arrende e va a lavarsi i denti con lo zaino verde mela appeso alle spalle. Donald indugia sull'ingresso, vuole chiedermi qualcosa. Si gratta i capelli corti e ricci sulla nuca con fare pensoso; lui è un po' più grande di Susies, quindi dovrei aspettarmi la domanda che sta per fare. "Perciò... perché noi non siamo così ricchi?"

Scuoto la testa, controllando l'orario. Siamo in anticipo per la scuola ma non posso aspettarmi che il traffico aspetti i comodi di qualcuno. Brooklyn è matta. "Non hai tutti i giochi della playstation che vuoi?"

"Ehm, sì..."

"E," esito, "– capperi, non mangiamo giapponese tutti i week-end?"

La faccia di Donny mi risponde da sola.

"Guardami." E lui obbedisce. Mi assicuro che Susies sia ancora occupata nel bagno. "Non sempre ci saranno persone disposte a darti il ben servito. Alcune ti faranno scegliere. Tu prendi questo come un favore personale; vivi la tua vita a testa alta."

Perché Hollywood Boulevard non s'illuminerà mai come fa questa casa il giorno di Natale.


 


 


I fanali del mondo brillano sul suo volto, per definizione. Forse mi piacerebbe tanto dire di aver passato la giornata a fare cose mai fatte prima, a vedere luoghi mai visti prima, sotto il sole scottante e la corrente sferzante del proibito; ma non ho ucciso nessun uomo, e Historia Reiss mi ha dato tipi di baci che si è riservata dal dare a chiunque altro fin dal primo in assoluto.

Le sue carezze ermetiche, sulle montagne russe delle ore, ora hanno il colore e il tepore del Sole che si estingue, piano. E piano Historia stringe gli sguardi prima di doverli snodare, li rafforza come un cappio attorno alla gola di un malcapitato, dovesse esserci stanotte. Io mi appoggio alla ringhiera della casa dell'oro.

Historia non guarda molti con affetto; no, se qualcuno c'è, sono io. Il sole morente che inonda la terrazza al dodicesimo piano si incastra nei suoi occhi, come gemme soffuse, in quelle grotte di cristalli in cui una volta credevo che nascessero le fate.

"Allora ricapitoliamo. Mr. Krubs passa cinque giorni da me, il weekend da te. Tranne in Agosto." Le vene mi si restringono quando il suo sorriso dilaga cattivo per ogni lineamento, infrange la superficie raffinatamente scalpellata della statua e s'infiltra in ogni suo poro, flettendo, spaccando, coagulandosi in un piccolo Sole ineffabile che solo io ho visto.

Ci amiamo da un anno, quasi. Direi che sorridere in quel modo la aiuta. Non la ombreggia, come quello di altre attrici, e come quello che lei stessa metteva in scena sui set, che era tutto di Christa.

Quel film non ha più bisogno di lei, solo team di tecnici bravi con le forbici e gli effetti sonori. A breve uscirà nella maggior parte dei cinema d'America in passo coi ritmi sollecitati di Hollywood. A me non interessa conoscere Christa. Andrò da sola comunque, naturalmente; mi basta sapere che c'è Historia a muovere i fili del burattino.

Lo spettacolo non può che scherzare con la mia mente. Distolgo lo sguardo da lei, ma non è un distacco. "Andata. Se sei capace di non ridurlo in pezzi fino al mio turno, certo."

Le sue dita danno uno schiaffetto le mie. Sull'anulare destro porta un anello viola come il succo di more sulla neve. In plastica. Lo porta da quando gliel'ho regalato per scherzo. "Fanculo, sai? Me la caverò."

Certo che lo so.

In realtà, perderemo la tradizione di Mr. Krubs prima del nostro terzo Agosto. In quel periodo smetteremo di vederci per sette mesi e due settimane.

Lei me lo consegnerà, tutto soffice peluria verde a cingere una sovrabbondante matassa di imbottitura, così che sembra un pescecane che ha esagerato il giorno del Ringraziamento. Lo vinse lei ad uno stand di peluche totalmente obsoleti, abbattendo nove bottigliette vuote di Coca-Cola Light. Non saprò mai perché scelse un pescecane.


 


Tranciare le catene di un posto che si avvinghia con fauci e artigli è qualcosa di cui reputo capaci solo poche persone. La scelta di vagare è quella più coraggiosa. Vagare non è facile. Non esistono certezze, nel vagare.

Historia era legata a Hollywood. Per nascita era così.

Historia aveva tutto. Il suo trono, le sue api operaie, la sua ardesia. Nessuno avrebbe rinunciato al suo miele. Non ha mai imparato a respirare, a Hollywood, ma ha imparato a sottrarre quel poco di spirito alle persone, a soffiargliene di nuovo nelle narici; ha imparato a costruire imperi di fedeli, a baciare per far provare emozioni invece di sentirle, a dire "sì, sì, mille volte sì!"

Alle medie, mi ha detto una volta, la sua classe l'aveva votata "Quinta Più Carina", ragazzi e ragazze inclusi. Era stato per merito del suo naso, grazioso come quello di una bambina, mentre gli altri crescevano e prontamente cedevano il posto a cerotti correttori e minuscoli interventi facciali, spruzzati qua e là su visi ancora paffuti. Historia però non era rimasta soddisfatta.

L'anno dopo era stata votata sesta. L'anno dopo ancora, pare, La Più Carina si riconosceva in ben altri modi che una veloce votazione per alzata di mano.

Nei tempi successivi alla prima adolescenza, molti di loro cominciavano a usare appellativi più originali, spregevoli, mentre altri si aggrappavano ai fragili legami che costituivano in uno yogurt dietetico prestato, una ripassata di mascara, tenere sollevati dei capelli durante un attacco di vomito più o meno volontariamente indotto.

Quando io ero alle superiori, un idiota per offendermi mi diede della "lesbica." Ma io lo ero. Ero inderogabilmente, fieramente lesbica. Gli riempii lo zaino del pasticcio della mensa, finii dal preside, pomiciai con una ragazza più grande sui una panchina della scuola, e non se ne parlò più.

Non so per quanto Historia abbia rincorso il titolo di “più carina” ma, quando una notte di Sole sussurrò ciò che diede il via alla sua personale Caccia Selvaggia, accarezzandomi il viso con la tenerezza che resta da un amore appena eroso fino alla radice del piacere, nei suoi ateggiamenti giaceva uno spettro. Per quanto le menzogne da cui ogni volta quelle labbra venivano macchiate sconfinassero con il cinico, non avrei mai potuto biasimarla per compiere una scelta in cui io non facevo neppure parte dell’arredamento. Non mi chiese mai se l’avrei perdonata, e chiedermelo avrebbe significato ferirmi.

Dopo un po’ di silenzio mi trasferisco a Brooklyn, dove non trovo le memorie che cerco di creare. Mi fido di Historia come la lancetta dei secondi ticchetta in avanti, e nemmeno un secondo di esicazione per attendere che quella dei minuti la raggiunga. Rattoppo gli strappi nelle mie giornate con la stessa precisione di una sarta.

Quando vengo a sapere di ciò che ha fatto, sono in pausa nella stanza del personale di una caffetteria che, meravigliosamente, può permettersi un intero set da karaoke, e per un soffio non do una gomitata al biondino con un leggendario taglio a scodella che regge l’ultimo numero di Vanity Fair. Quello mi chiede se è tutto a posto, perché la mia espressione racconta molto più di quanto le mie balle possano compensare; certe volte, invece, non ha senso sguinzagliare una lingua bugiarda. “Sto meglio di te,” gli concedo, con una smorfia troppo costernata per fingermi distratta. Cammino via dai caratteri cubitali che annunciavano, come una sorta di seconda buona Novella, per cui in un contrasto grottesco famelici giornalisti vestono i panni di angelici messaggeri, il sensazionale coming out della celebre Reiss.

Lei è l’unica stella che può bruciare con così tanta intensità da perforarmi gli occhi, mentre precipita.



 

Curioso, come voglia essere trovata da lei in ogni dove, e in ogni quando, in ogni Parto domani, ogni Arrivederci scarsamente creduto.

Non glielo renderò mai un difficile compito, toccare le mie tracce e sfogliarmi, disfarmi con delicatezza, meditata e cristallina, come un febbrile pittore che cancella linee in eccesso. È questo volto di Historia a irrompere nel locale in cui lavoro come una figlia della bufera, dell’alcohol dolce e di tutte le divinità della guerra, un agente che crea e non è creato, e in uguale misura distrugge e non è distrutto. Le sue labbra appaiono quasi acerbe prive di borgogna, un’ape regina fuggita dall’orda di servitrici prodighe; il suo sguardo saetta bambinescamente in giro come quello di un’alce colta dai fari di un tir.

Il cielo sembra averla maledetta, ma se davvero si trovasse sotto una cattiva stella il suo cammino non sarebbe giunto fino a qui. Forse si sarebbe spezzato a metà strada, e l’avrei persa, non meno di una biglia in una prateria.

Ecco che assomiglia ad una versione scompigliata di Evey Hammond, ora, ma bionda come l’oro perché il Sole non le manca, e più affannata, incappucciata surrealmente da un cappotto troppo leggero per la stagione che corre. Il sangue le grava sotto lo palpebre e mi chiedo se abbia mai dormito durante il viaggio fino a New York, o se sia finalmente ammattita. Devo contemplare l’idea di aiutarla a razionare i tubetti di pillole e prepararle tazze di cioccolata calda per ingoiarle, e decidere che per Historia ciò che sentirei sarebbe felicità.

L’ho letto mesi fa. Ha rinunciato a suo padre, al cinema, alla vita fine che l’avrebbe accompagnata in fin di vita, e anche oltre, nell’Eliso delle marionette e degli uccellini in gabbie dorate. Ha scelto di respirare-

Con ogni fiato, ha bisogno di me con ogni fiato che si disperde nel locale buio. È venerdì, il giorno del karaoke. Historia distoglie l’attenzione dal marasma e sento un filo restringersi repentinamente quando, nell’ombra di una città che è solo luce, ci incontriamo di nuovo.


 



 

Donny si catapulta fuori dall’auto senza perdere un secondo, non appena mi accosto al marciapiede. Mi rivolge un saluto sollevando la mano, porgendo l’altra a Susies, che si sta ancora slacciando la cintura come l’attenta bambina che ho sudato per farla diventare. Afferra il suo zainetto verde e, anche quando si sporge per la mano del fratello maggiore occhieggia le loro dita intrecciate. Poi storce il nasino appuntito.

“Okay, buona giornata.” Li guardo allontanarsi attraverso il finestrino, l’edificio scolastico centrale torreggiante sul parco antistante con quel titanico orologio dalle lancette identiche, così che neppure strizzando gli occhi riesco a distingure ore e minuti.

Susies lascia la mano di Donny troppo presto per attraversare la sua parte di cortile, e affrontare gli scalini come una montagna da scalare. Donny alza lo sguardo sull’orologio e pare capire esattamente che ore sono; apparentemente rendendosi conto di fare tardi-ha accennato ad un test durante il primo periodo, stamattina, prima che la piccola peste interrompesse con la domanda da mordersi la lingua per uno dei suoi progetti in classe; “Come si sono conosciuti mamma e papà?”-accelera il passo, chiudendosi alle spalle la porta d’ingresso con tutta la fretta di cui è capace un adolescente nervoso.

Mentre riprendo il controllo del volante, spero distantemente che, se le toccherà raccontare la nostra storia, Susies sia capace di sorridere, e che non me ne voglia quando si renderà conto che per sua madre i giorni delle gite in carrozza si sono trasformati in precipitosi viaggi in metropolitana, molto tempo fa. Le strade per Molto Molto Lontano sono più di una, dopotutto, e talvolta partono perfino da un orfanotrofio, un sorriso storto.

E poi, qualcosa di bellissimo mi richiama.

Mi destreggio attraverso il traffico newyorkese, ma niente da fare; non cambierà neppure nella mia beatitudine di terra e cenere. Per allora, spero di essere in grado di fare qualcosa per risolvere il problema degli automobilisti rumorosi.

Giro la chiave dell’appartamento solo mezz’ora dopo. La maniglia è usurata, cedevole. Historia è più abile di me con i piccoli aggiustamenti, lo è sempre stata. Quando entro, come se non avessi mai desiderato nient’altro, l’odore del caffèlatte mi avvolge simile a una preghiera.

Il mio santuario; lo trovo solo nelle sue braccia. Qui tutto mi appartiene, lo posso tastare, assaporare, e rispettare come il valore astrale di un vecchio oggetto, non l’oggetto in sè, che ne è solo uno specchio materiale, senza contare poi tanto.

Historia mi sente. Porta una ruga d’espressione incancellabile ed assolutamente memorabile che le solca il punto in mezzo alle sopracciglia come una punta di freccia, e una vestaglia slacciata sopra alla camicia, quella abbottonata; riconosco immediatamente le tinteggiature stanche che mi avvisano che ha lavorato fino a tardi anche stanotte. Sorride in una maniera che Hollywood rifiuterebbe, e mi accoglie a casa nel mio modo preferito.

“I bambini non ti hanno esasperata oggi, vero?”

Appoggio le chiavi sul tavolo, solo per accarezzarle la schiena e trovare, in questo posto, il coraggio di vivere con il nostro nome. 




 

 E poi non voglio possedere niente, finché non avrò trovato un posto che mi vada a genio... non so ancora dove sarà, ma so com'è.

(Holly
 
– Colazione da Tiffany)


 

  
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