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Autore: Bess Black    15/01/2016    3 recensioni
Nathalie, alla sola età di diciassette anni, si trova in un carcere minorile ad alta sicurezza e da più di un anno ormai.
Insieme ad alcune compagne di cella ed alcuni amici tenterà un evasione, ma è impossibile superare FBI, Militari, CIA e Servizi Segreti.
Ed è qui che iniziano i sospetti: telecamere di sorveglianza ad orario continuato, pasti selettivi, controlli rigidi, divieto di ogni comunicazione con l'esterno.
Dal testo:
«Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia il Militare Black secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro.
«D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
«Tu scappi, io sparo.»
Genere: Azione, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il punto di partenza
Capitolo IV
 
 


 
C’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato.
Erroneo in termini matematici: è la somma che ne traggo senza volerlo in un tremolio dolente prima sullo stomaco, come fosse il peso di tutto ciò che potrebbe essere costruito sulle fondamenta sbagliate, poi esattamente nello stomaco, dentro, dove stanno confluendo le parole di Emma in lettere difformi, spezzate quando le ho inghiottite, perché non so respirarle.
Ha parlato a pugno prima di chiunque altro, tentennando un chi diavolo fa guerre di questi tempi?
Dalton non la guarda e non guardarla rientra nei mezzi che giustificano il suo fine. 
«Non possono certo fare una guerra!»
Il tono di Emma è sdegnato, gli occhi cercano un alleato, qualcuno disposto a condividere e sostenere il suo parere riguardo l’edizione speciale del telegiornale nazionale.
Nessuno risponde, non verbalmente. Qualcuno dice qualcosa, sì; ma nessuno le risponde.
«Non ci voleva, dannazione.» Hugo è seduto esattamente vicino a me, perciò il suo sconforto mi pesa molto più di quanto altrimenti farebbe. «Non potevano riscaldare la loro Guerra Fredda in un altro momento?»
«Ma è perfetto, invece!» chiaramente Aaron ha da ridire. «Se l’intero paese è in guerra chi diavolo vuoi che faccia caso alla fuga di quattro ragazzini?» ammicca anche, nella sua convinzione.
Ora l’esasperazione di Hugo e la mia sono tutt’uno in nome del veto di parola che Aaron Nelson ha appena assassinato tre giorni dopo averlo giurato. Hugo mi guarda e dopo un po’ faccio lo stesso perché mi sento a disagio.
«Quindi è vero? State davvero progettando di scappare?»
Se le voci sul piano di fuga sono arrivate fino alla seconda cella maschile, c’è un buco nell’acqua. E per quanto mi riguarda, Aaron può anche marcire in questo carcere per il resto di tutte le nostre vite messe assieme, anche fin quando del suo cadavere non resteranno che ossa e capelli. Perché il buco nell’acqua è una bolla di ossigeno destinata a tornare a galla ed esplodere contro l’aria.
«È solo un’idea.» tenta di controbattere Hugo, quando capisce che io non l’avrei fatto se non con la sedia sulla quale sono seduta, in faccia ad Aaron.
Dalton non dice niente perché sta continuando a fare i calcoli in silenzio, dove io mi sono fermata e capisce quanto è matematicamente erroneo, tutto ciò.
«Un’idea che, a quanto pare, siete arrivati al punto da attuare.» non conosco Dominic, ci siamo scambiati mezza parola e solamente perché gli ho chiesto se voleva scambiare il secondo piatto col mio, al refettorio. Lui non ha risposto, in segno di indubbio diniego, ma non ha nemmeno mangiato il suo secondo piatto. Semplicemente non voleva rischiare una punizione solo per fare un favore a me. Per questo vorrei che a parlare fosse Dalton e non Hugo, non io e, né ora né mai più, Aaron.
«Non avete pensato che sarebbe stato un minimo obiettivo coinvolgerci?» non so di chi sia la seconda voce, un altro detenuto della seconda cella maschile senza dubbio, ma non sposto gli occhi dalla divisa che indosso per verificarlo.
«Non stiamo facendo le squadre per giocare a caccia al tesoro, stiamo cercando di salvarci il c…»
«No, sarebbe stato onesto.» Dalton interviene prima che il tono di Hugo arrivi fin alle guardie, ferme sull’attenti davanti al portone. «Tecnicamente, non avervi coinvolti è stato obiettivo.»
«È tutto quello che avete da dire?» Dominic ride, o meglio, di lui ride solo una metà del volto perché pensa di avere ragione. In effetti, a suo modo ha ragione; ma i suoi modi non sono i miei. E la ragione è dei deboli.
«Stai facendo una domanda intelligente senza volerlo, prova a riformularla rispettando delle tue intenzioni.»
Mi ha sempre profondamente indignata sentir pronunciare sentenze piene e solenni, senza propositi o voleri, ideologie o convinzioni a supporto delle sentenze stesse. È come vincere per puro caso, contro tutti coloro che dal tempo della loro vita faticano per quel titolo. E non è una questione etica di corretto o scorretto, è una questione meritocratica tra giusto ed ingiusto. Non sopporto sentire i deboli erigere la ragione che sola vantano, a danno di chi ragione a tollerato e sormontato; a danno di chi ha capito che aver ragione, in vita perlomeno, è solo mera lussuria e vanità circoscritta alle debolezze umane. Chi ha ragione non ha ragione per virtù o meriti, ma perché qualcuno è più palesemente stupido di lui.
È il fatto che Dalton sia tornato al presente storico dei fatti e delle parole a sollecitarmi ad intervenire, ma Dominic se lo aspettava. Me lo aspettavo anche io da quando, un’oretta fa, mi sono seduta nel posto libero vicino a lui e non quello affianco ad Emma. Ce lo aspettavamo entrambi dalla prima volta che gli ho parlato, gli ho chiesto qualcosa e lui ha preferito negarmelo a bocca piena e chiusa, piuttosto che essere banalmente gentile, convenzionalmente cavalleresco, un minimo avventato e dare onore ad una possibile alleanza o complicità. Se quella sera, al refettorio, avesse accettato, oggi, qui, sarebbe già al corrente della fuga.
Dopo le mie parole sorride, lentamente. «Pensi che vi dovremmo leccare il culo solo perché vi siete erti a capitani dell’arrembaggio?»
«Sì.» e lo penso davvero. «E vi toccherà farlo indipendentemente da quello che penso io.»
«Ha senso.» concorda Aaron. Il ché mi farebbe piacere – se Aaron non fosse Aaron. «Mi spiace, amico. Legge del più forte.»
«E tutto questo protagonismo…» ride e qualcuno lo segue – ride davvero, con forza di volontà e sono in molti ad accompagnarlo in quella risata schietta, con la stessa spinta sentita. «… solamente perché siete arrivati- oh, scusa, siete partiti prima e per un po’ di ripicca infantile?»
Dalton guarda Hugo, Hugo guarda me, Aaron non m’importa chi sta guardando, ma io guardo uno ad uno chi non è stato coinvolto nella fuga quando decido di essere egoista nel modo più legittimo in cui mi è concesso esserlo. «No, tutto questo perché non voglio finire sulla sedia elettrica per aver affidato la mia vita a degli sconosciuti che ho incontrato in un carcere di massima sicurezza del Nevada.»
«Ha senso.» ripete di nuovo Aaron, mangiucchiandosi un’unghia con fare pensoso – spero sia pensoso perché si è reso conto di essere un idiota e successivamente si è anche assunto la gravità della sua idiozia in termini pratici.
Dominic lo guarda e scrolla le spalle, ma volta la sedia verso di me. «D’accordo. Domanda ed io risponderò.» ha un occhio, l’occhio sinistro un po’ arrossato, probabilmente un capillare rotto.
«Vuoi scherzare?» lo apostrofa Hugo sopra la mia spalla. «Su di te possiamo mentirci senza il tuo aiuto, grazie.»
Guardo Dalton. Lo faccio perché mi viene naturale, perché voglio assicurarmi che calcolare ciò che è erroneo non l’ha allontanato ancora una volta dal presente storico e perché mettere a disagio Dominic mentre mi fissa, mi si rivolge è tutt’un altro approccio alla vita.
«Il discorsetto delle caramelle dagli sconosciuti avresti dovuto fartelo prima di ritrovarti di tua spontanea o meditata volontà con degli sconosciuti fino ad essere coinvolta in un crimine che ti è valso il carcere nonostante la minore età.» mi parla come se fossimo in un momento di intimità, solo io e lui, e mi stesse dando un consiglio, un avviso prematuro e non tardo; ma non riesco a porre un limite alle sue frasi e alla loro combinazione, tanto meno al tono strascicato col quale sono state esalate e mai lo sguardo che le ha accompagnate: le sue parole mi ricordano che non mi è concesso giocarmi la carta della diffidenza quando si tratta di persone con le quali condivido lo stesso crimine e la stessa sentenza.
«Nome. Nome completo.» chiedo quando decido che avrei pensato al suo avvertimento in un altro momento.
«Dominic Hinterwaldner.»
«Non hai un secondo nome?»
«No.»
«Di dove sei?»
«Juneau.»
Mi giro verso Dalton, anche perché voglio una tregua dal contatto visivo con Dominic, e la sua reazione è immediata quanto distratta. «Alaska.»
Quando ristabilisco il contatto visivo è lui a darmi una tregua perché non mi fissa più negli occhi, mi guarda ancora, ma non negli occhi. «È persino la capitale di stato.» si lamenta della mia ignoranza geografica.
«Come ci sei arrivato fin qui dall’Alaska?»
«Esattamente come ci sei arrivata tu, Nathalie Downey.» e sospira.
Trattengo io il respiro per compensare ogni particella d’ossigeno che lui si sta prendendo il tempo di inspirare e scaricare poi in anidride carbonica che rimane incastrata nello spazio tra le nostre due sedie, nociva come le risposte che stiamo nascondendo nelle domande.
«Come ci sei arrivato fin qui?» ripeto, corrugando le labbra.
«Te l’ho detto, es-»
«Come sei arrivato fin qui dall’Alaska, rispondi.»
«Ok.» torna a guardarmi negli occhi. «In treno.»
Persino Hugo vede il lato tragicomico e mi dà una piccola spinta, non nascosta, agli occhi di tutti.
«Età?»
Questa domanda gli piace perché piega di nuovo il labbro superiore. «Ventisei.»
«Non mentire, Hinterwaldner. Non ti conviene.»
Poggia una mano con azzardo sul mio ginocchio dal quale rialza lentamente lo sguardo fino al mio viso rosso, lo sento rosso ancor prima che caldo. «Tu, mia dolce Nathalie Downey, pensi davvero di valere la moralità degli altri, non è vero?»
Hugo mi rifila la stessa gomitata di poco prima. «Non mente, Nath, lascia stare.»
Mi volto verso di lui ed allontano il suo braccio. «Non può avere ventisei anni, questo… mi hanno detto che qui sono stati reclusi solo quelli di noi che erano… che sono minorenni.»
Dalton mi guarda e non mi piace come mi sta guardando perché di solito mi guarda il meno possibile; ci ho fatto caso. «Nathalie, io ho venticinque anni.»
Hugo alza il braccio che ho spinto via dal mio fianco. «Ventuno.» dichiara, poi indica Aaron. «Ventitré.» passa ad un ragazzo della seconda cella maschile, credo un certo Bruce perché è l’unico col quale vedo Aaron e Hugo parlare, ogni tanto. «Diciannove.» fa per enumerare qualcun altro, ma ci ripensa sul momento e scolla le spalle. «Sarete in due o tre ad essere minorenni, qui.»
«Ma…» mi rivolgo a Dalton perché ho bisogno di certezze. «Questo significa che dovrete prestare servizio militare.»
«Non è un mio problema. Non sono cittadino americano.»
«Perfetto.» annuisce Aaron. «Noi fottuti sfigati ci accontenteremo di disertare in tutta vergogna ed emigrare in Kazakistan.»
Dalton fa sobbalzare un sopracciglio, prima di riportarlo in linea piana e parlare senza guardare nessuno in particolare. «Prima assicurati di sapere con certezza con chi deciderà di allearsi il Kazakistan.» 
«Oh, ho controllato» sorride ed indica i reparti della biblioteca alle sue spalle, chiaramente si riferisce ad una o due sezioni in particolare, probabilmente quella di geografia o quella di storia, ma il suo cenno è vago fino a comprenderle tutte quante. «E ci sono solo un paio di libri che ne parlano. È un posto… diciamo che non se lo caga nessuno. Lo si usa solo per fare paragoni geografici quando l’Uganda fa poco effetto.»
«Dove diavolo è il Kazakistan?» chiede Bruce.
Aaron si pronuncia in una smorfia soddisfatta. «Ecco, appunto.»
So che Bruce ha confidenza con Aaron, ancor di più con Hugo; ma non mi risulta che ne abbia con Dalton, quindi non ho un pensiero relativo sul suo conto tranne che è bravo a comparire e scomparire: siamo dodici detenuti ed io lo noto solo per associazione a due delle cinque persone con cui mi ritengo essere in confidenza; non so vederlo quando è solo o nel suo ambiente, con quelli con cui ritiene lui di essere in confidenza, nonché Noah e Dominc, i due con cui condivide la seconda cella maschile. Noah è chiaramente elastico, flessibile, duttile – ho visto le sue improvvisazioni e ho sentito quali parole ne sono comportate dopo averci condiviso il tavolo al Refettorio per una sola colazione. Dominic è la prosopopea dello schiaffo in faccia, dopo una conversazione chiusa, con tanto di testimoni, ne sono uscita con metà delle calorie bruciate e metà delle convezioni sulle quali edificavo la mia stessa esistenza distrutte; soprattutto, le ha distrutte non per mezzo delle sue risposte, ma delle mie domande.
Tra la prima cella maschile e quella femminile stiamo organizzando una fuga; mi chiedo che accada nelle seconde celle, mentre noi “ci ergiamo a capitani dell’arrembaggio”.
«Lo sai, vero, che il Kazakistan confina a nord con la Russia?» Dalton è tornato a fare i suoi calcoli, un modo immediato e preciso, direi scientifico di ignorare consapevolmente Aaron; è Hugo a tentare di rimediare. «E che la Russia è in campo a combattere la guerra che per prima ha dichiarato?»
«Cosa ti fa credere che non siano gli Stati Uniti ad averla dichiarata?» è Emma, crede ancora che la guerra possa essere faccenda di ripensamenti. Mi estrometto dalla discussione allontanando un poco la sedia dal tavolo ed incrociando le braccia; lo giuro, Dominic ha sorriso nel vedermi farlo.
«Perché ho detto dichiarata e non provocata.»
 
Ho passato le ultime discussioni di strategia militare tra Aaron, Hugo ed Alicia a cercare di elaborare io stessa una strategia per avvicinare Dalton, anche se sono sempre io ad avvicinarmi per prima, sempre io ad avvicinarmi di più. Ho bisogno dell’occasione in cui siamo solo io e lui e tutti i compromessi che comporta l’essere, l'esserci solo io e lui – e nessun altro, nessuno in più ad alterare i calcoli che sta portando avanti lui e che io sto cercando di riprendere dove mi sono fermata quando l’espressione aveva rivelato più di un’incognita ed io non detenevo e non detengo i mezzi per manipolarla; ho bisogno dell'occasione per essere, esserci solo io, lui, compromessi, calcoli, incognite e nessuno d’intralcio come chiunque altro può esserlo. Come sono stati d’intralcio Hugo ed Aaron, a volte; come lo sono stati Dominic e Noah, oggi; come lo sono i dubbi, sempre. Ma i dubbi sono serpenti a doppia coda e senza una testa da mozzare che, invidiosi di non averne alcuna, s’insidiano nella mia di testa e ne fanno tana, ne fanno dimora e la curano ed arredano a proprio piacimento. Ma non so adattarmi, abbinarmi agli arredi; non so trovare io stessa dimora nella mia testa, dove sono solo ospite, forse prigioniera, tanto quanto lo sono al di fuori, in questo posto, dove i serpenti mi seguono ed assumono la forma dei miei dubbi, facendosi bastare l’arredo di un camice da prigioniero.
Dominic è un serpente silenzioso, Noah ancor di più – e, a gusto d’eccezione, una testa ce l’hanno eccome. Quindi elaborare strategie destinate a fallire è sottovalutare consapevolmente la loro intelligenza e sopravvalutare la mia furbizia ai danni della mia stessa intelligenza. Le occasioni sono di circostanza, sono caso, sono – appunto – strategia; altrimenti vanno create.
«Dalton, voglio parlarti.»
È la stessa spiegazione che mi sono data per la fuga: è un’occasione creata perché non ce n’è alcun altra.
Noah allunga il viso in un’espressività dilatata e confidenziale, quasi d’approvazione – ma distolgo immediatamente l’attenzione dalla sua reazione perché era pronta per essere vista e valutata, considerata; perché Noah ha un modo esasperatamente consapevole di comunicare per negazione e rinnegamento: parla per antitesi e contrari, nega di averlo fatto, infine se ne esce col silenzio del testimone non presente o del colpevole infermo. Dominic sposta la sedia per lasciarmi passare perché tra la sua e la mia era rimasto poco spazio dal confronto di qualche minuto prima, poco spazio pressato da tutta l’anidride carbonica che ha sospirato contro le mie mancanze e le mie presunzioni. Aaron non dice e non fa nulla, ma Hugo mi guarda e domanda che succede con un’inclinazione goniometrica assurdamente precisa del capo. Forse sarebbe meglio se ricambiassi con un cenno, ma non voglio rassicurarlo con un gesto finto che non saprei riconoscere nemmeno sul volto di mia madre. Basta offendere le intelligenze.
Dalton si alza solo dopo che ho sorpassato il tavolo, mi raggiunge quando ormai sono avanzata oltre il secondo colonnato degli scaffali e mi sto sedendo per terra. Temporeggio altrettanto anche io ed aspetto dopo che si è seduto di fronte a me, aspetto ancora e lo osservo guardare ovunque che verso di me – come sempre.
Cerco tutto ciò che c’è di venticinquenne nel suo aspetto ed è il mio modo di ridarmi lo schiaffo in faccia che Dominic mi ha inflitto a parole.
«Venticinque anni.» lo dico perché l’ultima intelligenza che offenderei è quella di Dalton. «Quando pensavi di dirmelo?» ma parlo scontrosa perché la penultima che offenderei mai è la mia.
«Quando l’avresti chiesto.»
Apro bene gli occhi. «Quindi se non fosse stato per un completo sconosciuto della seconda cella nemmeno l’avrei mai saputo?»
«È fondamentale… Nathalie?» si trascina in pausa il suono vocale, prima di inarcarlo fino alla consonante del mio nome che si prende di nuovo tutto il tempo per scandire.
«Lo è, Dalton.»
«Allora perché non l’hai chiesto, Nathalie?»
 
Mio fratello una volta ha picchiato un ragazzo del quartiere con la mazza che mio padre aveva appesa sulla parete del soggiorno. E, perfino lui, si era preso tutto il tempo per farlo: era andato fino a casa, aveva preso la mazza ed era ritornato – poi l’ha picchiato. Elizar era un nostro vicino di casa ed io giocavo con le sue cugine fuori, sul marciapiede davanti al loro portone – era tardo pomeriggio e mia madre urlava dalla finestra della cucina ad Aleksej di riportarmi a casa, ma lui mi aveva detto che potevo rimanere un altro po’; io tenevo un’estremità dell’elastico attorno alle caviglie, Tatiana teneva l’altra e Yulya saltava – dopo sarebbe toccato a me e volevo fare bella figura perché Aleksej mi guardava, stavo addirittura pensando di dire a Tatiana e Yulya di alzare l’elastico fino alle ginocchia per mostrargli quanto in alto sapevo saltare. Nemmeno col senno di poi mi spiego perché Elizar fu tanto idiota, o semplicemente tanto disgraziato, da fare commenti sul mio albinismo proprio quel tardo pomeriggio – il suo errore primario fu quello di dirmi che era una malattia: la mamma diceva che era una caratteristica di famiglia ed io l’avevo sempre recepita come una sorta di eredità, chiaramente ero troppo piccola per farmi domande sulle anomalie genetiche, ma Elizar la mise in questi termini, aggiungendo che era a causa del fatto che i miei genitori sono cugini di secondo grado, ma che non era grave perché da grande avrei potuto tingermi capelli e sopracciglia. Toccò a me saltare la corda ed invece di farlo, mi misi a piangere. E piansi così tanto che quando smisi ero già sotto la doccia, con Aleskej che origliava dalla finestra del bagno la mamma scusarsi con la zia di Elizar ed io che smettevo all’improvviso di singhiozzare solo per chiedergli di chiudere la finestra perché entrava vento ed io avevo freddo.
Quando sia Aleskej che Elizar sono partiti per l’Accademia, anni dopo, io e Tatiana ne abbiamo riparlato più volte e in una di queste lei si è permessa di chiedermi perché avevo pianto così tanto, mi ha chiesto se l’avessi fatto di proposito perché sapevo quale sarebbe stata la reazione di Aleksej – risposi di no, poi dissi di sì e lei cambiò argomento.
Eppure io non avevo mentito: non avevo pianto di proposito, ma sapevo, certo che lo sapevo, quale sarebbe stata la reazione di Aleksej.
Mi è venuto in mente quando Dominic ha messo la mano sul mio ginocchio, quello sinistro – è stato il secondo schiaffo da parte sua.
 
«Non posso rispondere alle domande che non mi poni, Nathalie.»
«No.» certo che no. «Lasci che lo facciano gli altri.»
«Dunque, Nathalie, non chiedere loro nulla.» Il suo rimarcare il mio nome è aggressivo, non nel tono o nella pronuncia, ma nella ripetizione stessa – ne sento l’aggressività perché so che Dalton non è figurativo nel linguaggio; è corretto. «Altrimenti assicurati di fare le domande giuste, senza lasciartele suggerire dagli altri.»
«Ho questa… sensazione.» cerco di non deglutire per non sembrare spaventata perché non lo sono; sono solo turbata. «Mi sembra che nascondano qualcosa…»
«Ed è sicuramente così.» replica immediatamente, stizzito – a proposito di intelligenze da non offendere.
Alzo le sopracciglia e so di starlo guardando con troppa indignazione. «E non pensi che dovremmo reagire?»
Fa una pausa, non risponde subito. «Nathalie, ricordi quello che ha detto Emma, quella volta?»
Quella volta? Quale volta? Quella volta è un concetto troppo indeterminato per Dalton – ma non glielo dico perché deve essere stato l’unico caso in cui ha mai preso in considerazione le parole di Emma.
«Si era lamentata delle telecamere. Aveva detto che la metteva a disagio il fatto che ce ne fossero dappertutto.»
Annuisco. «Sì, tu l’hai corretta. Hai detto che non è vero che sono dappertutto.» me lo ricordo, avevo passato l’intera serata a chiedermi se ci fossero spazi ciechi, bendati, neri – in cui posso essere sola, solo io, solo me; senza la vergogna che può infondere l’occhio dell’altro.
«Le telecamere di sorveglianza non sono dappertutto. Sono in ogni angolo. Ogni angolo.» assume un’espressione alla quale mi sono dolcemente assuefatta perché è la stessa che veste quando spiega qualcosa; sono i pochi momenti in cui mi sembra che Dalton sia presente con me – mentre mi parla, lo guardo e lui guarda da un’altra parte. «Lo sai questo cosa significa?»
«Non proprio.» la trepidazione del momento mi incute quel poco di audacia per metterla sull’ironico.
Guarda un punto fisso e non distoglie gli occhi; mi concentro e fingo di essere quel punto. «Se ti dicessi che la ripresa da ogni angolo non solo copre tutte le prospettive di un area geometrica, ma permette anche di crearne una riproduzione accurata di altezza, larghezza e profondità?»
«… nel senso che da qualche parte ci sono modellini e bambole che dovrebbero… rappresentarci?»
«Beh, così suona perverso.» sorride. «La riproduzione è certamente su scala, ma loro non ci osservano dietro uno schermo, lo fanno al di là di una proiezione a tre dimensioni.»
Mi porto una mano alla fronte e per un po’ la tengo lì: a me suona perverso anche così. «È assurdo.»
«Oh, no. È ingegnoso.» mi corregge. «Certo, a nostro danno, ma ingegnoso. Ti sei mai chiesta, ad esempio, perché i tavoli del refettorio sono triangolari?»
«Certo che no.» Io pensavo che fossero solo scelte edilizie alternative. «Nessuno se l’è chiesto.» tranne lui, chiaramente, ma il mio problema con le domande giuste e le domande sbagliate è primario, questo l’ho capito.
«Allora, adesso sai cosa significa?» Torno a guardarlo ed è serio, risoluto, oserei dire tempestivo – è all’erta sul posto: sta per agire.
Mi scappa una risatina tremante nello sbuffo che emetto. «Che non c’è nulla che possiamo fare senza che non lo sappiano dettagliatamente? Questo dovrebbe in un qualche modo… rassicurarmi?»
Dalton si passa la lingua sulle labbra e sporge un poco verso di me. «Concentrati, Nathalie. Ciò che dovrebbe rassicurati è avere gli stessi limiti degli altri, equamente. Sapere che ciò che ti impedisce di agire in un modo o nell’altro, vincola anche loro. Sapere che ciò che ti…» s’interrompe e guarda vicino alla mia treccia, forse la mia spalla – è la parte più vicina a me nella quale ha fermato lo sguardo, ma mi basta. «Ciò che ti impedisce di parlare in un modo o nell’altro, o del tutto, impedisce e continuerà ad impedire anche loro a farlo.»
Trattengo l’aria in petto tutt’un tratto. «Che cosa?»
«Avanti.» scuote il capo. «Piazzano una telecamera sul fondo del gabinetto e pensavi che non avrebbero messo delle cimici?»
Mi fischiano le orecchie. «Ma se sentono tutto ciò che diciamo… Dalton, il piano. Tutto quanto. Sanno tutto.»
«Eppure siamo qui a parlarne.»
«Ce lo impediranno.» Credo di non star delirando solo perché lui è pacato; una parte estremamente sadica e masochista di me vorrebbe che Dominic sia di nuovo alla mia sinistra, a suggerirmi le domande da fargli.
«Oh, per favore. L’avrebbero già fatto.»
«D’accordo.» acconsento solo perché l’ironia è un’arma a doppio taglio ed è il mio unico modo per toccarlo: violentemente e a parole, e solo dopo aver inflitto la stessa violenza a me stessa. «Quindi vedono tutto ciò che facciamo, ascoltano tutto ciò che diciamo e... Spiegami come facciamo a portare avanti un piano di fuga da questo dannato posto, se sono sempre a pari passo con noi.»
Sento urla oltre i tre scaffali che ci dividono dal tavolo centrale della biblioteca, seguono due tonfi, prima della confusione e delle grida: mi permetto di spiare e vedo la sagoma di Hugo avventarsi contro quella di Aaron, poi divise dal braccio di Black. Dalton sta già agendo.
«Per una volta, solo questa volta, voglio essere poetico… diciamo, solo perché è fondamentalmente corretto.» si alza in piedi. «Sai qual è la differenza tra noi e la nostra ombra?»
Torno a guardare oltre gli scaffali Hugo che aggredisce Aaron, poi ancora Dalton che cerca di dirmi quello che deve dirmi senza dirlo davvero.
«Noi possiamo splendere.»
Lancio un’altra occhiata che dura il secondo di pausa che Dalton si prende tra una frase e l’altra: il militare Black ammanetta Hugo, mentre Andersen è chinato sul volto sanguinante di Aaron. Mi correggo: Dalton stava già agendo.
«Il mio indizio è questo, Nathalie: splendi. Sii straordinaria e splendi, perché più tu splendi, più è buia la tua ombra.»
                                                                                                                                                  
 
Tossisco più forte di quanto sia necessario – e non è affatto necessario.
Il tessuto del camice bianco sta aderendo troppo al mio petto e al collo, credo di star sudando – vorrei strapparlo via, toglierlo; vorrei tenermi la testa tra le mani prima ed immergerla nell’acqua ghiacciata subito dopo.
Lui mi sta parlando – ora mi guarda anche. Mi parla, mi guarda e non so respirare. È irritato, Dalton quando s’arrabbia si irrita.
«… le gambe, dannazione.»
Mi ha chiesto di sdraiarmi e tirare su le gambe, l’avranno sentito tutti, ma io no, ho solo capito dopo un po’ – però non le alzo a causa della nausea. Al contrario, giro sul posto e gli volto le spalle perché inizio ad avvertire i primi conati, ma come aveva evidentemente previsto lui, non è una buona idea perché oltre all’udito s’inibisce anche la vista ed è come cadere, cadere ininterrottamente, pur restando ferma.
Non appena mi ritorna il tatto, torna lentamente anche l’orientamento, quindi mi rendo conto di essere sdraiata supina; mi ricordo che un secondo prima non lo ero e provo ad aprire gli occhi per capire cosa può essere successo tra il secondo in cui ero in ginocchio e quello successivo in cui mi ritrovo stesa sul pavimento. Dalton è in piedi e mi guarda: ha le mani inclinate all’indietro, sull’attenti. Chiudo immediatamente gli occhi di nuovo per darmi una tregua e risparmiare forza per respirare e per riaprirli – questo mi permette di pensare e mi rendo conto che lui teneva le mani in mostra per provare di non avermi toccata. Allora, capisco che la fonte del dolore al fianco è stato il calcio col quale mi ha rigirata, costringendomi a sdraiarmi.
Quando riacquisto l’udito, la voce di Black ha sostituito quella di Dalton. Chiede se riesco ad alzarmi e mi tocca il polso.
Cerco di rispondere, ma quando finalmente ci riesco lui mi ha già presa in braccio. Glielo dico lo stesso, gli dico che riesco a camminare; lui mi dice di stare zitta.
Non sono proprio in una posizione comoda, ho la sua spalla destra conficcata nell’addome, ma stare a testa in giù mi aiuta a riprendermi. Inizio a capire meglio quel che sta succedendo: ci stiamo dirigendo verso l’infermeria, sento Black accennarne tra le lamentele riguardo il mio peso ed le promesse di chiudere Hugo in cella di detenzione per giorni e notti; davanti a noi Matt sta aprendo le porte lungo il corridoio centrale ed Aaron è ammanettato al suo fianco.
Arriviamo immediatamente, Black mi scarica sul primo lettino ed esce con la promessa di pestare Hugo, Andersen si ferma poco più, giusto il tempo di dirci di aspettare l’infermiera e di passare la borsa di ghiaccio ad Aaron, prima di sigillare la porta e seguire compagno. In realtà non c’è una vera infermiera, è una detenuta della seconda cella femminile ad occuparsene – probabilmente sono tornati a prendere lei.
Aaron conta fino a cinque, una pausa per ogni due passi del militare, e ci alziamo nello stesso istante.
Lui corre verso l’entrata e mi fa un cenno ancor prima di aver spiato dalla finestrella trasparente della porta; io raggiungo i primi cassetti ed inizio ad aprirli e frugare: garze a rete e cotone, chiudo il cassetto; cerotti, ne prendo un paio di tre misure diverse; siringhe, ne afferro diverse e troppo velocemente per far caso alle dimensioni. Mi sposto nella scrivania centrale, ma trovo solo fascicoli, fermacarte, spillatrice, penne; sfoglio qualche fascicolo, ma sono solo fogli bianchi. A questo punto vado direttamente nell’armadietto dei medicinali e provo ad aprirlo.
«È bloccato.» le ante non si schiudono di mezzo millimetro. «Aaron, non si apre, che faccio?» c’è una casella con dei tasti enumerati, probabilmente bisogna inserire un codice di sblocco.
«Vieni qui.» mi dice. «Controlla l’angolo in fondo al corridoio.»
Sostituisco la sua postazione, ma mi distraggo nel guardarlo prendere l’estintore appeso al muro e schiantarlo ripetutamente contro il vetro dell’armadietto fino a quando non crolla tutta la lastra di cristallo. Prima di darmi il cambio, strappa bruscamente il lenzuolo dal lettino sul quale mi aveva lasciata Black e lo mette sopra le schegge di vetro per terra e solo in quel momento mi ricordo che siamo a piedi nudi. Torno dov’ero senza parlare, lo spazio lasciato dalla lastra mi permette di inserire il braccio e raggiungere a tentoni almeno tre mensole, perciò inizio ad afferrare alla cieca medicinali ed estrarli per leggerli. I disinfettanti sono i primi che trovo e ne prendo tre bottigliette, poi ne afferro una quarta in modo da dividerle con Aaron, ma non ne trovo altre; scarto una serie di sciroppi, alcuni inalatori, ma ne prendo uno asmatico e non so perché; ci sono anche compresse e mi permetto di metterne da parte alcune antidolorifiche perché non trovo la morfina. Aaron mi domanda se ho finito e non rispondo perché manca l’adrenalina – e Dalton non aveva parlato davanti a lui – ma non c’è altro nell’armadietto a parte una pila di soluzioni rettali di cui non ho immediata intenzione di sperimentarne la cura. Lo sento imprecare, dice che qualcuno sta arrivando; si allontana dalla porta ed afferra le prime bottigliette di disinfettante, le nasconde nel pantaloncino igienico che indossiamo assieme alla casacca, ma non esprimo alcun disgusto, piuttosto temo che se ne accorgano vedendoci camminare come se avessimo un cactus in mezzo alle gambe. Gli elastici al posto dei bordi impediscono alle bottigliette di cadere, ma non appena si muove per afferrare le Siringhe, noto immediatamente che, invece di camminare, zoppica.
«Che cosa manca?» scuoto il capo perché persino un miope scorgerebbe la gonfiatura e non rispondo.
Frugo in alcune mensole sotto i lettini, ma trovo solo termometri, uno di mercurio e l’altro ancora nella scatola, ci sono antibiotici, alcune compresse in contenitori trasparenti. Aaron mi dice di lasciare stare, mi passa quello che è rimasto e mi sollecita a muovermi a nasconderlo – lo faccio solo quando sento i passi lungo il corridoio ormai adiacenti al muro che ci divide.
Aaron mi spinge per scuotermi. «Dimmi che cosa manca.»
Mi lascio spingere, ma continuo a cercare con lo sguardo.
«Il kit di pronto soccorso.» dice dopo un po’. «L’adrenalina è nel kit di pronto soccorso.»
Mi volta le spalle e cerca di nascondere il gonfiore dei disinfettanti nel pantaloncino, ma riesce a farmi un cenno per indicarmi dove trovarlo. Non mi fermo per chiedermi o chiedergli alcunché.
Il kit è appeso in alto perciò spingo il letto centrale e ci salgo per raggiungerlo. Non ha codici o chiavi, lo apro immediatamente e, oltre all’iniettore d’adrenalina, trovo anche la morfina e quello che spero sia un narcotico. Tuttavia lo stridere del letto contro il pavimento ha prodotto un rumore tale che i passi nel corridoio sono accelerati in corsa e, quando la porta viene aperta, io sto ancora nascondendo l’iniettore.
Aaron si piega immediatamente sulle gambe, fingendo di non riuscire a reggersi in piedi, ma io non ho alcun diversivo e, oltretutto, essere in piedi a quasi un metro d’altezza è incredibilmente sconveniente – questo per non contare il fatto che quando Black spunta oltre la soglia e ci sta già urlando contro, io ho ancora la mano dentro il pantaloncino.
«Che cosa fai?» si lascia alle spalle Aaron e l’armadietto del farmaci col vetro palesemente rotto. «Cosa stai facendo?» mi chiede.
Mentre urlava ho fatto in tempo ad estrarre la mano, ma la velocità è relativa non solo allo spazio percorso dalla mia mano, ma anche al tempo che ha impiegato. E Black è in ottima posizione nella classifica delle intelligenze da non offendere.
«D’accordo.» si ferma al centro della stanza, o almeno dalla mia prospettiva sembra essere il centro. «Ora mi dici cosa stai facendo.»
 
Una delle prime volte che avevo parlato con Dalton eravamo in palestra ed io ero sdraiata sulle gambe di Lily mentre lei mi faceva delle treccine ai capelli. Lui si era fermato vicino a noi all’improvviso e mi aveva detto di alzarmi lentamente perché altrimenti mi sarebbe girata la testa e sarei con buona probabilità svenuta. Aveva ragione, non avevo mangiato granché a colazione perché avevo dato i miei biscotti a Lily e non mi sentivo in piene forze effettivamente.
Quella volta ho ascoltato il suo consiglio, oggi ne ho tratto profitto. Mi sono alzata bruscamente ed il resto l’hanno fatto l’ipoglicemia e la bassa pressione, questo ha fatto sì che fosse possibile il mio trasferimento in infermeria; così come la rissa tra Hugo ed Aaron ha permesso al primo di finire in cella di detenzione e al secondo di raggiungermi. Come stabilito.
Dalton aveva dovuto parlare per apostrofi, ma io l’avevo capito dalla tranquillità con la quale mi aveva detto delle cimici dove sarebbe andato a parare. Certo vedevano quello che facevamo e sentivano quello che dicevamo, certo ci sorvegliavano nonostante non fossimo una priorità, certo lo stato di emergenza militare poteva distrarli solo fino ad un certo punto; ma dalla nostra avevamo ironie ed equivoci – e quindi l’effetto a sorpresa del non detto.
L’unico modo che abbiamo per sorpassare chi procede a pari passo con noi è contare sull’imprevisto ed esserlo. Una sorta di riscrittura del finale lieto o tragico, in finale a sorpresa.
 
E Black a suo modo è una sorta di finale a sorpresa – solo più sorpresa che finale.
Aaron dice di non sentirsi bene, chiede dov’è l’infermiera, lo chiede un’altra volta; Black non lo ascolta. In fretta si guarda attorno, soffermandosi sull’armadio, sul vetro rotto per terra e coperto con il lenzuolo del letto sopra il quale sono ancora bloccata, sui cassetti non chiusi bene e l’estintore sulla scrivania.
«Hai trovato quello che cercavi?» domanda ed annuisce immediatamente dopo. «Suppongo di sì.»
Cerco di scendere, non appena comprendo che si sta avvicinando, ma riesco solo ad abbassarmi sulle ginocchia prima che lui cerchi la calibro 38 e mi minacci con un ticchettio dentale di diniego.
«Che cosa hai preso? Me lo fai vedere, sì?»
Inizio a sudare di nuovo e il camice torna a farsi stretto, colloso e tremendamente asfissiante. Cerco Aaron oltre le spalle del militare e lui mi sta già scuotendo il capo, solo che non so che cosa significhi.
«Mostrami cos’è.» bisbiglia ed io mi rendo conto che ha raggiunto il raggio di vicinanza sufficiente da permettersi di poter bisbigliare.
Mi rendo conto che sto ansimando e non so come evitarlo. «Non è niente.»
È così che estrae una volta per tutte la pistola. «Devi mostrarmi quello che hai nascosto, lo hai capito questo?» appoggia la volata contro la mia pancia, vicino all’ombelico, tanto che sento il mirino solleticarmi. «Perché altrimenti dovrò prenderlo da solo.»
«No.» dico frettolosamente. «Davvero, non ho nulla. Non ho niente. Lo giuro.»
«Ah, lo giuri?» Sposta la pistola contro il mio fianco e ne percepisco il metallo freddo scivolare lungo il mio addome. «D’accordo, allora se lo giuri ti credo.» tira su il mio camice, prima che riesca a fermare la sua mano con entrambe le mie.
Aaron ha rinunciato alla messa in scena del dolore alle gambe e si è alzato in piedi. «Senti, amico, parliamone...»
Black afferra la quarta bottiglia di disinfettante liquido che avrei dovuto nascondere io e gliela scaglia contro. «Tu lo sai cos’ha nascosto, per caso?»
Non mi pento di sobbalzare nel sentirlo urlare dopo aver continuamente bisbigliato solo perché sobbalza anche Aaron.
«Hai ragione, io ho preso una cosa, è vero.» non parlo più, ma balbetto. «Hai ragione, l’ho presa e ti dico cos’è, va bene? Te lo dico davvero, solo per favore…»
La sua sinistra s’intrufola sotto l’elastico del pantaloncino ed urlo.
«No, ti prego, te lo dico, no… è un test di gravidanza.» sono un poco piegata quanto me lo consente la sua figura contro la mia perché la vergogna non mi permette di guardarlo in faccia e perché sto afferrando la sua mano attorno alle mie come posso. «È per Emma, ha un ritardo, mi ha chiesto di prenderglielo, io non volevo disordinare, ma non lo trovavo. Sistemerò tutto quanto, lo farò, ti prego…» l’iniettore di adrenalina preme contro il mio inguine e non so come muovermi per allontanarlo – io stessa non so come allontanarmi.
«Un test di gravidanza nel kit di pronto soccorso, sul serio?» la sua mano cerca alla cieca ed mi proteggo come posso con le mie e piegandomi sempre più su me stessa.
«Matt, che tu sappia, Emma Peterson è in gravidanza?» la vergogna mi tiene chiusa contro me stessa e non riesco a cercare la figura di Andersen, mi chiedo solo da quanto sia lì.
«Non… non lo so.»
La mano si fa all’improvviso meno insistente, le uniche dita che sento sono le mie chiuse in scudo. «Non lo sai?» si volta e la pistola sul mio fianco si allontana un poco con lui. «Nel senso che potrebbe?»
Andersen non risponde e Black si sposta quanto gli basta per darmi le spalle.
«Non lo stai dicendo sul serio, non l’hai fatto davvero…» il resto non lo sento perché cerco un equilibrio interno che non mi concedo, mentre nascondo meglio che posso i narcotici e la morfina. Scendo dal letto e mi allontano il più possibile dalla discussione tra i due militari. Aaron mi suggerisce di rimanere ferma con un cenno e mi appoggio al muro sul lato e alla scrivania di dietro. Con lo sguardo gli indico l’ultimo disinfettante, quello col quale Black lo ha colpito, e lui scuote il capo. Gli trema un ginocchio, trema violentemente – non fingeva il dolore alle gambe. Mi paralizza aver dato per scontato che Hugo avrebbe solamente finto di fargli del male.
Mi guardo le mani e le pulisco contro il camice. Cerco di deglutire, ma non ci riesco. Possibile che il finale a sorpresa sia questo? Hugo punito in isolamento, a digiuno e probabilmente manganellato, il ginocchio slogato di Aaron, il suo naso sporco di sangue, le mani di uno sconosciuto sporche di me, le mie mani sporche di me e di uno sconosciuto? Come faccio a splendere, Dalton? Come faccio a sorpassare la mia ombra e splendere in vergogna?
C’è silenzio quando mi rendo conto che Andersen sta di nuovo ammanettando Aaron. Scrollo il capo per riscuotermi e noto che Black mi sta indicando qualcosa.
Le manette sul letto, mi dice di metterle da sola. Lo faccio prima che cambi idea, stringendo bene attorno ai polsi.
Andersen ci informa che saltiamo il pranzo, dice che ci riportano in cella finché non viene sistemata l’infermeria; entro il pomeriggio, promette.
Passiamo davanti alla biblioteca, dove gli altri si stanno disponendo in fila indiana per avviarsi verso il refettorio, e vorrei fermarmi a cercare Dalton affinché parlargli possa ripristinare il finale a sorpresa in finale tragico; ma cammino dritto finché Black mi concede il lusso di farlo per ultima – non voglio essere guardata, ora, non voglio occhi sulla schiena.
Aaron raggiunge il primo letto, quello di Hugo e si stende a faccia in giù ancor prima che Andersen chiuda i cancelli alle sue spalle. Mi toglie lui le manette, mentre Black codifica l’accesso alla prima cella femminile ed io mi prendo un istante per guardare Aaron interrogativa. E non so precisamente cosa gli sto domandando – se gli fa troppo male la gamba, se tutto ciò ha senso e riesce a rientrare nei piano di Dalton, dove nascondere ciò che abbiamo preso dato che non ci sono barriere architettoniche tra gli spazi interni delle celle, se ha senso nascondere effettivamente, qual è la prossima mossa – che sta succedendo. Anche se Black ci mette un po’ troppo ad aprire i cancelli, l’altro militare mi sollecita a muovermi e non appena le sbarre scorrono quanto mi basta per passarci, entro immediatamente.
Li sento mettersi d’accordo su certe dinamiche, lo fanno a bassa voce, ma un paio di nomi li colgo: uno dei due è quello di Emma e questo spiega la fretta di Andersen. Una volta mi confortava la sua presenza a sfocare la nitidezza che aveva quella di Black – ora non so quanta differenza faccia, sia la sua presenza che metterla in termini di sfocature e nitidezze.
«Ho bisogno di un momento.» volevo aspettare che la cella fosse chiusa, prima di chiedere un po’ di intimità o alcunché d’altro, ma decido di farlo prima finché è ancora distratto a trasfondere codici ed impronte.
Faccio in tempo a raggiungere il bagno quando mi risponde. «Dieci secondi.»
Li conto a mente mentre mi tolgo il pantaloncino igienico, vorrei lavarmi, ma aver già raggiunto il settimo secondo, mi aiuta a dissuadermi da qualunque impulso; invece di buttare il pantaloncino nel cesto, lo nascondo nella pila di quelli nuovi, da cui ne pesco uno e me lo metto in fretta. Quelli che Black mi concede sono quindici minuti in realtà, mi dà le spalle cinque secondi in più ed io trovo l’avventatezza necessaria a ripescare uno dei due narcotici e l’iniettore di adrenalina e li nascondo nel pantaloncino pulito che ho indossato; quando scadono i quindici secondi, sto fingendo di lavarmi le mani e quando si volta, il sedicesimo, me le sto lavando davvero.
«Hai finito?»
Torno al centro della cella senza asciugarmi le mani e noto che è ancora aperta. «Che c’è?» perché non l’ha ancora chiusa?
«Esci.»
I cancelli sono spalancati. «No.»
«Esci fuori.»
Scorgo Aaron ora seduto sul letto di Hugo, ma la prima cella maschile è chiusa.
«Sono stanca, voglio dormire.»
«Devi uscire fuori.»
È in piedi sulla soglia, ma si allontana quando la sto per superare e, quando lo faccio del tutto, poggia la sua mano contro il lettore tattile e la cella si chiude, questa volta immediatamente.
Aaron è in piedi su una sola gamba ora e lo guarda, forse lo chiama anche, gli dice qualcosa – non sento nulla.
«…zzina, lascia stare.» questo è ciò che mi raggiunge della voce di Aaron quando deglutisco la seconda delle volte e mi concentro per ascoltare.
Non mi è mai successo di ritrovarmi fuori dalla cella senza manette ed è come perdere l’equilibrio, ma lo seguo. Aaron mi sta sussurrando qualcosa, a me questa volta – fa’ quello che ti dice, Nathalie, credo dica questo. Non sa che un narcotico nascosto; annuisco e seguo Black.
Mi permette di camminare alle sue spalle fino a quando non raggiungiamo il termine del corridoio, nel lato opposto – quello in cui non sono mai stata; poi torna dietro di me e mi comanda di svoltare a destra. Imbocchiamo un corridoio a senso unico che dà su un muro, come una sorta di vicolo cieco, ma lui non mi dà altre indicazioni ed io non mi fermo.
 Compare nella mia visuale e tocca qualcosa. Si schiudono due porte: un ascensore. Mi dice di entrare e lo faccio, entra anche lui.
Scorrono le due porte e l’ascensore non sale e non scende, ma scivola all’indietro – anche se non sono ammanettata, non ho dove reggermi e per poco non cado di spalle.
«Qui non ci sono telecamere.»
Mi appoggio all’angolo quadro dell’ascensore che più dista da lui.
«Non ci sono nemmeno cimici.» aggiunge ed incrocia le braccia.
«Quindi?» la velocità dell’ascensore mi costringe a tenermi con entrambe le mani contro le pareti, ma quando lo vedo sedersi, mi abbasso lentamente e mi siedo anche io.
«Ricordami quanti anni hai.»
Mi si corrugano le sopracciglia e smetto di cercare appigli a cui reggermi per incanalare le energie e costringermi a guardarlo. «Non abbastanza per te.» mi guarda fermo, mi guarda solo e decido di rispondere in fretta per velare i riferimenti ed i doppi significati di ciò che ha suggerito la mia prima risposta. «Diciassette.»
«Ne avevi diciassette quando sei entrata qui, ma ora quanti ne hai?»
Mi fermo per un po’ e non distolgo lo sguardo. «Stai cercando di dirmi qualcosa?»
Scrolla le spalle. «Voglio solo conversare.» alza una mano ed appena di poco l’altra. «Non c’è nulla di male nel cercare di conoscerci meglio.»
«Cercare di con…?» le mie sopracciglia sono ancora corrugate, riesco ad intravvedere piccoli peli bianchi spuntare in cima al mio campo visivo. «Cos’è, una specie di appuntamento?»
Ride. E c’è un intreccio assurdamente schizofrenico nella sua risata perché incomincia monocorde e leggera, ma termina pressata, quasi scivolosa perché stroncata con la forza – come se avesse incominciato a ridere per un motivo ed avesse terminato ridendo per mille altri, da una ragione ad una vita di ragioni per cui ridere.
«Cosa credevi avessi intenzione di fare?» usa un tono classicheggiante – spinge le parole attraverso la mezzaluna di sorriso che si potrebbe circoscrivere come amichevole, ma io so che non lo è.
«Rinchiudermi in tre metri quadrati isolati da tutto e tutti dopo aver ficcato le mani in mezzo alle mie gambe limita le possibili intenzioni di un medio maschio adulto, lo sai?»
Non sorride come poco prima, lo fa in modo diverso. «Facevo…»
«Non dirmi di aver fatto il tuo dovere o il tuo lavoro.» lo tronco – se questo è il finale a sorpresa, se Black che si scusa è il finale a sorpresa, che lo faccia come si deve, come mi sto sforzando di sopravvivere io: senza offendere le intelligenze.
«Avrei potuto farti spogliare, senza perdere ulteriore tempo.»
«Non ho problemi col mio corpo.» questa volta tocca a me scrollare le spalle. «Ho problemi quando il mio corpo viene toccato senza il mio consenso.»
Piega la testa di lato e torna a sorridere – è un’immagine che mi costringe a distogliere lo sguardo per un momento. «Sì, ma in tal caso avrei dovuto prendere ciò che stavi nascondendo e anche ciò che stava nascondendo il tuo amico.»
Aaron non è mio amico, ma evito di specificarlo. «Pensi debba ringraziarti?»
«No.» arriccia il naso e, quasi, sospira. «Forse dovresti ringraziare il mio egoismo.»
Non rispondo. Da una parte non ho una variante convincente all’evitare di ringraziare qualunque aspetto della sua persona, dall’altra mi prendo una pausa per considerare come controbattere a mio vantaggio – Dalton aveva detto che se Black ha qualcosa da dire è il caso di ascoltarlo, ma mi ha anche ammonito di essere protagonista delle domande da porre e non lasciarmele suggerire.
La velocità dell’ascensore inizia a farmi girare la testa, non capisco più in quale direzione sta andando. Mi porto le mani sugli occhi.
«Che cosa vuoi, Black?»
«Parlare soltanto.»
E la situazione è paradossalmente ironica perché entrambi sappiamo che questo era il migliore dei casi – io so che è il migliore dei finali a sorpresa che potessi pretendere.
Tengo le mani sugli occhi e mi massaggio le tempie.
«Hai fratelli o sorelle?»
«Sorella.» risponde.
Alzo il volto e ridacchio. «Sul serio?»
«No, per finta.» risponde, aprendo le mani – ed allora rido. «È così divertente?»
«Più grande o più piccola?»
«Piccola.»
«Non la vedi da tanto?»
Fa un cenno al quale accompagna in gesto con le mani, ma è il suo modo di convertire la parola taciuta in gesto eloquente, certo, ma comunque impreciso.
Forse è un bene per quella povera creatura, crescergli lontana risarcisce quel che la genetica le ha imposto ancor prima che nascesse. «Ti manca?»
«Non mi lamento.»
Sì, decisamente è un bene per quella poveretta. «Com’è lei?»
«Una versione femminile e più piccola di me.»
Mi immagino una ragazzina con capelli neri ed occhi chiari, poi coi tratti di Black – e sto già ridendo, anche se probabilmente le sua descrizione era ironica.
«Chi dei tuoi genitori è albino?»
Incrocio le gambe, poi ci ripenso e me le porto contro il petto. «Mio padre e mia nonna materna. I miei genitori sono cugini di… terzo o quarto grado, non lo so precisamente.»
Annuisce come se la mia risposta dovesse in un qualche modo essere approvata da parte sua. «Quali materie ti piaceva studiare?»
Ci penso per un po’ prima di rispondere. «Geometria, credo. E astronomia, era uno dei corsi a scelta.»
«Cosa sai della Teoria della Relatività?» chiede, socchiudendo lo sguardo.
«Solo sentito dire.» e comunque interrogare una ragazza in fisica non è proprio il più persuasivo degli approcci, ma evito di farglielo notare. «Einstein, quarta dimensione, spaziotempo, velocità della luce, contrazione della massa…» sull’ultima ho qualche dubbio, ma suona bene e lui non mi corregge perciò non lo faccio nemmeno io.
Esita un po’ ed allora mi sembra che stia elaborando una maniera approssimativamente cortese di farmi notare che quel che ho detto non ha alcun senso, ma poi l’ascensore si blocca, all’improvviso ed è come un pugno nello stomaco, l’ennesimo nelle ultime ore, ma ne sono ugualmente grata.
«Dove hai imparato il russo?»
Mi alzo lentamente, lui mi precede. «Da nessuna parte, ho provato col tedesco e ci ho rinunciato alla seconda lezione.»
L’ascensore si apre ed esco per prima.
«C’era un cronometro.» mi giro a malavoglia e guardo il riquadro rettangolare che mi indica. James Black, leggo, A./N. M. D., le mie iniziali, un’altra serie di numeri a cui non so dar senso, e poi leggo un sette seguito da due zeri. «Siamo rimasti lì per sette minuti.»
«Direi che basta e avanza.» con tutte le gratitudini dello scampato peggio del caso, certo.
Alza le sopracciglia e sorride a bocca aperta, esitante su quanto concedersi di essere o fare – o dire. «Sono sette minuti che ti parlo in russo.» lo sussurra. «E sono sette minuti che mi rispondi in russo.»
 
Mi riporta in biblioteca e non dico una parola – non gli parlo, non mi sollecita nemmeno a farlo.
Noto per primo Andersen, che invece di essere sull’attenti, in vigilanza, è seduto piegato su se stesso, la testa tra le mani. Cerco occhi abitudinari, per primi quelli di Dalton – ma non posso far a meno di sorprendermi alla vista di Hugo ed Aaron l’uno accanto all’altro, seduti per terra giusto dietro il primo scaffale. Quando mi avvicino, scorgo anche Dalton mezzo addormentato – Hugo lo scuote più volte e mi indica.
Aaron si alza e mi viene incontro. «Dove sei stata?» mi fissa turbato, ma lo allontano. «Cos’è successo?»
«Nulla di ché, Black mi ha solo fatto qualche domanda.» io voglio parlare con Dalton, non con lui. Lo supero e mi chino su uno Hugo col labbro spaccato ed una guancia gonfia. «Ti hanno fatto uscire? Quando?»
«Ieri, dopo pranzo.» scuote il capo. «Dove sei stata tutto questo tempo?»
Anche Dominic, Noah e Bruce ci raggiungono, il primo si siede vicino a Dalton e lo aiuta ad alzarsi.
«Che diavolo succede?» da quando Dalton ha la benché minima confidenza con chiunque delle seconde celle?
«L’adrenalina.» pronuncia. «L’hai presa?»
Annuisco e non capisco come possa permettersi di parlarne davanti agli altri. «Ce l’ho qui con me.»
Questo pare riscuoterlo. «Dammela.»
Mi frugo nel pantaloncino e mi rivolgo a mio malgrado ad Aaron. «Che gli è successo?»
«I pasti.» risponde Bruce anche se mai interpellato. «Dalton sospetta che gli abbiano messo un qualche neutralizzante per l’adrenalina… o una cosa del genere, ha fatto un discorso esageratamente lungo quando l’ha spiegato. Pensa che sia probabile che fosse anche nei nostri pasti, ma in dose minore.»
Passo l’iniettore a Dalton – Aaron e Hugo riescono a coprire la visuale alla guardie. «Devo parlarti.» glielo dico, seppur gli altri siano tutti a portata d’orecchio. «Devo parlarti da solo.»
 Dalton continua a cercare di riscuotersi, ha gli occhi arrossati dal sonno, quasi non riesce ad aprirli. «Dov’è Emma?»
Guardo Aaron e mi aspetto che almeno lui abbia senso. «E che ne so io?!»
Hugo interviene, ma irresoluto ed interrotto tra le parole. «Nathalie, nessuno ti ha più vista da ieri mattina. Ed Emma stamattina non era nel suo letto, non hai visto in che stato è Andersen?»
Cerco di nuovo Aaron, anche se è l’ultimo a cui vorrei indirizzare le mie inquietudini, in questo momento e qualunque altro. «Come sarebbe a dire? Hai visto tu stesso Black portarmi via, prima.»
«No, Nathalie, Black ti ha portata via ieri mattina.»
 
Cosa sai della Teoria della Relatività?
 
Dalton si regge in piedi, ma è traballante. «Hai mangiato qualche pasto?»
Mi sembra una domanda così insensata dato lo stato della situazione che mi guardo attorno prima di rispondere. «No, non… non ho mangiato nulla dalla colazione.»
«Bene.»
Strappa il tappo dell’iniettore di adrenalina coi denti e me lo conficca nel collo. Cado a terra immediatamente, crollo sul posto, ed all’inizio sono paralizzata. Poi inizio a tremare, ma sono ancora paralizzata ed è come entrare in agonia, solo a piena coscienza psicosensoriale di quello che mi sta succedendo – una sorta di intervento senza narcosi; per qualche secondo non respiro, poi all'improvviso respiro troppo, ed il mio cuore è pura violenza sonora contro le orecchie e la pelle.
Ho un momento in cui mi osservo da lontano e vedo una cerchia attorno al mio corpo in preda alle crisi.

Cюрприз oкончание. È così che si dice finale a sorpresa in russo.
 
 









 
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So che non mi faccio vedere da troppo, troppo tempo e che chi non mi ha su Facebook non sa che fine possa aver mai fatto questa storia nella mia mente perciò mi prendo ora il tempo di spiegare il più possibile nelle note, cercando di non dilungarmi troppo.
Innanzitutto, qualche annotazione relativa strettamente al capitolo: tra gli indizi nel capitolo precedente è globalmente sfuggito il seguente
Io e Hugo c’infiliamo nella sezione di romanzi in lingua originale, dietro lo scaffale della letteratura del Settecento.” […] “Dopo un po’, prendo in mano un libro a caso ed inizio a sfogliarlo; quando però mi rendo conto che è in giapponese, lo metto subito via onde evitare figuracce. Ne cerco un altro comprensibile tra gli scaffali in basso, finché non lo trovo: una raccolta di poesie di un certo Tredjakovskij.” […] “Dalton li ignora, come ormai si è saggiamente assuefatto a fare, e mi prende dalle mani la raccolta di poesie; scorre le prime pagine corrucciato e poi mi guarda interrogativo.
Scrollo le spalle. «Non riesco a concentrarmi, ultimamente.» Abbasso la voce. «Forse leggere mi aiuterà a riordinare i pensieri.»
Mi guarda confuso e decisamente turbato. «Leggendo in una…»”
È tuttavia un indizio che questo capitolo ha squarciato, quindi non mi ci soffermo.
Un altro ancora sul quale non mi dilungherei (anche perché farlo comporterebbe rivelare e naturalmente non posso farlo LOL) è suggerito dal comportamento di Emma e poi indicato da me nelle note, quando vi scrissi “attenzione all’improvvisa golosità di Emma” nella speranza che, tra i vari indicatori nel testo, questo facesse da sutura. (E a proposito di questo, faccio notare che Nathalie non ha specificato se la sua rivelazione su Emma fosse spontanea, dettata dalla menzogna che a sua volta era sospinta dalla paura – o se fosse fondata; faccio notare che se Emma non c’è più, non sapremo mai se era vero o no che fosse incinta).
Naturalmente questo capitolo è stracolmo di tracce e segnali, in qualunque angolo che nemmeno le telecamere, io dirò una cosa sola – forse mi odierete, ma è l’indizio più forte che posso lasciare (ed in teoria nemmeno potrei): se esiste una vaga, mera, lontana, ridicola probabilità che qualcosa accada, un giorno, in un qualche modo, quella cosa accadrà; ma nulla vieta che quel giorno sia il giorno per diverse di queste possibilità.
Ora, fa molto legge di Murphy all’inizio, poi sembra una dichiarazione di guerra al caos (o al cosmo nel caso fossi ironica), ma non lo è per niente. È un mio tentativo, limitato in base alle mie conoscenze, di dirvi che se nel caso vi dovesse venir in mente un spiegazione riguardo a chi-cosa-come-quando-dove-perché, niente e assolutamente nulla al mondo potrà provare che è falsa.
 
Detto questo, passo alla parte più ampia dell’inquadratura generale.
Qualche tempo fa, sul mio profilo Facebook avevo accennato al mio studio della trama di Capolinea con “il senno di poi”, la cosiddetta coscienza postuma, le carte scoperte in tavola in cui vedi finalmente nel complesso cos’hai tra le mani – dissi quello con anche alcune di voi mi suggerirono, cioè che non era una storia molto adatta a questo sito, o ad un sito in generale. Insomma, espressi la mia volontà di farne in romanzo,  accennando che mi sarai presa il tempo di lavorare interamente dal punto di vista strategico ed ideologico della trama.
Questo tempo me lo sono presa – stiamo parlando di quasi due anni d’intensa e continua attività pensante applicata. Ho deciso quindi di ritirami e farlo.
Sul gruppo Facebook qualche mese fa dissi che avrei pubblicato un ultimo capitolo su EFP che assestasse la versione della storia che avevo fino a questo punto pubblicato e che, successivamente, avrei pubblicato anche un ultimo capitolo de’ La Notte e mi sarei ritirata in sede privata a creare. Quindi questo è l’ultimo capitolo di Capolinea 51, nella versione attuale, incomincerò la scrittura daccapo e con i tutti “i senni di poi” e gli arricchimenti su cui ho lavorato e continuerò a lavorare. In ogni caso, non ho intenzione di sparire in assoluto, su Facebook continuerò ad esistere e lamentarmi del creato, anche perché è un profilo unico Real/Fake (il ché è esistenziale da quanto contradditorio) ed ogni tanto e nel caso mi venga chiesto, vi farò avere notizie sugli sviluppi di questa storia.
Sia chiaro che non è assolutamente un addio, così come per La Notte, il mio obiettivo unico e primario è dare alle mie storie ciò che meritano.
Quindi, insomma, grazie a chi è arrivato fin qui, grazie davvero,
spero che da qui alla prossima volta che ci sentiamo (a meno che non sia stasera su FB LOL) il mondo sia diventato un luogo di pace ed armonia, tolleranza e prosperità in cui ognuno ha ciò che merita, ma nel caso sarà necessario rimboccarsi le maniche e provare a farlo diventare tale (d’accordo che sono millenni che l’1% della popolazione ci prova),
Mi ritiro prima d’uscirmene con altri ottimismi/pessimismi dolorosi,
grazie ancora,
cari saluti,
Bessma
 
 
   
 
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