Questa one-shot ha una gestazione piuttosto tormentata. L’ho
cominciata a scrivere più di un anno fa, con l’intenzione di farne il primo
episodio di una “trilogia del male” che avrebbe trattato i personaggi più
controversi di Naruto (le altre due storie dovevano riguardare Itachi e Gaara). Poi sono
successe diverse cose, il progetto è stato abbandonato e anche questa storia è
rimasta a metà. Non l’ho mai dimenticata del tutto, però, e attendevo
l’occasione di completarla. L’ho trovata in questi giorni. Non credo che
scriverò mai le altre due, ma questa storia almeno l’ho finita. E’ un racconto
con una sorta di messaggio filosofico ma, prima di ogni altra cosa, è un
racconto dell’orrore. Quindi, volete un consiglio? Alzate il volume delle casse,
mettete in playing list “Orochimaru’s
theme” e “Orochimaru’s fight”, o in alternativa una qualunque altra canzone
sufficientemente inquietante e preparatevi ad avere paura XD! Leggete e commentate!
Snake, snake, snake I am
di Gan_HOPE326
Certe cose non dovrebbero succedere.
Fuori il sole non era ancora
tramontato, ma dentro il crepaccio sembrava fosse già notte. Già da tanto
l’ultimo raggio di luce era sparito, divorato dai bordi delle alte pareti di
roccia dura e spoglia, e fredda. In mezzo c’era appena un metro di spazio, o
forse poco più. Rannicchiata addosso alla pietra grigia, la bambina aspettava.
Chissà cosa, poi. Non aveva davvero una speranza. Accanto a lei, il cadavere di
quello che era stato un suo amico. Orridamente pallido; gli occhi stretti in
uno spasmo di morte; capelli neri e setosi; le labbra contratte e ritirate a
mostrare denti bianchissimi e aguzzi.
La notte scendeva dentro il
crepaccio, ora, e il buio ingoiava ogni cosa. La luna era piena. Con bianca
luce faceva risplendere di oro diaccio la chioma bionda della bambina, e
rendeva ancor più spaventoso l’innaturale biancore del piccolo corpo che
giaceva al suo fianco.
Intorno, l’oscurità aveva occhi e
bocche e denti. La bambina li sentiva – li intuiva, almeno. Sapeva che erano
lì. Aspettava, forse la salvezza, forse la morte. Tremava di freddo. Lottava
contro il sonno che cercava di abbassarle le palpebre. Ogni tanto, versava una
lacrima. Poi la costringeva a tornar su per la strada da cui era uscita.
Ricordava lo stupido gioco che li aveva fatti finire lì e che era costato la
vita al suo amico, e probabilmente anche a lei.
E pensava che, no, certe cose non
dovrebbero succedere.
…
-
Guarda
qua, Tsu. Che ne dici?
-
Uhh… niente di speciale.
Il bambino fece una smorfia di
disappunto. Sapeva quando lei lo faceva apposta per farlo irritare, a dire
così: e questa era una di quelle volte. Non la sopportava proprio.
-
Lo
sai? – aggiunse l’altra, a maggior scherno – Sei buffo, Oro.
La risposta di Orochimaru
fu solo uno sguardo infuriato. Ma non sortì l’effetto desiderato: invece di
esserne intimorita, Tsunade scoppiò a ridere
fragorosamente. La colpa era tutta dei capelli. I lunghi capelli neri di Orochimaru di solito lo facevano apparire carino e un po’
misterioso, ma adesso che lui era messo in quella posizione particolarmente
scomoda, i piedi che aderivano a un muro di pietre e malta e il corpo parallelo
al terreno, a mezzo metro di altezza, non facevano altro che ricadergli davanti
al viso, trasformando il suo aspetto in quello di un curioso cagnolone dal pelo troppo cresciuto. Stufo di essere preso
in giro, il bambino saltò giù e tornò in piedi, ad obbedire alle comuni leggi
della gravità.
-
Dici
così solo perché sei invidiosa, Tsu. Tu questa cosa
non la sai fare, non è vero?
-
Mica
mi serve. – commentò quella, noncurante. – E’ un trucchetto
inutile.
-
Scema.
Questa è la base di tutte le tecniche ninja. Si tratta di saper controllare il chakra.
-
Che
noia, Oro. Stare con te è peggio che andare a scuola.
Scappò via, allontanandosi dal muro
e correndo verso i campi aperti. Correva veloce e sicura, poggiando appena i
piedi a terra. La sensazione dell’erba umida sotto i piedi nudi era qualcosa
che ricordava fin da quando aveva imparato a camminare. Non amava stare al
chiuso; solo con il cielo come tetto si sentiva davvero a casa. Andando su e
giù per le campagne, saltando, arrampicandosi, sbucciandosi le ginocchia, era
cresciuta forte, molto più degli altri bambini della sua età. Correva, ma badava
a non andare troppo in fretta, perchè il suo amico riuscisse a seguirla. Non
voleva che lui si offendesse troppo; sapeva quanto poteva tirare la corda con
lui prima di farlo arrabbiare sul serio.
E, sì, un po’ invidiosa lo era.
Sapersi arrampicare in quel modo poteva essere molto utile. Per scappare dalla
finestra durante le lezioni, ad esempio.
Quando si accorse di aver
distanziato Orochimaru abbastanza, e lo vide
arrancare un po’, col fiatone, per via di quel suo corpo gracile, decise di
attenderlo. Si gettò sdraiata sul terreno e staccò coi denti un filo d’erba da
masticare. Poi, gli occhi al cielo luminoso del mattino, si mise ad osservare
oziosamente l’azzurro che dormiva immobile lassù. C’era vento, sottile, fresco.
Appena appena.
-
Mi
pare che non ti serva a molto, il tuo kakra. – disse
la bimba, sorridendo con gli occhi chiusi. – Non riesci ancora a vincermi nella
corsa.
-
Si
dice chakra. – fece Orochimaru,
ancora ansante per lo sforzo.
-
E’
lo stesso. Sdraiati qui. E’ bello.
Di malavoglia, il bambino si sedette
accanto a lei. Stava accovacciato, le ginocchia davanti al volto. I capelli gli
cadevano un po’ sugli occhi. Era imbronciato e pensieroso.
-
Quella
cosa che hai fatto sul muro poco fa. – cominciò Tsunade.
Orochimaru sorrise trionfante. Allora un po’
le interessava!
-
Quella
cosa. Sapresti rifarla anche in una situazione più difficile?
-
Non
cambia niente. – spiegò il bambino, con aria saputa. – Uso il chakra per aderire alla parete, e so farlo benissimo. Solo
i genin ci riescono, di solito, ma io…
Tsunade la tagliò lì:
-
Va
bene, va bene. Sbruffone. Potresti farlo su un albero?
-
Direi
di sì. – disse seccamente Orochimaru, offeso per
l’interruzione di prima.
-
E
in una situazione pericolosa? Voglio dire, veramente
pericolosa?
-
Certo
che sì.
-
Sei
così sicuro di te? Non avresti paura?
-
No.
Il bambino ebbe un lampo negli occhi
e si rialzò bruscamente. Cominciò a camminare svelto attraverso i campi, verso
la vallata che si stendeva poco a est. Tsunade lo
seguì, incuriosita.
-
Dove
vuoi andare?
-
Vedrai.
Andarono avanti per una decina di
minuti. Passo dopo passo, Tsunade si faceva più
esitante. Capiva dove stavano andando, e non le piaceva. Accennò a rallentare. Orochimaru andava avanti deciso come non mai; per non
restare indietro, la bambina fu costretta a tenere il suo passo. Provò a
parlare:
-
Lascia
stare, Oro. Non andiamo là. E’ un
brutto posto.
-
Hai
paura. – commentò l’altro, senza nemmeno voltarsi, incatenando un passo dopo
l’altro.
-
Non
ho paura. Ma è un brutto posto. Lo
sai che è vietato andarci. Io non ci sono mai andata. Laggiù ci sono quelle
cose. Dovresti saperlo, no? Voglio dire, ricordi la filastrocca.
Tsunade prese un respiro profondo, poi
recitò, con una voce flebile, distante, intonata secondo note che ricordava fin
da quando la sua memoria riusciva ad arrivare:
Chi sono io che striscio,
tra sassi e zolle
sguiscio?
Sibilo, scatto, scivolo,
la morte zitta! Il nero
rivolo!
Serpente, serpente,
serpente io sono!
Serpente, serpente,
serpente io sono!
Orochimaru rise in un modo strano. Una risata
di scherno, ma non serena né giocosa: era costellata di piccoli sussulti qua e
là, un sussulto per ogni battito di troppo del suo piccolo cuore.
-
Fifona.
– disse, non senza che la sua voce tremasse un istante.
I prati pianeggianti, davanti a
loro, scendevano adesso in un leggero declivio. La pendenza era appena
percettibile. Più avanti, tornavano a salire, e si sarebbe detto che non ci
fosse nulla di insolito nel terreno di quel luogo. Perciò era pericoloso, e ai
bambini si proibiva di andarci. In realtà, nel punto più basso del pendio,
esattamente dove il terreno cambiava inclinazione, si apriva una fessura, una
spaccatura profonda, stretta e ripida. Un crepaccio lungo quasi cento metri,
profondo una decina e largo solo un paio, con pareti di roccia verticali e
irregolari, rigate da solchi e sporgenze che le rendevano ruvide come il volto
di un vecchio mostro. Ma non era solo la paura di precipitare all’improvviso
senza avvedersi del pericolo a tenere i più lontani da quei luoghi.
Giunti sull’orlo di quella forra, Orochimaru e Tsunade restarono
paralizzati, a guardare di sotto. Dalle profondità della gola l’eco incupita
del soffiare del vento risaliva come un lamento antico e malefico. La bambina
fu scossa da un brivido, e distolse lo sguardo.
Orochimaru, invece, esitò un momento; poi
mosse un passo, deciso, il suo intero corpo si ribaltò oltre il ciglio del
precipizio, sparì alla vista.
-
ORO!
– strillò Tsunade.
Sentì solo un respiro affannato e
una risatina soffocata, ma di sollievo. Poi:
-
Tutto
a posto, Tsu. Guarda pure.
Era sotto. I piedi tenevano
perfettamente, illuminati da un impercettibile bagliore azzurrino, e aderivano
bene alla roccia della Rupe. Il bambino restava immobile, in una condizione
paradossale, sospeso in orizzontale attraverso la fenditura. Era così stretto,
il dirupo, che allungando un braccio Orochimaru sarebbe
quasi riuscito a toccare l’altra parte. Si voltò verso l’alto, a salutare Tsunade con uno sguardo trionfante. Voleva assaporare il
proprio momento di gloria, ma l’altra non gli diede soddisfazione. Non
dimostrava affatto di provare invidia o irritazione; era solo immensamente
sollevata. Grata.
-
Femmine.
– sospirò Orochimaru, poi abbassò lo sguardo. Dritto
nell’abisso.
Era nero. Nero come nient’altro
avesse mai visto; né la notte né i suoi scurissimi capelli. Nere le rocce
intorno; nero il buio, più nero però, e ogni tanto, silenzioso, incerto, come
l’ombra di un fantasma, un movimento nero, da qualche parte. Un nero
strisciare. Nero su nero.
Dal basso risalì un soffio di aria
fredda. Gelida. Investì in pieno il volto di Orochimaru,
che non riusciva a distogliere gli occhi, catturati da una specie di
magnetismo, da un incantesimo, ipnotizzati. Guardava ancora giù. Dritto.
Sentiva il cuore in gola; e gli piaceva.
-
Cosa
succederebbe se cadessi ora? – si domandò a bassa voce, e:
-
Morirei.
– si rispose subito dopo.
-
Sì.
– soffiò con voce debole Tsunade, che sentiva di
dover trattenere persino il respiro, perché quell’equilibrio non si spezzasse.
-
Sì.
– ripeté il bambino.
Morire. Strano pensiero. Morire
doveva essere nero e misterioso come quell’abisso.
Strano pensiero. Orochimaru
si crogiolò per qualche secondo in quella macabra fantasia, con gli occhi
chiusi, assaporandone l’angosciosa bellezza: buio, e silenzio, e nero, per
l’eternità.
-
Oro!
– gridò improvvisamente Tsunade. – Attenzione!
Con un suono secco, la roccia si
crepò, si ruppe, di sotto i piedi del bambino. D’istinto Orochimaru
reagì cercando di camminare, ma ancora non ci riusciva bene, e allentò la presa
col chakra. I piedi si staccarono dalla parete. Tutti
i pensieri strani fuggirono via in un istante; lui voleva vivere, vivere, maledizione! Doveva girarsi per
aggrapparsi a qualche sporgenza, ma non ci riusciva, non a mezz’aria.
-
Tsunade! – chiamò con un grido.
-
Arrivo!
La bambina si gettò in avanti,
riuscì ad afferrare le caviglie di Orochimaru, ma
improvvisamente si ritrovò sbilanciata. Si era spinta troppo oltre l’orlo della
roccia. L’altro se ne accorse e urlò, inseguendo un’ultima insensata speranza:
-
Il
chakra, Tsunade! Devi
riuscire a fare come me! A portarlo ai piedi! Attaccati alla parete!
-
Io
non so nemmeno cos’è, questo kakra. – disse con un
filo di voce la bambina.
Non c’era più tempo. L’azzurro del
cielo non era più dappertutto; era diventato una lama sottile, sulle loro
teste, che si stringeva sempre di più. L’aria correva veloce sui loro corpi,
faceva svolazzare i vestiti e i capelli. Stavano cadendo.
Giù.
Giù dalla Rupe Hebi.
-
Diventeremo
fiori.
Erano passate ormai tre ore da
quando i due bambini erano precipitati sul fondo del crepaccio – non che loro
lo sapessero con esattezza. L’unica cosa di cui erano sicuri era che si
trovavano laggiù da tanto, tanto, tempo.
Tsunade era quasi incolume, fatto salvo per
qualche contusione, un taglio sulla fronte e forse qualche costola incrinata. Orochimaru, invece, aveva una gamba rotta. Altrimenti
avrebbe anche potuto provare a scalare le pareti, se non portandosi dietro la
compagna, almeno da solo, per andare a chiedere aiuto. Ma conciato così non
poteva fare nulla.
Avevano cominciato a gridare,
insieme, in coro, e sentito come il suono di quelle urla rimbombava tra le
strette pareti. Chissà se poteva uscire da lì, o se le loro voci avrebbero
continuato a rimbalzare all’infinito in quello spazio angusto senza mai
giungere in superficie. Comunque, nessuno era accorso in loro aiuto. E come poteva
essere altrimenti? Nessuno si avvicinava mai alla Rupe Hebi.
Orochimaru era stato il primo a stancarsi.
Mentre Tsunade continuava ad urlare, lui era
sprofondato nel silenzio ed era rimasto immobile, lo sguardo fisso, vuoto, il corpo
abbandonato contro la roccia a cui si appoggiava.
-
Diventeremo
fiori. – mormorò.
Tsunade lo udì e tacque a sua volta. Si
voltò a guardarlo, colse un suo sguardo, breve e oscuro, e sentì un brivido
gelido che le sconvolgeva il corpo. Aveva imparato a conoscere questo lato del
suo amico. Ogni tanto Orochimaru cambiava; diventava
strano e triste. Faceva discorsi contorti, deprimenti, spaventosi. Tsunade non riusciva a capirlo sempre, quando parlava in
quel modo: sapeva solo che sentirlo le metteva addosso una paura tremenda.
L’unica cosa che percepiva era che quelle parole avevano in sé un che di
terrificante, e che allo stesso tempo erano in qualche modo vere. Chissà, forse era proprio questo
ad affascinarla di più in quello strano bambino dagli occhi neri e un po’
troppo stretti, questo suo essere così strano, così oscuro; forse in realtà le piaceva, quel brivido che solo accanto a
lui, solo ascoltando lui, le saliva subdolo per la schiena.
Ma non ora.
-
Diventeremo
fiori. – ripeté ancora il bambino.
Tsunade cercò di sorridere.
-
I
fiori sono belli. – disse.
Si mise in piedi e fece una
giravolta, lasciando ondeggiare in tondo i suoi capelli biondi. Rise.
-
Io
sono un girasole.
-
I
fiori sono inutili. – sussurrò Orochimaru – I fiori
sono belli solo per un giorno, e poi appassiscono e muoiono. E’ inutile.
-
Non
dire così, Oro.
Tsunade si sentiva sempre più inquieta. A
ridere non ci riusciva più.
-
I
fiori cadono e muoiono e marciscono. A cosa serve esistere, se è per così poco?
Noi moriremo.
-
Piantala,
Oro. Non è divertente.
-
Noi
marciremo.
-
Smettila,
per favore, davvero.
-
Diventeremo
terra fertile; cadranno semi dall’alto; pioverà; e allora diventeremo fiori.
-
BASTA!
– gridò Tsunade, con un singulto.
Non riuscì più a trattenere le
lacrime e si rannicchiò su sé stessa, affondò la testa tra le ginocchia,
pianse. Mugolava sommessamente. Non era né dolore né paura, il suo. Non
piangeva perché temeva di non uscire mai più da quel crepaccio. Piangeva perché
aveva improvvisamente capito, che, anche se fosse uscita, non sarebbe cambiato
assolutamente nulla. Aveva perso qualcosa, per sempre. D’ora in poi, ogni volta
che avesse visto un prato in fiore, non avrebbe più potuto provare la gioia spensierata
di un tempo. Ogni petalo le avrebbe sussurrato, subdolo, quella stessa storia
di fine e marcescenza, l’avrebbe ammonita ripetendo maligno “tu devi morire”.
Non avrebbe mai potuto metterli a tacere. Anche se sei un bambino, quando
capisci una cosa del genere non la scordi più.
Orochimaru tese una mano a carezzare la sua
amica e le sollevò una ciocca di capelli.
-
Scusami,
Tsu. – bisbigliò, mortificato – Non volevo. Scusami.
-
STA’
ZITTO! IO TI ODIO! SPARISCI! VATTENE! – gridò in risposta l’altra, sollevando
bruscamente il viso rigato di lacrime.
Orochimaru scosse la testa, accennando con una
mano alla gamba fratturata. Già lo sforzo di avvicinarsi alla compagna l’aveva
costretto a caricare troppo peso su quell’arto, e il bambino faticava a
nascondere il dolore. Tsunade non rispose nulla, ma
si voltò bruscamente, non voleva più nemmeno guardarlo, non voleva più vedere i
suoi occhi, saltò in piedi e se ne andò lei. Si allontanò di pochi metri, ma
c’era ombra laggiù, in fondo al crepaccio, e fu come inghiottita dal nulla.
Chissà, forse era sparita davvero.
-
Scusami,
ti prego! Mi dispiace! Ho detto una cosa stupida!
Con uno sforzo delle braccia, Orochimaru cercò di trascinarsi in avanti, nella stessa
direzione di Tsunade. La gamba rotta gli gridò di
fermarsi con una fitta atroce, ma lui la ignorò. Riuscì a muoversi di qualche
centimetro.
-
Vedrai
che non moriremo! Sono sicuro che verranno a salvarci! Ci troveranno! Non ci
sono poi tanti posti in cui cercare. Ci troveranno.
Il piede inerte si incagliò tra due
rocce. Il dolore aumentò ancora e zittì Orochimaru,
che ora doveva stringere i denti per impedirsi di urlare, non poteva parlare. Provò
ad avanzare, ma il piede era bloccato. Devo
raggiungerla, pensava, e cominciò a tirare, ignorando il dolore. Tirò ancora, e ancora, e ancora.
Meglio che la smetti, piccolo saggio, o va a finire che quella gamba te
la stacchi.
-
Chi
ha parlato? – gridò Orochimaru, voltandosi di scatto
– Chi sei?
Ho parlato io. Quanto a chi sono, questa è forse una risposta più
complicata, piccolo saggio.
-
Perché
mi chiami così? Saggio?
Perché lo sei. Lascia perdere quella ragazzina lì. E’ stupida e non
capisce: e ciò che capisce si rifiuta di accettarlo, illudendosi così di
poterlo cambiare. Tu sei diverso. Tu capisci davvero. I fiori, che splendida
metafora. Io stesso non avrei saputo trovare di meglio. Sì, hai capito, hai
capito molto a fondo, nonostante la tua tenera età. Ci sono vecchi decrepiti
che non hanno nemmeno sfiorato la profondità della tua comprensione della vita.
Della sua… inutilità.
-
Dove
sei? Fatti vedere!
Sono qui, piccolo saggio, giusto accanto alla tua mano. Abbassa lo
sguardo, mi troverai.
Il bambino guardò la propria mano
destra, poggiata tra le rocce, vicino a una crepa della roccia. Vide qualcosa
strisciarle vicino. Avrebbe dovuto avere paura, ma non ne ebbe.
-
Sei
un serpente? – sussurrò.
Un serpente è forse un po’ poco. Tu sei semplicemente un piccolo uomo?
E’ questo che vuoi essere? Solo un uomo? Serviti pure; ma non credo ti basti.
L’animale, piccolo, bianco, strisciò
tra le dita del bambino e spalancò le fauci. Due dentini aguzzi scintillarono,
accostandosi piano al palmo di Orochimaru, che
istintivamente ritrasse un po’ la mano.
-
Io
ti conosco. – disse – Ti ho visto sui libri. Tu sei velenoso.
Veleno solo per i deboli, piccolo saggio. Per te, nettare ed elisir. Non
ti fidar troppo di ciò che ti dicono i libri: furono scritti probabilmente da
gente meno saggia di te. Il tuo destino sarà di riscriverli, quei libri, con
una scienza nuova e più alta. Una scienza quale nessuna vita umana ti
consentirebbe di accumulare l’eguale. La desideri? La conoscenza?
L’immortalità?
-
Sì.
– bisbigliò l’altro – Ma è impossibile. Per un uomo è impossibile.
E tu, piccolo saggio, diventa un dio! Chi sono, mi
hai domandato: ecco una buona risposta. Io sono il Serpente. Io sono colui che
si morde la coda, colui che abbandona la vecchia pelle per averne una nuova,
colui che si rinnova, sono il cerchio del tempo, l’Uroboro,
io sono l’immortalità. E ti offro un patto e un dono.
-
A
quale prezzo? – domandò, esitante, Orochimaru.
Dipende, piccolo saggio. Cosa credi che sia un essere umano?
-
Un
essere umano è un corpo di carne mosso dal flusso del chakra.
Il chakra è l’energia vitale. Con la morte, il chakra si arresta; il corpo perde la vita e decade,
tornando nel nulla.
Bene. E, dimmi, credi nell’esistenza dell’anima?
Il bambino ci pensò su un attimo.
Poi, deciso, rispose:
-
No.
Allora diciamo che per te è gratis.
Con un gesto lento, Orochimaru tese la mano, aprendola completamente, davanti
al serpentello. Il rettile si sollevò un momento,
sembrò quasi rimirarla compiaciuto, quindi scattò. Conficcò le zanne proprio al
centro del palmo. Il bambino sentì un attimo di bruciore e strinse gli occhi.
Con i denti affondati nella sua carne e uno spasmo che gli agitava il corpo, il
serpente iniettò il suo veleno. Orochimaru fu
percorso da un brivido di gioia. Il dono era dentro di lui, adesso. Era dolce e
doloroso dentro le vene. Riaprì gli occhi.
Tsunade lo fissava, terrorizzata.
Provò a muovere la mano per
rassicurarla con un gesto, ad aprire le labbra per spiegarle tutto. Non ci
riuscì. La paralisi si diffondeva rapidissima tra i muscoli del suo corpo. Scoprì
che, se stava trattenendo il fiato, ora, non era più per l’eccitazione e
l’ansia del momento, ma perché il diaframma aveva smesso di contrarsi. I suoi
polmoni non si allargavano più. L’aria rifiutava di entrare.
-
Oro!
– gridò Tsunade, correndo a sostenerlo – Oro, mi
dispiace, non volevo lasciarti solo! Oro!
L’altro non rispose nulla, riuscì
solo ad accennare un sorriso. Poi sbiancò di colpo, gambe e braccia si
irrigidirono, le labbra si ritrassero trasformando il sorriso in un ghigno
orrido.
-
Oro!
Oro! – continuava a gridare Tsunade, in lacrime,
stringendo il corpo del compagno.
Non rispose, non poteva più farlo.
La bambina restò sola, mentre la luce spariva definitivamente, sola, con il
cadavere di un amico, sola, in fondo alla Rupe Hebi,
sola.
Certe cose non dovrebbero succedere.
Davvero.
C’era qualcosa che le strisciava
contro la pelle. Tsunade lo sentì quando ancora
dormiva – perché alla fine non ce l’aveva fatta, aveva ceduto, le si erano
chiusi, quegli occhi. C’era, sotto di lei, come un letto che aveva sostituito
la dura roccia. La sensazione aveva un che di piacevole. Una superficie
morbida, fatta di solchi e avvallamenti dal profilo dolce, liscia, cedevole e
fresca. In quel momento in cui il corpo è sveglio mentre la mente sta ancora
dormendo, la bambina, con un movimento istintivo, si stiracchiò su quel
materasso, allungò le braccia, scivolò assaporando la sua comodità.
Il materasso, compiaciuto, scivolò a
sua volta sotto di lei.
Tsunade aprì gli occhi e gridò. Era fuori
dal crepaccio; sopra di sé vedeva solo il cielo notturno e la luna piena che
splendeva bianca e gelida. Ma sotto, sotto, sotto!
Serpenti. A migliaia. Quanti non
credeva nemmeno potessero esisterne al mondo. Rettili di ogni dimensione, dai
piccoli e velenosissimi serpentelli del deserto ai
giganti stritolatori delle foreste pluviali, che si attorcigliavano tra loro in
una sola ribollente massa, come un fluido di macchie scaglie occhi denti che
traboccava dall’orlo della Rupe Hebi, paiolo ormai
troppo piccolo per contenere quella pozione. Erano stati loro a portarla su, le
si erano insinuati sotto il corpo e l’avevano sollevata, aumentando, salendo,
fino a giungere in superficie. Oppure no, non erano venuti a portar su lei.
-
Oro!
– chiamò Tsunade, vedendo il suo compagno in piedi a
qualche metro di distanza.
Orochimaru si voltò. Sotto di lui i serpenti
si affollavano ancor più numerosi, combattevano, si attorcigliavano, si
mordevano, si sbranavano, nella furiosa lotta per accalcarsi sotto i suoi
piedi, sollevarlo più in alto, alzarlo al cielo, alla luna, acclamarlo come un
dio. Un anaconda aveva avuto il privilegio di poterlo abbracciare; gli si
stringeva intorno a spirale, un unico possente muscolo che sosteneva il corpo
del bambino, permettendogli di reggersi nonostante la gamba fratturata.
Lentamente, Orochimaru si voltò, e i serpenti
girarono insieme a lui, suolo fremente e adorante ai suoi piedi, portandolo
faccia a faccia con Tsunade. Il suo volto era ancora
bianco come era diventato dopo la morte. Gli occhi guizzarono spalancandosi in
un istante e svelarono una pupilla sottile, a taglio, una pupilla di rettile. Poi
aprì leggermente la bocca (quei denti bianchi. Quei denti appuntiti) e fece
scivolare fuori, tra le labbra, la punta della lingua (quella cosa lunga,
tumida, viscida. Quella cosa orrenda) e fu più o meno allora che Tsunade capì che quella che aveva davanti non era più una
persona.
-
Tsunade. – sibilò l’essere.
-
Orochimaru. – balbettò lei – Sei tu?
-
Io?
No, non sono io.
L’essere allungò una mano, e subito,
lieto, un cobra si insinuò tra le pieghe delle dita e scivolò lungo il suo
braccio.
-
Io
non sono io. – cominciò a dire, cantilenando, come una filastrocca – Io non
sono più io. Ma se io non sono io, allora chi sono io?
Si fissarono, per un momento, dritti
negli occhi, l’essere e il cobra che era stato sollevato al suo cospetto.
L’essere spalancò la bocca e allungò la lingua fino a toccare il serpente, che
con gioia guizzò verso di lui, adagiando il capo tra gli archi sfavillanti dei
denti.
-
Chi
sono io, eh? – continuò – Chi sono io che striscio, tra sassi e zolle sguiscio?
Chiuse le mascelle a scatto. Tsunade gridò. Il cobra, con la testa mozzata, cadde giù,
contorcendosi ancora, danzando e attorcigliandosi in un ultimo brivido di
piacere. Il sangue imbrattò le labbra dell’essere, che sputò il capo del
serpente ucciso e scoppiò a ridere. Tsunade non
riuscì più a sostenere lo spettacolo. Si alzò e cercò di scappare, correre via,
ma era difficile su quel terreno mobile. I serpenti, in preda alla frenesia,
strisciavano l’uno sull’altro tutti in una direzione, tutti verso il proprio
signore, gli salivano addosso, lo abbracciavano, si gettavano volontariamente
tra le sue mani, nella sua bocca.
L’essere rideva, mangiava e gridava.
-
Sibilo!
Scatto! Scivolo!
Tsunade riuscì a raggiungere la terra
ferma. Finalmente con un suolo solido ai piedi, scattò, via, verso il
villaggio, verso il mondo reale, via da quell’orrendo incubo.
-
La
morte zitta! Il nero rivolo!
Sarebbero tornati, tutti e due,
pensava, e ci sarebbe stata una festa. Tutti avrebbero gioito per la loro
riapparizione. Nessuno si sarebbe chiesto cos’era successo, come avevano fatto
ad uscire da quel crepaccio, o perché Orochimaru avesse
quell’aspetto diverso, insolito, perché fosse così pallido. Non se lo sarebbero
chiesto. Lei non avrebbe dovuto raccontare niente, e avrebbe potuto
dimenticare. Voleva dimenticare. Voleva dimenticare tutto, ma più di ogni altra
cosa l’immagine di quel bambino che prima credeva di conoscere e che adesso
svettava su una collina di serpi, circondato dal suo nuovo popolo, che gioiva nella
notte di luna piena, che aveva brandelli di pelle di rettile penzolanti agli
angoli della bocca, che mordeva e beveva, in una spaventosa orgia di sangue e
veleno, e che gridava, gridava con voce acutissima e inevitabile come la
follia:
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SERPENTE,
SERPENTE, SERPENTE IO SONO! SERPENTE, SERPENTE, SERPENTE IO SONO!