La
Tomba del Figlio
L’urlo nero che gli schiacciava il petto spalancò la
gabbia delle sue costole, si inerpicò su per la sua gola e da lì fuggì, andando
a confondersi con la verde oscurità del volto malato di Urano [1].
Quando, d’improvviso, il suo corpo d’uccello si era
mutato restituendogli l’antico aspetto, Tereo aveva creduto che la sofferenza
provocata dalla fragile, sottile ossatura di bestia, che si frantumava e
rimodellava al disotto della pelle ammantata di piume, dei muscoli, che si
allungavano e tendevano su di essa, gli avrebbe levato il senno; pure tanto
intensa, la rimpiangeva amaramente ora che l’acqua di fuoco si era chiusa sul
suo capo come il sigillo di un’anfora di dolore.
Trascinato da una lenta corrente, il calore disumano
che avrebbe dovuto devastargli la carne, bruciargli le ossa, lo lambiva
soltanto, spietato, insinuandosi negli occhi strizzati, tra le labbra ancora
spalancate nel grido.
Attorno a sé, udiva altri.
Prima solo vaghe strida lontane, poi, quando nel
patimento ritrovò una briciola di ragione, più chiaramente: gli gridavano nelle
orecchie immonde maledizioni senza parole, non troppo differenti da quell’unico
suono ininterrotto che usciva da sé.
Li cercava alla cieca, questi altri sventurati che
condividevano la sua sorte: le braccia ancora spalancate come ali, impacciate
dal pesante mantello che avrebbe dovuto essere polvere eppure non lo era,
allungava le dita per aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno, senza che esse potessero trovare appiglio.
Si sentiva cozzare contro pietra spigolosa, ma le
membra, nello strazio, erano addormentate: come se un esercito di formiche le
percorresse in lungo e in largo, sotto il dolore cocente gli pareva di essere
quasi che il fuoco lo solleticasse.
Ogni respiro era un singhiozzo di agonia, e l’aria
stessa pareva bruciarlo da dentro. Si sentiva sciogliere come si scioglieva il
grasso della bestia allo spiedo, si sentiva mangiare da quell’acqua in fiamme –
eppure, non moriva.
Durò una vita, o forse più d’una.
In quella tortura senza fine, il tempo non aveva
senso. A malapena esisteva lui: di
vero c’era il dolore solamente, e il disperato pulsare del cervello nel cranio;
il movimento convulso degli arti, il tendersi senza speranza delle dita.
Andò avanti a lungo e avrebbe continuato per sempre,
ne era certo con quel poco che gli restava della ragione; fino a che,
inaspettatamente, finì.
Finì con uno spunzone di roccia, reso viscido dal
liquido ribollente che lo circondava da ogni parte, e il suo pugno chiuso su di
esso. La lotta contro la corrente, lenta ma decisa a trascinarlo con sé, fu
quella di un animale contro una vita peggiore della morte, tutto istinto e
niente senno.
A malapena capiva di stare arrampicandosi su una
parete, il corpo pesantissimo e le dita che tremavano violentemente. Per tutto
il tempo urlò quell’urlo che non si era mai arrestato, la mente piena di un
solo bisogno: fuggire.
Si accorse di essere riuscito a trascinarsi fuori dal
fiume di fuoco solo quando il corpo toccò la roccia asciutta,
misericordiosamente gelida contro la pelle martoriata – ma integra.
Sotto la guancia cotta dalle fiamme, anche la nuda
pietra gli parve il più soffice dei guanciali.
Si risvegliò che, contro ogni previsione, era vivo.
Perlomeno, tale gli pareva di essere, anche se ogni
respiro era un rantolo, ogni movimento, un gemito di dolore.
Cessò di lottare contro se stesso e il proprio corpo,
e si limitò a concentrare le forze nel sollevare le palpebre serrate. Le ciglia
erano come un filo sottile che le cuciva assieme.
Dopo un tempo che gli parve senza fine, scoprì di
poter alzare una mano, che si portò al viso ancora bagnato. Sorprendentemente,
quando stropicciò la pelle sottile con la punta delle dita, quella non venne
via al loro tocco.
Se si sentiva addosso l’acqua infuocata, troppo calda
anche se non più insopportabilmente bollente, ora che era lontano dai flutti.
La avvertiva colare ovunque, sugli abiti pressati al corpo e sotto di essi;
inzuppava il mantello che ancora gli pendeva dalla schiena e gli si era avvolto
attorno alle membra come un bozzolo; appesantiva persino la spada che ancora
gli gravava alla vita, assicurata al cinto del chitone.
Come un pulcino umido appena uscito dal guscio, Tereo
tremava con violenza sul pavimento di roccia.
Aprì gli occhi, gemette la propria agonia e pianse.
Gli sovvenne, mentre le lacrime gli ferivano il viso,
percorrendogli le guance e rimanendo sospese sugli zigomi affilati, che avrebbe
dovuto essere morto; tuttavia, non lo era.
Alle orecchie ripresero ad arrivargli i suoni, ora che
il suo unico urlo si era quietato senza che egli se ne fosse accorto. Tereo
aggrottò la fronte, nonostante quel movimento gli provocasse dolore in cento e
più maniere differenti.
La voce che sempre lo accompagnava stava tornando a
fargli sentire la sua presenza, in un angolo della mente: dove? Dove?
Non lo sapeva ancora, ma certamente era un luogo di
morte.
Sentiva l’acqua di fuoco ribollire poco lontano da
lui, un rumore immondo come di un enorme stomaco che gorgogliava; non era stato
vento, ma un respiro proveniente da fauci spalancate, quello che l’aveva
risucchiato mentre volava, di una creatura troppo grossa anche solo per immaginarne
le proporzioni.
Se era vivo, se il dolore stava svanendo tanto
rapidamente, doveva essere per l’icore [2] che forte scorreva dentro di lui,
persino più caldo di quella maledetta, terribile acqua.
Con una lentezza che lo spazientì si mise a sedere,
evitando ancora di voltare il capo verso la fonte dei suoi dolori, che, con la
coda dell’occhio, vedeva brillare del colore del sole che muore da quel lato
dove l’oscurità si faceva meno impenetrabile.
Si fissò le mani, invece. Non ne percepiva che la
sagoma, ma aveva dita – poteva muoverle, lunghe e forti, fatte per tenere la
spada: le dita del guerriero che era stato… prima.
Non era un’illusione della sua mente impazzita o
l’estrema speranza vana di uno la cui anima stesse per abbandonare il corpo:
era di nuovo un essere umano. Un’energia come un fulmine lo attraversò dalla
sommità del capo fino alle punte dei piedi. Per la prima volta da… aveva perso
il conto dei giorni, si rimise eretto, pur vacillante sulle gambe troppo
lunghe.
Era impossibile.
Doveva trattarsi di uno strano sogno nero, mandato da
Hypnos [3] per prendersi gioco di lui una volta ancora: Tereo ruggì tutta la
sua collera, al pensiero, la mano che afferrava la spada e la strappava via
dalla cintura, sollevando la lama con l’intento di conficcarla nella pietra
sotto di sé.
Così agitato, con l’arma levata sopra la testa, lo
sguardo gli cadde alla sua sinistra – e la spada lo seguì, il metallo che
rimbombava rumoroso sulla roccia.
La recuperò di istinto con uno scatto, non appena gli
riuscì di riprendere fiato. Non voleva avvicinarsi,
ma i passi lo guidarono senza che egli potesse opporre resistenza, nonostante
il bisogno animale di fuggire via.
L’acqua di fuoco era davvero del colore delle fiamme
di Helios.
Ribolliva rabbiosa ma scorreva con lentezza
esasperante nel crepaccio di roccia nerissima che le faceva da letto, reso
aranciato da quei flutti di sole liquido che si abbattevano sugli argini
frastagliati di pietra, crudeli come punte di lancia. Terminavano in altissimi
picchi puntati verso il cielo – la stessa parete su cui si era inerpicato,
fumante di quella corrente.
Seguì con lo sguardo il profilo della crosta dall’aria
letale, fino a perdervi l’occhio. Sembrava davvero una chiostra di denti
leonini, la sommità dell’antro dove il fiume andava a nascondersi, svanendo
forse sotto la terra – altra roccia celava alla vista il destino di quella
tortura.
Doveva essere una terribile visione notturna, o
l’icore nelle vene che tante volte lo aveva aiutato in battaglia doveva
possedere una forza sconosciuta anche a lui stesso per avergli permesso di
sopravvivere a tutto ciò.
Si ricordò in quel momento che c’erano stati anche
altri: ne aveva sentite le grida, eppure, cercandoli nel fiume, non vedeva
nessuno divorato dalla corrente.
Quando riuscì a staccarsi da quella vista, prese il
coraggio di voltarsi indietro, là dove le vampe ancora fendevano l’oscurità in
agguato.
Non era solo.
Batté le palpebre sugli occhi provati; portò le mani
al volto e li stropicciò, sentendoli bruciare a contatto con la pelle dei
polpastrelli. Quando tolse le dita, la figura era ancora lì. Piccola, dalle
strane proporzioni, lo fissava seduta su un sasso, incombendo su di lui
dall’alto.
Di un grigio fievole, baluginava vaga e, quando Tereo
le si fece più vicino, si accorse che non toccava terra col piccolo corpo.
L’Ombra si alzo sulle gambe corte – qualcosa, in essa,
ancora lo disturbava, ma i suoi contorni erano troppo vaghi per poter dire
cosa. Era come se l’esile busto nudo fosse teso in avanti, tanto che il collo
si piegava in maniera innaturale fino a scomparire sulle spalle esili; come se
il capo gli sbucasse dal petto, sostenuto dalle braccine conserte.
Aspetta!
gli
gridò Tereo senza voce, affrettandosi ad assicurare la spada, trascinandosi il
mantello fradicio e pesante mentre si slanciava nella sua scia.
L’avrebbe raggiunto, di chiunque si trattasse – Demone
o Spirito, poiché non c’era nulla di umano nel modo in cui la roccia traspariva
oltre il suo profilo nebuloso, nella maniera in cui la figuretta, voltategli le
spalle, si inerpicava veloce sempre più in alto, come non sentisse fatica
alcuna.
Per stargli dietro, Tereo doveva forzare quel corpo
che una volta non aveva temuto rivali in qualunque esercizio fisico; come un
giovane Eracle rinato a nuova vita, la forza gli scorreva nelle vene assieme a
quel sangue dorato, dono di suo padre.
Ora, il proprio peso lo frenava, le dita si
aggrappavano disperate alla pietra, prima viscida e poi più asciutta, ben poco
saldamente. Nelle orecchie, il ribollire del fiume di fuoco si faceva più
fievole, mentre il respiro più pesante; infine, sollevandosi sulle braccia,
riuscì a trascinarsi fino a uno spiazzo piatto, dove tentò di recuperare il
fiato perduto.
Dove?
Dove?
Riaprì gli occhi che non ricordava di aver chiuso,
leccandosi il sudore dalle labbra, dai peli della barba. Un viso vicinissimo al
proprio lo fissava, talmente accostato che Tereo dovette allontanarsene un
poco, con un sussulto.
Riconosceva quelle fattezze. Come non avrebbe potuto?
Non erano che la versione paffuta delle proprie, come un riflesso del se stesso
perduto: un visetto che aveva visto ridente e con l’orrore inciso sui tratti di
infante per l’eternità.
Iti.
Tereo spalancò le labbra e perse ogni certezza di
essere vivo.
Avrebbe desiderato tenerlo per mano, ma la propria
carne non faceva che passargli attraverso. Camminando, non gli riusciva di
distogliere l’attenzione dalle spalle prive di collo, dal capo reciso che
sobbalzava sotto il braccio dell’Ombra ad ogni passo sulla scalinata dove lo
stava conducendo con la sicurezza di chi conosceva bene il luogo.
Sono
vivo? gli aveva domandato, quando i singhiozzi che
l’avevano piegato in due avevano smesso di scuoterlo abbastanza da lasciarlo
parlare. L’Ombra aveva preso il capo tra le manine amorose, tenendolo davanti a
sé e scuotendolo su e giù, pallida imitazione di un assenso.
Un brivido di sollievo lo aveva percorso: vivo, per
vendicare la morte ingiusta, per affondare la spada nell’assassina figlia di
una cagna che aveva alzato la mano sul suo bambino.
Dove?
aveva chiesto allora – l’unica parola che la mente fosse stata capace di
concepire. Il suo fanciullino, così ubbidiente, così maciullato, si era
prodigato per accontentarlo, trovare per lui una strada da percorrere.
Ora, con il volto malato della luna che si faceva
sempre più vicino, Tereo sollevava un piede dopo l’altro sui gradini scavati
nella roccia, una mano posata sulla parete tagliente alla propria destra.
La salita non aveva fine, Iti non aveva parole, il
tormento di Tereo non aveva fondo.
Il cervello scoppiava di pensieri, tanto che si
stupiva di non sentirli tracimare dalle orecchie, attraversate da un fischio
acuto.
Se era vivo, e credeva di sì – Iti non gli aveva mai
detto una menzogna da quando era uscito dallo sventurato ventre di sua madre,
che i corvi facessero a brani il suo cadavere – e lui e suo figlio erano
riuniti, non c’era che un nome da dare al terribile luogo che si stavano
lentamente lasciando alle spalle, tanto tremendo che non bisognava pronunciarlo
a voce alta.
Come fosse possibile non ne aveva proprio idea, per
quanto ci si rompesse la testa. I suoi ricordi di uccello erano troppo vaghi
per dar loro un senso, ma restava vivida la sensazione di venire risucchiato in
basso da una forza troppo impetuosa per le sue ali troppo fragili.
Era dunque ragionevole pensare…
“Le hai viste, Iti, figlio mio? Tua… madre, e sua
sorella.”
La piccola Ombra arrestò la sua scalata, voltando il
viso, che spuntava sotto l’arco del braccio, senza che il resto delle membra si
girasse con esso. Lo scosse da lato a lato, come un diniego.
Tereo si morse le labbra, per la prima volta
assaggiando il sapore del proprio sangue. Non aveva controllato, ma, nonostante
quel folle tuffo e l’arrampicata tremenda, il suo corpo sembrava privo di
ferite. Una strana legge doveva regolare quel luogo, estranea a quella di Zeus
divino; la stessa per cui aveva ripreso le umane fattezze, e le uniche piume
che aveva addosso ricoprivano il mantello che gli sventolava sulla schiena.
L’eredità di famiglia: Iti lo aveva amato tanto, in
vita, da farsi promettere, mentre saltava sulle sue ginocchia, di averlo in
dono non appena fosse diventato uomo.
Non sarebbe divenuto, però, uomo, mai.
Uno stretto passaggio si parò davanti a loro, e Tereo
l’imboccò camminando fiducioso nella scia di Iti.
Se Procne e Filomela vagavano in quello stesso luogo
oscuro, Tereo le avrebbe trovate e avrebbe reciso le loro teste con la sua
spada. Poi, le avrebbe gettate nel crepaccio da cui era venuto.
No,
non Filomela; era Procne l’assassina del figlio, non la sorella dolce quanto il
suo canto.
Eppure,
entrambe erano sporche del sangue di Iti, che tutte e due avevano detto di
amare. Cagne maledette.
La sua mente
oscillava come una bilancia squilibrata; intanto, lo stretto cubicolo in cui si
erano infilati – l’unica luce quella opalescente dell’Ombra – giungeva al
termine, conducendoli a… l’acqua.
Vera acqua, stavolta, un fiume dai flutti bianchi e
del colore del bronzo ossidato. Il suo corso si diramava in una moltitudine di
correnti più piccole, che si gettavano tutte nel fuoco al disotto, come fili di
bava nei crateri della terra.
Pure lì erano soli, con lo scrociare delle cascate
nelle orecchie; Tereo alzò lo sguardo verso l’alto, là da dove l’acqua aveva
origine e precipitava con un sano tremendo giù per la roccia che sovrastava le
pozze; la roccia non era più aranciata e incandescente, ma avvolta da aloni
verdi e argentati, riflesso di Urano.
Tereo allungò la mano alla ricerca di quella di Iti.
Non trovò che aria; procedettero avanti.
Erano tanto vicini al viso di Artemide che Tereo
avrebbe potuto sfiorarlo con la punta delle dita.
Gettò uno sguardo in basso sull’abisso da cui era
uscito come un neonato dal ventre di donna. Il crepaccio di acqua e di liquido
fuoco lo ricambiò e le ossa di Tereo rabbrividirono sotto la pelle.
Voltò le spalle.
Dove?
Dove?
Avanti ancora – forse per ore, forse per anni.
Artemide era tramontata. Helios non visitava quel
luogo ed era come se il giorno fosse perennemente alla fine.
Nell’aria priva di vento, l’odore rancido di
acquitrino stagnava fino a stordire, e l’umidità la rendeva pesante, era quasi
come nuotare in una nuvola temporalesca. Nonostante ciò, il terreno su cui
stavano in piedi era arido, la bassa vegetazione disseminata di sassi di un
verde sporco e senza vita.
Tereo si guardava attorno, nella piana racchiusa da
due colli che si arrotondavano aspri, i profili che si stagliavano contro il
cielo nero.
Non erano più soli, ma centinaia come Iti si riunivano
in una colonna scomposta. Fluivano da un buco – non poteva che chiamarlo tale –
che si apriva sulla parete di una delle colline, e si assiepavano pigiati gli
uni contro gli altri, senza davvero cozzare tra loro.
Dall’antro, una voce lontana sembrava incitarli a
procedere, ma quelli si prendevano il loro tempo, avanzando con lentezza
esasperante e nel più profondo caos.
Il comandate in Tereo non avrebbe mai approvato tutto
quel disordine, quasi quello di un mercato nei giorni di festa; era una folla
silenziosa e priva di gaiezza, tuttavia, quella che formava un muro tra loro e
qualunque cosa si celasse più avanti, sul loro cammino – non riusciva a vedere
tanto lontano.
“Dove mi stai portando?” domandò a Iti, senza speranza
di risposta. Non l’ottenne, infatti, e Tereo si morse la lingua, frustrato.
Non sentiva i morsi della sete; la fame, che non fosse
di sangue traditore, era dimenticata: il suo stomaco era pesante, nel ventre,
dove un macigno vivo si agitava in un mare di bile.
Attesero, Tereo scalpitando impaziente verso l’ignoto,
Iti al suo fianco.
La mente di Tereo era lontana, staccata dal corpo, un
nido che serpeggiava di dubbi e domande: quanto tempo era passato, dacché Iti…?
Non riusciva a contare all’indietro. Forse una stagione, forse due: ricordava
le giornate che si facevano più calde, e poi di nuovo più fredde mentre volava
forsennato alle calcagna delle sue prede, deciso a non concedere loro un giorno
di pace.
Gli Dei erano stati ingiusti. Non che Tereo fosse
privo di colpe, ma erano stati Fato e Necessità [4] a condurlo alle sue scelte
obbligate, e niente di quanto avesse fatto poteva essere paragonato all’assassinio
di un fanciullo, allo scempio che era venuto dopo.
Un delitto che neppure le Erinni avrebbero potuto
togliergli il piacere di punire con le proprie mani – così aveva pensato, fin
quando quelle stesse mani non gli erano state sottratte, e l’unica arma rimasta
era il becco di uccello che così somigliava alla spada al suo fianco.
Anche quello gli sarebbe andato bene, se fosse
servito; e invece, l’una di giorno e l’altra di notte, lo titillavano col volo
basso e col canto soave, sfuggendogli all’infinito.
Dove lo stavano portando i suoi passi? Odiava non
sapere, e tamburellava con le dita sulle cosce pure se fremeva dalla voglia di
frustare il Destino beffardo.
Una sensazione di gelo lo trapassò da parte a parte,
staccandolo da quelle riflessioni oscure.
Sussultò violentemente, seguendo con lo sguardo
l’Ombra che doveva essergli passata attraverso di gran carriera. La sagoma di
un uomo allampanato correva senza posa sulla terra brulla, ricoperta d’erba
friabile come sabbia, come avesse uno sciame delle più colleriche vespe di
Nemesi alle calcagna. [5]
“Povero sventurato.”
Dalle Anime dall’aspetto tanto rarefatto si sarebbe
aspettato una voce eterea, eco vuota di quella avuta in vita; invece, la
vecchia che aveva pronunciato quelle parole aveva un timbro roco e profondo,
che poco aveva a che fare con l’aspetto incorporeo.
“Questa attesa manderebbe il cervello di chiunque ai
corvi. [6]” A replicare era stato un uomo giovane, una grossa ferita slabbrata
del colore delle perle sul collo esile.
“Tenetevi stretti gli oboli: potrebbe tentare di
rubarveli”, fece una donna che teneva per mano due fanciulline, poco più grandi
di Iti; la pelle grigiastra era segnata dalle piaghe della malattia che doveva
averle prese tutte.
Un insepolto.
Tereo riportò lo sguardo sulla folle corsa dell’Ombra,
il viso sconvolto dalla pazzia; continuò imperterrito su per un pendio, dove
altre Anime, da quel punto più in basso, parevano danzare, pazze come Menadi.
[7]
Chinò il volto verso Iti, tanto placido e privo di
emozione al proprio fianco.
Giammai, quell’onta. Giammai.
“Andiamo.”
Non poteva prenderlo per mano e trascinarlo; poteva
però ignorare le proteste della colonna di Ombre, e lo fece, lasciandosele
tutte dietro le spalle col bambino alle calcagna.
“Come sarebbe a dire, vecchio?”
La collera gli ribolliva dentro come l’acqua infuocata
in quel crepaccio il cui pensiero ancora lo faceva tremare.
La creatura irosa che agitava il remo contro di lui
avrebbe potuto scuotere i serpenti che gli pendevano dalle braccia secche fino
a che Urano non avesse inghiottito Gea, per quello che lo riguardava; dopo
l’abisso, niente poteva più spaventarlo. Tereo doveva andare avanti – e Iti
sarebbe stato al suo fianco, con o senza il suo obolo.
“Siamo la progenie del grande Ares, miserabile barcaiolo”,
sibilò, mentre colore affluiva alle guance azzurrognole del Demone, la torcia
fissata all’altra estremità della barca che lo rendeva quasi violaceo alla
vista. “Come osi negarci qualcosa?”
“Il divino Ares genera figli stolti, dunque.” Il
vecchiaccio non pareva propenso ad avvicinarsi, per tutte le sue parole
offensive: lo teneva a distanza con l’unico remo, dondolando sulla barca
malmessa già per metà assiepata di Ombre che osservavano la scena.
“Non sarebbe il primo della sua stirpe. Te lo ripeto,
dato che mi pari tardo di cervello: a te è concesso di passare,
eccezionalmente; ma senza l’obolo, l’insepolto resterà qui.”
Tereo fumava per lo sdegno. La ragione gli diceva che
avrebbe dovuto tentare di rabbonirlo, che si prendevano più mosche col miele
che col vino aspro; prese un respiro profondo, provando a schiarire la mente
annebbiata di rosso.
“Non conosci la pietà?” domandò, indicando con la
sinistra libera il suo povero bambino, che ancora si teneva la testa sotto il
braccio. Sentiva i suoi occhi su di sé, quello sguardo vuoto di allegria che
non gli riusciva di sopportare.
“Non è che un fanciullo, non merita questo fato!”
“Come la maggior parte di quelli che vedi, ma non sono
io a fare le regole e, seppure fosse, non mi interesserebbe. Io governo la barca.
Per domandare grazie e piaceri, devi rivolgerti più in alto. Ora monta, vattene
o affoga.”
Il vecchio scosse il capo, agitando il naso adunco
come un’arma. Tereo era scosso da brividi, le guance macchiate di oltraggio. Le
dita tremavano sull’elsa della spada. La liberò dal cinto e poi la puntò contro
il nocchiero, pericolosamente vicino alla barba nera che gli ricopriva il mento
e il collo rachitico.
“Le spade non possono niente, nel regno dei Morti.” Il
tono del vecchio trasudava disprezzo. “Monta, vattene o affoga.”
Così vicino all’acqua, capiva cosa intendesse dire con
quelle parole. Gettò un’occhiata brevissima oltre la spalla del Demone dalla
schiena curva: una palude di acquitrini grigi e neri si stagliava di fronte a
loro, ribollente di fango.
L’acqua era tanto torbida e fangosa che non se ne
vedeva il fondo. Qualcosa pareva muoversi sotto della superficie, come dita
pronte ad afferrare e a trascinare oltre il velo della fanghiglia; le Ombre
sedute all’estremità della barca, illuminate dalla torcia, tremolavano,
stringendosi le une alle altre per scansarsi dal bordo del legno consumato.
Non aveva altra soluzione che arrendersi, dunque. La
sola idea gli bucava il cervello come la bile che si agitava nello stomaco.
Si voltò verso Iti, ancora ritto sulle gambe corte.
Suo figlio alzò la mano minuta, come per salutarlo.
Attraversa
la porta d’ingresso e prosegui per la Piana degli Asfodeli. Dirigiti là dove il
sole cala e la luce inizia.
La barca non aveva ancora cozzato con la terra ferma
che già Tereo ne era disceso, lasciandosi alle spalle le grida del suo
nocchiero. La fiumana di Ombre parve impallidire sotto la nuova luce che
rischiarava l’aria – niente di più che una nebbia opaca, che pure gli colpiva
gli occhi quasi acciecandolo, dopo l’oscurità profonda.
Si tuffò nel sentiero che gli si apriva di fronte – da
lungi già vedeva l’enorme ingresso, una porta di pietra nera eretta in mezzo al
nulla. Si domandò vagamente cosa sarebbe accaduto, se avesse tentato di
attraversare il confine dai lati; nessuno pareva posto lì a sentinella, eppure,
ubbidienti, le Ombre si incanalavano per il varco, senza che nulla venisse loro
ordinato.
Tereo procedeva avanti.
A malapena si guardava attorno, la spada ancora in
mano mentre correva tra le Ombre che neppure si curavano del suo passaggio.
Ogni volta che ne trapassava una, era come immergersi in gelida acqua, ma
Tereo, tutto preso verso la meta agognata – la porta che, enorme, pareva
risucchiare quel grigio mare traslucido che erano le anime dei Morti – se ne curava
ancora memo.
Riusciva già a vedere, oltre i cardini di oro
massiccio, la Prateria che lo attendeva. In lontananza, le Anime vi
scorrazzavano come galline nell’aria, avvolte in un alone grigiastro.
Era dunque quello il luogo di riposo per i mediocri. Non
avrebbe mai creduto di doverlo vedere, Tereo, che per sé non aveva mai sognato
che gli Elisi. Era figlio di un dio, dopotutto: erano il posto che gli spettava
di diritto.
Iti non avrebbe mai avuto la possibilità di dare prova
di meritarli, una volta diventato uomo.
Dove?
Dove?
Procne e Filomela non erano mai abbastanza vicine.
Tereo procedeva avanti in una corsa forsennata quanto
lo era stato il suo volo di uccello, gli occhi fissi oltre la soglia a cui si
accostava sempre più.
Un rombo di tuono arrestò la sua marcia.
Sulle prime, disorientato, si guardò attorno senza
capire, il suono che gli scuoteva il corpo come un dito pizzicava la corda di
una lira.
Un attimo sospeso, prima che il mostro gli si parasse
di fronte, grande quanto era grande la porta a cui, dopotutto, faceva la
guardia.
Tereo indietreggiò di un passo mentre quello avanzava,
lento nello spostare l’enorme massa scura del corpo muscoloso di mastino. Dal
collo tre teste gemelle fiorivano, dai grugni allungati di lupo – così vicini
alla propria faccia da poter contare le narici dei baffi erti come lance. Alte
orecchie, affilate come punte di giavellotto, si muovevano nell’aria immobile,
e una coda frustava l’aria, come un tronco di quercia.
Gli occhi erano gemme nere, prive del bianco – sei
grossi diamanti cupi, tutti fissi su di lui, brucianti di rabbia.
Ecco il Guardiano della porta, terribile figlio di
Tifone: Cerbero lo guardava come si guardava il più odiato tra i nemici.
Scappare fu il suo primo istinto, troppo veloce perché
potesse castigarsi col pensiero.
Seguì con lo sguardo il profilo dei denti aguzzi che
spuntavano dalle fauci, li immaginò dilaniargli la carne e, mentre univa la
mano sinistra alla destra sull’elsa della spada, avvertì il metallo
rabbrividire.
Prese un respiro profondo.
“Sono Tereo, figlio di Ares.”
La voce gli uscì dalla gola come un ruggito da una
spelonca.
Tra le mani, la spada aveva arrestato il suo tremore:
non poteva morire, il Fato non l’avrebbe permesso: il Flegetonte non lo aveva
ucciso perché la sua causa era troppo nobile per poter fallire nel portarla a
compimento; ugualmente, il Fato non l’avrebbe visto divorato tra le zanne di
Cerbero.
Doveva essere così: non sarebbe morto prima di vedere
il corpo straziato di Procne; da lui, o dalle Erinni.
Si chinò, indietreggiando di qualche passo, abbassando
la spada per darle poi slancio. La bestia lo guardava fisso, le bocche
digrignate sui denti gialli. Pure scostandosi, erano ancora così vicini l’uno
all’altro che il fiato della creatura lo avvolgeva come una nebbia.
Tereo vagava con lo sguardo sui colli esposti, coperti
di pelo ispido come setole di un cinghiale. La testa di mezzo, ragionò, doveva
essere quella principale, colei che guidava le azioni dell’animale. Pure se la
sua spada non era che uno stuzzicadenti, al confronto, se fosse riuscito a
metterci abbastanza forza allora l’avrebbe ferito; forse non mortalmente ma
abbastanza da sfuggire alle enormi fauci, agli artigli ricurvi delle zampe
grandi come carri.
Arrivarci sarebbe stato il maggiore problema: la
bestia si stava accovacciando a propria volta, i tre enormi capi abbassati e la
coda per aria, come per balzare su di lui. Tereo già se lo vedeva sopra, a
schiacciarlo con l’enorme corpo.
Non lo poteva permettere: era forte, ma non della
forza di Eracle, per quanto bruciasse ammetterlo; non sarebbe riuscito a
scrollarlo via, se gli fosse piombato addosso.
Doveva colpire lui per primo.
Si preparò a correre, a concentrare la forza sulle
braccia, inclinando la lama della spada nella direzione che aveva più
possibilità di ferire il punto prestabilito, là dove pulsava la vita – ma,
proprio mentre stava per partire all’attacco, un sussulto attraversò l’enorme
creatura.
Sotto lo sguardo pieno di stupore di Tereo, il cane
drizzò le sei orecchie come verso un suono lontano; poi, scosse le sei teste,
riottoso. Infine si rimise in piedi, i colli più esterni, dalle vene tese sotto
la pelle, torti verso oltre la Porta.
Gli occhi di mezzo, invece, esitarono su di lui ancora
per un attimo, ringhiandogli senza parole tutta la rabbia a stento trattenuta;
poi, i capi di nuovo rivolti nella medesima direzione, Cerbero passò le rosee
lingue sulle zanne snudate, come enormi petali carnosi, e chiuse le fauci. La
terra non tremò sotto la sua mole, mentre il cane gli dava le nera schiena e si
allontanava da lui lentamente, sventolando l’enorme coda in un grottesco
saluto.
Il cuore che palpitava nel petto ricordandogli che era
ancora vivo, Tereo si lasciò ricadere il braccio, ansante. Solo un attimo di
riposo si concesse, frastornato com’era da quegli ultimi momenti; ancora
sentiva il puzzo del fiato della bestia nelle narici, il mefitico odore della
morte.
Si rimise diritto.
Non aveva senso alcuno, che l’avesse lasciato andare –
un cervello di bestia non avrebbe potuto comprendere che lui era figlio di Ares
– ma lui non poteva fermarsi.
Non aveva tempo da perdere oltre: ogni minuto che
esitava, Iti doveva passarlo nello sfregio degli insepolti, lui che era stirpe
divina, innocente bambino. L’ira gli diede le ali ai piedi: si tuffò oltre
l’immensa porta, inghiottito dal grigio delle Ombre e dal bianco degli asfodeli
Dove?
Dove, ora?
Correva, il mantello gonfio dietro la schiena, la
spada in mano, senza guardare in faccia nessuna delle Ombre che occasionalmente
attraversava senza riguardo, i loro volti annoiati, macchie informi ai suoi
occhi concentrati su altro.
Di fronte a lui, la distesa di fiori costeggiata dai
medesimi alberi che segnavano il viale dell’Ingresso, si distendeva fin dove lo
sguardo poteva arrivare.
Tereo si portò accanto alla fila di tronchi candidi di
salici e pioppi, riparandosi sotto i loro rami mentre da quella colonna si
faceva guidare, là dove il sole calava, sulla terra dei Vivi, e in Averno
nasceva la luce.
Quanto infinitamente immenso poteva essere il regno
dei Morti?
Giorni passarono, o forse anni, prima che il pallore
nebbioso sbocciasse in un incubo di luce.
Più intensa di quanto ne avesse mai avuto esperienza
in Ellade o nella sua Tracia, pareva quasi di poterla toccare mentre gli si
insinuava negli occhi disabituati, ormai, anche alla più lieve carezza di
Helios.
Le palpebre ridotte a fessure, Tereo procedeva sempre
avanti, trascinando le membra esauste; la spada nella destra, ne rivolgeva la
punta verso la terra ammantata di asfodeli, di cui ad ogni passo faceva strage.
Non più riparato da salici e pioppi, avanzava scoperto
lasciando che la luce priva di fonte lo inghiottisse.
Pure se muoversi così esposto andava contro ogni suo
istinto o principio, la ragione gli diceva che difficilmente avrebbe
incrociato, dopo Cerbero, un altro nemico di carne sul suo cammino: Demoni e
Spiriti tormentavano, sì, i Mortali, ma nella terra dei Vivi; e ben poco
avrebbero potuto contro di lui le Ombre, se non passargli attraverso.
Le sue vere nemiche, se poi lì erano giunte davvero,
erano donne di quella specie codarda quanto gli uccelli di cui avevano preso
l’aspetto; sapevano solo sfuggire dalle mani e trovare rifugio nell’ombra.
Nondimeno, le dita erano salde sull’elsa e pronte a brandire la lama quanto lo
permettevano i sensi alterati, il corpo sfiancato.
No, no: Procne, era colpa sua. Non di Filomela.
Dove?
Dove?
Ad ogni falcata sentiva tornare in sé il vigore,
mentre le mura si facevano vicine, incombendogli addosso col loro candore
insopportabile; l’icore collerico di suo padre gli ribolliva in corpo,
rombargli nelle orecchie, e avvertiva la propria ira premere nello spazio tra
cranio e cervello e pulsare come un altro cuore.
Finalmente avrebbe potuto domandare quella giustizia
che non gli era stata accordata, risanare il torto subito. Era persino disposto
a non essere lui stesso a mietere l’anima della sua sposa empia, ad affondarle
la spada nel seno e vederne sgorgare il sangue traditore fino all’ultima
goccia; avrebbe sacrificato la propria soddisfazione, se gli avessero in cambio
accordato una grazia per Iti.
Sì, si sarebbe rimesso nelle mani delle Sorelle
Terribili [8]. Per sé, avrebbe chiesto solo di rompere la maledizione: in fin
dei conti, al figlio di Ares poteva essere accordata quella clemenza – per
dipiù per una punizione affatto meritata. Dov’era il male nel voler vendicare
il figlio ammazzato? Dove? Dove?
Quel disgusto che non lo lasciava mai si fece di nuovo
sentire, agitandoglisi nel ventre come una bestia viva. La bile gli salì alla
gola, mentre, senza esitazione alcuna, varcava infine le maestose porte
d’argento, più alte di quelle della reggia di Atene e, nel bagliore bianco,
luminose come lastre di stella.
Il pavimento era gelido contro la fronte, i palmi, le
ginocchia nude che vi teneva premuti. Il marmo era talmente lucido che poteva
scorgervi il proprio viso riflesso – il naso affilato sul viso lungo, gli occhi
segnati e la linea stretta delle labbra.
Un lieve tremito gli percorreva la schiena, ma tentava
di restare immobile. Nel silenzio – li aveva intravisti, entrando a sguardo
basso, e sapeva che c’era più d’uno con lui, nella sala – udiva passi lievi
farsi vicini, lenti e cadenzati.
Lo attendevano, anche se nessuno lo aveva annunciato.
Tereo sollevò appena il volto, arrischiando
un’occhiata: scorse l’orlo di una veste diafana, talmente sottile da potere
indovinare il profilo di caviglie delicate che celava al disotto.
Nel petto, il cuore fremeva, impazzito: intuiva chi si
trovasse di fronte a lui. Neppure gli Dei osavano pronunciare il suo nome.
“Dopo tante peripezie, ti do il mio benvenuto
nell’Erebo, Tereo, figlio di Ares.”
La sua voce era chiara e decisa alle proprie orecchie,
bassa come le fusa di un felino; ogni parola sembrava rimbombare, nella stanza
del trono e nel suo cranio. Dietro il timbro caldo, tuttavia, Tereo percepì una
certa durezza di fondo, per nulla stemperata dalla gentilezza dei modi.
Nonostante il timore che era poco desideroso di
ammettere, Tereo strinse i pugni. Si ricordò che quei convenevoli erano
necessari mezzi per raggiungere il suo fine; nondimeno, perdere prezioso tempo
in chiacchiere era estraneo alla sua natura. Ma a che pro farlo presente a un
essere per cui il tempo a malapena esisteva?
“L’onore che concedi è grande, Oscura Regina [9], di
accogliermi alla tua presenza.”
“Un’evenienza rara, seppur non unica,” replicò lei,
quasi distrattamente. “Alzati, Re di Daulide. Ho piacere di guardarti in viso.”
Tereo sciolse si pugni e aprì le dita, allargandole
sul pavimento e poi facendo forza sui palmi per rimettersi dritto. Quando fu di
nuovo in piedi, gonfiò il petto sotto il mantello di piume, posò la destra
sull’elsa della spada assicurata al cinto del chitone.
Ne approfittò per rubare un altro sguardo, stavolta
alla sala.
In quel luogo dove il suo cammino lo aveva condotto,
tutto era tanto candido da credere di essere immersi nella neve d’Olimpo: il
marmo dei pavimenti si prolungava sui muri lisci, e fioriva in colonne nivee
che si slanciavano verso un soffitto rivestito d’argento levigato, spruzzato di
pietre preziose di tutti i colori del mantello di Eos [10] – tante che Tereo
non sarebbe riuscito a contarle.
Solo un attimo si lasciò ammaliare da quella vista;
poi, raddrizzò il collo e abbassò il mento, tenendo gli occhi ostinatamente
fissi su un punto oltre un braccio della Dea, nudo e sottile, uno scialle
drappeggiatovi dal gomito alla spalla.
Doveva essere alta almeno quanto lui, che svettava
sugli uomini di quasi una testa. Con la coda dell’occhio intuiva il pallore dei
suoi capelli, chiari come lino. Colei che di nome faceva l’Oscura Fanciulla,
gli pareva fatta della stessa luce degli Elisi: fastidiosamente accecante.
Più indietro, altri volti li spiavano, figure disposte
tra le colonne portanti e il rialzo dal pavimento da esse racchiuso. Lì si
ergevano i due troni d’oro, imponenti e vuoti; non riusciva a discernere la
lavorazione del prezioso metallo, ma intuiva minuti bassorilievi sulla
superficie, come foglie sopra il pelo dell’acqua.
“Ho pure piacere che ricambi il mio sguardo, figlio di
Ares.” La voce di lei non aveva perso la cortesia, ma Tereo ne assaggiò il
taglio segreto, che gli strappò una lieve smorfia. Esitò prima di parlare e si
odiò per averlo fatto.
“Se ti accontentassi, la tua bellezza mi toglierebbe
il lume dagli occhi, o peggio, ne rimarrei folgorato: oltre alla vista, dovrei
rinunciare alla vita, se non sono già morto.” [11]
“Questo potrebbe esser vero nelle terre aldilà delle
Colonne [12], sì. Qui, abbiamo le nostre regole: guardarmi non ti ucciderà,
perché ancora vivi; se poi lo facesse, quale luogo migliore, per abbandonare le
tue mortali spoglie, della casa di Ade? Già una volta Caronte ti ha traghettato
sulla sua barca da un lato all’altro dell’Acheronte, e nulla lo rende più
intrattabile che fare lavoro doppio.”
Nessuno rise, e Tereo strinse le labbra.
“Ah, suvvia. Col mio sposo assente, la noia delle mie
giornate mi è quasi mortale. Lasciate che mi spassi, quando ne ho l’occasione,”
replicò la Regina al silenzio generale.
Tereo non sarebbe stato il divertimento di nessuno,
fosse anche una Dea, né in vita né in morte.
“Se i miei casi fossero più lieti ti intratterrei
meglio, Sovrana. Ringrazio cento volte i Venti per avermi trasportato nel tuo
regno… pure se non comprendo come sia possibile.”
I suoi ricordi di uccello erano vaghi frammenti di
immagini della grande distesa di Oceano, tanto blu da sembrare nero; isole che
non figuravano su nessuna mappa di cui avesse memoria; un lembo di terra
nerissimo, la fossa infinita dove la corrente l’aveva risucchiato, spezzandogli
le ali e la volontà.
“Ci piace ricevere ospiti, e non interdiciamo a
nessuno l’entrata, posto che trovi il passaggio – o che il passaggio trovi lui.
Capita a volte che i Vivi ci facciano visita, per accidente o per volere del
Fato.”
Quello non poteva che essere un segno che la sua causa
era giusta.
“Di certo, allora, è il Destino che mi ha guidato da
te per sottoporti le mie circostanze luttuose. Come ora faccio, sperando di
trovare in te la pietà che altrove mi è stata negata.”
Le parole gli uscirono a fatica dalla bocca,
incagliandosi nei denti. Non era mai stato un gran parlatore, se non coi
soldati da incitare alla battaglia. Nell’impeto della guerra, i bei discorsi
sgorgavano da lui come acqua di fonte; ma non gli era mai accaduto di essere
così scrutinato da creature più simili al suo divino padre che a lui.
“Oh…” La replica di lei fu poco più che un sospiro.
Infine, Tereo si decise a guardarla in volto, sfidando la Sorte, desideroso di
trasmetterle la propria urgenza. Ammutolì con le labbra dischiuse, invece. Non
sapeva bene cosa si fosse aspettato – il terribile viso di Thanathos, magari,
oppure una bellezza da ferire il cuore.
Non furono i lineamenti, pure armoniosi, a colpirlo,
ma gli occhi: orlato da un anello nero là dove confinava col bianco, il loro
grigio temporalesco impallidiva, verso il foro al centro, nella sfumatura della
nebbia, rendendoli quasi trasparenti. Aldilà di essi, un nemico invisibile
sembrava scrutarlo come da una feritoia. [13]
La Regina batté le palpebre e l’impressione svanì.
“Parlami dunque delle doglie che ti affliggono, Re di
Daulide. Non ci giungono nuove delle umane pene, se non per la bocca delle
Ombre; a molte, Thanatos pare rubare, oltre al respiro, la lingua, tanto
gelosamente costudiscono i loro ricordi segreti.”
Di nuovo, un lungo brivido lo attraversò. Tereo si
piegò in avanti impercettibilmente, come una bestia pronta a scattare – o a inchinarsi.
“Signora, giungo con la preghiera di accogliere mio
figlio, Iti, tra i tuoi asfodeli. Non era che un fanciullo di cinque autunni
appena quando la sua madre perversa ne fece strage. Ora, egli si attarda tra le
Ombre insepolte, morto troppo piccolo per aver nociuto ad alcuno o per provare
il suo valore di uomo.”
Nel petto, il cuore era nella mano di un bambino
dispettoso, che allargava e stringeva le dita attorno ad esso a piacimento;
nello stomaco, qualcosa si agitava, gridando di poter uscire. La bile che tanto
a fatica controllava gli diffuse in bocca il suo sapore acido.
“Domando questa grazia, e giustizia. Ho tentato di
raddrizzare il torto di mia mano, ma gli Dei del Cielo sono stati clementi con
le assassine, e non con le vittime; la madre feroce merita la punizione per chi
fa strage dei parenti, l’ira delle Erinni. Ti supplico…,” mormorò a fatica.
“Rinuncerò a darle io stesso la caccia, se manderai le Sorelle a punirla per il
suo delitto. Mio figlio non ha fatto nulla, né io stesso se non quello che era
giusto; io, che pure fui trasformato in uccello dagli Olimpi senza colpa,
perché non c’è crudeltà nella mia vendetta legittima. Sciogli, Sovrana, le
nostre maledizioni, tu che conosci la pietà.”
Chinò il capo, ansante. Il discorso lo aveva svuotato,
e tenere a bada quella parte di sé che, impazzita, non faceva altro che cercare
(dove? Dove?), diventava difficile.
Un silenzio grave regnò per qualche secondo; poi, una
mano dalle lunghe dita si tese verso di lui, sollevandogli il mento senza
neppure sfiorarlo davvero. Il volto della Regina era una maschera di premura.
“Che orribile storia mi hai raccontato, figlio di
Ares. L’insania deve aver colto mio padre per aver condonato questo sopruso. Ma
dimmi,” continua, e questa volta lo prese sottobraccio, quasi sorreggendolo
mentre camminavano per l’enormità della sala (si portava addosso l’odore della
menta [14] intrecciata nei capelli, che gli feriva il naso col profumo fresco
quanto gli occhi la luce eccessiva). “… perché nomini due assassine, se poi affermi che solo la madre ne ha fatto scempio –
sventurata la donna che rivolge la mano contro la propria progenie.”
Non poteva mentire a una Dea, per quanto dolore gli
portasse la verità.
Abbassò le palpebre, lasciandosi guidare dal tocco
freddo della pelle di lei suo braccio. Mentre camminavano, il mantello di piume
frusciava a ogni sfregamento sul marmo sotto i loro piedi.
“La mia sposa coinvolse nel delitto la sorella. Una
creatura indebolita nel carattere dall’affetto fraterno, senza dubbio, ma che
amava mio figlio e me sinceramente e che si è mostrata pentita del suo atto.”
Iti,
Iti.
Mentre parlava, aveva pieni gli occhi non della
colonna intarsiata di fronte a sé, ma di quelli grandi di Filomela.
Del pentimento che aveva letto in essi mentre Procne offriva
alla sua vista il capo mozzato del suo unico figlio, l’erede di Daulide col
viso uguale a quello del padre, tenendolo per le ciocche rosse dei capelli come
si teneva una lepre sgozzata.
L’orrore, quando Procne gliela lanciò tra le mani, e
Tereo l’afferrò per quelle guance piene che, in vita, si erano arrossate di
piacere ad ogni suo sguardo; mentre allora, erano gelide e inerti, sotto i suoi
palmi, l’espressione fissata nel terrore dei suoi ultimi momenti.
Tereo aveva fatto scorrere lo sguardo da Procne a
Filomela, da Filomela a Procne, come un uccello impazzito: non c’era traccia
della muta vittoria di sua moglie, sul viso esangue della sua amata. Una follia
doveva esser stata, per lei, sicuramente avvelenata dalla malvagia sorella.
Che il verso che sfuggiva al suo becco di usignolo,
mentre le dava la caccia tra i rami degli alberi, fosse il nome di suo figlio,
non era segno sufficiente della sua volontà di espiare? [15]
“Terribili eventi hai vissuto.”
Una mano si posò sul suo avambraccio, ancora cotto
dalle braci dell’acqua di fuoco; era delicata, al tatto, un conforto a cui
Tereo si permise, non volendo, di appoggiarsi.
“Per quale motivo, però, trasformarti in uccello?”
domandò lei un attimo dopo – o una vita più tardi, poiché era tanto perso nei propri
pensieri, nel proprio dolore, da dimenticare dove si trovasse, o al cospetto di
chi.
Si schiarì la gola seccata dal tanto parlare. Bramava
un goccio di vino, ma nulla gli avevano offerto, e niente del regno dei Morti
doveva essere accettato, se si voleva tornare indietro da dove si era venuti.
“Una volta presentatemi le povere spoglie di Iti, le
due fuggirono. Io presi la spada,” nel dirlo, batté la destra libera sull’elsa.
“Le rincorsi. Non è forse una vendetta giusta, quella contro l’assassino di un
figlio?” domandò senza davvero chiedere, procedendo avanti. “Non è crudeltà, è
la legge.”
Giravano in tondo, sfiorando la piccola folla senza
attraversarla, e i loro passi rimbombavano sul marmo, il suono che saliva fino
all’enorme soffitto dove rimbalzava sui loro capi. Occhi lo osservavano, ma
Tereo ormai vi faceva poco caso. “Le due scellerate, trovandosi raggiunte,
implorarono gli Dei di salvarle dal mio giusto castigo e quelli benevolmente lo
concessero. Così divenni upupa: per tutto il mondo diedi loro la caccia, e
oltre, venendo spinto dalle correnti… o dal Fato in questi luoghi.”
“Così come accadde a loro.”
“Divennero anch’esse uccelli, sì…”
“Mi comprendi male.”
Il braccio che stringeva il suo lo lasciò andare
improvvisamente, e Tereo vacillò. La Regina gli voltò le spalle, percorrendo a
passo lento la distanza da lui agli alti troni e Tereo seguì con gli occhi la
sua schiena, lo strascico della veste che strisciava come una coda di serpente
traslucido sui gradini che collegavano pavimento e rialzo.
Egli si portò la mano sinistra allo stomaco che gli si
contorceva sotto la pelle, la destra che si aggrappava alla spada
convulsamente, le dita che vi tamburellavano; nelle narici aleggiava ancora il
profumo di menta.
“Ora che l’hai raccontata, la tua storia suona alle
mie orecchie già sentita. Estremamente familiare, in effetti.” La Regina
sedette, accomodando le vesti e intrecciando le dita all’altezza del ventre.
“Già due altre sventurate, precipitate per caso o per
destino nel mio regno, vennero in questa sala e raccontarono gli stessi eventi
– l’una col suo canto spezzato, l’altra senza parole.”
Tereo sguainò la lama.
Dove?
Dove? domandava la sua mente di uccello, mentre staccava
gli occhi dalla Regina per guardarsi attorno, in cerca di un viso familiare.
Chi lo guardava, lo osservava grave: quelle che
sembravano donne bellissime, la pelle dalle sfumature azzurre e gli occhi rossi
come le acque del Flegetonte; creature più maschie, angolose, dai volti in
ombra, indecifrabili; chi non lo guardava, pareva annoiato.
Nessuno di essi era un viso conosciuto. Procne e
Filomela si nascondevano, gli sfuggivano sempre.
Un grumo rosso di collera premette contro il suo
buonsenso.
“Abbassa la spada, Tereo.”
L’autorità nella voce della Regina aveva un suono
tutto nuovo, e non c’era più nulla del basso calore felino, in essa. “Le cerchi
inutilmente tra questa mia gente: vennero prima di te; quanto prima non saprei dirti, ma abbastanza perché non siano più
qui.”
Allora
dove? Dove?
“Rammentaci cosa dissero, tu che hai la memoria più
salda della mia, Ecate.”
Tereo riportò lo sguardo verso il trono, mentre un
essere diverso si faceva avanti, sedendosi a propria volta accanto alla Regina.
Combatté l’istinto di stropicciare gli occhi: sotto di essi, la figura cambiava
continuamente, come vedere sbocciare a appassire un fiore impazzito. Un attimo
era una giovane vergine; quello dopo, una madre segnata da rughe di affanno; e
poi una vecchia, scheletrica e senza nessuno dei denti.
Quando parlò, la sua voce era come tuono.
“Tereo, re tracio di Daulide, figlio di Ares, si unì a
Pandione di Atene contro Labdaco di Tebe. Per suggellare l’alleanza, un
matrimonio fu celebrato, e la giovane Procne venne a Tereo, come sua sposa.”
Mentre lo raccontava, Tereo riusciva a riviverlo nella
mente: il giorno in cui Procne gli era giunta, e lui aveva sollevato il velo
scoprendo il capo scuro, la pelle bianca – gli occhi abbassati castamente. La
rivide pure come l’ultima volta: i capelli scarmigliati e la gola macchiata del
sangue del loro figlio. La mano sulla spada riprese a tremare.
“Le nozze avvennero sotto cattivi auspici: il parente
aveva fatto guerra al parente. [16] Presto, però, nacque l’erede e giorni più
sereni si consumarono; la moglie amava il marito, e il marito la rispettava. Ma
ella sentiva il peso della solitudine e chiese al marito di condurre da lei la
sorella amatissima.”
Nella mente, Procne gli teneva il viso tra le mani
morbidissime di regina, posandogli teneri baci sul naso, sulle labbra.
“Ti
scongiuro, mio sposo.”
“Il Re non era un cattivo uomo. Si mise in viaggio per
compiacerla e giunse alla reggia del padre di lei, ma lì incontrò il suo
destino e arse d’amore per Filomela sorella di Procne.”
Era stato il suo canto, ad attirarlo – un imeneo,
combinazione, come se lo chiamasse a sé come uno sposo. Dolcissimo alle sue
orecchie, gli si era insinuato sino al cuore. Non aveva avvertito la freccia di
Eros che penetrava nella carne, ma per la ferita slabbrata della passione non
c’era stata cura.
Filomela, piccola e scura, non era bella quanto
Procne.
Non aveva le sue forme sbocciate, il suo volto
delicato, la sua grazia nell’incedere. Camminava quasi saltellando, invece, e i
suoi ricci né biondi né neri sobbalzavano con lei a ogni passo vivace; il suo
viso era quasi incavato tanto i tratti erano decisi, e la pelle non era bianca
ma del colore delle olive.
I suoi occhi, però, parlavano senza parole – e le sue
guance rosse, quando lo incrociava, il suo tremore al suo tocco.
“Innamorato della fanciulla, il Re la prese con sé.
Durante il viaggio, ordinò in segreto che la moglie fosse imprigionata, e che
giungesse loro la notizia della sua morte.”
Questa volta, avvertì una fitta di vergogna.
Non ne andava fiero, ma non aveva avuto scampo. Gli
avevano dato la sposa sbagliata, d’altronde: avrebbe ripudiato cento Procne,
per una sola notte con Filomela, ma quella giovane ostinata non gli avrebbe
concesso neppure una carezza sapendo di far torto alla sorella, se quella
viveva.
Procne era stata una buona moglie, d’altra parte –
così aveva creduto allora: ucciderla sarebbe stata ingiustizia. Se solo non
fosse stato tanto magnanimo.
“Ingannai Filomela, non lo nego,” fece,
interrompendo la terribile Dea cangiante. “Ma chi di noi non è folle, in amore?
Procne aveva tutto quello che poteva desiderare: buon cibo, splendidi abiti,
abili servitrici. Per Iti era tempo di lasciare le gonne e iniziare a imparare
la guerra: avrebbe rinunciato a lui ugualmente.” [17]
Se l’era ripetuto allo spasimo, e suonava
tutto giusto in quel momento, come era suonato allora.
“Mia moglie… lei pure aveva ingannato me,
tuttavia…” sussurrò, e il suo sussurro rimbombò contro il soffitto. “Mi aveva
fatto credere di essere una buona sposa, una donna onesta, ma non faceva altro
che lamentarsi per la lontananza dal palazzo.”
Discorsi insopportabili che perforavano il
cervello, stridule preghiere: era colpa di lei se aveva trovato un modo solo
per farla tacere. Una donna era proprietà del marito, dopotutto.
“Tereo le tagliò la lingua con la sua
spada. Alla giovane sorella aveva già tolto con la forza la verginità, e quella
si convinse a sposarlo.”
Un dio dovette prenderlo per i capelli
perché non si lanciasse contro la Dea giovane e vecchia, a quella calunnia.
“Filomela mi amava!”
Se gli aveva opposto resistenza, quella
prima volta nella stalla, era stato solo per candore virginale.
Non aveva immaginato la voluttà con cui
gli aveva offerto il suo corpo in occasioni più liete; come la pelle fremesse
sotto le sue dita, il petto che si alzava ed abbassava lento.
Tereo scosse il capo, guardando da una
parte all’altra del salone. La Dea continuava a parlare. Il viso della Regina
non mostrava emozione.
“La legittima sposa è una creatura
ingegnosa. Il marito le aveva tolto la parola, ma non le mani. Abile
tessitrice, fece avere un messaggio alla sorella scritto col filo rosso sul suo
peplo nuziale.”
Così, aveva fatto. Avrebbe dovuto recidere
ogni suo arto, farla a brani come lei aveva...
“Quella lesse il messaggio sulla trama
della stoffa, venne a sapere che la sorella era viva e la liberò, travestita da
adoratrice di Dioniso.”
Riusciva ad immaginare Filomela, quella
notte che i monti risuonavano di strumenti di bronzo: il capo coperto di vite,
la pelle di cervo al fianco e in mano la lancia della cacciatrice. [18] La
vedeva come uno splendido predatore, mentre si preparava a colpirlo alle
spalle.
“Riunite, le sorelle studiarono un piano.
Follia si impossessò della sposa ingiustamente tradita, che prese il
sopravvento sul naturale amore di madre. Il figlio le tendeva le braccia, ma
lei lo ferì ugualmente.”
Il suo intero corpo sembrava impazzire. Lo
stomaco si contorceva come un serpente vivo, la spada gli tremava in mano come
una foglia nel vento d’autunno, e lacrime gli inumidivano gli occhi.
Ecate dei crocicchi non esitò neanche un attimo.
“Assieme, le due donne fecero a pezzi il
bambino. Recisero il capo, bollirono e arrostirono il povero corpo. Con un
pretesto, egli divenne il banchetto del padre – e suo padre la tomba del
figlio.”
La carne sotto i denti, così tenera, così
saporita di spezie – il ricordo gli toglieva il senno e il sonno. Tereo si
chinò, rovesciando il contenuto dello stomaco sul candido marmo. Convulsioni lo
scossero tutto, dal profondo di sé, mentre lacrime rotolavano sul suo volto,
sparivano nella barba rossa, lorda di bile.
Nessuno si fece avanti per prestargli
aiuto, quando cadde in ginocchio, i palmi che cozzavano contro il pavimento.
Solo i suoi grugniti e i suoi gemiti
rompevano la quiete.
“Mi somigliava...” mormorò, quando ritrovò
la voce. “Aveva il mio viso, l’esatta sfumatura dei miei ricci. Sarebbe
diventato un grande condottiero, d’animo fiero e con l’icore di Ares forte
nelle vene.”
Sussultava violentemente, scosso da
singhiozzi senza suono, ora, le palpebre una morsa sugli occhi strizzati.
“E quella figlia di una cagna immonda…”
“Non posso che concordare con te
sull’orrore di questo delitto.”
La Regina tornò a parlare. “Un delitto
commesso da entrambe le sorelle, e che entrambe dovranno espiare quando il loro
tempo sulla terra dei Vivi si sarà esaurito. Come tu dovrai espiare i tuoi.”
Tereo strinse i pugni, tendendo la pelle
sulle nocche.
“Hai avuto un assaggio di cosa ti aspetta,
precipitando nel Flegetonte. [19] Il Destino ha modi curiosi. Non potrai
sfuggire, qualunque punizione sarà decisa per te, dopo la tua morte.”
Il nero crepaccio che sembrava volerlo, bramare di consumarlo – la
lenta corrente dell’acqua infuocata, la tortura senza fine di quel tocco sulla
pelle: un singulto gli sfuggì, al ricordo della sofferenza indicibile, del
cielo malato e la luna spietata quanto il volto della Fanciulla Oscura.
“Ti ho mentito, prima. Avevamo già
discusso questo tuo caso quando accadde. Dimentichi che le Dionisie si
celebrano nella mia stagione [20]; ne ero venuta a conoscenza, e i miei Giudici
a lungo si sono interrogati su quale pena importi, terminata la tua esistenza
umana.”
Sollevò un sopracciglio. “Spetterà al
Custode delle Chiavi [21] darti il verdetto, ma l’ho visto crucciato al
pensiero. Radamanto insiste che la tua violenza è difesa contro la violenza di
Procne e Filomela [22]; ma forse che la loro vendetta, per quanto tremenda, non
è conseguenza della tua crudeltà verso due sorelle che tanto si amano?”
La rabbia di Tereo non aveva parole.
“D’altra parte, che Iti sia divenuto
l’innocente vittima sacrificale non può essere dimenticato. Le colpe dei padri
ricadono sui figli. Cosa è giusto e cosa è sbagliato? Un dilemma da affrontare
in futuro; più pressante è sapere cosa tu deciderai di fare, ora, Re di
Daulide.”
Tereo rizzò le orecchie, sollevandosi sulle
ginocchia e passandosi rudemente un polso contro la bocca insozzata.
“Decidere…?”
Lei gli rivolse cenno del capo.
“Ancora vivi. Non è possibile che tu resti
nel mio regno. Se molteplici sono i modi di entrare, per lasciare questi lidi
non vi sono che due sole maniere.”
Il tremore non si era ancora arrestato, ma
Tereo strinse i denti racimolando la dignità. Era figlio del divino Ares.
La Regina districò le dita unite e levò la
destra in aria.
“Hai di fronte a te due strade. Varcata la
soglia della reggia, puoi voltare le spalle alle sue mura e procedere nella
direzione in cui il sole sorge. Sempre avanti, quando gli asfodeli finiscono e
dove vedi brillare il fuoco del Flegetonte, oltre il fiume scorgerai la Porta
d’Avorio. Se ti perderai, le Ombre ti indicheranno la via, ma ne dubito;
attraversata quella, sarai di nuovo tra i Vivi.”
La Dea tacque, abbassando la mano. “Poiché
non ho potere nella tua terra, la maledizione riprenderà il suo corso, e il tuo
corpo tornerà d’uccello. Se invece, uscendo dal palazzo, andrai dritto davanti
a te là dove il sole cala, ti si pareranno di fronte due fiumi di luce.
Immergendoti nelle loro acque, rinuncerai per sempre a questo tuo corpo.”
“Hai detto, Regina, che nel tuo regno non
si può morire.”
“Ho detto, Mortale, che la mia vista non
ti avrebbe ucciso, e sei ancora qui. Non si può morire, nell’Averno, ma si può
rinunciare al proprio involucro di carne tuffandosi nelle acque del Lete e del
Mnemosine, che scorrono attorno agli Elisi. Solitamente, solo alle Ombre più
pure è consentito l’accesso a quei luoghi; poiché sei vivo, però, il tuo
spirito ancora non appartiene a me e al mio sposo. Dalla casa di Ade non può
uscire nulla che abbia corpo, se non dalla Porta d’Avorio: le altre vie sono
chiuse. Se invece si tratta solo di spirito…”
Il tono tagliente e grave a un tempo, la
Regina si alzò e la sua corte la imitò prontamente; solo la Dea giovane e
vecchia rimase seduta, dondolando il corpo mutevole avanti e indietro.
“Scelti che tu abbia i Fiumi, rinascerai a
nuova vita; bagnati nei flutti del ramo sinistro e dimenticherai tuo figlio e
il suo amore per lui; la tua vendetta ma anche i tuoi immondi delitti.”
Il viso di lei ebbe un fremito
indecifrabile, mentre seguitava il discorso.
“Dovessi, invece, decidere per il ramo
destro, comunque otterrai un nuovo corpo, e una mente che manterrà le memorie
della vita passata, il tuo tempo con Iti e l’amore per Filomela; ma la tua
collera per Procne non avrà fine, né svanirà il sapore della carne del tuo
bambino sulla lingua.”
Tereo avrebbe desiderato potersi lacerare.
Aprì la bocca per parlare, ma la Regina non aveva finito.
“Bada bene che è una gran concessione,
quella che ti viene fatta. Se ti è data facoltà di scegliere il tuo destino, è
solo per l’amore che porto per Ares, che, come Efesto, ha garantito per la
propria discendenza: saputo che i vostri voli vi avevano guidato su queste
rive, entrambi hanno domandato di intercedere per i loro congiunti.” Fece una
pausa. “Poiché, tuttavia, non permetterò che io e il mio sposo veniamo
defraudati dei nostri diritti, dovessi tu pure vivere la più pia delle
esistenze, una volta morto sconterai la pena che ti spetta per la tua violenza
verso le figlie di Pandione.”
Il terrore quasi lo rendeva cieco. Non
poteva permetterselo. Prese un respiro rotto.
“Quello è il tuo futuro lontano.
Preoccupati del presente.”
Tereo tacque, cercando dentro di sé la
calma che gli era tanto più difficile da afferrare, con l’ombra del crepaccio
in agguato schiacciata solo da quella voce che sempre lo tormentava con una
sola domanda.
Il cervello, frenetico, lavorava nella
scatola del cranio.
Aveva detto voi.
Dove?
Dove?
“Hai altro da dirmi, figlio di Ares?”
Doveva tenerlo a bada ancora un poco;
ancora per un attimo, e poi la caccia sarebbe ripresa: prima, di tutto, Iti.
“Mio figlio, chiedo per lui la grazia.”
Un’altra pausa greve, mentre Tereo teneva
sospeso il respiro nel petto. La Regina si piegò come a un cenno invisibile,
mentre le labbra frenetiche della Dea giovane e vecchia si muovevano,
vicinissime al suo orecchio.
“Manderò un mio servo da quello sventurato
re di Atene nel sonno, con un messaggio pietoso. Troverà il capo di Iti lì dove
è rotolato, e gli darà la giusta sepoltura; tuo figlio riceverà l’obolo e
attraverserà l’Acheronte quando potrà mostrare al Barcaiolo il volto di mia
madre. [23]”
Il sollievo gli si diffuse in corpo, caldo
come il brodo in una notte invernale. Si rimise in piedi, sollevando il capo
con fierezza, vacillando appena.
“Non ci sono sacrifici che possano
mostrarti la mia gratitudine, Oscura Regina,” mormorò, il cuore lontano, teso
verso la piccola Ombra con la testa sotto il braccio paffuto. Due lacrime
grasse gli scesero dai lati degli occhi, scomparendo nella barba. Inghiottì
muco e bile.
“Non sono una sovrana crudele, pure se nel
tuo caso, forse meriteresti di essere pagato con la stessa moneta che offri. Ti
faccio quest’ultimo favore, non per Ares, ma perché sia io che te abbiamo
entrambi portato in grembo i nostri figli.”
A quella frustrata, Tereo sussultò forte.
“Affrettati ad andare. Il mio sposo
potrebbe non essere altrettanto clemente.”
Un ultimo sguardo, poi la Regina staccò
gli occhi da lui, riportandoli alla sua corte. “Così è deciso...”
“Un istante ancora!”
Non fu brusca nel voltarsi di nuovo, ma
nel suo silenzio c’era sorpresa per la sua impudenza.
L’aveva detto lei: non poteva ucciderlo o
torturarlo più di quanto non avesse già fatto il Fato; doveva sapere dove. Il respiro accelerato, Tereo si
leccò le labbra riarse, dal sapore disgustoso.
“Le
due sorelle, cosa hanno scelto loro?”
C’era quasi pietà nell’occhiata che
ricevette in muta risposta.
“Nessun Vivente ha lasciato l’Averno, da
quando il figlio della Musa scese a riscattare l’anima della sua amata. Un
corpo, ha divorato il Lete, un corpo, il Mnemosine. Ora lasciaci. Che la tua
vista non ci offenda oltre.”
Tra
le Ombre grigie, una figura di viva carne corre tra gli asfodeli. Si slancia in
avanti, la spada sguainata e un mantello di piume gonfio alle spalle, come una
vela nera e bianca.
In
lontananza, avvolti nell’insopportabile luce d’Elisio, i Fiumi lo chiamano.
Fin
NOTE
[1]: Nella mitologia greca, la
personificazione del cielo.
[2]: Nella mitologia greca, l’equivalente
divino del sangue. Viene definito di colore dorato o trasparente.
[3]: La divinità del sonno che risiede
nell’Averno assieme al gemello, Thanatos. Viene rappresentato come un giovane
dal capo alato. Suoi servi sono i Sogni, chiamati neri quando diventano incubi.
[4]: Fato e Necessità sono qui intese come
le divinità che regolano la vita dell’Uomo.
[5]: Nemesi è la personificazione
femminile della vendetta.
[6]: “Andare ai corvi” è l’equivalente in
greco antico di “andare a quel paese”, “andare a farsi benedire”. Con questo
insulto si intende augurare, all’offeso, una morte priva di sepoltura.
[7]: Le seguaci di Dioniso che, possedute
dal dio, perdono il senno sotto gli effetti del vino.
[8]: Un epiteto delle tre Erinni.
[9]: Un epiteto, così come “Fanciulla
Oscura”, di Persefone.
[10]: Eos, personificazione dell’alba,
indossava un mantello dei colori dell’iride che all’occhio umano appariva come
l’arcobaleno.
[11]: Posare gli occhi su un dio o una dea
nella sua forma reale poteva provocare la perdita della vista (a seconda delle
interpretazioni, come naturale conseguenza o per volere della divinità
coinvolta), o persino la vita, come accadde a Semele, madre di Dioniso, che
morì di spavento quando Zeus le comparve in tutta la sua potenza.
[12]: Le Colonne d’Ercole, individuate per
convenzione nello stretto che separa l’estremo sud della Spagna e le cose
occidentali del Marocco, rappresentavano il limite della conoscenza umana e la
fine fisica del mondo.
[13]: Anticamente, si credeva che l’occhio
fosse formato da due involucri concentrici contenenti liquido, rispettivamente
il “bianco”, o sclera, e l’iride. Poiché Tereo non ha conoscenze mediche
specifiche, ho pensato che potesse ricollegare la forma dell’iride a quella di
un disco, immagine di riferimento per il “cerchio” nell’Antica Grecia.
[14]: Secondo alcune versioni, quando
Minte o Minta, ninfa dell’Averno, si vantò che avrebbe sostituito presto
Persefone nel letto di Ares, la dea si vendicò tramutandola in una pianta di
menta. Ho immaginato che Persefone intrecci le foglie tra i capelli a perpetuo
ricordo di quell’evento.
[15]: Il verso dell’usignolo in greco
viene trascritto come “Itu, Itu”; si tratta della forma originale del nome di
Iti, al vocativo. Secondo il mito, Filomela è condannata a pronunciare il nome
del bambino in segno di contrizione per il suo assassinio. Altre versioni la
sostituiscono con Procne.
[16]: Tereo e Labdaco erano entrambi
discendenti di Ares: Tereo in quanto suo figlio, Labdaco in quanto discendente
di Armonia, figlia di Ares e Afrodite. Mettersi contro un proprio parente era
una violazione della legge non scritta che regolava la vita nell’Antica Grecia.
[17]: Dopo i cinque anni i bambini maschi,
che fino a quell’età erano affidati alle cure della madre insieme alle femmine,
passavano sotto il patrocinio del padre per essere educati alla vita adulta.
[18]: Una citazione quasi totale da
Ovidio, precisamente dal canto VI delle Metamorfosi.
[19]: Secondo le fonti, nel Flegetonte
venivano puniti i violenti contro i parenti.
[20]: Le grandi feste dedicate Dioniso venivano
celebrate in primavera, periodo dell’anno che Persefone, personificazione della
stagione nei panni di Kore, passava con la madre.
[21]: Si riferisce ad Eaco, custode delle chiavi
dell’Averno che si occupava di giudicare gli europei dell’est.
[22]: Radamanto, fratello di Minosse, era famoso in
vita per aver promulgato una legge sulla legittima difesa.
[23]: L’obolo che veniva posto sotto la lingua dei
cadaveri per pagare il passaggio a Caronte portava impresso il viso di Demetra.
POSTFAZIONE
Qualche parola su questo lavoro, che prende spunto
dall’episodio della trasformazione di Tereo, Procne e Filomela rispettivamente
in upupa, rondine e usignolo, citato da vari autori antichi tra cui Apollodoro,
Igino e Ovidio.
La versione del mito che ho scelto è quella
dell’interpretazione di Rupert Graves, che vede Tereo, re di origini trace
stabilitosi a Daulide, nella Focide, sposare Procne, figlia di Pandione, suo
alleato contro Labdaco. La coppia ha un figlio di nome Iti, ma dopo cinque anni
la felicità coniugale ha fine quando Tereo si innamora di Filomela, sorella di
Procne, che dovrebbe condurre dalla sorella.
Secondo l’interpretazione di Graves, Filomela diviene
l’usignolo che, pentito, chiama il nome del bambino ucciso; Procne è la
rondine, uccello che non ha verso perché privo della lingua, così come ne viene
privata Procne da Tereo (in altre versioni, le due si scambiano di ruolo).
Tereo viene tramutato nell’upupa, il cui verso “Pou, Pou”, in greco “Dove?
Dove?”, ricalca la domanda del Re alla ricerca forsennata delle due assassine.
Mi sono altresì rifatta ad Ovidio per alcuni dettagli,
come le tempistiche dei fatti e l’assassinio compiuto durante le Dionisie.
Per quanto riguarda l’Averno, le fonti principali sono
quelle antiche, principalmente Omero e Platone, dando una mia interpretazione
circa il processo di accoglienza degli ospiti viventi e una rivisitazione di
quello di reincarnazione grazie alle acque del Lete e del Mnemosine.
I ritratti delle divinità sono dedotti dagl’inni
orfici per quanto riguarda Persefone ed Ecate e alla mitologia etrusca per
Caronte.
Il titolo è altresì una citazione da Ovidio: nel testo
delle Metamorfosi, Tereo, venuto a
sapere di avere ingerito la carne di Iti, chiama se stesso “miserabile tomba
del figlio”.