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Autore: Ilune Willowleaf    15/03/2009    7 recensioni
EDIT BIS: modificato il titolo, modificati i primi due capitoli con limatine e aggiunte. Sono acnora in rodaggio con lo yaoi, abbiate pazienza ^_^ aggiunto il terzo e ultimo capitolo, se è troppo melenso, bersagliatemi pure di pomodori e uova!
Buffo, vero? Non è neanche bello, per la maggior parte delle persone. Talvolta qualcuno mi chiede perché io, amante della bellezza, io che non ricordo i nomi e i volti delle persone brutte, resti in questa Compagnia, piena di brutti ceffi, di persone volgari e rozze, così lontane dalla mia perfetta bellezza.
Bene, se vuoi, te lo rivelerò.

Yumichika ci racconta, nel suo edonistico modo, il suo passato, e il suo ambiguo rapporto con Ikkaku, la sua lotta contro un corpo bellissimo che non sente come "giusto", e l'accettazione di ciò che è e di ciò che prova. Ikkaku ci racconta la SUA versione, di come Yumichika sia entrato nella sua vita e come l'abbia sconvolta. La storia di come La Strana Coppia della Soul Society sia diventata la coppia di migliori amici che ci sia nell'aldilà e nell'aldiquà! Tranquilli, non è una sdolcineria! Raiting giallo per accenni yaoi ma solo accenni e sottintesi!
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una farfalla di felicità   Fondamentalmente
Premessa bis: Innanzitutto vorrei ringraziare chi ha lasciato tutti quei bei, costruttivi commenti. Questa è davvero la mia prima yaoi che scrivo, e il commento al secondo capitolo di Li_l mi ha aperto gli occhi su un errore che anche un paio dei miei beta reader avevano avvertito, ma non erano riusciti a esprimere così bene. Ammetto che non ho molta esperienza neanche come lettrice di yaoi, quindi chiedo perdono se sono scivolata così clamorosamente nell’OoC, cosa che io temo, come Yumichika teme a morte la comparsa di un grosso brufolone rosso sul mento (se non li avete mai avuti, buon per voi, io li conosco bene e li ODIO).
Quindi, ho dato una limatina, anzi, un’aggiuntina qui e là a entrambi i capitoli. Ora Yumichika è sempre bellissimo, è sempre pieno di atteggiamenti femminili, ma ha anche quegli atteggiamenti che lo collocano in pieno nell’11° compagnia. Se rileggerete i primi due capitoli e riterrete che ora sia Yumichika e Ikkaku siano più IC, ditemelo, anche due righe, anche solo “ok!”, e mi farete felice. Chiedo acnora scusa a tutti per aver continuato a limare e correggere questa fic anche se l'avevo già pubblicata, ma tra i miei amici non ce ne sono che due-tre che conoscono bleach, e anche loro non hanno esperienza nello yaoi, quindi più di tanto non potevano aiutarmi a migliorare e definire lo stile. Per questo, ringrazio chi ha lasciato le recensioni costruttive!
 
Premessa: Personalmente non amo troppo lo yaoi. Non amo lo yaoi che prende dei poveri, innocenti, eterosessuali personaggi e li mette a saltare la cavallina a vicenda. Insomma, non mi piace lo yaoi che stravolge i personaggi. 
Ma con Yumichika e Ikkaku, non c'è molto da stravolgere. Due persone così diverse, sempre assieme. Yumichika, un uomo così elegante, raffinato, così aggraziato, che resta in quel covo di buzzurri che è l'11° brigata. Che afferma di voler restare a combattere a fianco di Ikkaku. La cosa mi intrigava parecchio. Così, stamattina, mentre andavo innocente e beata a fare la spesa, la mia mente persa in elucubrazioni sue, ho avuto l'illuminazione. Perché Yumichika è così. Perché e per come. 
Era da molto tempo che volevo scrivere una fic sulle origini di Yumichika, e su come avesse incontrato il mio pelatino preferito, Ikkaku. E oggi ce l'ho fatta. 12 ore di scrittura, più o meno interrotte da cose più o meno indispensabili, come mangiare, fare le pulizie, ciacolare in messanger con gli amici. Questa stesura ha solo subito una piccola revisione ortografica. E' una stesura unica. Spero vi piaccia, come è piaciuto a me scriverla e cercare di entrare nella testa di Yumichika Ayasegawa.
                                                                                                                                                                                    Ilune Willowleaf
 
Capitolo 1 - Una farfalla di felicità

Fondamentalmente, io odio le donne.
Badate bene, non è quell'odio a "non toccarmi mi fai ribrezzo".
Le odio perché hanno un potenziale di bellezza che nessuna, o quasi, riesce ad esprimere.
Una bellezza in potenza per la quale io lavoro sodo.
Ci sono donne belle, con quel genere di corpo che fa voltare la testa alla maggior parte degli uomini. Eppure, sviliscono la loro bellezza offrendola a tutti. Come il luogotenente Rangiku Matsumoto. Troppo, troppo ostentata.
Donne la cui bellezza svanisce, annegata nei loro tentativi di "essere all'altezza di un uomo". Distruggono la loro femminilità in nome di una forza mascolina, ignorando come la bellezza pura e perfetta sia l'arma più potente.
Donne che neanche si rendono conto di poter essere bellissime, come quello scricciolo del luogotenente Momo Hinamori, troppo prese dagli altri per concentrarsi su sé stesse.
E poi ci sono io.
Questo mio corpo maschile, che riunisce ogni bellezza maschile e femminile, la perfezione, la grazia assoluta, che non mi è stata donata, non ho potuto pretenderla come un diritto di nascita, è la bellezza che richiede cure e attenzioni.
Fondamentalmente, odio le donne, perché una parte di me avrebbe voluto esserlo.

Non ho tenuto con precisione il conto degli anni, da quando sono stato portato a Rukongai.
Ricordo però che le vesti che mi avvolgevano erano da donna, un kimono di seta, pregiato, che mi fu rubato, lasciandomi nudo e lacero nella pioggia.
Ho mai detto che odio la pioggia?
Il mio corpo mi lasciava perplesso.
Un corpo maschile, innegabilmente maschile, malgrado la grazia che ha sempre posseduto.
Ma mi aspettavo un corpo femminile.
Non ricordo quasi nulla della mia vita, prima della morte.
Si, dai, poche storie, qui siamo tutti morti. Siamo anime. Ciascuno di noi è arrivato a rukongai dopo una dipartita più o meno violenta, a seconda della casta e del periodo, di pace o di guerra.
Ho vaghi ricordi, di lunghi capelli acconciati, di oro e di seta, di timide donne che mi vestivano, e mi truccavano, come una bellissima bambola.
Forse ero una geisha. Oppure una cortigiana.
Ero una donna, esternamente.
Eppure, sotto la seta, non lo ero, e mai lo sarò.
Quindi, tanto vale fare buon (bellissimo) viso a cattiva sorte, e accettarmi per quello che sono. Un uomo.
Un uomo molto più bello della maggior parte delle donne.
A volte, però, per quanto la mia pelle curata, i miei capelli setosi, le mie mani di bianco candore, il mio sguardo puro e bellissimo non possano essere che un sogno inarrivabile per la maggior parte delle donne, a volte... baratterei tutto, per essere una donna.
Per lui.
Buffo, vero? Non è neanche bello, per la maggior parte delle persone. Talvolta qualcuno mi chiede perché io, amante della bellezza, io che non ricordo i nomi e i volti delle persone brutte, resti in questa Compagnia, piena di brutti ceffi, di persone volgari e rozze, così lontane dalla mia perfetta bellezza.
Bene, se vuoi, te lo rivelerò.
Ma bisogna tornare indietro. Indietro fino al mio arrivo a Rukongai, tanti anni fa, così tanti che non ricordo nemmeno io quante primavere si siano succedute.

Era inverno, e pioveva.
Ero stato smistato - si, come una merce! - in un distretto dal numero molto alto. Ricorda, più alto è il numero, più alte sono le possibilità di morire. Di nuovo. Non so cosa succede se muori qui, dove sei solo anima, ma non ho mai avuto intenzione di scoprirlo.
Pioveva, e l'abito di seta si stava inzuppando, e sporcando di fango, e le baracche che chiamavano città erano chiuse, le finestre serrate.
Ero disorientato, spaventato. L'acqua stava rovinando i miei bellissimi capelli, il fango insozzava le mie vesti.
Una parte di me si aspettava che fossero lacere. Forse sono morto per dei colpi di spada. Qualcuno che non era stato soddisfatto di ciò che aveva trovato sotto il kimono.
Vaghi ricordi, confusi. Una tettoia, fragile riparo dalla pioggia scrosciante.
Degli uomini, una donna grande, grossa, prepotente. Erano brutti, i volti magri, sfigurati, o grossi, rozzi.
I vestiti strappatimi di dosso, il fango sul mio volto, nella bocca.
Risate di scherno, calci, pugni.
Da quel momento, ho sempre odiato il contatto fisico. Mi repelle, come mi repelle la bruttezza.
E poi, la pioggia sul mio corpo, a cui avevano - bontà loro - lasciato solo il kimono più sottile, più interno.
Fu allora che mi resi conto di essere un uomo.
Forse, quando ero in vita, vagheggiavo che, dopo la morte, la mia anima sarebbe stata donna.
E invece...
Forse è stata una fortuna, morire da giovane.
Almeno, conservo per l'eternità, in quest'anima che fissa l'aspetto del mio corpo quando morii nel mondo reale, questa bellezza androgina che né uomo né donna possono eguagliare.

Odio le donne, perché fu una donna a spogliarmi dei miei abiti e a costringermi a vedere in faccia la realtà. Il mio primo traumatico giorno a Rukongai.
Eppure, fu una giovane donna a raccogliermi, pietosa, e a portarmi al coperto e all'asciutto, e ad asciugarmi, e a parlarmi di quell'inferno di distretto in cui entrambi eravamo.
Probabilmente, nel mondo materiale dovevo essere stato una persona molto orgogliosa, una persona abituata a ottenere ciò che voleva, in un modo o nell'altro.
Decisi che volevo di più di una piccola, sporca baracca fangosa in un distretto pieno di uomini orrendi e violenti.
Quando smise di piovere, lasciammo quel distretto. Volle venire con me: le avevo promesso qualcosa di meglio. Chissà cosa ha visto in me. Mi piace pensare che la mia bellezza, anche se ero mezzo nudo, contuso, scarmigliato, la mia bellezza l'abbia conquistata.

Di sicuro, la mia bellezza conquistò, un distretto dopo l'altro, gli uomini rozzi e brutti che seducevo e uccidevo, e derubavo.
Eravamo diventate brave.
Si, brave. Mi vestivo da donna, mi riferivo a me come a una donna, seducevo come una donna... per uccidere, come una donna: in modo discreto, elegante, subdolo.
Alla fine, arrivammo a un distretto, il numero 20. Era abbastanza carino come posto. Non era troppo violento. Era abbastanza pulito, e le persone erano cordiali.
Lei si innamorò di un giovane, e volle fermarsi.
Mi era grata, le avevo davvero dato qualcosa di meglio della squallida baracca piena di fango.
In realtà, sentivo solo di aver ripagato il mio debito.
Le ero affezionato, come una sorella maggiore con una sorella minore.
Avevo ritrovato la me stessa donna. 

Aprii una sala da tè.
Un locale molto carino, semplice, ma quella bella semplicità che ancora viene apprezzata, la bellezza perfetta delle linee semplici e pure, dei colori delicati, dell'armonia e della delicatezza.
Servivo il tè e conversavo, seducendo gli uomini con la mia bellezza, giocando con loro. Tutti mi ammiravano e mi amavano.
Nessuno mi aveva.
L'orrore per il contatto fisico non mi aveva ancora abbandonato.
Temevo che, se qualcuno avesse visto il mio corpo, bianco, morbido e curato, ma maschile, sotto le sete, altri piedi e pugni mi avrebbero colpito, un'altra spada avrebbe trafitto le mie carni, e la mia bellezza sarebbe svanita nel disprezzo altrui.

Fui felice, per un po' di tempo, una felicità leggera ed elegante, come le piume degli uccelli nella gabbia dorata, che ornavano l'ingresso e allietavano col canto gli ospiti, quando le mie dita non correvano elegantemente sulle corde, pizzicandole, e la mia voce bellissima non risuonava in quell'angolo di bellezza che era la mia sala da tè.

C'è una cosa che ho imparato, a Rukongai: la felicità non è eterna, è fragile e bellissima come le ali di una farfalla. Questa farfalla però, può essere ghermita e uccisa, e le sue ali stracciate e gettate al vento, in un istante.
I sudici artigli che ghermirono la mia farfalla di felicità erano quelli di un piccolo delinquente di nome Gedoshu, attorniato dalla sua banda di lerci seguaci, che era arrivato nel distretto, e aveva deciso che tutto doveva essere suo.
Prese, uno dopo l'altro, il controllo dei negozi, delle taverne, delle sale da tè.
Io fui l'ultimo.
Non che non ci avesse provato.
Per un paio di mesi tentò con le buone.
Poi passò alle minacce.
Agli atti vandalici.
I miei splendidi uccelli, dalle piume gialle e rosse, che giacevano privi di vita, i delicati colli torti da mani assassine, disposti in fila dinnanzi alla porta della mia sala da tè.
Piansi, per gli uccelli e la loro bellezza perduta, e piansi per me, per la mia farfalla di felicità, gremita, le cui ali sarebbero state strappate, si stavano strappando, e io, ancora una volta, non potevo farci nulla.
Odiai la mia debolezza.
Odiai con tutte le mie forze la mia incapacità di ucciderli, di eliminare cotanta bruttezza dal mondo.

Avevo pianto, e i miei bellissimi occhi erano - orrore! - gonfi e arrossati. Inutili gli impacchi con acqua fredda. Inutili i tentativi di truccarmi.
Avevo mandato via le ragazze che lavoravano per me - non volevo che ci andassero di mezzo. 
Ero solo, nella mia sala da tè, cercando di prendere la decisione finale: piegarmi a quell'uomo, alla sua rozza bruttezza, alla sua sete di dominio, o resistere? Oppure... fuggire?
Nel primo caso, prima o poi mi avrebbe ucciso. Nel secondo caso, sarebbe stato un prima, piuttosto che un poi. E nel terzo... l'idea di ricominciare da capo mi atterriva.
Fu allora che entrò lui.
Normalmente non avrei fatto entrare simili persone...
Ma quella sera, ero troppo abbattuto.
Doveva essere un vagabondo, lo yukata corto era sporco e macchiato di polvere e fango. I piedi erano nudi, callosi: doveva aver percorso molte strade, probabilmente sempre con quella katana sulla spalla e quel sorriso strafottente sul viso.
Il cranio era liscio, forse pelato, forse rasato. Mi colpì il fatto che fosse perfetto e regolare, senza bozzi o rientranze. Molto elegante, mi trovai a pensare.
Entrò, e forse si rese subito conto che quella non era una taverna, perché era un posto elegante, tranquillo, silenzioso.
La penombra avvolgeva, più che nascondere, i cuscini sui tatami.
Ero seduto sui tatami, il kimono color rosa pesca con le maniche aperte attorno a me, e i corpi dei miei poveri uccellini assassinati tra le mani.
Per un attimo, parve indeciso se uscire o entrare, lì, sulla porta. Poi entrò.
-È possibile avere da bere? Tutti gli altri locali sono chiusi. -
Chiusi? Ah, si: ormai era notte fonda, anzi, fondissima.
La mezzanotte doveva essere passata da molto, forse si era più vicini all'alba.
-Questa è una sala da tè. - dissi. Notai il disappunto sul suo viso -Ma forse riesco a trovare un po' di sakè. -
Vidi un sorriso sghembo allargarsi sul suo viso. 
Non depose la sua spada all'ingresso, ma mi seguì, accomodandosi al tavolo che gli indicai.
Gli servii da bere, sedendomi allo stesso tavolo, dopo aver acceso una nuova lanterna, schermandola con l'elegante carta rosa, che dava quell'atmosfera calda ed elegante che tanto amavo. 
Per un po' bevve in silenzio.
-Da dove venite?- chiesi, tanto per distrarre un poco la mia mente da altri, ben più assillanti problemi.
-Per il momento, posso dire di venire dal ventunesimo distretto. A dire il vero non ho una provenienza precisa, giro e vagabondo, alla ricerca di nuovi avversari per questa. - indicò la spada. Una luce gli brillò negli occhi. -Ci sono delle persone forti, qui?- mi chiese.
Lo guardai. Penso che il mio sguardo fosse un misto di speranza e rassegnazione.
Non so perché gli raccontai tutto. Della banda di Gedoshu. Della mia sala da tè. Degli altri locali, e di come chi non si fosse chinato avesse avuto, nel migliore dei casi, un incendio e un pestaggio.
Mano a mano che andavo avanti raccontando delle violenze di questi uomini, il suo sorriso si allargava. Tracannò l'ennesimo bicchiere di sakè, e meccanicamente glie lo riempii.
-Sembra interessante... Domani andrò a sfidarli. Chi potrei far fuori per primo, i tirapiedi, o il grande boss?- rise. Era ben avviato lungo la strada dell'ubriacatura.
Alla fine, restò a dormire, stravaccato sul tatami, tra i cuscini della sala da tè.
Quella notte, riposai quasi sereno, per la prima volta dopo mesi.

Poche ore di sonno, e aveva la bocca impastata, lo sguardo un po' stanco, e la spada in mano.
A mezzodì erano venuti alcuni tirapiedi di Gedoshu. Non li aveva quasi fatti parlare, la sua spada era penetrata in quei corpi sudici, e il sangue che schizzò, macchiando la polvere della strada, la lama, i suoi vestiti e il suo volto... era bellissimo.
Avevo visto tanto sangue, a volte il mio, più spesso quello delle mie vittime, ma non avevo mai pensato ad esso come a qualcosa di splendido.
Il rosso fremente sui corpi, che s'allargava come fiori scarlatti nelle vesti, e scendeva come gocce sacrileghe sul terreno.
Uno schizzo arrivò fino al mio volto, macchiandomi le labbra.
Non so perché lo leccai.
Ma osservare quell'uomo uccidere, ridendo e danzando con i corpi e squarciandoli, sotto la luce del sole, solo in quella strada, mentre tutti si asserragliavano terrorizzati in casa... sentivo il mio corpo caldo, un'eccitazione che non avevo mai provato prima.
Era bellissimo.
Avrei potuto restare per l'eternità così, ad ammirare quel massacro, la bellezza sublime delle espressioni di terrore di quegli uomini quando si rendevano conto che la morte era inevitabile.
Capii che nulla avrebbe più potuto essere come prima.
Aveva massacrato otto uomini, era schizzato e macchiato del loro sangue, eppure, aveva solo un leggero fiatone, e un largo, vagamente folle sorriso disegnato sul volto.
-Tutto qui?- chiese. Si guardò attorno, in cerca di nuovi avversari.
-Gedoshu è fuori città, tornerà stasera, o forse domani. Aveva lasciato solo questi uomini qui. Ma quando tornerà, sarà con molti più uomini. - feci, serio. La sua domanda mi aveva strappato da quell'istante di estatica contemplazione di una nuova bellezza, facendomi ripiombare nel mio angoscioso incubo personale.
Non c'era nessuno in strada. Temevano che, aiutandomi, l'ira di Gedoshu si sarebbe potuto abbattere anche su di loro.
-Bene! più nemici, più divertimento. Se sono tutti come questi qui, non sono che un giochetto per scaldare i muscoli!- pulì la lama della spada su un lembo ancora quasi pulito del vestito di una delle sue vittime, disinteressandosi poi al destino di quei cadaveri, mentre rinfoderava la spada e rientrava nella mia sala da tè.
Doveva aver deciso che quella era una buona base per attendere l'arrivo di un avversario forte.
Mi andava bene così.
Volevo vedere ancora la meravigliosa bellezza del sangue stillante su quella spada.
Appesi il cartello che indicava che la sala da tè restava chiusa. Inutile: chi si sarebbe azzardato a entrare nel covo di quell'assassino? In ogni caso, era da quando mi ero rifiutato di pagare le tangenti a Gedoshu che non avevo quasi clienti.
Preparai il tè, e qualcosa da mangiare, senza dimenticare il sakè.
Normalmente avevo una delle ragazze che lavoravano per me che si occupava di cucinare - io avevo fame, a differenza della maggior parte delle anime di Rukongai, non mi ero mai spiegato il perché, ma avevo bisogno di cibo, poco ma costantemente.
Mi resi conto di non aver ancora chiesto il nome di quell'uomo.
-Ikkaku. Ikkaku Madarame. - mi rispose, quando glie lo chiesi. -E tu?-
-Yumichika Ayasegawa. - 
Mangiò gli onigiri, divorandoli, affamato, annaffiandoli col sakè.
Ne bevvi anche io, sebbene di solito non lo facessi.
Quel giorno ero come ubriaco.
Ubriaco della bellezza del sangue.
Sentivo che volevo ancora vedere il sangue su quella spada e su quel volto, sentirlo ancora caldo sulle mie labbra e sulla mia pelle.
Sicuramente le mie guance nivee erano diventate scarlatte. Sentivo la pelle tesa, come un brivido di eccitazione.
Stava ormai calando la sera. La luce del tramonto inondava la stanza, e per un attimo, la sua bellezza e la pace di quel momento onubilarono tutti i miei guai e i miei problemi.
C'era solo quella luce, e l'odore penetrante del sakè, il rumore lieve della bottiglietta che toccava il bicchiere, e poi il tavolo, e noi due, in silenzio.
La mia farfalla di felicità provava timidamente a riaprire le sue ali, sfrangiate, ma ancora capaci di farla volare.
Poi, uno schianto, un altro, la luce violenta delle fiamme che divampavano sulle porte di carta di riso e legno, l'olio che schizzava sui tatami, il fuoco che li divorava.
Vidi Ikkaku tornare sobrio all'istante, afferrando la spada che aveva deposto accanto a sé, mentre cercava con lo sguardo una via d'uscita.
Il tetto bruciava, le quattro pareti attorno a noi erano preda delle fiamme.
Gedoshu doveva essere tornato prima del previsto, aveva saputo cosa era successo, e la sua vendetta, immediata, mi stava colpendo.
Paura. La paura mi assalì.
E la rabbia, una rabbia sorda e cattiva.
La mia splendida farfalla di felicità, bruciava, crepitava, senza speranza alcuna, veniva distrutta, stracciata.
Sentii l'odio crescere in me, forte come non mai.
Sentii anche una mano di Ikkaku che mi prendeva per il polso e mi strattonava, dopo aver aperto un varco nella parete infuocata, spingendomi fuori.
Che carino.
Per poco non finii infilzato sulle lame che mi attendevano, lì fuori, gli uomini che avevano incendiato la mia sala da tè e aspettavano solo che uscissi per uccidermi.
La rabbia mi diede la forza.
Tirai un pugno al volto del più vicino. Più che la forza, dev'essere stato l'effetto sorpresa.
Oppure la bottiglia di sakè che avevo ancora in mano, e che si schiantò contro quel brutto grugno.
Gli strappai di mano la katana, e la impugnai, goffamente, guardando gli altri uomini.
Sentivo i capelli crepitare al calore del fuoco.
Sentivo le scintille dell'incendio depositarsi sui miei vestiti, la cenere della mia felicità accarezzare la mia pelle.
Sentivo il sangue del primo uomo che trafissi sulle mie mani, le mie vesti, il mio volto. Le mie labbra, la mia lingua.
Scoprii così come è splendido uccidere e strappare le vite di quegli esseri brutti e impuri osservando i loro visi contorti nell’agonia.
Non avevo mai provato nulla di così sensualmente eccitante da che riuscissi a ricordare.
In passato avevo ucciso per bisogno e per dovere, col veleno e con spilloni piantati nel collo, ma non avevo mai assaporato il sangue caldo sul volto e l’espressione di stupefatto terrore sulle facce di chi cadeva a terra, davanti a me, nella polvere.
Mi attaccarono, in tre, o forse quattro.
Con la forza della rabbia e quello sconosciuto piacere che mi alimentavano, ne uccisi tutti. Tutti, tranne uno.
Le mie vesti si lacerarono, e dalla mia carne ferita sgorgò sangue. Mi aveva graffiato al fianco, strappando leggermente il vestito.
Un enorme fiotto di sangue mi schizzò la veste e il volto. Ma non era mio. Ikkaku aveva appena tagliato il braccio a quell’uomo, sventrandolo poi con un solo colpo.
La spada di Ikkaku reclamava sangue, e caddero, quegli uomini, con le gole squarciate, il loro sangue che luccicava vermiglio, le giuste lacrime alla mia sala da tè, alla mia vita serena che bruciava alle mie spalle.
Riuscii a infilare la spada nel ventre di un altro uomo, ma sentivo le mie braccia farsi sempre più stanche di secondo in secondo. Se fossi stato da solo, lo ammetto, mi avrebbero sopraffatto e ucciso, prima o poi.
La buona sorte arride ai belli, perché non ero da solo, c’era Ikkaku.
Il grosso del lavoro lo fece lui, effettivamente.
Era coperto di sangue, in parte anche il suo, e sorrideva, rideva, mentre tagliava e squarciava, e il rubineo liquido si riversava sulla polvere della strada.
Gedoshu fu una delusione.
Pensavo che fosse forte. Molto più forte.
Ikkaku lo lasciò per ultimo. Voleva battersi uno contro uno, con lui.
Non durò molto di più dei suoi scagnozzi.
La carneficina era finita.
Le mie mani, il mio viso, il mio corpo era sporco di sangue, ma non m'importava.
Fissavo inebetito, ora che tutto era finito, la mia sala da tè.
Solo allora, mentre la gente usciva dalle case e cercava di spegnere l'incendio, per evitare che si propagasse alle loro case, solo allora mi resi conto che la mia farfalla di felicità era divenuta cenere. Che la mia vita di Yumichika, la donna della sala da tè, era finita.
Guardai Ikkaku.
Forse, una nuova farfalla di felicità, dalle ali scarlatte come il sangue appena versato, una farfalla che danzava sulla lama di una spada, poteva ora nascere.
La domanda era: me l'avrebbe permesso?

-Perché continui a seguirmi?- mi chiese.
Era calata al sera, e da molte ore camminava lungo la strada polverosa. E da molte ore, lo seguivo. Non ero più abituato a camminare, e i miei piedi nudi (i miei sandali erano rimasti nella sala da tè, ed erano ormai cenere, come tutto il resto) mi dolevano.
Scrollai le spalle.
Lui si voltò e continuò a camminare.
Si fermò, evidentemente doveva aver trovato un posto di suo gusto.
Uno spiazzo erboso ai margini della strada, con un filo d'acqua che scendeva giù da una ripa muschiosa.
Bevve avidamente, e poi, senza degnarmi di uno sguardo, iniziò a raccogliere sterpi e legna.
Un fuoco.
Il fuoco scalda e fa luce.
Avevo voglia di un fuoco.
Anche di una tazza di tè, ma l'acqua era l'unica cosa che avessimo a disposizione.
Lo aiutai, ignorando le fitte di dolore al fianco.
Avrei dovuto medicarlo in qualche modo. Ma non mentre mi guardava.
Il mio corpo doveva restare solo mio.
Finalmente si buttò sull'erba, la spada accanto, e chiuse gli occhi.
Mi accostai al filo d'acqua.
Mi resi conto di una cosa: non l'avevo affascinato.
Davo ormai per scontato che ogni uomo restasse affascinato dalla mia bellezza.
Beh, ogni uomo che facessi entrare nella mia sala da tè, quindi uomini già di base sensibili al buon gusto.
Ikkaku certo non rientrava in quella categoria.
Inoltre, non mi aveva visto nei miei giorni migliori. Occhi e naso arrossati dal pianto non danno punti in una scala di perfetta bellezza.
Con cautela, mi sfilai le maniche del kimono di seta, sporco di sangue secco (avrei dovuto lavarlo, appena possibile, non potevo andare in giro conciato quella maniera!) e poi il leggero kimono di cotone, esponendo alla luce della luna il mio candido, maschile corpo.
Il mio sguardo indugiò appena sul petto. Perché non ero nato donna? Ogni volta che mi spogliavo, a quel tempo, me lo chiedevo.
Lavai con cura la ferita: non potevo permettersi che si infettasse, lasciando una cicatrice sulla mia pelle perfetta.
Tolsi lo sporco, ma riprese a sanguinare. Mi bendai alla bell'e meglio, sacrificando una manica del kimono inferiore.
Erano anni che non dormivo sull'erba, e sapevo già cosa faceva l'umido della notte ai miei capelli. Ma non avevo alternativa. Stava diventando un viaggio senza alternative. Era cominciato come un viaggio senza alternative.

Camminammo ancora alcuni giorni. Parlavamo poco: Ikkaku non è un tipo ciarliero, e io non ero più abituato a camminare. Inoltre, camminavo come una donna, a corti, eleganti passi. Non avevo ancora sviluppato quella mia peculiare capacità di emanare grazia e fascino anche compiendo le ampie falcate tipiche del passo maschile.
Di sicuro, non avrei mai e poi mai camminato nel modo sgraziato di Ikkaku, a costo di correre a piccoli, eleganti passetti.
Malgrado le prime cure che le avevo portato, la ferita si era infettata. Fitte di dolore mi levavano il fiato, nei tratti più erti di strada.
Evidentemente, alla fine se n'era accorto anche Ikkaku che c'era qualcosa che non andava.
-Che hai?- mi chiese. Mi reggevo il fianco, dolorante, senza fiato. Mi appoggiai a un albero, sentivo le ginocchia che mi tremavano. 
-Niente. Solo un graffio. - tentai di minimizzare. 
Proseguì per qualche metro, ma quando vide che non lo seguivo, tornò indietro.
Mi accorsi della nuova chiazza rosso vivo che si stava allargando sul mio kimono: la ferita doveva essersi riaperta.
Me lo disse anche lui. Lo vidi frugare per un attimo nella piccola borsa che aveva, legata in vita, che conteneva tutti i suoi averi.
-Spogliati. - mi disse. 
Rimasi per un attimo basito.
-Avanti, su, se non ti medico quella ferita tiri le cuoia prima di scendere da questa maledetta montagna!- aveva in mano qualcosa, una conchiglia, forse.
Mi ritirai, disperatamente. Non potevo permettere che vedesse.
Il mio corpo mi tradì, non riuscii a sottrarmi: mi prese il polso e mi aprì il kimono.
-Non sei né sarai la prima donna che vedo nud-
Ecco.
L'aveva visto.
Cioè, non aveva visto quello che si aspettava.
Si aspettava una fasciatura di fortuna zuppa di sangue, e quella c'era.
Si aspettava due seni bianchi, e quelli, aimè, scarseggiavano.
Rimase per un attimo con la mascella penzolante.
Il mio primo pensiero fu sottrarmi a quella stretta, e sguainare la katana, che da quando l'avevo sottratta all'uomo di Gedoshu, pendeva al mio fianco.
Non avrei avuto la minima possibilità, se avesse deciso di attaccarmi. Ma non volevo più subire, non volevo più sopportare le frustate della vita sul mio bellissimo corpo, senza tentare di reagire.
Vedevo la mia farfalla di felicità dalle ali scarlatte cadere, lacerarsi...
-Tu...- 
Non portava la mano alla katana. Beh, buon segno, forse, pensai.
-'Cazzo fai, idiota?-
Un pugno.
Sulla mia testa.
Non sul volto. Non sul corpo.
Sulla testa.
E neanche troppo forte, dato che non sentii le ossa scricchiolare.
Abbastanza forte da farmi cadere a terra, però: la ferita mi aveva indebolito, e il brusco movimento aveva fatto sprizzare un fiotto di sangue.
Il mio sangue.
Il sangue, che avevo trovato tanto bello quando stillava dalla katana, mentre gocciolava dal mio corpo mi lasciava una sensazione di... disgusto.
Verso me stesso, che ero così debole, da lasciare che la mia bellezza venisse rubata da una spada, da una ferita, da un uomo.
Mi fu sopra, levandomi con malagrazia la katana di mano, e scostando allo stesso brusco modo il kimono.
L'unguento emostatico bruciava, puzzava anche un po', e il suo colore verdastro era orribile.
Ma funzionava.
Sentivo quelle dita callose sul mio corpo, che spalmavano quella roba unta e puzzolente, e il sangue che smetteva di scorrere, e la ferita che pizzicava.
Per un istante, desiderai che quel momento fosse eterno.
Quando ebbe finito di spalmare l'unguento, mi rifece la fasciatura, per bene.
Poi si sedette sotto l'albero, al quale poco prima m'ero appoggiato, fissandomi torvo, mentre cercavo di rivestirmi. 
Mi sentivo violato, il mio corpo toccato da un uomo. 
Ma non mi sentivo disgustato, come temevo, come mi ero sentito quando altri uomini avevano cercato di arrivare a qualcosa che non potevo far vedere, perché non possedevo.
Le donne che parlano di violenza sessuale... posso capirle. Essere toccato da un uomo brutto, è per me la peggiore delle violenze, uno sfregio nell'anima più che nel corpo.
Ma il tremore che mi percorreva le membra non era di rabbia, o di vergogna.
Per la prima volta, mi era piaciuto il tocco di un uomo.
Ero disorientato.
Mi sentivo donna, ma gli uomini non mi avevano mai attratto, così come le donne pure non mi attraevano.
Rimanemmo a guardarci per alcuni, interminabili minuti.
-Non te l'ha mai detto nessuno, che se sanguini troppo, rischi di morire?- mi chiese alla fine, sogghignando, rompendo quel silenzio di attimo in attimo più pesante. 
-Quando te la senti di rialzarti e di camminare, proseguiamo. - mi disse poi, appoggiando la schiena all'albero, incrociando le braccia dietro la testa, e chiudendo gli occhi.
Non sapevo che dire. Avevo mille domande, e non un modo per porle.
Alla fine, ce la feci.
-Non mi chiedi perché mi vesto da donna?-
Aprì un occhio. Indifferente, come se gli avessi chiesto se preferiva riso e carne o riso e pesce.
-Non è affar mio, e non mi interessa. Non mi impiccio degli affari degli altri. - stette in silenzio un poco.
Iniziai a respirare più a fondo. Non m'ero accorto che avevo trattenuto il respiro.
Non so perché, ma ci tenevo, a restare in sua compagnia.
Ci tenevo davvero tanto.
-Se un giorno vorrai dirmelo, ti ascolterò. Ma se non vuoi farlo, io non ti obbligo. -
Finalmente mi rilassai. Lasciai che il sole mi scaldasse, ammirando lo splendido cielo azzurro.
La mia farfalla di felicità dalle ali color dell'acciaio e del sangue volava alta, integra e salva, per ora.

Appena la mia ferita si fu rimarginata, Ikkaku decise che, anche se vestivo da donna, siccome ero un uomo, e lui non aveva nessuna voglia di proteggere un uomo, dovevo imparare a usare quella katana che mi portavo appresso.
Non era un maestro gentile.
Non è mai stato gentile, con niente e nessuno.
Ma era bravo.
Il mio corpo si copriva di lividi, mentre mi allenava, usando dei bastoni, ma non mi importava.
Le cicatrici solcarono il mio corpo perfetto, quando mi buttava in mezzo alla mischia, ridendo, dicendo che anche io dovevo usare la katana, che non potevo usare sempre i miei spilloni infilati nei capelli, per uccidere.
Non mi importava.
In quegli anni, in cui vagabondavamo senza meta da un distretto all'altro, Ikkaku inseguendo la fama di uomini forti da sconfiggere e io seguendo Ikkaku, fui felice, una felicità del tutto diversa da quella provata alla sala da tè, ma non per questo meno intensa.
Piano piano, mi spogliai di quella femminilità che tanto amavo e agognavo. Era troppo pericolosa.
Lo ammetto, non rinunciai al kimono rosa pesca, né ai miei capelli lunghi - quel sacrificio lo feci molto dopo, non senza dolore - e tantomeno alla cura del mio corpo.
Lo feci per lui.
Lo rendeva nervoso, il mio aspetto femminile. Non sapeva come rivolgersi a me. Sapeva che sono un maschio, eppure mi vedeva muovermi da donna.
Così abbandonai l'obi, e i passi misurati, e i sandali decorati, per una cintura semplice, per passi lunghi, ma non privi di eleganza, per semplici sandali di paglia.
Tutti questi sacrifici in passato mi avrebbero distrutto.
Ma tutto veniva ripagato dal sangue che scorreva sulle lame delle spade, dalla danza di vita e di morte che si intrecciava nelle strade, dai volti terrorizzati dei nostri nemici che cadevano inesorabilmente sotto i nostri colpi, e poi dalle lunghe notti sotto le stelle, a bere sakè, e a parlare di tutto e di niente.

Oh, il sakè.
Lo odio, e lo amo.
Lo odio, perché fa perdere il controllo, e allo stesso tempo lo amo, per lo stesso motivo.
Perché in fondo a un bicchiere, uno dei tanti della sfilza che Ikkaku buttava giù, dei pochi che sorbivo io, ultimamente c'era una verità che, me lo sentivo, quella si, avrebbe fatto macchiare la sua lama col mio sangue.
Abitualmente non bevo mai molto.
Non avete idea di cosa faccia l'alcol alla pelle, per non parlare dello sguardo e del colorito. Sorvoliamo sui nasi dei bevitori cronici, le spugne. Che orrore.
Se gli altri tracannano sakè, io sorbisco tè.
Eravamo da poco diventati shinigami...
Non ti ho detto come siamo diventati shinigami?
Beh, te lo racconterò.
Quella fame che provavo, che era fatta più netta e intensa col tempo, era perché avevo poteri latenti. Reiatsu.
Sia io che Ikkaku.
Il reiatsu si fa sentire, e reagisce alla presenza di altri reiatsu.
Probabilmente, fu l'incontro con Zaraki, a risvegliarli completamente.
Ancora ricordo quell'incontro.
Il luogotenente Kusajishi... anzi, Yachiru, era ancora più piccola di ora. Una poppante.
Dall'alto della spalla di Zaraki, avvistò la lucida pelata di Ikkaku, e tutta gioiosa la indicò e rise, chiamandola "grossa biglia lucida".
Se io divento una belva quando si tocca la mia preziosa bellezza, Ikkaku perde ogni controllo quando lo si chiama "pelato". Per la cronaca, i capelli li ha. Sono abbastanza radi e sottili, e inoltre gli stanno malissimo, quindi preferisce rasarsi a zero, con la scusa che è più pratico e comodo. Perlomeno li aveva, all’epoca. Non l’ho più visto rasarsi da un pezzo, anche se si taglierebbe la lingua da solo piuttosto che ammettere di essere diventato davvero pelato. Che sciocco, ha una testa così bella e perfetta, così rasata, che bisogno c’è di incavolarsi?
Ciò non significa che non si incazzi di brutto se lo si chiama pelato o, come fa il luogotenente Kusajishi, "biglia".
Inferocito, si era voltato per cercare l'insolente.
E quando aveva visto Zaraki, aveva sorriso.
Avevano sorriso col sorriso della belva che pregusta il sangue.
Fu un combattimento veloce, e impari.
Il capitano Zaraki è sempre stato non una, ma dieci spanne sopra di noi.
Da lungo tempo avevo imparato che Ikkaku non voleva aiuto, mai, a costo di morire, in un combattimento uno a uno.
Così, assistetti allo scontro, apparentemente calmo, e impassibile, ma dentro di me, tremavo, ogni colpo ricevuto da Ikkaku me lo sentivo inflitto alla mia carne. Non poteva morire, non doveva.
Ma se l'avessi aiutato, sarebbe morto il suo orgoglio, e lui non è uomo da lasciare una macchia sull'orgoglio.
Quindi, respirai davvero sollevato, quando Zaraki lo risparmiò.
Ci disse che un giorno ci saremmo reincontrati. Magari per un'altra battaglia.
Sorrisi, col mio sorriso bellissimo, ma mi auguravo di non dover più vedere Ikkaku più morto che vivo.
Lo conoscevo da un sacco di tempo, ormai, tanto da sapere che, se fosse morto combattendo, sarebbe morto felice.
Questo però non significava che io l'avrei lasciato morire facilmente, una volta finito lo scontro.
Ogni volta che si batteva e riportava quelle ferite che solcavano il suo corpo in innumerevoli cicatrici, io commentavo che se mai aveva posseduto una qualche bellezza, la stava gettando nella polvere sotto le suole.
Lui rispondeva che se ne fregava dei miei fottuti ideali di bellezza, che lui amava il sangue che scorreva, anche se era il suo.
Ogni volta dicevo che sarebbe stata l'ultima volta che curavo un bruttone come lui, e ogni volta lo spalmavo di emostatico e lo bendavo.
Un giorno, ci giunse la notizia che al Gotei 13 c'era un nuovo capitano: Zaraki Kenpachi.
Il nostro reiatsu si era risvegliato da molto tempo. Potevamo diventare shinigami, se lo avessimo voluto, solo che non lo volevamo. Non eravamo i tipi da farci docilmente inquadrare nei ranghi come tanti mattoncini.
Ma quando vidi il volto di Ikkaku, mentre apprendeva quella notizia, seppi che sarebbe diventato uno shinigami, per sfidare e combattere di nuovo contro quell'uomo.
E seppi che sarei diventato anche io uno shinigami.
Ormai dove andava lui, andavo anche io.
Non perché mi costringesse, bada bene. Perché lo volevo io.
Non riuscivo neanche più a immaginarmi a contemplare la bellezza del tramonto o la luminosità dell’alba senza i suoi brontolii e le sue imprecazioni in sottofondo perché era finito il sakè e toccava a me andare a procurarmene dell’altro.
La farfalla della mia felicità aggiungeva all'acciaio e al rosso, nelle sue ali, il nero di una veste da shinigami.
Ci presentammo a Zaraki. Ikkaku lo sfidò, ma lui rise. Il suo reiatsu era spaventoso. Ikkaku non era minimamente all'altezza... quasi svenne, di fronte a un simile reiatsu.
Mi colpì come quella bimbetta piccola e... carina, si, lo devo ammettere, il luogotenente è obiettivamente una bambina molto graziosa, se ne stesse in mezzo a quel reiatsu spaventoso, perfettamente a suo agio.
Resti tra noi, siamo in pochissimi a saperlo, ma Zaraki Kenpachi, il nostro grandioso, fortissimo, invincibile, carismatico capitano, farebbe di tutto per quello spaventoso scricciolo rosa del luogotenente Kusajishi. Anche perdersi regolarmente per il Seiretei, per seguire le sue indicazioni, regolarmente sbagliate. 
Un consiglio: se il luogotenente Kusajishi vi dice di andare a destra, voi andate a sinistra. Sempre.
Il capitano non ha la bellezza esteriore che io adoro. Ma credi forse che io sia così cieco da fermarmi ad essa? Lo credi davvero, eh?
Beh, per la maggior parte delle persone si.
Ma ho imparato a vedere, in alcune persone, anche la bellezza interiore.
Sono uno Shinigami dell'11° compagnia, perché voglio restare nella compagnia in cui c'è Ikkaku, anche se potrei diventare un luogotenente, forse anche un capitano, se lo volessi.
Ma resto nell'undicesima, in questo covo di rozzi individui, perché ho visto anche nel capitano una bellezza, una bellezza del tutto interiore, che non sono riuscito a scorgere negli altri. Una bellezza in confronto alla quale il bellissimo ma rigidissimo capitano Kuchiki non è altro che uno spaventapasseri con un palo nel culo.
Impressione che mi ha dato fin dal principio. Quella del palo nel culo, intendo.
Come possa un uomo come Renji Abarai seguirlo, prenderlo come meta, come sfida, questo lo ignoro.
Ma torniamo a noi.
Eravamo Shinigami. E senza essere passati per l'Accademia.
La maggior parte degli Shinigami dell'11° compagnia sono usciti dall'Accademia a calci nel sedere, oppure, se dimostrano una minima quantità di reiatsu, raccattati da Rukongai, vestiti, irreggimentati quel tanto che basta, e buttati nella nostra caserma.
Ma va bene così.
In fondo, un candido fiore non spicca forse meglio in mezzo allo scuro del letame?
Eravamo Shinigami, eravamo nel Seiretei, eravamo (anche io, incredibile!) molto più abili di molti degli shinigami presenti, tutti diplomati nell'accademia.
All'epoca, l'11° brigata non era ancora il corpo di rissaioli senza un minimo di kido. Era ancora una compagnia quasi normale. Era stato un processo di rapida osmosi, ancora in corso, quello che stava portando gli elementi migliori dagli altri, e quelli più turbolenti tra di noi.
Kenpachi, anzi, il Capitano Zaraki, aveva deciso che avevamo stoffa, e ci aveva detto che se avessimo voluto avrebbe fatto si che diventassimo subito shinigami della sua Compagnia, degli shinigami con posti di seggio. Da nullità a pezzi grossi, insomma. Accettammo subito.
Ci eravamo insediati allegramente in alcuni degli alloggi per ufficiali della caserma. Io mi ero scelto una stanza con una bella vista verso occidente, affacciata sul giardino antistante gli ingressi della caserma. Amavo la tranquilla bellezza del tramonto. L'idea di poterla ammirare dalla mia stanza mi piaceva.
Ikkaku si era infilato in una stanza appena di fronte. La sua dava sul cortile interno, ma non ha mai né amato né odiato la vista. Per lui è, semplicemente, un panorama come un altro.
Mi sentivo ancora un po' impacciato nella divisa da shinigami. Molto impacciato. Tre metri e mezzo di stoffa tra le gambe erano per me un’esperienza nuova, abituato da sempre ai kimono e agli yukata.
Per lungo tempo, quando non ero in servizio, ho continuato a usare kimono eleganti. Poi qualcuno mi fece notare che il nero snellisce e fa risaltare la mia carnagione chiara.
Da quel giorno, vesto quasi solo la divisa.
Ero ancora un po' triste, per aver rinunciato ai miei capelli lunghi.
Mi arrivavano a metà schiena, lucidi e folti, lisci come la seta e neri come la notte più dolce, l'invidia di ogni donna.
Io sono sempre stato uno da compromessi: non li avevo tagliati cortissimi, ma in un caschetto che poi ho sempre mantenuto, negli anni. Abbastanza corti perché non dessero fastidio, abbastanza lunghi da poter essere ancora un vanto.
Quella sera, mi ero procurato una bottiglia di sakè.
Una GROSSA bottiglia di sakè.
Non so, avevo voglia di festeggiare.
Festeggiare cosa?
Mah, forse il non vagabondare più - non l'ho mai detto a Ikkaku, ma odiavo camminare nella polvere, senza meta.
Festeggiare l'inizio di una nuova, terza fase della mia vita nella Soul Society.
Festeggiare, perché no, che ora eravamo shinigami, e anche l'ultimo shinigami è un pezzo grosso quando scende a Rukongai.
Festeggiare il fatto che, tra poco, saremmo stati pezzi grossi anche tra gli shinigami. Terzo e quinto seggio.
Non avevo voluto il quarto seggio.
Non perché io non sia forte, intendiamoci: la mia bellezza nasconde una potenza che la maggior parte degli altri shinigami si può solo sognare la notte.
È solo che Ikkaku è più forte di me, e quindi il terzo seggio è suo, ma io trovo massimamente elegante il numero tre... e il cinque è quello che più gli somiglia.
Così spiegai a Ikkaku il perché del mio desiderio di essere solo quinto seggio, mentre, ormai a tarda notte, gli versavo da bere, e me ne versavo per me, mentre brindavamo alle divise da shinigami, ben piegate, la mia in camera mia, e la sua accanto al futon.
Un malinconico brindisi ai miei lunghi capelli andati mozzati...
-I capelli sono solo un impiccio!- mi apostrofò -Tu e quella tua chioma, prima o poi, qualcuno ti avrebbe preso per quella coda e ti avrebbe tagliato la gola!-
Mimò l'atto, col bicchiere a mo' di coltello.
Era ubriaco. La bottiglia era ormai quasi vuota.
Forse lo ero anche io. Sicuramente lo ero.
Perché mi afferrò davvero i capelli e mi tirò verso di lui, e sentii sulla mia gola il bordo liscio del bicchiere, e le sue mani sfiorarmi, il suo alito che sapeva di sakè sul collo.
Rimanemmo così alcuni istanti, consapevoli di quella vicinanza.
Una parte di me maledisse ancora il fato che mi aveva fatto nascere maschio.
Se fossi stato una donna, sarebbe stato tutto più facile! Si, anche se le donne sono spesso piagnucolose e deboli, in quel momento avrei voluto esserlo.
Non fui io a baciarlo.
Fu lui.
Sapeva di alcol, tanto, e quella piccola parte triste di me pianse al pensiero che era solo un gesto da ubriaco.
Ma assaporai quel bacio, malgrado l'alcol che ci invadeva le vene, mi ci abbandonai, ogni muscolo del mio corpo ci si abbandonò, cercando di imprimermelo in ogni particella del corpo, quella piccola parte triste che mi urlava che non ce ne sarebbe stato mai più un altro.
Piccola parte triste di me, urlavi che era la prima e unica volta, che quelle mani che avevano violato il mio corpo già una volta, lo toccavano senza unguento emostatico. 
Non ricordo se a cadere per primi furono i miei vestiti o i suoi. Credo i miei, ma di quei momenti, ricordo solo le nostre carni bollenti, l'odore di sakè che permeava tutto, le sue mani dure, callose a causa della spada, sul mio corpo che, malgrado tutto, era rimasto bianco e delicato.
Ho già detto che non era stato un maestro gentile, che non era gentile con nessuno.
Non fu gentile, ma non era quello che volevo.
Ikkaku non era gentile, e non mi aspettavo che lo fosse, neanche in quel frangente.
Ma era appassionato, in ogni cosa che faceva. Anche nel fare l'amore.
Non era solo sesso, non per me almeno.
Per favore, non pronunciare oltre la parola "amore". È troppo usata, troppo a sproposito, e ha perso la sua originale bellezza. Posso usarla solo per descrivere qualcosa di più del mero sesso. Per il resto...
Non era attrazione... o forse si? Mi attraeva la sua capacità di modellare il suo destino, di guadagnarsi la sua felicità, a ogni costo, anche a costo della vita stessa.
La felicità... 
Quella notte, fui felice. Fui davvero felice. Mi sentii tutto ciò che avevo desiderato inutilmente essere, che non potevo e non potrò mai essere.
E capii che non avevo bisogno di essere diverso, per essere felice. Dovevo solo essere me stesso. Solo Yumichika.

Mi svegliai per primo. Ho sempre avuto il sonno leggero, e quella notte, non ero quasi riuscito a dormire. Il pensiero delle occhiaie non mi attraversò la mente neanche per un attimo.
Ebbi paura.
Paura che, una volta sveglio, e sobrio, Ikkaku si pentisse.
Che mi odiasse.
Non potevo sopportarlo.
Che fare? Far finta di nulla? Lasciargli intendere che era stato solo il sogno causato da troppo alcol? O attendere il suo risveglio, parlare, e...
Ora non avevamo le katane di un tempo: lui l'arma con cui era arrivato al ventesimo distretto, io quella strappata di mano a un uomo che avevo trafitto.
Avevamo delle zampakuto, ancora senza nome, ma bellissime nella loro lama affilata, ansiosa di essere battezzata col sangue di Hollow.
Quella di Ikkaku era posata accanto alla divisa, vicino al futon.
Come quel giorno sul sentiero di montagna, ebbi paura. Avevo giurato a me stesso che non avrei più avuto paura, e invece…
Lentamente, mi rivestii, e mi appoggiai alla parete, dall'altra parte della stanza.
Se non si fosse ricordato di nulla, al risveglio, gli avrei detto che, ubriaco, aveva improvvisato uno spogliarello, poi era crollato a dormire, e io l'avevo trascinato sul futon.
Suonava abbastanza convincente. Forse poteva crederci.
Gli sarebbe rimasta la vergogna di aver fatto lo spogliarello integrale di fronte al suo migliore amico, ma avrebbe dato la colpa solo a sé stesso.
Che egoista bastardo che sono eh?
Quando si svegliò, bastò una sola occhiata tra noi perché capissi che ricordava.
Tutto.
Forse non era nemmeno così ubriaco come credevo, la notte prima.
-Yumichika...-
Abbassai lo sguardo, mentre si levava a sedere, la bocca impastata e la testa ancora un po' confusa.
Mi guardò.
Ero tornato a sedere come una donna. Mi aveva sempre rimproverato quell'abitudine, e io non l'ho mai persa, quasi per ripicca.
-Quello che è successo stanotte...-
-È stata una sciocchezza da ubriachi. - tagliai corto. Non riuscivo a guardarlo in viso.
Non riuscivo, perché se l'avessi fatto, si sarebbe accorto che stavo mentendo. Che mi era piaciuto. Che avrei dato l'anima per rifarlo.
-Siamo sempre amici, vero?-
Mi aspettavo tutto. Che si infuriasse. Che mi insultasse. Che mi disprezzasse, per la mia debolezza, la mia sottomissione.
Non mi aspettavo questa sua domanda.
-Si. Sei il mio migliore amico. -
Si lasciò cadere tra le coltri del futon.
Mi alzai, sollevato. Volevo andarmene nella mia camera, pensare, rivivere nella mia mente ogni attimo di quella notte.
-La prossima volta, il sakè lo prendo io. Qualcosa di forte, non quell'acquetta leggera che trovi tu. - mi disse, mentre ero già sulla soglia.
Mi fermai, ma non mi voltai.
Sorrisi, però.
-Va bene. Qualcosa di forte. -

La mia farfalla di felicità volava alta, tra l'acciaio, il sangue, il nero della mia veste da shinigami, e l'odore del saké.
  
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