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Autore: Afaneia    16/01/2016    4 recensioni
È l'anno della prima edizione della Lega Pokémon: Samuel Oak è un valido allenatore all'inizio di una brillante carriera. Tutto ciò che vuole è affermarsi e competere con avversari del suo livello.
Agatha ha diciott'anni, è testarda e impulsiva, orgogliosa e severa con se stessa e con gli altri.
Il loro è un legame inaspettato, guidato dall'ambizione e dalla fame di avventure. Ma proprio questa ricerca di avventure finirà per condurli in una spirale di eventi agghiaccianti e irresistibili, in una tragedia di cui non volevano affatto essere i protagonisti, tanto spaventosa e irreale da essere destinata a rimanere per sempre segreta...
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agatha, Prof Oak
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Capitolo X – Concedi la pace ai nostri giorni.


Il signor Firefly tornò il mattino seguente, ma in modo più composto e dignitoso, dopo aver telefonato per avvertire del suo arrivo. Quella volta, Agatha lo fece accomodare nell'asettico studio che era appartenuto a suo padre, come per un normale incontro d'affari: quel giorno era sorprendentemente fredda e calma. Non si era scomposta affatto al ricevere quella chiamata, come se se la fosse aspettata, e anzi avesse dato per scontato sin dall'inizio che quegli sarebbe tornato, e appariva determinata ma tranquilla, come se la cosa, ormai, non la riguardasse più.

Per contro, Samuel aveva temuto per tutta la mattina il momento in cui il signor Firefly sarebbe entrato nella stanza e lo avrebbe guardato, sotto forma di una lieve morsa angosciosa che gli stringeva lo stomaco e le vie del respiro. Era probabilmente la prima volta in vita sua ch'egli nascondeva qualcosa a qualcuno, tanto più ad Agatha, e quella sensazione non gli piaceva.

Ma quando il signor Firefly fece il suo ingresso nello studio, col cappello mortalmente stretto tra le mani e gli occhi lampeggianti rabbia, senza degnarlo d'uno sguardo, tutta la tensione che lo aveva attanagliato si disciolse dentro di lui tanto subitaneamente da lasciarlo quasi inebetito, in piedi immobile accanto alla finestra. Era stato sciocco a non pensare prima a ciò che il contegno nervoso e indispettito del signor Firefly e l'occhiata di minaccia e di preoccupazione che questi gli aveva gettato al suo ingresso dichiaravano abbastanza eloquentemente: il signor Firefly aveva molto più interesse di lui a che Agatha non venisse a sapere della loro conversazione e della sua proposta. Per quanto Agatha conoscesse già molto bene l'opinione del suo antico tutore riguardo al suo nubilato, Samuel era alquanto certo che se ella fosse venuta a sapere dei suoi tentativi di organizzare addirittura il suo matrimonio, ogni remora sarebbe in lei scomparsa. No, Firefly non aveva alcuna intenzione di tradirlo, e al contrario la consapevolezza che se fosse stato Samuel a parlare per primo egli sarebbe stato umiliato e svergognato davanti agli occhi di Agatha gli faceva bruciare ancor più il suo orgoglio ferito all'altezza del viso, dov'era stato colpito. Alla sua vista, il signor Firefly cacciò nervosamente la mano in tasca, ma con violenza, come imponendoselo, e quel gesto equivaleva a un'inconsapevole ammissione di sconfitta, più ancora che se cedendo a un impulso si fosse toccato la guancia dolorante.

«Una cena di lavoro particolarmente accalorata, signor Firefly?» s'informò Agatha in tono leggero e vagamente pungente, accomodandosi alla scrivania. Non c'era bisogno di specificare a cosa si riferisse: il livido violaceo sul suo zigomo era già abbastanza vistoso senza bisogno di sottolinearlo a parole. Scrutandola infastidito come punto sul vivo, senza scomporsi troppo, Firefly ringhiò: «Già.»

«Credevo che a parer suo un vero signore non risolvesse mai i suoi problemi con le mani» proseguì Agatha in tono amabile. Ma i suoi occhi erano gelidi e attenti, perfettamente consapevoli, ed era evidente che ella si stava divertendo un mondo a prenderlo in giro a quel modo. Samuel si chiese fuggevolmente se essi si fossero rapportati così, mentendosi e deridendosi e mortificandosi a vicenda per tutti quegli anni, finché Agatha non era finalmente partita da lì.

Al veleno delle sue parole il signor Firefly doveva essere ormai assuefatto, dato che incassò il colpo senza battere ciglio. «Già» constatò semplicemente. «Ma queste sono cose da uomini, Agatha... nulla che una signorina dovrebbe ascoltare. Sono certo che il signor Oak è d'accordo con me.»

All'espressivo sguardo d'intesa che Firefly gli gettò, distogliendolo appena da Agatha, Samuel non ebbe reazione. Forse quel velato accenno indiretto non voleva essere un'altra trappola, quanto piuttosto un tacito tentativo di assicurarsi della sua complicità su quel segreto, ma proprio per questo egli non intendeva rassicurarlo in alcun modo. Quell'uomo lo disgustava già abbastanza senza bisogno di prestargli più attenzione di quanta gliene avesse già riservata il giorno precedente, ed egli continuò a rimanere perfettamente calmo e immobile accanto alla finestra, ad ascoltare.

Come se si fosse già stancata delle loro schermaglie preliminari e fosse pronta a parlare sul serio di affari, Agatha accennò con la mano alla sedia di fronte alla scrivania con fare sbrigativo. «Vuole essere così gentile da cacciare il mio ospite fuori della stanza anche oggi, signor Firefly?»

Rimanendo ostinatamente in piedi al di là del tavolo, Firefly le porse dalla tasca della sua giacca un foglio minuscolo, delle esatte dimensioni di un assegno ripiegato. «Si tratta solo di una firma. Una questione di beneficenza. Non c'è nulla da leggere.»

Agatha non spiegò l'assegno. Al contrario, lo posò davanti a sé sulla scrivania e senza dare minimamente segno di volerlo leggere, completamente reclinata contro lo schienale della sedia, domandò: «Beneficenza per che cosa?»

«Se tu aprissi l'assegno, potresti leggerlo coi tuoi occhi» sibilò Firefly. Agatha rimase perfettamente immobile, allora egli, con un moto d'impazienza, sbuffò: «Per la ricostruzione della Torre, ovviamente. Tuo padre diede un grosso contributo dopo l'inondazione del Trentuno, perciò è ragionevole che anche tu faccia lo stesso.»

La Torre, ancora la Torre, ovunque la Torre! Possibile che il suo nome fosse in grado di raggiungerli ovunque, trapassando come aria gli schermi delle porte e delle mura frapposte?

Quando Samuel si voltò bruscamente verso di lei dalla finestra aperta, Agatha era ancora immobile sulla sedia e almeno in apparenza perfettamente indifferente. Ma ai suoi occhi che avevano ormai imparato a distinguere sul suo volto il susseguirsi di innumerevoli emozioni, senza bisogno di parole, non poteva sfuggire l'innaturale pallore che le era affiorato d'improvviso sulle guance, né la stretta delle sue mani che avevano artigliato i braccioli della sedia come una richiesta d'aiuto.

«Ti sconsiglio di cambiare la cifra, Agatha» disse infine il signor Firefly, a voce bassa, come se questo motivo gli paresse l'unica spiegazione possibile alla sua esitazione. «Credimi, Lavandonia non si aspetta niente di meno da te, e un solo centesimo in meno apparirebbe meschino. È il prezzo di appartenere a una famiglia antica, Agatha, te l'ho già spiegato.»

Agatha non diede alcun segno di averlo sentito. I suoi occhi continuavano a scrutare l'assegno, ma senza muoversi, ed era dunque evidente che non lo stava leggendo. Semplicemente, pensava.

Con poche ampie falcate, Samuel si ritrovò quasi senza accorgersene di fianco alla sua sedia: dall'altra parte della scrivania, il signor Firefly gli gettò uno sguardo di disapprovazione, ma di nuovo si trattenne dal fare commenti. In quel momento, doveva essere troppo preso dall'assoluta mancanza d'interesse della sua assistita per potersi preoccupare anche di lui.

«Ho sentito dire che le ceneri dei Pokémon le cui tombe sono state devastate dall'incendio saranno collocate in una forno comune» disse infine Agatha, come riemergendo infine dalle nebbie della lunga riflessione che l'avevano catturata sino a quel momento. Non aveva distolto gli occhi dall'assegno, ma subito Samuel colse nel suo tono e nell'intensità dei suoi occhi tutto l'appuntarsi della sua concentrazione.

Firefly scrollò le spalle come se la questione non lo toccasse particolarmente. «Già, è l'unica soluzione praticabile... e anche la più sensata, se proprio lo vuoi sapere. Lo spazio è sempre stato un problema in quel posto, perciò, per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto approntare una fossa comune già una ventina di anni fa, come in tutti gli altri cimiteri. Anzi, se non ci fosse stato l'incendio...»

Samuel si augurò che il signor Firefly amasse parlare per il gusto di farlo, perché almeno a lui, che non aveva perso di vista Agatha per un solo istante, era evidente che ella aveva smesso di ascoltarlo già dopo le sue prime parole, non appena aveva ottenuto la risposta che voleva. Ma a un tratto, bruscamente, e in modo troppo plateale perché persino Firefly potesse ignorarlo, Agatha lasciò perdere l'assegno e si alzò in piedi. Senza curarsi di nessuno, andò lentamente alla finestra, zoppicando appena, e si accostò al vetro. Non aveva avuto alcuna intenzione di interrompere il monologo del suo protettore, ma in realtà probabilmente non si era neppure accorta che egli stava parlando. Quando si avvicinò al vetro, scostando appena le tende con la punta delle dita, il suo volto appariva tutto chiuso e concentrato.

«E lei dice che li seppelliranno lì tutti, signor Firefly? Insomma... proprio tutti?»

Firefly ebbe un moto stizzoso d'impazienza. «Dio, Agatha, che domande mi fai? Non ne ho la più pallida idea, ma non vedo per quale motivo non dovrebbero seppellirli tutti. È anche per una questione d'igiene, dopotutto.»

I cadaveri dei loro Pokémon giacevano tra tutti quelli insepolti e anonimi che avevano perduto le loro tombe e i loro nomi nell'incendio, e con loro erano stati cremati. Ma questo Agatha lo sapeva, ne aveva parlato a entrambi il dottor Ross qualche giorno prima, allora perché voler sollevare ancora quell'argomento, perché rimestare inutilmente un dolore che già non trovava pace? Nessuno di loro poteva più fare nulla per i loro Pokémon, poiché le loro ceneri riposavano ormai in urne cinerarie fornite dal comune, asettiche e identiche in tutto e per tutto le une alle altre, accatastate alla rinfusa in qualche magazzino vuoto in attesa di venir di nuovo seppellite con tutti gli onori... con quella domanda, ella che cosa voleva ottenere?

Le dita di Agatha si serrarono maggiormente sul lembo della tenda, la curva delle sue labbra si contrasse un poco: ma queste furono le sue uniche reazioni fisiche a quel pensiero. Annuì pensierosamente col capo.

«Vorrei donare una targa alla cittadinanza, perché possano appenderla sul luogo della sepoltura comune. Che cosa ne dice, signor Firefly? Pensa che si possa fare?»

Un simile spirito d'iniziativa nella sua assistita doveva essere quantomeno inaspettato: Firefly continuò a scrutarla per vari secondi in perfetto silenzio, come aspettandosi da un momento all'altro che Agatha scoppiasse a ridere e ritrattasse tutto quanto; ma quando fu anche troppo evidente che, al contrario, ella aveva parlato con perfetta serietà , e che probabilmente non avrebbe nemmeno accennato ad allontanarsi dalla finestra finché non avesse ottenuto una risposta, finalmente egli si schiarì la voce e fece rapidamente mente locale.

«Intendi una targa commemorativa, suppongo? Alla memoria dei Pokémon morti? Beh, mia cara... non me l'aspettavo, certo, ma non vedo perché no. In effetti, sarebbe un gesto splendido da parte tua...»

«Non voglio che sia da parte mia» lo interruppe bruscamente Agatha, voltandosi all'improvviso verso di lui. «Su questo non transigerò. Io donerà la targa e voglio che sia fatto tutto come dico io, ma la donazione dovrà restare anonima e Lavandonia non dovrà mai sapere che è da parte mia. E sarà bene che anche lei ne rimanga fuori il più possibile, signor Firefly» soggiunse in tono eloquente. «Tutti sanno che lei si occupa dei miei affari, perciò renderebbe troppo facile risalire a me. Faccia solo il minimo necessario, siamo intesi?»

«Bah! Come vuoi, Agatha» borbottò Firefly, seppur con l'espressione di qualcuno che avrebbe colto molto volentieri l'occasione di incensare un poco il nome di famiglia grazie a quella targa. «Non vedo il motivo di tutto questa segretezza, anche se, certo, la beneficenza dovrebbe sempre essere... Comunque, è un'ottima idea, mia cara. Ma perché ci tieni tanto?»

Con voce sorprendentemente fredda e dura, totalmente priva di qualsiasi inflessione o cedimento, Agatha rispose: «Perché se tra quelli ci fossero i miei Pokémon, e io fossi morta e non fossi più in grado di provvedere a loro, mi farebbe piacere che qualcuno avesse pietà della loro memoria.»

Agatha aveva parlato in tono asciutto e distaccato e con calma davvero ammirevole, date le circostanze; ma nonostante ciò, ella non era un automa insensibile, e l'emozione che le aveva infiammato il volto e acceso lo sguardo, quelli non aveva potuto far niente per impedirli. Il signor Firefly ne rimase vagamente colpito, ma con una punta di scetticismo, quasi che quell'eccesso di ardore gli risultasse esagerato e inopportuno, forse persino fastidioso, come una scena troppo patetica. Ne distolse lo sguardo con ostentazione.

«L'incidente ti ha resa un po' troppo suscettibile, eh?»

Samuel desiderò improvvisamente tantissimo avergli tirato un pugno più forte il giorno precedente. La passione di Agatha come si poteva confonderla con la fantasia nevrastenica di una ragazzina capricciosa? «Comunque sia, non mi riguarda. Avrai ciò che chiedi, ma ora perché non mi firmi quel maledetto assegno e mi lasci andare?»

La sua indignazione doveva esserglisi dipinta in volto nel momento in cui Firefly aveva parlato. Passandogli accanto, Agatha gli posò una mano discreta sulla spalla per un momento, come a volergli suggerire che non valeva la pena di prendersela, e tornando alla scrivania si chinò a firmare l'assegno.

Lo passò al suo tutore senza accennare a sedersi. Firefly lo studiò con un'attenzione quasi oltraggiosa, per accertarsi che Agatha non avesse fatto scherzi, e lo ripose con cura nella tasca della giacca. «Il mio compito è finito, Agatha. Devo assolutamente scappare, ma ci accorderemo per la targa, sì? A proposito, non mi hai detto dove potrò contattarti. Visto che stai in piedi, suppongo che ripartirete presto.»

Più che una supposizione, le sue parole sembravano piuttosto un'intimidazione, ma Agatha non si scompose. «Sarò io a contattarla, signor Firefly. Fortunatamente, il suo indirizzo è sempre lo stesso da vari anni.»

Il suo ultimo tentativo di allontanarla da Lavandonia, dal momento che proprio non era riuscito a convincerla a sposarsi, era andato a vuoto, ma Firefly accolse questo fallimento con notevole sportività. Richiuse accuratamente la giacca sorridendo appena. «Bene così, Agatha, dal momento che non riesco a farti cambiare idea. Signor Oak» soggiunse in tono di saluto, ma degnandolo appena di uno sguardo. «A presto, Agatha. No, non disturbarti» soggiunse in fretta, vedendo che Agatha faceva per accompagnarlo. «Mi ricordo ancora da dove sono entrato. Buon proseguimento, signori miei.»

Dopo un ultimo inchino poco meno che derisorio, il signor Firefly uscì dalla stanza senza voltarsi indietro. Il suono dei suoi passi pesanti si allontanò lungo l'ingresso; poco dopo, una porta sbatté e un motore si accese rombando sul vialetto d'ingresso. Sì, Firefly, finalmente, se n'era andato.

Per un po', nessuno di loro parlò. Tornando a sedere alla scrivania, Agatha aveva avvicinato a sé una grossa bottiglia d'inchiostro blu dall'etichetta piuttosto pretenziosa e aveva cominciato in silenzio a giocherellare con lo stantuffo della stilografica con la quale aveva firmato, svuotandone e riempiendone alternativamente il serbatoio senza alcun motivo apparente. Non sembrava avere molto da dire. Per parte sua, Samuel si sentiva la testa così piena di domande che gli sembrava proprio impossibile essere in grado di rimetterle in ordine, o anche solo di sceglierne una sola.

Arcanine avrebbe avuto una sepoltura onorata, per quanto possibile. Dopo tutto ciò che aveva visto, Samuel avrebbe dovuto sentirsi abbastanza scettico e disilluso a questo riguardo da non sentirsene minimamente toccato, eppure, quando si soffermò a riflettervi, si sorprese di sentirsene così confortato. Una targa su una sepoltura comune non avrebbe potuto sottrarre nulla del suo dolore alla sua morte, poiché Arcanine era morto nel modo meno umano che potesse esistere... ma proprio per questo, forse stupidamente, l'idea che quella sepoltura potesse restituirgli almeno una parte della dignità che Arcanine meritava lo riempiva di un grande calore. E Arcanine, col suo amore vivace per tutto ciò che era umano e benevolo, avrebbe apprezzato di certo, se solo una porzione della sua anima fosse esistita ancora in qualche luogo del creato.

Tutte le domande e i dubbi che quella conversazione aveva suscitato dentro di lui erano ancora in subbuglio nella sua mente, ma almeno a questo pensiero Samuel poteva dare voce. Accostandosi a lei, ancora seduta alla scrivania, egli le posò una mano sulla spalla e mormorò: «Grazie, Agatha. A nome di Arcanine.»

Agatha si voltò per poterlo guardare in faccia, accennandogli un sorriso. Anche quel giorno, dopo tutti i suoi atteggiamenti di sfida e di disprezzo, sembrava d'improvviso enormemente stanca.

«Non ringraziarmi, Samuel. Non potevo lasciarli così, senza neppure una targa. E poi, se non fossi stata io, ci avrebbe pensato qualcun'altro.»

«Davvero?» Samuel si sentì perplesso dalla sua convinzione.«Come fai a esserne così sicura?»

Agatha scrollò le spalle, come se fosse qualcosa di così ovvio che non ci fosse neppure bisogno di spiegarlo; ma sembrava contenta di parlare con lui, perciò Samuel non fece niente per ritirare la domanda. «Le famiglie ricche di Lavandonia hanno sempre fatto a gara in questo genere di cose. Hai sentito quello che ha detto il signor Firefly: Lavandonia se lo aspetta.»

Si alzò faticosamente in piedi, senza più curarsi di mascherare le sue difficoltà, dal momento che era sola con lui, e tornò ad accostarsi alla finestra per guardare fuori. Parlando di quell'argomento, il suo volto aveva assunto una certa piega severa e un po' sprezzante, come se disapprovasse molto quel modello di comportamento: «Se fosse stato qualcun'altro a donare una lapide per la sepoltura, molto difficilmente avrebbe fatto una donazione anonima... e non volevo che la loro sepoltura diventasse un modo per mettersi in mostra.»

Per parlarne così, Agatha doveva conoscere molto bene i meccanismi che muovevano i suoi concittadini. Samuel annuì tra sé mentre si sedeva alla scrivania, sulla sedia da poco rimasta vuota. «Credevo che la gestione fosse interamente comunale.»

«Sì, certo che lo è. Ma Lavandonia è una città molto piccola, e si è sempre trovata in difficoltà davanti ai grandi disastri: anche mio padre...» Bruscamente, come se aver a malapena nominato suo padre fosse stato un grave errore ch'ella si era ripromessa di non commettere più, la voce di Agatha ebbe un fremito e s'interruppe. Qualche secondo dopo, quando ella fu ragionevolmente certa che Samuel non vi aveva prestato una particolare attenzione, si affrettò a concludere quel discorso: «Insomma, tutte le famiglie più abbienti hanno sempre collaborato sotto forma di donazioni. La Torre è sempre stata un problema economico, è un monumento troppo imponente per una città così piccola... ma del resto, era una fondazione privata, dopotutto.»

Questo dettaglio gli giungeva completamente nuovo: Samuel aggrottò la fronte mentre cercava di rielaborarlo. «Vuoi dire che non è stata fondata con fondi pubblici?»

«Beh, no. Non lo sapevi?» Agatha tornò a volgersi verso di lui, appoggiandosi con la schiena al davanzale della finestra, colle braccia strette attorno al corpo ma l'espressione un po' più serena. Parlare del più e del meno sembrava distrarla un po'. «La città ha incamerato la Torre sotto forma di eredità dopo la morte della fondatrice. Era un lascito testamentario, o qualcosa del genere.»

Una fondatrice. All'improvviso Samuel sentì che qualcosa dentro di lui sprofondava, mentre un ricordo che fino a quel momento la sua memoria si era tanto impegnata a reprimere e a passare sotto silenzio proprio perché non riusciva a comprenderlo tornava a occupare prepotentemente la sua mente.

Sei tornata a prendermi?

«Vuoi dire che a fondare la Torre è stata una donna?» esclamò angosciosamente.

Colpita dall'urgenza che sembrava animare la sua voce, in modo del tutto improvviso e immotivato, Agatha lo guardò interrogativamente. «Va tutto bene, Samuel?»

«È stata una donna?» insisté Samuel, senza neppure badare alla sua confusione. Possibile che quella soluzione fosse sempre stata lì, sepolta nella miniera dei suoi ricordi sin da quella notte, e che egli non vi avesse mai prestata attenzione? Il sepolto vivo aveva creduto di parlare con una donna!

«Sì, è stata una donna, ma... Samuel, c'è qualcosa che dovrei sapere?»

L'eccitazione che lo aveva animato tanto intensamente in così poco tempo si spense di fronte all'intransigenza della voce di Agatha: nella sua severità e nella sua confusione, ella torreggiava ora su di lui implacabilmente, senza lasciargli scampo. Agatha non aveva sentito le parole del sepolto vivo, quella notte, ma aveva capito che c'era qualcosa che, all'improvviso, lo aveva colpito, e ora voleva sapere.

L'impeto che lo scuoteva si spense prima di raggiungere le sue labbra. Forse ho capito, forse possiamo scoprire chi era il mostro che ci ha fatto questo, avrebbe voluto dirle; ma proprio prima di poterle parlare, d'improvviso tutto ciò che stava per dirle gli parve un ultimo colossale inganno, e si fermò.

«No, io... va tutto bene, Agatha. Era solo stupito che una donna...» Si passò una mano tra i capelli per riprendersi dallo stupore, e proseguì: «Insomma, è successo tanto tempo fa, e credevo che, allora... Voglio dire, mi è parso strano.»

Lo sguardo di Agatha che lo scrutava percorse interamente il suo viso, soffermandosi sui suoi occhi. Non gli aveva creduto, ovviamente – e come credergli? - eppure, per qualche strano motivo, ella non lo aggredì, non lo incalzò, non fece niente.

«Ne sei certo, Samuel?»

Tutto era confuso e tutto si mescolava nella sua testa: le parole del sepolto vivo e le fiamme abbaglianti della battaglia, e ora quella nuova informazione che Agatha gli dava con tanta semplicità: c'era una donna! Ma ora che egli si soffermava a riflettervi e cercava di districare, in quella caligine nebulosa che gli offuscava la mente, la verità, l'unico pensiero che gli tornava insistentemente alla mente e che egli non riusciva a reprimere era che nulla di quanto avrebbero potuto scoprire avrebbe cambiato le cose.

«Ne sono certo.»

Senza troppa convinzione, Agatha indietreggiò un poco, allontanandosi di qualche passo dalla sedia, ma senza distogliere lo sguardo da lui. Samuel ebbe l'impressione di ritrovare aria solo in quel momento.

«Samuel» disse Agatha dopo un po', ma con calma. La sua voce era tesa e cauta come una corda tesa sin quasi a spezzarsi, ma ella era sorprendentemente fredda e lucida. «Mi fido di te. Non m'interessa quale sia la verità, ma qualunque cosa mi dirai, ti crederò. C'è qualcosa che pensi che dovrei sapere?»

Se in quel momento egli le avesse rivelati i suoi sospetti, avrebbero potuto indagare. Quella casa era piena di libri, alcuni dei quali molto vecchi, e di certo qualcuno doveva pur contenere qualche informazione su... e quand'anche tutti quei libri non avessero parlato di nient'altro che dell'esercito e della marina, egli era certo che ogni altro archivio entro Lavandonia avrebbe potuto parlar loro del sepolto vivo. Ma il punto era un altro: valeva veramente la pena di sapere?

Era stato proprio il voler saper troppo che li aveva trascinati all'inferno. Ora non c'era più niente da temere, certo, ma tornare a rimestare ancora tra quei segreti perduti nel tempo, non sarebbe stato esattamente come far sì che Arcanine fosse morto proprio per niente? E quand'anche, poi, avessero scoperto... forse che sapere chi quell'uomo era stato avrebbe potuto cambiare ciò che era successo e farli tornare da loro? Sapere che il sepolto vivo era stato un uomo normale, una volta, un uomo proprio come loro, e che magari era stato ingannato da una donna che aveva promesso di tornare a prenderlo, avrebbe forse potuto dar loro pace?

Raddrizzando le spalle sulla sedia, Samuel lasciò che per l'ultima volta quelle due figure misteriose, quelle di un uomo e di una donna, si perdessero negli abissi del tempo. Sostenendo a testa alta lo sguardo di Agatha, egli rispose con decisione: «No, Agatha. Non c'è nulla che valga la pena sapere.»


Alla cerimonia della posa della targa partecipò un numero curiosamente esiguo di persone, rispetto alla grande affluenza dell'apertura dei lavori; ma questo, stando ad Agatha, era normale. Lavandonia celebrava il culto ossessivo della Torre solo nella misura della sua monumentalità e del motivo di vanto che essa costituiva in tutta Kanto; ma quanto alle funzioni cultuali che vi si svolgevano e a tutto ciò che riguardava il raccoglimento e l'idea stessa della mortalità, la città preferiva non soffermarsi a riflettere troppo. Dopotutto, essi sapevano meglio di chiunque altro quanto fosse pericoloso guardar troppo a fondo dentri certi misteri, e lo sapevano per averlo imparato a proprie spese.

Vi presero parte tra le prime file, poiché sarebbe stato impensabile che l'ultima rappresentante di una famiglia di tale rilievo sedesse in disparte o tra le ultime file; ma tutti coloro che diedero segno di riconoscerla la salutarono con una certa freddezza, e più di una signora, dopo averla soppesata per un momento, fece finta di non averla vista. Di certo, notò Samuel con una certa soddisfazione, Agatha non faceva niente per ingraziarsi l'opinione del resto della popolazione: rispose a chi le aveva mosso un cenno di saluto con altrettanta freddezza, ma quanto al resto ignorò chiunque.

Quella era la prima volta che usciva dopo la tragedia. Quando era scesa dabbasso, vestita da uomo come il giorno precedente, avanzando lentamente ma con l'equilibrio malsicuro di chi sia ancora convalescente dopo una brutta ferita, Samuel si era domandato con preoccupazione se fosse prudente che si stancasse tanto proprio la prima volta che tornava a uscire di casa, e proprio per tornare là; ma ovviamente impedirle o anche solo sconsigliarle qualcosa era impensabile, e in fin dei conti egli era certo che, una volta che fossero usciti, Agatha non avrebbe permesso a nessuno di vederla debole o stanca.

Chissà perché, quel giorno era soprendentemente bella, persino vestita da uomo, con aderenti pantaloni a vita alta e i capelli pettinati, o quantomeno sistemati in un'acconciatura elegante dalla quale continuavano inistentemente a sfuggire i suoi ricci ribelli. Era ancora mortalmente pallida, ma quantomeno le occhiaie pesanti attorno ai suoi occhi, da qualche giorno, si erano attenuate.

La cerimonia fu una tortura, ma fu breve. All'interno della vasta sala affollata l'aria era torrida e soffocante, malgrado le finestre spalancate; ma quand'anche la giornata non fosse stata tanto calda, era evidente che nessuno provava alcun vero interesse per il discorso del sindaco. Tutto ciò che si poteva dire dell'oltraggio alla Torre era già stato detto all'apertura del cantiere, e quella, dopotutto, per chi non aveva perduto qualcuno nell'incendio, era solo una targa. Il sindaco si limitò a dire lo stretto necessario, col volto lucido per il caldo e l'espressione di chi non vedesse l'ora di concludere quell'incombenza noiosa: dopo qualche parola ben spesa sulla generosità dell'anonimo donatore e il significato universale del ricordo dei defunti, scoprì la targa e accennò agli operai di procedere. Per quanto lo riguardava, Samuel trovava che andasse più che bene così.

Al termine della cerimonia, quasi tutti si mostrarono assai impazienti di lasciare la sala il prima possibile. Dopo l'ultimo applauso vi fu uno stridio collettivo di sedie spostate mentre tutti si affrettavano ad alzarsi in piedi, e solo per qualche minuto ci si trattenne a conversare e a scambiarsi commenti e apprezzamenti, o persino a osservare la targa con compunzione, per non dare l'impressione di voler sfuggire senza riserve dall'aria tetra e irrespirabile della Torre; ma poi, finalmente, la folla cominciò a defluire dalla sala come acqua che si abbassa, dapprima insensibilmente, poi più rapidamente a misura che ciascuno si accorgeva che tutti se ne andavano; e poi non rimase quasi nessuno.

Qualcuno si era fermato a pregare, ma nell'intimità della propria solitudine, e doveva avere perciò atteso proprio che la folla disinteressata si dileguasse per poter rimanere un po' in pace, in silenzio, a pensare. Qua e là, molto isolate nella vasta sala dalle volte ricurve, Samuel scorgeva le loro figure remote che si aggiravano in silenzio, rispettosamente, e talora si inginocchiavano per pregare.

Dopo lunghe esitazioni, Agatha aveva deciso di far scolpire una scritta molto semplice, di pura commemorazione del disastro, senza alcun riferimento che potesse far intendere una maggiore partecipazione emotiva da parte del donatore; eppure, al di sotto della fredda apparenza indifferente di quelle parole, In memoria dei defunti..., Samuel aveva l'impressione di sentirle vibrare di tutto il vigore bruciante dell'anima di Agatha, che scalpitava più forte proprio perché non poteva esprimersi ad alta voce.

«Sono sicuro che avrebbero apprezzato» mormorò appena, tanto piano che nessuno al di fuori di lei avrebbe potuto capire se per caso gli fosse capitato di ascoltare.

Ma Agatha non diede alcun segno di averlo udito. Stava guardando la targa, con tale intensità e con tale ardore, ch'era come se i suoi occhi potessero vedere qualcosa al di là del marmo, ed ella stessa credesse di potervi sprofondare; ma di più, non la stava solo guardando – la stava ascoltando, e le stava parlando, e guardandola Samuel provò per un attimo la strana sensazione che, su quella targa, ella avesse riversato più sentimenti di quanti gliene avesse lasciati intendere sino ad allora. La sua donazione era stata davvero dettata solamente dalla volontà di dare loro pace?

Finalmente anche quel breve incanto finì. Con gli occhi ancora vacui ma che a poco a poco riacquisivano luce, Agatha posò una mano sulla lapide e si concesse di accarezzarla a lungo; e infine, come riscutendosi da un sogno, ella se ne ritrasse lentamente, quella strana corrispondenza si spezzò, si spense, e sollevando su di lui occhi che finalmente tornavano a vederlo, Agatha gli si accostò maggiormente e mormorò: «Possiamo andare, se vuoi.»

A quella lapide che celava le ceneri del suo Pokémon scomparso Samuel non aveva proprio niente da dire. La prospettiva di una sepoltura onorata lo confortava oltre ogni immaginazione, ma questo era tutto ciò che la targa significava per lui; e quel luogo non aveva per lui altra attrattiva, poiché il ricordo di Arcanine lo avrebbe accompagnato sempre, e non gli sarebbe in nessun caso stato possibile circostriverlo a quel luogo soltanto. Quanto a pregare, Samuel dubitava di poterne trarre alcuna pace.

All'esterno della Torre, l'aria era ancora bollente, ma meno irrespirabile che all'interno. Samuel la respirò a pieni polmoni, con gratitudine, e se ne beò a occhi chiusi per qualche momento.

Eppure Agatha sembrava ancora pensosa, come se non fosse ancora uscita dalla Torre. Teneva gli occhi bassi, col capo reclinato sulla spalla, e il suo sguardo per lui assente era asperso di una tale dolorosa concentrazione, che tentare d'infrangerla gli parve pericoloso, come se entrandovi in contatto fosse possibile ferirsi. Ma lasciarla sola e senza aiuto gli sembrava ancora più pericoloso che parlarle, e toccandole cautamente la mano Samuel mormorò: «Ehi.»

Sottraendosi a fatica da quei pensieri che minacciavano di catturarla e avvincerla, Agatha si sforzò di sorridergli. Era un sorriso stanco, notò Samuel, penosamente tirato sul suo volto emaciato che ancora non si era ripreso dalla lunga convalescenza, certo; ma era il sorriso di Agatha, la cui dolcezza riusciva ancora, malgrado tutto, a estendersi ai suoi occhi. Sentendosi incoraggiato da quel sorriso che gli indicava che Agatha era ancora lì per lui – lì, all'interno della sua mente – Samuel aumentò un poco la stretta sulla sua mano e proseguì: «Stai bene?»

Certo che no, che domanda sciocca. Ma Agatha comprese egualmente quanto significasse per lui questa domanda e senza guardarlo, come anticipando una risposta che era di là da venire, disse in tono perfettamente neutro e privo d'intonazione: «Facciamo una passeggiata.»

No, non andava tutto bene, eppure Samuel non riusciva proprio a intuire, attraverso la strana tonalità della sua voce, che cosa c'era esattamente che Agatha volesse dirgli. Camminando, Agatha si appoggiava ancora al suo braccio, come i primi giorni dopo la sua ferita, ma leggermente, e il peso suo peso era leggerissimo e privo di qualsiasi abbandono. Per un po' camminarono in silenzio, tutti immersi nella luce e nel calore del giorno, e attraversarono con calma il centro della città. Lavandonia era particolarmente vitale, quel giorno: in una piccola piazza un po' isolata, ombreggiata in parte da un folto pergolato ombroso, due ragazzi di qualche anno più giovani di loro si stavano sfidando coi loro Pokémon, ma più per passatempo che in modo serio, e attorno a loro s'era raccolta una piccola folla di bambini eccitati e persino qualche più maturo amatore. Attraverso la folla accalcata, Samuel non riusciva a vedere di che Pokémon si trattasse, ma mentre passavano udì urlare distintamente: «Pidgeotto, Agilità!»

«Sediamoci qui» propose, accennandole col capo una panchina in piena ombra, avvolta dall'atmosfera fresca e semibuia del pergolato, e Agatha non fece obiezioni. Tutta presa dall'interesse per la piccola sfida, la gente era in quel momento troppo distratta per badare a loro, ed essi avrebbero quantomeno potuto star seduti con calma per qualche minuto senza che Lavandonia si soffermasse a guardarli con disapprovazione.

Vista da quella prospettiva, da una fresca panchina di pietra collocata in piena ombra, e circondati dal vociare gioioso della folla che assisteva alla lotta, Lavandonia non era poi diversa da qualsiasi altra città ch'egli avesse visitato negli anni precedenti. Appoggiandosi con la schiena al rigido schienale scolpito della panchina, socchiudendo gli occhi, Samuel provò a figurarsi quella città in modo diverso, unicamente come la vedeva ora, solare e vivace, e pensò che forse era così che sarebbe stata sempre, ora che il sepolto vivo non esisteva più.

«Mr. Mime, usa Sostituto!»

«Vorrei ripartire, Samuel.»

Era di questo che si trattava, dunque. Riaprendo bruscamente gli occhi, Samuel si volse verso di lei, che in quel momento era china in avanti, coi gomiti puntati sulle ginocchia, e guardava fissamente davanti a sé. Dalla sua posizione, ovviamente, ella non poteva vedere l'esito dello scontro più di quanto vi riuscisse egli stesso; ma ciò che ella vi scrutava tanto intensamente, egli lo sapeva, era la lotta, lo scontro assoluto e totale, del tutto indipendente dalla singola contingenza di quella lotta e di quello scontro.

Le sue parole non l'avevano sorpreso tanto quanto avrebbero dovuto, forse perché, dopotutto, una parte di lui aveva sempre saputo che Agatha non aveva cessato, come lui, di essere un'allenatrice nel momento stesso in cui erano morti i suoi Pokémon. Si limitò ad annuire. «Era per questo la targa, dunque.»

Agatha accennò appena un segno d'assenso col capo, stancamente, ma il suo sguardo era colmo di gratitudine, come se gli fosse grata di esser stato lui a dirlo ad alta voce. «Non potevo lasciarli così, insepolti, senza salutarli. Almeno questo glielo dovevo, prima di andarmene.»

Erano parole vacue, parole vane, Samuel lo sapeva: Nidoking, Tentacruel e Vileplume erano morti come lo era Arcanine, e le loro anime non trovavano più spazio in alcun luogo dell'universo: le loro volontà e il loro amore non esistevano più, ma Samuel sentì egualmente di doverglielo dire. «Sono certo che vorrebbero la tua felicità.»

Con sguardo insolitamente deciso e l'espressione serena e consapevole e priva di qualsiasi traccia di dubbio, Agatha rispose: «Già, lo sono anch'io.»

Da qualche parte in mezzo alla folla si levò una forte raffica di vento e il Pidgeotto si sollevò a mezz'aria nella foga della battaglia. Per quanto intensamente guardasse in quella direzione, però, Agatha non lo vedeva.

«Tu sapevi che Nidoking ha scelto di morire?»

Se la sua decisione se l'era aspettata, quest'informazione per lui era decisamente nuova. Samuel rimase in silenzio per svariati secondi, aspettandosi una spiegazione che facesse da complemento a quelle parole, ma quando fu chiaro che non ve ne sarebbe stata alcuna, si decise a domandare: «Che cosa?»

«Non ha voluto rientrare. Quando l'ho richiamato, quella notte...» Samuel lo ricordava bene: decine di raggi rossi che balenavano nel buio, folgorando invano l'aria, e le urla strazianti di Agatha che lo imploravano, lo supplicavano di rientrare. «È stata una sua scelta. Lui non l'ha voluto.»

Il ruggito sofferente di Nidoking che veniva stritolato dalla morsa della pallida mano non era l'ultimo dei ricordi che avrebbero vegliato per sempre i suoi incubi: Samuel non ebbe bisogno di concentrarsi per richiamare alla memoria quel momento. Sì, egli ricordava bene tutti i tentativi della Pokéball che andavano a vuoto, ma non se n'era stupito affatto, poiché fin troppe volte gli era capitato, nella sua carriera di allenatore, di rimanere intrappolato con la sua squadra in qualche campo di battaglia da una mossa che gli avesse reso impossibile fuggire. Doveva aver pensato che la stretta formidabile della mano avesse più o meno lo stesso effetto di un Avvolgibotta, ma ora Agatha gli veniva a dire che, in tutto questo, Nidoking aveva soltanto disobbedito e si era rifiutato di tornare da lei. Sapeva bene che non c'era modo di confondere i due eventi: il piccolo strattone che la Pokéball sembrava avere quando un Pokémon si rifiutava di obbedire era completamente diverso dalla piena immobilità della sfera che corrispondeva a un richiamo andato a vuoto, e Samuel conosceva la differenza per aver avuto un Pokémon testardo e selvaggio come Gyarados, che ancora continuava saltuariamente a disobbedire dopo anni da quando egli era riuscito a domarlo...

Nidoking era rimasto sul campo ad affrontare la morte perché sapeva di essere l'unico ostacolo che ancora si ergeva tra Agatha e il sepolto vivo. Samuel non riusciva neppure a immaginare quale portata di colpevolezza e responsabilità tutto questo comportasse per lei, ma tornando a reprimere con forza quei ricordi ai margini della sua coscienza, rispose: «Nidoking ti amava moltissimo.»

«È così» disse Agatha a bassa voce. «E anche Vileplume e Tentacruel, anche se non ho fatto in tempo a cercare di richiamarli. È per questo che non posso gettar via il loro sacrificio, Samuel» soggiunse poi, con la massima gravità possibile nello sguardo; e Samuel comprese che in fin dei conti era questo ch'ella aveva veramente voluto dirgli sin da quando erano usciti dalla Torre. «Loro hanno fatto di tutto perché io sopravvivessi, Samuel. Che cosa direbbero se dopo aver tanto lottato, se dopo tutto quello che hanno fatto per me, io tornassi a chiudermi in quella casa da cui ho faticato tanto a scappare?»

Qualsiasi forma di approvazione o di sostegno alle sue parole sarebbe stata vana e sterile e non avrebbe avuto alcun significato: la decisione di Agatha era stata presa nel momento in cui Nidoking si era sacrificato per salvarla. Non c'era altro da dire.

A pochi metri da loro, l'aria si rischiarò del bagliore rosato di uno Psichico, e il Pidgeotto che poco prima si era levato in volo gettò uno stridulo grido di protesta. Samuel fece cenno di aver capito. «Quando intendi ripartire?»

«Domani» rispose Agatha a bassa voce, guardandolo fissamente come se si aspettasse una sua reazione; ma Samuel non ne ebbe nessuna. Era giusto così: se si doveva ripartire, meglio farlo il prima possibile, senza ripensamenti. E poi, a che rifletterci troppo? Forse che sarebbe cambiato qualcosa, se fossero rimasti più a lungo in quella misera cittadina angusta? (E a far che, poi?) Ma come se ancora non fosse certa della sua opinione, e volesse una risposta più concreta del tacito silenzio d'assenso ch'era tutto ciò che egli le offriva, Agatha insisté: «Ho bisogno di sapere se sei disposto a venire con me.»

Affrontare di nuovo un viaggio, ma senza la sua squadra, aiutare Agatha a catturare nuovi Pokémon e poi seguirla e sostenerla lungo l'infinito percorso che si stendeva davanti a loro verso un incerto futuro. Soffocando lo strano sentimento di sconforto che questa prospettiva gli causava, Samuel allungò una mano e le scompigliò i capelli.

«Scema» disse.

Il pallore di Agatha si colorì del suo sorriso.


Si erano alzati prima dell'alba, in una Lavandonia ancora grigia e fresca e meno soffocante che durante il giorno. Affacciandosi alla finestra della sua stanza, Samuel aveva visto in lontananza biancheggiare ancora di nebbia la vasta schiena del mare, dove forse appena una brezza lievissima increspava le onde in superficie.

Quando era sceso dabbasso, aveva trovato Agatha già sveglia, tutta presa da un senso d'angoscia e attesa. Indossava ancora un completo di foggia maschile, con morbidi calzoni blu che si stringevano eccessivamente attorno alla sua vita smagrita, e rimaneva immobile davanti alla finestra della cucina, colle mani aggrappate al davanzale. Guardava fuori, ma i suoi occhi non si volgevano verso il mare, e neppure verso la luminescente aurora che infiammava la possenza dei monti. Samuel si era chiesto se rimanesse ancora spazio per la bellezza in lei. Esisteva ancora in lei, da qualche parte, l'Agatha gioiosa e vitale che aveva ammirato per ore, senza volersene staccare, la meraviglia senza tempo di Articuno? O forse quel rancore che in lei era sempre esistito, e che egli aveva accettato con naturalezza, come aveva accettato i suoi capricci e il suo coraggio, si stava nutrendo del suo dolore tanto da acquisire in lei più forza della vita?

Non aveva acceso la luce, forse per non richiamare l'attenzione del pase, o almeno di qualche singolare paesano che fosse già sveglio a quell'ora, ma la scarna luce livida del mattino era già sufficiente a illuminare in parte il suo profilo. Samuel aveva distinto occhi smisuratamente grandi sul pallore del volto, scure ombre dolorose che scavavano e approfondivano la sua bellezza ancora quasi infantile, la curva angosciosa delle altere sopracciglia contratte e labbra dischiuse che s'impedivano di tremare. Tutto in lei parlava di dolore, pensò Samuel osservandola dalla porta, ma di una sofferenza dura e statuaria, più inaccessibile della vetta di un monte, che si era fatta carne e non poteva più profondersi in lacrime.

Agatha si era accorta di lui solo dopo qualche momento, forse per aver percepito una diversa tonalità nel silenzio che la circondava, o per aver avvertito l'impercettibile suono del suo respiro. Si era riscossa dalla sua contemplazione come da un interminabile sogno, lentamente, e altrettanto lentamente si era voltata; ma finché non si erano posati su di lui, i suoi occhi erano rimasti colmi ancora del suo sogno, trabordanti tanto ch'egli aveva creduto di poterne leggere il suo pensiero. Poi il suo sguardo si era posato su di lui, quasi con voluttà di riposo, ed ella era finalmente riemersa dal ricordo di quella notte ed era tornata da lui.

Per qualche istante Agatha aveva come combattuto l'impulso di domandargli s'egli fosse davvero deciso, o di ricordargli che su di lui, se si fosse tirato indietro anche solo in quel momento, ella non avrebbe rivendicato alcun diritto; ma poi la sola idea di mettere in dubbio la sua decisione, che già di per sé era divenuta evidente nel fatto stesso ch'egli si era presentato al loro incontro, le era parsa offensiva, e aveva lasciato perdere.

«Hai fame?» aveva domandato invece, colle dita ancora nervosamente strette attorno al piano della cucina e gli occhi infissi su di lui, quasi a voler percepire il suo stato d'animo da tutto ciò che a voce non si poteva esprimere: forse la piega delle labbra, o la postura delle spalle, o qualcos'altro ancora, che agli occhi era invisibile ma che lei, egualmente, avrebbe visto.

«No» aveva risposto. Sentiva l'ansia stringersi in una morsa proprio alla bocca dello stomaco, e neppure volendolo avrebbe potuto mangiare.

Non c'era stato nient'altro da dire, nient'altro che Agatha avesse potuto trovare da chiedergli per poter prolungare quel momento di ancora un istante senza esser costretta a dirgli ciò che davvero avrebbe voluto: che non era tenuto a seguirla, che lei comunque gli era grata; che...

Ma rimandare ancora non avrebbe avuto senso, ed erano usciti.

Avevano attraversato la città come spettri, in silenzio e senza neppure guardarsi, accontentandosi di percepire l'uno la presenza dell'altra attraverso l'aria solamente. Senza voltarsi, guardando dritto davanti a sé e sforzandosi d'ignorare il suono lieve del suo respiro, Samuel avrebbe potuto credere d'esser solo e abbandonato in tutta Lavandonia... ma non era così, e quand'anche egli non fosse riuscito a udirlo e neppure a percepirlo nell'aria scura e impenetrabile tutta attorno a lui, egli ugualmente avrebbe capito, e non avrebbe potuto nutrire alcun dubbio sul fatto che l'ardore di Agatha fiammeggiasse troppo intensamente perché la paura potesse trattenerla.

In piena notte, il cantiere deserto sembrava semplicemente immenso. Si erano insinuati attraverso le transennature, sgusciando appena tra i macchinari a riposo, e avevano strisciato lungo il muro della Torre camminando con difficoltà sul terreno smosso di fresco.

La porticina si era aperta senza alcun problema. Al di là di essa si stendeva il vasto piano terreno della Torre, ma quando Samuel era entrato, e dopo lunghi istanti di angosciata apnea finalmente aveva ricominciato a respirare, quell'odore familiare ch'egli ricordava anche troppo bene, odore di cera e incenso e di fiori lasciati a imputridire nell'acqua da ormai qualche giorno, non c'era. Quel giorno, la Torre era stata così affollata e caotica che non sarebbe stato neppure possibile percepire quell'odore, in mezzo a una folla di signore profumate e di signori in acqua di colonia, e al di sopra dell'aria troppo calda ma ventilata che spirava dalle finestre spalancate; ma ora era deserta, e proprio il silenzio tombale che vi aleggiava incoraggiava gli altri sensi. Curiosamente, egli si era reso conto di essersi aspettato di trovare quell'odore ad attenderlo solo in quel preciso momento in cui l'aveva assalito il sollievo per non averlo trovato, e forse era meglio così. La sala odorava ora di intonaco e calce e della polvere smossa dei lavori, e di quel misero evento che sembrava serbar di lui tanta pietà egli si sentì smisuratamente grato.

All'interno della Torre, dove nessuno poteva più vederli, Agatha si era abbassata sulle spalle lo scialle con cui si era coperta i capelli – malgrado l'ora, Samuel aveva insistito, poiché era certo che se qualcuno li avesse visti, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a distinguere persino nella notte la crespa nube dei suoi capelli scomposti – e avevano raggiunto a tentoni il piano di sopra. Più su, Samuel aveva messo bene in chiaro che non solo non l'avrebbe seguita, ma le avrebbe impedito di andare, anche a costo di trascinarla di peso giù per le scale; e Agatha aveva capito.

Vederla avanzare ora tra le tombe, nella luminescenza dell'alba appena un po' più intensa e meno livida di quella della luna piena, lo riempiva d'ansia e di ricordi e di spavento: per impedire a se stesso di afferrarla e di stringerla, di portarla via da quel luogo orribile in cui i loro Pokémon erano morti, Samuel si era aggrappato alla superficie levigata di una lapide, con tanta forza che quasi si era meravigliato che le sue dita non penetrassero attraverso il marmo come fosse carne, e aveva aspettato.

Agatha aveva camminato tra le lapidi in silenzio, col volto concentrato e tutto preso da quel momento. Non si era mai allontanata molto da lui, e anzi più volte si era voltata a cercarlo, ma non perché non fosse certa di quanto si fosse allontanata da lui, o perché volesse assicurarsi che egli non l'avesse abbandonata; ma nei suoi occhi senza luce, che lo vedevano senza soffermarsi su di lui, Samuel vedeva specchiarsi il medesimo incubo che lo avvinceva, e allora era certo che ella lo cercava con lo sguardo e lo ritrovava perché aveva bisogno di sapere di essere sveglia e che tutto era reale.

Gastly era arrivato dopo lunghi interminabili minuti di attesa, proprio quando sembrava ormai diventato tutto inutile e insperabile. Samuel non l'aveva visto subito, forse perché non ne aveva mai visto uno, e per questo motivo non sapeva precisamente che cosa aspettarsi, o forse soltanto perché era buio: tutto ciò che aveva visto, in quella lunga notte che volgeva al mattino, era l'improvvisa rigidità di Agatha, come s'ella si concentrasse per un momento per capire da dove venisse quel rumore che aveva sentito – o forse quella sensazione che aveva avuto – e poi, al di là della sua figura, una nube scura e indistinta, stagliata contro la finestra. Ma ecco, proprio quando Samuel finalmente aveva levato lo sguardo su quella finestra, e aveva distinto l'informe sagoma inconoscibile che spiccava per contrasto contro la luce dell'esterno, egli per un attimo aveva avuto la stessa impressione di Agatha, e subito dopo quell'impressione era divenuta consapevolezza: quella nube aveva occhi che lo scrutavano...!

E poi, e poi. Non c'era quasi nulla che valesse la pena ricordare di quel momento. Agatha si era mossa con rapidità sconcertante, molto più rapida del suo impulso di correre in suo soccorso: la sua mano non aveva esitato un solo istante, e quando il lampo della Pokéball che si apriva per poi richiudersi subito dopo aveva illuminato a giorno il suo viso, egli aveva visto i suoi occhi seri e concentrati e le sue labbra serrate in una linea dura e determinata che non lasciava spazio all'incertezza.

E poi, e poi. Le catture si erano susseguite rapidamente e con via via maggior sicurezza, a misura che i Pokémon si erano avvicinati incuriositi dalla loro presenza , e forse persino un po' intontiti dopo tutti i lavori e il caos che avevano animato la Torre negli ultimi giorni, e la mano di Agatha aveva saettato nel buio ancora e ancora. Vi era stato un momento soltanto, in quella sequenza di lampi di luce, in cui Samuel aveva provato una fitta di panico, e staccandosi dalla lapide al quale si era aggrappato si era ritrovato alle sue spalle: a un tratto, un esemplare particolarmente grosso – o quantomeno una nube gassosa particolarmente estesa – si era liberato sibilando dalla Pokéball e si era scagliata contro di lei... eppure, come al solito, Agatha si era rivelata molto più all'altezza della situazione di quanto egli si ostinasse a considerarla. Senza permettere a se stessa di arretrarsi solo di un passo, ma fronteggiando ancora a testa alta il suo nemico, aveva agito senza esitare, e dopo un ultimo lampo di luce e una breve serie di oscillazioni, la Pokéball si era richiusa.

Avevano lasciato Lavandonia quel mattino stesso, senza neppure tornare alla vasta casa vuota, mentre la cittadina cominciava a svegliarsi e a stiracchiarsi, in procinto di dedicare un'altra giornata a vivere in funzione del suo enorme parassita, e si erano diretti verso ovest, dove cresceva Zafferanopoli dalle strade color di croco. Scegliere una prima tappa così vicina per riprendere il loro viaggio si era rivelata una buona idea: Samuel stesso, che pure non aveva altra infermità che quel mese di ozio forzato – era la prima volta da quando era partito che si fermava tanto a lungo nel medesimo luogo – si era sorpreso di arrivare a Zafferanopoli molto più stanco e dopo molto più tempo del normale; quanto ad Agatha, egli aveva potuto leggere il dolore accrescersi e avvicendarsi alla stanchezza sul suo volto, a misura ch'esso sbiancava o si arrossava o che la sua fronte s'increspava; ma ella non si era mai lamentata.

Dopo Zafferanopoli, le città e i percorsi si erano susseguiti senza sosta. Quando si soffermava a riflettervi, nelle lunghe notti gelide in cui stentava ad addormentarsi, Samuel sbigottiva di quanta strada avessero percorso.

Erano avanzati molto lentamente, all'inizio. Per Agatha, quella era la prima volta dopo anni che combatteva con Pokémon diversi dalla squadra alla quale era abituata, e per i primi tempi – anche s'ella non l'avrebbe ammesso mai ad alta voce! - Samuel aveva letto nei suoi occhi tutta la guerra d'amore e di dolore che scatenavano in lei i suoi nuovi Pokémon. Agatha si era imposta di sopravvivere a quel dolore perché non farlo sarebbe stato offendere la memoria e il sacrificio della sua squadra, e non avrebbe ammesso a nessun costo che quell'impegno segreto che non si poteva tradire era forse troppo grande di lei; no, non avrebbe confessato mai che tutta una parte intera di lei non avrebbe voluto affatto andare avanti, e che quella vita non valeva più niente, che il suo sogno era divenuto irrealizzabile e privo di significato da quando loro...! Proprio guardare quei nuovi Pokémon che si era scelta le ricordava ogni giorno di più che quelli che erano stati i suoi non c'erano più, che non sarebbero tornati mai più da lei; e proprio questo la riempiva di un grande dolore.

Samuel ricordava precisamente il momento in cui Agatha, all'improvviso, si era innamorata di loro e li aveva accettati.

Non c'era voluto più di un istante, dopo mesi di lotta e di conflitto e di pianto; o meglio, mesi di guerra e confusione erano culminati sublimandosi in quel solo attimo, e da allora Agatha aveva smesso di lottare con se stessa.

Era accaduto durante una di quelle rare sere in cui Agatha aveva fatto uscire i suoi Pokémon dopo cena, mentre sedevano in silenzio attorno al fuoco, poco a ovest di Fucsiapoli. L'estate non era ancora finita, certo, ma le giornate cominciavano già ad abbreviarsi, e a quell'ora, a breve distanza dal mare, la notte era fredda.

Agatha aveva accettato di buona grazia il giubbotto che Samuel le aveva offerto, e ora sedeva in silenzio con lo sguardo perdutamente infisso nel fuoco, preso come da pensieri tutti suoi. Aveva la fronte penosamente aggrottata, con le braccia conserte sul petto con forza, e le fiamme che si avvicendavano per salire al cielo davanti a lei tratteggiavano sul suo viso nere ombre mutevoli e ognora cangianti, alterando a ogni momento le la luminescenza dei suoi occhi. Proprio su di essi Samuel si sforzava disperatamente di concentrarsi, perché guardare il fuoco, da un po' di tempo a quella parte, non gli piaceva più.

I suoi Pokémon giocavano a inseguirsi a pochi passi da loro, sovrastando con le loro stridule risate sguaiate, che sarebbero risultate agghiaccianti se Samuel non li avesse conosciuti bene, il crepitio delle fiamme.

Era successo tutto così in fretta. A un tratto Haunter – l'unico Pokémon già parzialmente evoluto che Agatha avesse catturato quel mattino, quello che per poco non l'aveva aggredita – forse stufo dell'indifferenza un po' distante che era tutto ciò che Agatha, seppur involontariamente, era stata in grado di riservare loro, si era avvicinato a lei, l'aveva guardata da vicino per qualche secondo, come a stabilire se i suoi vacui occhi pensosi fossero in quel momento in grado di vederlo o se, invece, non occorresse fare ricorso a qualche metodo più ardito per ottenere la sua attenzione, e infine, forse arrendendosi all'evidenza, aveva afferrato i suoi capelli e aveva tirato.

Agatha non aveva neppure gridato. Samuel l'aveva vista sobbalzare per la sorpresa, quando quello strattone l'aveva bruscamente richiamata alla realtà dall'abisso senza fondo dei suoi pensieri, ma questo era tutto quanto ella aveva concesso a quel primo attimo di sgomento. Era balzata in piedi in un impeto di rabbia, volgendo furiosamente su Haunter occhi ardenti e severi come braci incandescenti: Samuel si era aspettato che... e poi Haunter aveva fatto una boccaccia, e Agatha era scoppiata a ridere.

Erano Pokémon un po' malevoli, anche se non fino a essere decisamente cattivi, più di Veleno che di Spettro, almeno per come li vedeva Samuel, cioè alquanto infidi e subdoli; e non c'erano dubbi che ad Agatha questo aspetto del loro carattere piacesse molto. Nidoking era stato coraggio e brutale aggressività fisica, e si era arrogato il compito di difendere Agatha come il padre o il compagno ch'ella non aveva mai voluto avere; ma dopo di lui, e dopo Vileplume e Tentacruel, forse Agatha non voleva più affatto qualcuno che la proteggesse. In lei bruciavano una fiamma di vendetta e un'amarezza sorda e rancorosa che non potevano riversarsi su alcun oggetto reale, per il semplice fatto che il sepolto vivo era morto e che il dolore che abitava il suo animo era immotivato e ingiusto, del tutto privo di ragioni materiali, e che non avevano bisogno di coraggio o mera forza fisica, dal momento che non potevano concretizzarsi in atti. Ma la rabbia di Agatha era immedicabile: non poteva sfogarsi né trovare pace, e perciò la rendeva inquieta e furiosa e priva di riposo; anche se forse, chissà, quella subdola e mendace malignità dei suoi Pokémon, che si esprimeva attraverso scherzi e dispetti e veleno voluttuosamente gettato in faccia al nemico, forse dava un po' di sollievo al suo animo dilaniato dal senso impotente della rivalsa...

Beninteso, non erano Pokémon cattivi, o almeno non avevano alcuna intenzione di essere davvero crudeli. No, Gengar e Haunter erano semplicemente il caos, ma un caos allo stato puro, primordiale, e del tutto privo di qualsiasi connotazione morale. Nella loro mente non c'era spazio per nient'altro che non fosse il loro divertimento, sfrenato e senza limiti, - o meglio, lo spazio ci sarebbe stato, ma semplicemente a loro non interessava curarsi d'altro – e tutto ciò che a quel divertimento poteva contribuire, e poco importavano le possibili conseguenze dei loro scherzi e della loro follia. Tutto il mondo sensibile esisteva, nella loro ottica, per nient'altro che la gioia caotica della loro malignità, e in tutto questo Agatha non li aveva mai fermati. I suoi Pokémon si ergevano davanti a lei come un esercito di demoni indisciplinati e ribelli, che amavano la lotta e la confusione e che non chiedevano di meglio che seminare un po' di zizzania al loro passaggio, ma che si mostravano ai suoi ordini mansueti e docili proprio come bambini un po' irruenti, che però amassero la loro madre di tutto l'amore del mondo e volessero compiacerla in tutto e per tutto.

Sì, Gengar e Haunter adoravano Agatha di un'adorazione incontrastata e senza pari, mettendo incondizionatamente al suo servizio tutta la loro violenza e la loro sottile perfidia, e forse l'amavano proprio perché sentivano ch'ella si compiaceva della loro natura e trovavano in lei una perfetta corrispondenza. Il mondo appariva loro come un immenso parco giochi privo di ogni proibizione o confine, d'accordo, ma quel mondo girava attorno a lei, mutando in base alla sua volontà. Anche gli scontri con gli altri Pokémon non sarebbero stati, per loro, che eterni giochi vagamente perversi in cui dar sfogo ai loro orribili poteri; ma ciò nonostante essi non avevano mai tardato, neppure un istante, a eseguire i suoi ordini ponendo così fine alle lotte.

Del resto, Samuel era convinto che quei tre nutrissero una particolare forma di rispetto e di riguardo anche per lui, se non proprio un'aperta e palese simpatia; ma questo era quanto. Amavano coinvolgerlo nei loro scherzi, naturalmente, così com'erano abituati a fare con qualsiasi essere vivente che non fosse Agatha; ma si trattava di scherzi innocui, che non miravano a spaventarlo o a mortificarlo davvero, come amavano fare con gli altri. Volevano ridere con lui, non di lui, e se questa mitezza nei suoi confronti fosse dovuta a un loro reale affetto o piuttosto al fatto che non volevano entrare in contrasto con la volontà di Agatha, questo Samuel non avrebbe saputo dirlo e neppure gli interessava. Era la squadra di Agatha, non la sua, e in che misura e per quali motivi la loro perfidia prendesse forma sulla bruciante ambizione di quella ragazza, non lo riguardava.

Allenarsi all'inizio, naturalmente, era stato difficile. Al momento della loro cattura erano Pokémon molto deboli, incostanti, e privi di particolari talenti. L'autorevolezza di Agatha era tale che essi non avevano mai esitato a obbedirle, e questo era stato una fortuna, perché ella aveva al contrario faticato moltissimo ad abituarsi a loro e a trovare per ciascuno un ruolo e una strategia nell'economia della squadra: erano Pokémon nuovi, con mosse e vulnerabilità e debolezze completamente nuove rispetto a quelle cui ella era sempre stata abituata e sulle quali aveva costruito quella sua tattica aggressiva e furiosa che ormai, per forza, non aveva più modo di mettere in atto.

Eppure, e senza che Samuel ne avesse mai dubitato, Agatha aveva superato ogni difficoltà che le provenisse dai suoi Pokémon con implacabile determinazione. Non erano certamente ancora al livello della squadra di cui ella aveva potuto vantarsi con tanta sicurezza a Fucsiapoli, d'accordo, eppure in loro brillava qualcosa di orribilmente forte, macabro e selvaggio e pronto in ogni momento a rivelarsi, ed ella aveva bisogno soltanto di un po' più di tempo per poter tornare di nuovo a competere, verbalmente e non solo, coi gradassi che avevano cercato di umiliarla sull'Altopiano Blu.

La sua ambizione li aveva trascinati per tutta Kanto per la seconda volta da quando la loro alleanza si era costuita, e alla sua ambizione Samuel non si era mai oppposto. Si era limitato a seguirla in silenzio, senza opporlesi mai, neppure quando la sua passione aveva raggiunto vette irraggiungibili e inusitate... era stato per lei più un sostegno che un compagno per tutti quei mesi, un osservatore più che un amico; eppure sentiva che della sua presenza silenziosa e discreta, ma immancabile, Agatha gli era grata.

Vi era tutta una parte di lui che avrebbe voluto poterle dare un'altra pace da quella che ella cercava nella lotta. La sua rabbia impotente si riversava nelle battaglie in grandi ondate, si faceva guerra e scontro in cui era ella stessa, Agatha, la prima a volersi distruggere... nella battaglia ella cercava uno sfogo anche solo temporaneo all'ira focosa che le bruciava dentro e che non la lasciava mai, e Samuel avrebbe disperatamente voluto poterla salvare da quella rabbia e da quella disperazione... o almeno conoscere le parole per dirle che tutto il suo odio e la sua cieca ostinazione, protese verso il nulla e verso l'infinito, erano altrettanto inutili, vane e prive di significato quanto l'incessante splendere del sole; e che non solo non avrebbero potuto riportare indietro i suoi Pokémon, ma non avrebbero nemmeno potuto darle sollievo.

Ma per quanto profondamente egli volesse aiutarla, per quanto ogni giorno, mentre la guardava lottare, egli desiderasse stringerla e scuoterla e urlarle di smettere di tormentarsi – perché era questo che stava facendo, esattamente come lui, seppure in modi diversi – Samuel sapeva che non sarebbe bastato. Quel dolore che in lui era divenuto compassione, in lei si era trasformato in durezza, ma una durezza totale e priva di scrupoli, ed ella sembrava voler punire il mondo intero con la stessa inflessibile severità con la quale aveva castigato se stessa. Non c'era altro da dire.

Compassione, già. Era così che si poteva dire quel sentimento nuovo che ora lo penetrava quando guardava Agatha lottare e spronare al massimo la sua squadra, con quello stesso ardore che egli stesso aveva avuto, fino a poco tempo prima, ma che ora proprio non sarebbe più riuscito a trovare in se stesso? Era compassione, certo, quella che provava quando di fronte a lui, a pochi passi da lui, un'Agatha più selvaggia di quella ch'egli aveva affrontato sull'Altopiano Blu incrudeliva sull'avversario, partecipando alla lotta non meno dei suoi Pokémon; compassione, d'accordo, ma egli sapeva che cosa volesse dire lottare, per un allenatore. Agatha non faceva altro che aderire, sebbene con più veemenza di prima, al medesimo codice di comportamento non scritto, ma di certo universalmente adottato, che egli stesso aveva riconosciuto fino al preciso momento in cui aveva mandato Arcanine in campo per il suo ultimo scontro. Lottare aveva comportato da sempre cicatrici e sangue e grida di dolore, e quel prezzo egli era sempre stato disposto a versarlo: ma allora in quel rinnovato sentimento di compassione ch'egli sentiva sbocciare in sé non vi era, forse, una parte di orrore e di spontaneo rifiuto di ogni forma di sofferenza che potesse ricordargli del peccato ch'egli aveva commesso, quando aveva creduto che la lotta potesse salvarlo?

Agatha questo non riusciva a comprenderlo, o meglio, aveva capito le sue ragioni, con la stessa naturalezza con la quale egli aveva compreso la natura della sua rabbia; ma non riusciva proprio a condividerle. Nel suo protratto rifiuto di tornare a essere l'allenatore di un tempo, ella non riusciva a vedere altro che un'ostinata volontà di continuare a punirsi per qualcosa che aveva causato, ma che non avrebbe mai potuto impedire, e che soprattutto non poteva ormai cambiare. Di fronte alle sue preoccupazioni, e alla sua speranza di poterlo strappare alla prospettiva di una vita di rinunce e privazioni autoinflitte, Samuel non poteva che sorridere in silenzio tra sé della sua tenerezza. Con quali parole parlare alla sua rabbia, e come dirle che egli non avrebbe allenato mai più un Pokémon non soltanto perché di tale onore e responsabilità non si sentiva più degno, ma anche perché, persino volendolo, non ne sarebbe stato in grado? Come mandare in campo un Pokémon, anche solo per gioco, senza pensare ogni volta all'ultima lotta di Arcanine?

All'estate troppo calda della prima Lega Pokémon si era succeduto un autunno precoce e freddo, ma ancora limpido, ed essi avevano camminato sui terreni variopinti di quell'autunno; durante i loro accampamenti isolati sulle colline, troppo lunghi e troppo solitari, Samuel aveva tolto lentamente foglie e dorate dai capelli di Agatha, ed ella le aveva scrutate a lungo, tristemente, prima di gettarle nel fuoco. Avevano percorso strade dritte e interminabili, lunghe tanto da perdersi all'orizzonte ben oltre il limite del loro sguardo, fiancheggiando neri campi spogli che il mattino ricopriva di nebbia, ma che si stendevano poi limpidi e netti per tutte le giornate che andavano insensibilmente abbreviandosi.

Non avevano smesso di camminare neppure quando all'autunno si era avvicendato un inverno insolitamente rigido per quella regione, e neppure avevano cercato il conforto del mare. Avevano accolto il gelo che li flagellava come avrebbero fatto con qualsiasi clima che mandasse loro il cielo, senza lamentarsene, e avevano continuato a camminare, Samuel con la sensazione di avanzare controvento contro una tempesta che lo respingeva, ma sempre senza poter rinunciare all'obbligo di andare avanti, ancora avanti, e Agatha col volto offerto alla neve e al gelo quasi voluttuosamente, per l'insano sentimento di autodistruzione che aveva, affrontando l'inverno così come si sarebbe consumata nel fuoco. Della perversità del suo dolore Samuel provava pietà, ma proprio perché la conosceva bene e sapeva che ella lo avrebbe respinto, non aveva mai fatto niente per impedirle di farsi del male. Agatha voleva soffrire, e che questa fosse una sorta di tortura autoinflitta per redimersi, o piuttosto una forma catartica nella quale il suo dolore potesse trovare pace, non cambiava le cose, poiché egli non era nella posizione adatta per dirle se stesse o meno sbagliando. Tutto ciò che riteneva di poter fare per partecipare della sua pena e assieme per mitigarla un po', e che Agatha del resto non gli aveva mai impedito, era tenere tra le sue le piccole mani di Agatha, infreddolite e screpolate dal vento, scaldandole a lungo col proprio calore. Ognuna delle piccole piaghe sanguinanti che il freddo aveva scavato nella sua carne era per Agatha una punizione cui non faceva nulla per sottrarsi, ed egli lo sapeva... ma il suo calore e il suo conforto ella non l'aveva mai rifiutato, e Samuel avrebbe voluto poter fare questo per tutta l'eternità: lenire le sue ferite, poiché non poteva impedirle di infliggersele.

Ma a mano a mano che l'inverno si era ritirato verso le cime dei monti per cedere il passo a una primavera più benevola nei loro confronti, si era confermata in lui la certezza di non poterla accompagnare oltre nel suo viaggio. La stanchezza aveva preso possesso di lui come una malattia, invalidante più di una ferita, nauseandolo e assalendolo ogni mattina, e gli faceva desiderare ogni sera di non svegliarsi per non essere costretto ad affrontare ancora un'altra giornata. Non era la stanchezza del viaggio, o delle alterne vicende di sole e di pioggia che fustigavano i loro corpi nella primavera già inoltrata ma ancora incostante... no, Samuel era stanco perché aveva gli occhi ancora pieni dell'inferno della Torre che bruciava e le orecchie eternamente echeggianti dell'ululato di Arcanine, e tutto ciò che avrebbe desiderato era di trovare pace. Ma se lui si fosse fermato, Agatha avrebbe proseguito da sola, ed egli l'avrebbe dunque perduta per sempre? E se l'avesse perduta, chi si sarebbe preso cura delle sue mani screpolate dal freddo?

Preso da tutti questi pensieri che si dibattevano dentro di lui, contrastandosi e opponendosi gli uni agli altri con le loro opposte motivazioni, e già sapendo, in fondo al suo cuore, quale sarebbe stata la risposta, il primo di giugno – il giorno dell'anniversario di quella notte, che li aveva ricondotti, senza ch'essi lo avessero deciso né concordato ad alta voce tra di loro, a Lavandonia - sotto un cielo meravigliosamente terso e caldo e sotto un sole che brillava, Samuel si risolse infine a dirle con voce ferma e priva di qualsiasi esitazione: «Sposami, Agatha.»

Chissà perché, Agatha accolse la sua proposta con calma, malinconica compostezza, come se avesse atteso ch'egli le chiedesse di sposarla ormai da molto tempo, forse persino da prima ch'egli stesso prendesse questa decisione in fondo al proprio animo, e non ne fosse perciò affatto stupita.

Non si voltò verso di lui. I suoi occhi erano infissi lontano, verso Lavandonia che si stendeva ai piedi della collina dove si trovavano, e più oltre, verso la vasta schiena del mare traslucido che proseguiva fino a confondersi col cielo... ma di tutto quel panorama così estivo e pacifico, solare e vitale, Samuel sapeva che non riuscivano a vedere alcunché, e anche se ne fossero stati in grado, non sarebbero riusciti a coglierne la bellezza. No, dopo ormai quasi un anno di viaggio, il sospetto che aveva concepito nella sua mente la notte della loro partenza era divenuto certezza: l'Agatha che aveva accanto, e alla quale aveva appena chiesto di sposarlo, non era più la ragazza gioiosa e appassionata delle Spumarine e della Centrale Elettrica. La donna che era sopravvissuta a quella notte e che era scappata dall'inferno non riusciva a vedere altro, in quella giornata di sole, che l'esile linea nera e slanciata che congiungeva la terra al cielo, e che era la Torre; e forse, oltre l'orizzonte che non riusciva a raggiungere con lo sguardo, ella poteva intuire o immaginare uno spazio sterminato e ricco di nemici sui quali sfogare la sua furia sconfinata... ma niente più di questo. No, non c'era più spazio per la poesia e la bellezza in Agatha, non più di quanto ne fosse rimasto in lui per l'avventura; ma proprio per questo egli sentiva di amarla di più, perché Agatha aveva più bisogno del suo amore; e forse, chissà, se per qualche miracolosa congiunzione del cielo ella avesse accettato di sposarlo, magari, in moltissimo tempo, e con tutto il suo amore incondizionato e senza riserve, egli sarebbe riuscito ad apportare qualche beneficio alla sua anima inaridita; un giorno, osservando quel medesimo spettacolo d'acqua e di cielo che si congiungevano sino a perdersi, magari Agatha avrebbe sorriso...

La fronte di Agatha s'increspò di dolorosa concentrazione, la linea delle sue labbra si fece più sottile e rigida; persino la curva della sua gola parve più severa e statuaria. Col profilo così contratto e indurito, e gli occhi distanti e pensierosi, Agatha domandò: «Perché me lo stai chiedendo adesso?»

Dunque Agatha sapeva, aveva sentito ch'egli stava cambiando a poco a poco, che in lui si stava formando una risoluzione; che Samuel non solo era stanco di viaggiare con lei, ma che addirittura a quel viaggio aveva meditato di porre una fine... ma del resto, non c'era motivo di sorprendersene. In quei mesi di vicinanza continua, egli l'aveva osservata e studiata ininterrottamente, giungendo a conoscerla come il ritmo del proprio respiro; ma neppure Agatha era cieca, e soprattutto, anche Agatha lo amava. In quei mesi egli lo aveva letto in ogni gesto delle sue giornate, in quasi ogni pensiero che le scorgesse negli occhi: Agatha glielo aveva dimostrato ogni singolo giorno da quando erano partiti, senza che neppure ci fosse bisogno di parlarne, col mostrargli le proprie ferite e permettergli di prendersene cura, e col trovare, nonostante il dolore e la rabbia, ancora tanta forza e luminosità, dentro di sé, da sorridergli dall'altra parte del fuoco prima di dormire... dunque per quale motivo ella avrebbe dovuto ignorare ciò che andava formandosi dentro di lui?

«Vorrei fermarmi, Agatha» rispose sinceramente, con semplicità. Non c'era bisogno di discorsi altisonanti, o di far tragedie. Le loro anime spoglie, prive di schermi, erano l'una davanti all'altra e potevano parlarsi senza urlare. «Tu sai che io ti avrei seguita, ma... non ci riesco. Ho bisogno di fermarmi, Agatha, e di riposare. Vorrei costruire una casa, una famiglia, magari.»

Agatha accolse le sue parole con una compostezza che sarebbe stata difficile da credere altrimenti. Si limitò a chinare lo sguardo, molto lentamente, e ad annuire. «È quello che hai sempre desiderato.»

Sì, Agatha aveva ragione. Una casa e una famiglia, un lavoro che lo appassionasse e una moglie che lo amasse quanto lui l'avrebbe amata, e magari persino dei figli: questa era sempre stata la felicità, per lui. Ma dopo aver concepito questo sogno, egli aveva conosciuto Agatha: e non valeva forse la pena di sacrificare una parte del sogno di una vita, per lei?

«Se mi sposi, io rimarrò a casa, ad aspettarti mentre viaggi.»

Gli occhi di Agatha, enormi e stupefatti, finalmente. Ma mentre Agatha si strappava bruscamente dalla contemplazione del paesaggio per voltarsi a guardarlo e la sua bocca si spalancava per lo stupore, Samuel non faceva altro che convincersi una volta per tutte che proprio i suoi occhi valevano bene la pena di un sacrificio.

«Non è quello che vuoi» obiettò Agatha, quando finalmente ebbe trovato la voce. Parve che quella fosse l'unica obiezione che riuscisse a formulare logicamente. «Tu vuoi una moglie vera

«Ma lo sto chiedendo a te.» Perché se avesse potuto avere Agatha al suo fianco, anche solo pochi giorni solamente di tutta la sua vita, sarebbe valsa la pena dell'attesa, e di quei pochi giorni ch'ella avrebbe liberamente scelto di trascorrere con lui, egli le sarebbe stato più grato che a una qualsiasi altra donna per una vita di fedeltà... poiché l'abnegazione si misura in base alla grandezza del proprio ego, e non era forse Agatha la donna più fiera e indipendente che potesse esistere? «Io non posso seguirti, ma posso aspettarti. Costruirò una casa dove saprai in ogni momento di poter tornare.»

Il volto di Agatha sembrava una pozza di confusione di cui Samuel poteva leggere sui suoi tratti ogni singola incertezza. Si passò una mano tra i capelli per allontanarli dal viso e mormorò: «Sarebbe proprio come con tuo padre, Samuel.»

Il punto debole del piano, la chiave di volta che minacciava a ogni momento di far crollare ogni cosa: Agatha l'aveva scoperta subito, e subito sottolineata. Certo, era ovvio che avrebbe capito subito: era quello il sacrificio, costringersi ad accettare che il comportamento di suo padre fosse comprensibile e accettabile, che potesse esistere un valido motivo per andarsene di casa senza che fosse un peccato da dover scontare... dopo aver trascorso tutta la sua vita senziente a rinnegare la sua figura e a giurare che mai si sarebbe comportato come lui, all'improvviso Samuel aveva dovuto accorgersi che non era lui a essere uguale a suo padre – era Agatha. Ma egli non poteva comunque fare a meno di amarla, e per questo motivo doveva accettarla così com'era.

«Non ha importanza, Agatha. Se mi prometterai di tornare, io ti crederò sempre.»

Una scintilla di consapevolezza cominciò a farsi sempre più strada nello sguardo di Agatha: a poco a poco, ella comprendeva sempre di più la reale portata della sua proposta. In quel preciso minuto in cui ella lo scrutava intensamente, era forse possibile che si proiettasse tanto avanti con l'immaginazione e le si prospettassero davanti le lunghe fila di innumerevoli anni futuri, trascorsi come sua moglie ma lontana da lui?

Samuel capì di averla perduta per sempre nel momento in cui Agatha tornò a voltarsi verso Lavandonia, e distolse lo sguardo da lui.

«Non posso, Samuel.»

No, non poteva. L'aveva sempre saputo, in fin dei conti, quale sarebbe stata la risposta, ma solo in quel momento, quando Agatha distolse gli occhi da lui e il suo profilo si fece impenetrabile e troppo carico di dolore per poterlo sopportare, Samuel si rese finalmente conto di quanto si fosse illuso di poter cambiare le cose, e di quanto si fosse sbagliato. Agatha gli era appartenuta nello stesso modo in cui egli stesso era stato suo, fino a quel preciso istante in cui gli aveva detto no: ma ora tutto era finito, e Samuel si sentì lieto, per un istante, che la ferita che gli aveva inferto fosse troppo profonda, venenifera e mortale per poter essere avvertita immediatamente.

«Perché no, Agatha?»

Gli occhi di Agatha si chiusero sull'orizzonte, come a volersene escludere, e la sua fronte si contrasse e si accigliò in uno spasmo di disperazione, ma silenzioso e misurato come un grido senza voce.

«Tu non mi impediresti niente, Samuel... ma io ti odierei lo stesso per non essere con me. Se il prezzo da pagare è quello di odiarti, preferisco non averti affatto.»

Era veramente finita, ora. Samuel si sentì d'improvviso sollevato, come dopo l'ultimo scatto convulso di un corpo che muoia dopo una tremenda agonia. Si concesse di chiudere gli occhi e d'inspirare profondamente nel vento, e di prestare attenzione al vago dolore sordo che palpitava nelle profondità del suo petto, ma che non trovava ancora una forma e una collocazione precisa dentro di lui. Era finita, si ripeté, e fu veramente felice di sentirsi stordito e come anestetizzato, per il momento, perché sapeva che quando veramente avesse avvertito il colpo, esso sarebbe stato formidabile. Agatha non era più sua, ed egli si rendeva conto che da quel momento, ogni ora che avesse trascorso con lei sarebbe stata un guadagno, un dono del cielo da assommare a ciò che aveva già goduto, e di cui essere grato.

«Che cosa farai ora?» domandò dopo un po', quando proprio il silenzio si fece troppo assordante, ed egli temette che se fosse durato ancora, non avrebbe potuto fare a meno di continuare a riflettere su quella perdita. «Parteciperai alla Lega, l'anno prossimo?»

Agatha chinò il capo. «Già... penso proprio che dovrò farlo. Ho rimandato anche troppo a lungo.»

In quel preciso istante, molto lontano da loro, si stavano combattendo le prime fasi della seconda edizione del Torneo. Era soprendente come quell'istituzione avesse finito per affermarsi già dopo un anno dalla sua introduzione, e fosse divenuta ormai un ostacolo irrinunciabile su cui comprovare la propria forza per tutti gli allenatori, tanto che dire la Lega, ormai, aveva finito per indicare più il Torneo stesso che non l'istituto burocratico.

«E tu? Che cosa farai?» soggiunse poi Agatha forzatamente, come se si imponesse di proseguire la conversazione proprio per il suo stesso motivo, per evitare il silenzio; ma quello sforzo che s'imponeva sembrava venirle strappato dalla sua carne stessa.

Al di sopra del vento, concentrandosi molto, Samuel riusciva a indovinare appena il suono del fiume che scorreva giù dalla montagna, trascinando verso il mare le sue strabordanti correnti. «Tornerò a casa a rivedere mia madre.»

Aveva odiato Biancavilla per così tanti anni della sua vita, e tanto inutilmente, che ora che avrebbe davvero avuto un luogo da odiare e rifuggire come peste, gli sembrava che l'odio fosse sterile e inutile, e che nutrirne tanto fosse solo uno spreco di forze. Aveva impiegato molto tempo ad accorgersene, ma ora che l'aveva capito, si sorprese a ripensare a Biancavilla con una certa nostalgia. Forse si sarebbe rivelata un buon posto dove riposare, chissà.

Avrebbe rivisto volentieri sua madre. L'aveva lasciata quando era ancora poco più che un bambino, ormai sette anni prima, e da quel giorno non l'aveva mai più rivista. Non ne aveva neppure sentito molto la mancanza, forse perché non credeva di averla mai davvero conosciuta, quando era piccolo, dopo il baratro di disperazione in cui la partenza di suo padre l'aveva sprofondata: si chiese se sarebbe stata in grado di riconoscerlo e se avrebbero trovato finalmente qualcosa da dirsi, ora che lo stesso dolore li aveva resi più simili di quanto fossero mai stati.

«E poi? Troverai il tuo lavoro sicuro?» proseguì Agatha; ma per la prima volta non c'era ironia nella sua voce, parlando di quell'argomento. Voleva soltanto saperlo, immaginare cosa sarebbe stato di lui dopo il suo rifiuto, e Samuel gliene fu grato.

«Mi piacerebbe diventare un biologo» ammise. Lo studio dei Pokémon era sempre stata la sua passione, dopotutto, anche se non aveva mai riflettuto seriamente su come trasformarla in un lavoro; ma ora che Arcanine era morto, che egli aveva giurato a se stesso che mai più avrebbe toccato una Pokéball, quella gli era parsa la soluzione migliore. E chissà, forse un giorno, se si fosse impegnato molto e fosse stato molto fortunato, una qualche sua ricerca avrebbe potuto dare buoni frutti e aiutare la scienza a comprendere qualche nuovo funzionamento nel corpo o nelle dinamiche di lotta dei Pokémon. «A ottobre mi iscriverò all'Università.»

Per tutta risposta, Agatha mormorò: «Starai bene col camice.»

Quando Samuel si decise finalmente a chinare gli occhi su di lei, strappandoli al conforto delle sue palpebre chiuse e al sollievo del vento, non si sorprese di notare che Agatha continuava a evitare ostinatamente di guardarlo, barricata dietro lo scudo del suo orgoglio e del suo dignitoso dolore. Ma proprio mentre stava cercando qualcosa da dirle per addolcire un poco l'amarezza della loro separazione, Agatha si alzò in piedi e disse ad alta voce: «Andiamo, Samuel.»

Samuel non poté evitare di sentirsi frastornato dalla sua improvvisa fretta. Dove mai dovevano andare? «Agatha...»

«Dal momento che dobbiamo separarci, non c'è motivo di restare insieme più del necessario. Partiamo subito. Ti accompagnerò a Smeraldopoli, e poi...»

«E poi?» chiese Samuel stancamente. Chissà perché, ora che finalmente Agatha gli stava offrendo la prospettiva concreta della fine del suo viaggio e di tutte le sue fatiche, quella meta gli sembrava lontanissima e più irraggiungibile ancora di tutte le tappe che avevano percorso fino ad allora.

Il volto di Agatha in controluce si mantenne una maschera dura e impenetrabile, priva di qualsiasi cedimento: ma la sua debolezza, per Samuel che la conosceva così bene, stava proprio nel fatto che ella ancora non riusciva a guardarlo. «Partirò per Johto con i miei Pokémon. Hanno ancora bisogno di allenamento.»

A Johto, il più lontano possibile dal suo ricordo o da qualsiasi momento che avessero vissuto insieme. Commentare sarebbe stato superfluo: per evitare di dire qualsiasi cosa che potesse ferirla più ancora di quanto avesse già fatto, Samuel si rimise faticosamente in piedi e le fece cenno di fargli strada.

Cominciarono a discendere il crinale della collina.


E poi, il racconto finisce.

Sono bastate meno di due ore a raccontare ai suoi nipoti quella grande terribile storia della loro amicizia e della loro distruzione. Questo pensiero è per lui cagione di un senso terribile di incredulità alla bocca dello stomaco: sono bastate due ore. Ma questo tempo può essere bastato ai suoi nipotini per percepire, con l'intensità con la quale le ha provate lui, la bassa sorda eccitazione virile della scommessa e della possibilità di prendere parte a qualcosa di grandioso come il primo Torneo della storia, l'adrenalina perturbante della sfida sulla cima dell'Altopiano Blu, il fascino vagamente inappropriato della loro amicizia, e poi la bellezza sacrale e senza tempo di Articuno e Zapdos...? Ma no, ovviamente no. Questo pensiero lo riempie di un'innegabile tristezza. Hanno avuto dunque così poco significato quei mesi nella sua vita, perché sia possibile riassumerli in nient'altro che due ore?

Non ha detto tutto, naturalmente. Quand'anche egli non avesse solennemente giurato a se stesso, e tacitamente ma con non minor valore con Agatha, di non parlar mai ad alcuno di quella notte terribile, egli sa che i suoi nipoti sono troppo piccoli e che non meritano di conoscere tutto quell'orrore. Non c'è davvero motivo di spaventarli inutilmente per qualcosa che non esiste più e che non potrà mai più minacciarli: del sepolto vivo, Samuel non ha fatto parola nel suo racconto. Col cuore palpitante di rimorso, ha dovuto ridurre la lotta sulla cima della Torre a un brutto spavento e a una piccola scialba avventura tra i Pokémon Spettro, resa spaventosa dalla cupa atmosfera del temporale che infuriava. Spiegare le morti dei loro Pokémon è stato più difficile, ma anche a questo compito egli non ha voluto sottrarsi: bisognava che sapessero. La morte di Arcanine e lo spontaneo sacrificio dei Pokémon di Agatha sono stati troppo importanti nella loro vita e nella loro separazione perché fosse possibile passarli sotto silenzio, ma, nel tentativo di addolcire un po' la tristezza di quelle perdite, egli ha narrato loro scomparse dolci e lente come malattie, piene di pace e di naturalezza. Gary e Margi, che già anche troppo hanno conosciuto della sofferenza della morte nelle loro vite, hanno compreso senza bisogno di parole tutto il dolore che quelle perdite hano portato. In questo modo, certo, essi non conosceranno mai la nobiltà della sconfitta e della morte di Arcanine, ma Samuel sa che il suo Pokémon, ovunque sia, sarebbe in grado di capire. Se fosse vissuto abbastanza a lungo da conoscerli, dopotutto, avrebbe amato i suoi nipoti dello stesso affetto incondizionato e fedele che ha avuto per lui, persino nell'ultimo istante della sua vita, e avrebbe voluto a sua volta difenderli dal male.

Samuel si accorge veramente che il suo racconto è finito quando Margi esclama con voce trepidante: «Oh, nonno, ma allora è vero che non vi siete mai neppure baciati! Ci speravo tanto...»

Sì, il racconto è davvero finito, e Samuel Oak si ritrova catapultato di nuovo sulla vecchia poltrona scomposta del salotto senza aver mai realizzato di essernsene allontanato. Eppure, per un breve attimo della sua vita, per quelle intere due ore, egli si è sentito di nuovo l'allenatore virile e coraggioso di quell'anno, il ragazzo quasi uomo che viaggiava con la piccola ragazza dagli occhi neri e tempestosi come abissi. Ha percepito ancora la sensazione, ormai quasi completamente dimenticata, del suo corpo muscolare e guizzante, pronto a rispondere all'istante a ogni impulso della sua volontà, il profumo dei capelli di Agatha, l'odore acre di terra e di fumo dei loro campeggi... quanto al dolore, quello non è una novità.

«Il nonno te l'aveva detto fin dall'inizio che non si erano baciati!» salta su Gary, ormai così abituato a provocare sua sorella da farlo quasi d'istinto, senza un motivo, cogli occhi piccoli e la voce ormai impastata di sonno. Di sonno?

Solo allora gli occhi di Samuel si posano sull'orologio.

«Santo cielo, bambini! Perché non mi avete avvertito che si era fatto così tardi?» esclama allarmato, chiudendo di scatto la rivista. L'orologio segna ormai le undici e cinque minuti, il che, se per Margi può essere tollerabile, è assolutamente inaccettabile per un bambino di sei anni. «Domattina dovete andare a scuola! Filate subito a letto.»

«Oh, aspetta, aspetta, nonno! Non puoi lasciarci così» protesta Margi, aggrappandosi alle sue ginocchia con occhi imploranti e, almeno per ora, perfettamente svegli. Già dimentico della sua pseudo rivalità con la sorella, e spiritualmente alleatosi con lei per ottenere qualsiasi cosa che possa farli stare in piedi ancora qualche minuto, Gary si affianca a lei, appoggiandosi all'altro suo ginocchio con sguardo altrettanto supplice, ma assai meno sveglio.

Di fronte ai loro occhi imploranti, e coll'animo scosso da tutto ciò che per la prima volta dopo anni ha scelto di narrare a parole, Samuel scopre che quella sera assumere il cipiglio del nonno severo gli riesce particolarmente difficile. «Per stasera vi ho già raccontato abbastanza, bambini. La rivista la leggeremo domani.»

«Ma ci sono delle cose che io non ho capito!» insiste Margi con voce petulante. Prima che Samuel faccia in tempo ad avere un tuffo al cuore al pensiero di essersi tradito e di quello che Margi potrebbe chiedergli, la bambina prosegue: «Agatha l'ha vinta la Lega, quell'anno? Come ha fatto a diventare Superquattro?»

Pur timida e remissiva com'è, quella bambina ne sa comunque una più del diavolo. Con tutto ciò, Samuel è contento che gli abbia chiesto qualcosa cui può rispondere. «Certo che vinse. Fu la prima donna in assoluto a vincere un Torneo, e rimase l'unica per diversi anni... quanto ai Superquattro, lo sono stati così tanti allenatori diversi, prima di stabilire una formazione standard come questa, che il nonno ha proprio perso il conto, tesoro. Agatha lo è stata comunque per molti anni di seguito, assieme ad alcuni dei Campioni di quegli anni, ma quanto al resto non saprei.»

La Lega, quell'anno, era stata epica. Samuel l'aveva seguita alla radio, minuto per minuto, e aveva ascoltato col cuore palpitante d'emozione, visualizzandolo altrettanto vividamente che se l'avesse visto coi suoi occhi, l'orgoglio di Agatha che si faceva strada sui suoi avversari furiosamente, come tutto quello che faceva. Aveva trepidato ed esultato delle sue vittorie proprio come se fosse stato con lei, parteggiando per lei tanto spudoratamente che tutti i suoi compagni di corso gli avevano riso dietro, eppure mai come in quel momento, attraverso i filtri gracchianti della radio, egli l'aveva sentita lontana. L'Agatha che trionfava sull'Altopiano Blu, riuscendo finalmente a dimostrare al mondo oltre che a se stessa il proprio valore, non gli apparteneva più. Gli era passata tra le mani come acqua piovana, fuggevole e impossibile da trattenere, e dopo essersi incontrati per qualche istante delle loro vite, si erano divisi. Quella sera, mentre alla radio tutti celebravano la nuova Campionessa, che appariva sui giornali bella e terribile come una distesa di neve campeggiante in pieno sole, egli avrebbe potuto inviarle un telegramma che ella, di certo, avrebbe letto... ma non l'aveva fatto. Le loro vite si erano divise proprio quando era stato necessario, e tornare indietro, ormai, era troppo tardi.

«E non l'hai rivista mai più?» domanda Gary, puntellandosi con maggior forza alle sue ginocchia, per obbligarlo a prestargli tutta la sua attenzione.

Fissando i suoi occhi verdi che lo fissano, lucidi e arrossati, limpidi ancora della sua infanzia, Samuel risponde con voce sorda, con una strana fitta di rimpianto che non ricordava più di poter provare: «No, Gary. Non l'ho mai più rivista.»

«E ora, forza! Filate a mettervi il pigiama» riprende poi bruscamente, in tono appena un po' più alto del solito, stavolta in un modo che non ammette repliche: «Salirò tra dieci minuti a rimboccarvi le coperte. Siamo intesi?»

Samuel rimane immobile sulla poltrona a guardare i suoi nipoti che corrono rumorosamente al piano di sopra, bisticciando già in anticipo su chi debba andare in bagno per primo. Sa giò che, prima ancora di aver attraversato il corridoio, Margi finirà per cedere alle insistenze del fratello, cedendogli la precedenza con più piacere che rammarico nel sacrificio, e che quando egli salirà a dar loro la buonanotte, nessuno dei due sarà ancora a letto. Non c'è ragione di affrettarsi.

La domanda di Gary sembra pulsare ancora da qualche parte in fondo alla sua coscienza, come se fosse ancora in attesa di una qualche risposta... eppure, quella risposta Samuel l'ha già data, e non saprebbe proprio dove cercarne altre. Ma allora perché?

Torna ad aprire la rivista, scorrendo lentamente le pagine fino a ritrovare la sezione che parla di Agatha: sulla carta, i suoi occhi tornano a scrutarlo severamente, furenti e infuocati proprio come egli li ha visti l'ultima volta. Percorre con lo sguardo le pagine centrali. C'è un'altra foto d'epoca, nota per la prima volta, molto più piccola e a più bassa risoluzione: è la foto della premiazione e Agatha è in piedi, minuscola e fiera di fronte a una folla di grandi uomini, e riceve la coppa dalle mani del Presidente. Sì, ricorda vagamente quella foto per averla vista sui giornali, in quei giorni in cui ancora appariva incredibile ed eroico che una donna potesse vincere un Torneo, e ricorda anche che da qualche parte appariva persino il signor Firefly, assai in disparte, col volto atteggiato a un'espressione di rallegramento ipocrita. Si domanda se sarebbe ancora in grado di riconoscerlo, su una foto di qualità maggiore. Chissà poi che ne è stato di quell'uomo, pensa distrattamente abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.

Aveva incontrato sua moglie poco più di due anni dopo aver lasciato Agatha, ad Azzurropoli.

Non le aveva dato molta importanza, all'inizio. Ella era tutto ciò che Agatha non era: una persona remissiva e modesta, che si accontentava di un lavoro da stenografa con la stessa semplice gratitudine colla quale aveva accettato tutto lo scorrere della propria vita, e straordinariamente gentile. Di lei, per tutta la sua vita, Samuel aveva amato la sua bontà e il suo sacrificio disinteressato, la sua dolcezza e la sua compassione.

L'aveva conosciuta nel modo più banale che si potesse immaginare, a una festa dove un amico l'aveva trascinato, e non c'è molto da ricordare al riguardo: all'inizio, quella ragazza graziosa come un fiore di campo, molto ben vestita e molto accuratamente pettinata, silenziosa, e timorosa tanto da chiedere scusa anche quando le veniva fatto un torto, non gli era parso altro che il perfetto modello di donna bisognosa e incapace che aveva tanto temuto e disprezzato prima di conoscere Agatha, e molto di più dopo. Aveva impiegato un po' di tempo a vedere che in quella delicatezza si celava tutta la sua forza, e che proprio nella sua umiltà ella era più sicura e incrollabile del mondo esterno. Talvolta, guardando Margi, Samuel si stupisce di quanto profondamente assomigli a sua nonna, quasi senza averla mai conosciuta.

Sua moglie è stata a modo suo un antidoto al veleno che Agatha aveva costituito per lui. Della sua bontà che non conosceva esitazioni o cedimenti Samuel si è innamorato poco a poco, colla naturalezza di qualcosa che fosse già destinato ad accadere. La sua pietà e la sua arrendevolezza sono state come un balsamo quotidiano per la ferita che pulsava sempre e che egli non le ha mostrato mai, ed è stato bello invecchiare insieme per gli anni che sono stati loro concessi.

Sua moglie è morta a sessant'anni. La sua agonia non era stata molto lunga, ma era stata atroce, ed egli era rimasto impotente a vederla consumarsi a poco a poco per un brutto cancro che tutta la sua scienza non poteva bastare a curare. Negli ultimi giorni, quando ormai anche le sue corde vocali erano irrimediabilmente compromesse, ella non era più in grado di parlare. Samuel era allora rimasto al suo fianco in silenzio, a osservare immobile e impotente la malattia farsi strada e trasfigurare i suoi occhi in oceani di sofferenza che non trovavano voce, e infine a vederla morire lentamente. Contrariamente a quanto aveva creduto, la fine delle sue pene e la consapevolezza che non le rimaneva più alcun dolore da affrontare su quella terra, e che la pace del suo cuore si era ricongiunta con la serenità del cielo, non gli avevano recato alcun sollievo. Sua moglie era in pace, ma non era più con lui, e Samuel si era sorpreso di essere ancora in grado di provare tanto dolore di fronte alla sua morte.

Aveva creduto sempre che gli anziani affrontassero il dolore molto meglio dei giovani, che fossero più saggi e perciò più preparati di fronte alla morte; che soffrissero, certo, ma che dall'alto della loro saggezza avessero trovato una ragione che giustificasse il dolore e che li aiutasse a sopportarlo.

Samuel aveva atteso per tutta la vita di diventare vecchio. Si era illuso che con l'età e con l'esperienza di vita che dalla vecchiaia derivava si sarebbe sentito più saggio, e una volta che fosse stato vecchio e saggio, finalmente, avrebbe potuto voltarsi indietro e riconoscere nel ricordo delle sue sofferenze le ragioni che gli erano sempre sfuggite, e che le avrebbero arricchite di un senso nuovo. Quel giorno il dolore avrebbe smesso di tormentarlo, finalmente. In alternativa, si sarebbe accontentato anche di diventare un vecchio stolido e insensato, e di dimenticarsi completamente chi fosse e chi lo circondava: tutto a patto di non soffrire più.

Samuel si è accorto di essere diventato vecchio senza alcun preavviso, quando una sera, durante un programma di approfondimento culturale, un malaccorto giornalista senza troppa esperienza ha avuto l'incauta idea di citare un suo studio attribuendolo all'anziano professor Oak. Samuel ricorda ancora i suoi impacciati tentativi di sminuire la portata della sua gaffe, e allo stesso modo ricorda di aver esitato a lungo, quella sera, di fronte allo specchio, senza decidersi ad andare a dormire. Tutto ciò che vedeva dava ragione al giornalista, continuava a pensare: i capelli ormai grigi che protendevano al bianco, gli occhi gonfi e pesantemente borsati, le rughe che si spandevano tutte attorno al suo viso... sì, ma possibile che non si fosse accorto prima d'esser diventato vecchio? Che la mascella ancora incrollabilmente volitiva sotto la barba sempre più grigia e più rada, che le sue spalle ancora insolitamente dritte per la sua età lo avessero ingannato a tal punto?

Ma la verità è che Samuel non si era accorto d'esser diventato vecchio perché di soffrire non aveva smesso mai. Nella sua mente, essere anziano corrispondeva a tutt'altro che a una mera età anagrafica, ed egli finalmente si rendeva conto, in quel momento davanti allo specchio, che se non fosse stato per quel giornalista avrebbe continuato ad aspettare d'essere vecchio per chissà quanti anni ancora. È stato un brutto ritorno alla realtà. Anziano, evidentemente, Samuel lo era già senza ombra di dubbio, e a qualcuno doveva apparire anche molto saggio; ma questo era quanto, poiché egli aveva la sensazione di non essere diventato molto più saggio e di non aver compreso nulla che non sapesse già a vent'anni.

Ma dopo aver sperato che con la vecchiaia avrebbe smesso di soffrire, la sua disillusione è stata ancora più amara, dopo quella sera. A distanza di cinquant'anni, vi sono notti in cui ancora egli si sveglia, sentendo echeggiare nella notte l'ululato di Arcanine, e si ritrova nel suo letto, col cuore palpitante, senza sapere né perché né dove si trovi, colle narici piene dell'odore di sangue e viscere e la sensazione persistente che da qualche parte, in quella notte sconfinata che sembra non trovar fine nel tempo né nello spazio, ci sia una ragazza che muore... oh, ed è così mortificante dover continuamente mentire ai suoi nipoti e assicurar loro che i mostri non esistono, che non esiste al mondo nulla d'irrazionale in grado di far loro del male, quando egli lo sa, lo ha visto coi suoi occhi che questo non è vero! E guardare sotto i loro letti e nei loro armadi, per poter garantire loro, sul proprio onore, che là dentro non c'è nessuno, per poi restar sveglio tutta la notte, in silenzio, ad ascoltare se per caso si udisse una qualche voce nel buio...

Alla morte di Arcanine si è assommata la perdita di sua moglie, proprio quando credeva di essere più al sicuro e che niente, ormai, potesse più turbare la poca quiete che si era guadagnato. Dopo questa morte, Samuel si è convinto al di là di ogni ragionevole dubbio che la vecchiaia non comporta neppure la più miserabile briciola d'atarassia, e ciò nonostante ha finito per accettarla e sottomettersi al dolore, proprio come sua moglie avrebbe voluto per lui. Perdere una compagna, dopotutto, dopo quasi quarant'anni di matrimonio, non aveva nulla di così profondamente ingiusto e innaturale da autorizzarlo a ribellarsi contro il cielo, nulla di così inaspettato da farlo soffrire più di quanto...

Poi è morto suo figlio, e quel dolore dal quale egli già una volta aveva creduto di venir sopraffatto è tornato e si è fatto più grande, insopportabile, è diventato inumano e intollerabile ed egli veramente ha sperato di non dovergli sopravvivere neppure di un giorno, di un'ora solamente! Arcanine è morto per la sua sciocchezza e sua moglie per volontà della natura, ma suo figlio perché è dovuto morire? Era suo figlio, suo figlio!

Suo figlio e sua nuora sono morti entrambi in un'antica tomba durante alcuni scavi. Samuel non è mai riuscito ad accettare che due archeologi potessero morire così, semplicemente, soffocati nel giro di pochi minuti... non era giusto. È successo tutto così rapidamente che non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di chiamare le famiglie sul luogo dell'incidente, ma egli vi è andato lo stesso, per poter avere l'illusione di riportare a casa le loro salme. Quella è stata la prima volta che volava su qualcosa di diverso dalla schiena del suo Charizard, e in un'altra occasione, probabilmente, l'idea di prendere un aereo completamente da solo lo avrebbe turbato un po'; ma quella volta Samuel ha viaggiato sentendosi del tutto estraneo a quello che lo circondava. Non si sarebbe sottratto al suo compito, quella volta, continuava a ripetersi, e in un certo senso è stato proprio come se tutta la sua vita non fosse trascorsa per nient'altro, dopo quella notte, che per condurlo a quel momento in cui andava a prendere il corpo di suo figlio per riportarlo a casa e seppellirlo come meritava. Ha scontato il peccato d'essere balzato indietro, sì, ma a quale prezzo?

Se in tutte quelle morti che hanno costellato la sua vita esiste una ragione univoca, una verità superna che possa giustificarle, riscattand almeno in parte tutto il dolore che esse hanno comportato, Samuel non vuole conoscerla. Al dolore non esiste riscatto, non può essere così, sarebbe terribile e peggiore ancora che affrontare il dolore per quello che è, cieco e immotivato e casuale. Scoprire che da qualche parte qualcuno aveva prevista, e anzi persino ordita la morte di suo figlio coi polmoni pieni di sabbia non la renderebbe forse più terribile ancora di quanto già non sia?

Dal piano di sopra non sembra provenire più alcun suono. Questo silenzio lo colpisce per contrasto rispetto al rumoroso scalpiccio sguaiato dei suoi nipotini che si preparavano per la notte: devono essersi già infilati a letto, e questo indica probabilmente che sono davvero molto, molto stanchi. Bisogna salire subito da loro, stabilisce Samuel, e anche trovare un modo per mandarli a letto un po' prima domani. Si sforza d'ignorare la persistente sensazione della voce di suo figlio che lo rimprovera per averli lasciati svegli fino a tardi. Una piccola parte di lui vorrebbe voltarsi e chiedergli scusa, e spiegargli che ha fatto così tardi perché... ma Samuel rimane rigidamente immobile sulla poltrona, sforzandosi in ogni modo di non voltarsi, aspettando che quella sensazione scompaia lentamente da sola. Suo figlio non è lì.

Gli occhi di Agatha ancora campeggiano neri e alteri sulla rivista, in nulla più pietosi di quanto lo siano stati mentre egli raccontava, e al di là della loro durezza, Samuel si chiede per l'ennesima volta se la sua antica compagna sia riuscita a rappacificarsi col suo dolore, a modo suo, e se almeno lei abbia smesso di soffrire, dopo tanti anni.

Le sue dita sostano un po' troppo a lungo sul suo volto ritratto, questa sera, prima che egli si decisa a chiudere la rivista. Sospirando profondamente, Samuel si alza e si avvia lentamente al piano di sopra per andare a dare la buonanotte ai suoi nipoti.


Era stata una strana ironica fatalità, dopotutto, che l'ultimo viaggio della loro grande e terribile alleanza avesse dovuto essere proprio quello, un percorso di poco meno di tre giorni dalle pendici del Tunnelroccioso a Smeraldopoli. Ma in fondo, si disse Samuel quando era ormai evidente che erano arrivati, e che prolungare ancora il loro ultimo viaggio sarebbe stato impossibile se non controproducente, era giusto così: proprio il desiderio di grandezza insito nella loro amicizia li aveva condotti alla rovina.

Avevano trascorso le ultime ore del pomeriggio passeggiando, più che camminando, tanto lentamente e con la più perfetta calma apparente che chiunque li avesse visti senza sapere che cosa si accingevano a fare non avrebbe creduto mai ch'essi andassero intenzionalmente in qualche luogo preciso. Per tutto quel tempo, ormai dall'inizio del pomeriggio, non si erano rivolti la parola. Eppure avrebbero dovuto approfittare di quegli istanti che erano gli ultimi che trascorrevano insieme, Samuel lo sapeva, e questa consapevolezza cresceva disperatamente in lui a ogni minuto che passava e che li avvicinava, inesorabilmente, al momento in cui si sarebbero separati per sempre... ma per quanto cercasse dentro di sé qualche parola da dire per rompere quel silenzio, per fare almeno finta che che quello fosse un momento come tanti delle loro infinite giornate, non trovava niente. Ogni parola che potesse pronunciare sarebbe stata come sottolineare crudelmente che a partire dal giorno seguente non si sarebbero rivisti mai più, e che ogni curva del percorso accorciava invariabilmente sempre di più il tempo che restava loro a disposizione...

Per quanto lentamente avessero camminato, il bivio si profilò infine ai loro occhi quando ormai persino il tardivo sole d'estate aveva incominciato a stemperarsi di tinte più tenui, e la sfera incandescente del sole che calava proiettava sulla campagna un'uniforme luce rosata.

Non c'era più tempo di rimandare, ormai. Di fronte a loro, tutto attorno a loro, si diramavano gli imbocchi di mille possibile vite e delle ultime scelte possibili: la strada per Jhoto e per la Lega Pokémon si allontanava da loro, risalendo la collina verso la grande massa frastagliata del Monte Argento, la cui cima ancora innevata pareva avvampare e infervorarsi tutta sotto gli obliqui raggi del sole calante. Ma alle loro spalle una seconda strada digradava dolcemente, senza tornanti o brusche discese, verso Smeraldopoli, e da essa Samuel non poteva fare a meno di sentirsi attratto.

Non c'era più tempo, e ora che egli sapeva di non averne più, avrebbe avuto milioni di cose da dirle. Come dire addio alla ragazza che per più di un anno era stata la sua amica e compagna, e molto di più, fino a diventare una parte di lui più irrinunciabile della sua anima, ma che ora cessava per sempre di appartenergli?

Ma contro ogni aspettativa, fu Agatha a parlare.

Aveva trascorso le ultime ore in silenzio, cogli occhi cupi e bassi e la fronte dolorosamente contratta, presa come al solito da pensieri tutti suoi. Ma in quel momento, proprio mentre Samuel stava ormai per protenderle le braccia e arrendersi alla banalità di un allora, ciao, levando bruscamente gli occhi, Agatha disse senza preavviso: «Vieni a Johto con me.»

«A Johto?»

Samuel rimase per lunghissimi momenti spiazzato, senza capire, e del tutto incapace di reagire o anche solo di comprendere il significato delle sue parole. Sbatté più volte le palpebre. «Agatha...»

«Tu mi hai dato la possibilità di scegliere, ed è giusto che anch'io faccia lo stesso» sbottò Agatha, sbattendo impetuosamente un piede a terra. Era tutta rossa in viso, eppure andò avanti egualmente, con un ardore indicibile. «Se vieni a Johto con me, ti sposo. Non posso essere la tua moglie lontana, Samuel, ma se vieni con me ricominceremo tutto dall'inizio. Catturerò un Pokémon per te e presto torneremo com'eravamo una volta, e andremo finalmente alla Lega insieme, come desideravamo tanto tempo fa. Ti sposo domani, stanotte stessa, se vuoi, ma devi venire con me.»

Sarebbe stato così semplice dire di sì. Per un attimo, mentre Agatha lo investiva di tutto questo torrente di parole e di promesse, per un attimo soltanto Samuel fu tentato di dire di sì. Ricominciare tutto di nuovo, con un nuovo Pokémon e poi una nuova squadra, e poter viaggiare di nuovo in un mondo fresco e luminoso; avere Agatha, soprattutto, e poter curare le sue ferite e trovare finalmente il modo di darle la pace che tanto desiderava... per quell'unico istante, socchiudendo gli occhi, Samuel si concesse di credere che una nuova vita, del tutto identica alla prima, fosse possibile... ma poi quell'istante passò. Quella nuova vita che Agatha gli prometteva celava in sé, nel tessuto stesso dell'illusoria felicità di cui era composta, le sue minacce, e Samuel si ricordò appena in tempo, un momento prima di dire sì, a cosa andava incontro: sarebbe stato forse in grado di varcare veramente quel confine e vivere la vita che Agatha gli richiedeva, e trascinarsi avanti, ancora avanti, dal mattino alla sera, anche se insieme a lei?

L'illusione passò lasciando dietro di sé una grande dolcezza. Avvicinandosi a lei sul prato vellutato d'erba, Samuel posò piano le mani sulle sue guance: trasalendo leggermente, Agatha continuò a sostenere il suo sguardo in attesa della sua risposta.

Chino com'era su di lei, con gli occhi pieni del suo viso e le dita colme dei suoi capelli dorati, Samuel mormorò: «Se me l'avessi chiesto prima di quella notte, io ti avrei detto di sì.»

Ciò che avrebbe voluto che ella capisse dalle sue parole era che egli rifiutava non lei, ma solo la vita ch'ella gli proponeva; e questo non perché non l'amasse abbastanza, ma perché il sepolto vivo aveva esercitato sulle loro vite così tanta influenza, ch'egli non aveva più a quel riguardo alcuna libertà di scelta. Ma quando quell'ardore che aveva infervorato gli occhi di Agatha fino a un minuto prima si spense per sempre, ed ella si sottrasse in silenzio alla presa delle sue mani, Samuel temette ch'ella non avesse capito. Col suo rifiuto egli aveva forse contribuito ad aggiungere altra durezza al suo profilo già troppo severo?

Prolungare ancora quell'addio sarebbe stata una crudeltà eccessiva e inutile per entrambi. Sforzandosi di sorridere nonostante il dolore che minacciava di dilacerargli il petto, e tentando in ogni modo di fingere che andasse bene così, Samuel disse: «Addio, Agatha. So già che sarai la Campionessa più bella e più coraggiosa che l'Altopiano Blu vedrà mai.»

«Già» constatò Agatha a bassa voce. I raggi del sole calante spiovevano trasversalmente sul suo volto, donando ai suoi occhi una luminosità triste e malinconica che non si sarebbe potuta dire a parole. Si strinse nelle spalle. «E tu...tu dirai a quelli dell'Università che avranno tra di loro il biologo più coraggioso e più stupido della loro storia. Siamo intesi?»

Nella sua inflessibile severità, forse Agatha non sarebbe riuscita a comprendere mai davvero per quale motivo egli aveva scelto di rinunciare a una carriera brillante e ormai già scritta, o per quale motivo avesse gettato via tutto il suo talento e il loro amore rifiutando, quel giorno, di seguirla, e forse per questo lo considerava stupido. Ma l'amarezza delle sue parole non trovava alcun riscontro nel tremito sofferente e orgoglioso della sua voce, e Samuel sapeva di amarla anche per la sua incomprensione e il suo orgoglio.

«Siamo intesi» promise, e Agatha accennò un sorriso.

Non c'era bisogno di altri addii tra di loro. Dopo un'ultima, angosciosa esitazione, Agatha si voltò e s'incamminò lentamente lungo la ripida via verso ovest, senza voltarsi indietro. Samuel rimase immobile sull'erba fresca del percorso finché la lontananza, o forse il tramonto, gli sottrassero alla vista l'ultimo bagliore dorato dei capelli di Agatha, prima di avviarsi in silenzio, solo, verso Biancavilla.


Fine.


Eccomi qua, finalmente, a più di un anno dalla pubblicazione del primo capitolo. Suppongo che il mio ritardo ad aggiornare, questa volta, sia già abbastanza abominevole senza bisogno di sottolinearlo ulteriormente: mi dispiace davvero, ma purtroppo questo è veramente il massimo che sia riuscita a fare considerando le lezioni e gli esami da preparare.

Finire questa storia, dopo tutto questo tempo e questo lavoro, è contemporaneamente un dispiacere e un sollievo, perché da una parte mi lascia libera di concentrarmi su altri progetti, ma dall'altra mi accorgo che questi personaggi mi mancheranno moltissimo. Comunque, come al solito, mi rendo conto che tutte le cose belle devono finire. È stato un lavoro davvero grosso per me, tanto che qualche volta avrei voluto mandare tutto al diavolo e gettare nel cestino tutti quei fogli volanti, ma ora che l'ho finito e che posso guardarlo serenamente, lo rifarei, lo rifarei, lo rifarei.

Apro una piccola parentesi che forse non importa a nessuno: anche se chi mi conosce sa che non sono solita utilizzare foto o altri mezzi che non siano le descrizioni per descrivere i personaggi, ove necessario, questa volta ho deciso di fare una piccolissima eccezione, visto che la storia è finita e quindi non mi pare di influenzare l'immaginazione di nessuno se ricorro a un mezzo esterno per darvi la mia personale visione fisica del giovane professor Oak. Dato che sono una grandissima appassionata del film Metropolis, sappiate che per me Gustav Fröhlich sarebbe stato un perfetto attore per interpretare Samuel in questa storia. Detto questo, mi affretto a chiudere questa parentesi!

Passo ora a ringraziare diffusamente, come al solito, tutti coloro che hanno seguito questa storia in qualsiasi modo e in qualsiasi misura. Ringrazio quindi di cuore Bankotsu90, cristal_93, Gabbotron01, Mad_Dragon, Persej Combe e yugen_roku per aver aggiunto la storia alle seguite;

Gabbotron01 per averla aggiunta alle preferite;

cristal_93, Mad_Dragon, Bankotsu90, Persej Combe, Sunshine_Drew, Gabbotron01, e Fiulopis per aver recensito. (Ho seguito in tutti i casi l'ordine delle liste dato dal sito; qualora mi fosse sfuggito qualcuno, si tratta sicuramente di una svista e vi prego di farmelo sapere, così che possa correggere!)

Ringrazio anche Fiulopis per avermi tirato una bottiglietta in testa quando è morto Arcanine... questo ringraziamento è un po' estraneo al sito, ma era dovuto! ;)

Una volta conclusi i miei ringraziamenti, penso che non mi rimanga davvero altro da dire. Grazie infinite a chiunque per essere anche solo arrivato fin qui, e buon proseguimento!

Afaneia

   
 
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