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Autore: Stray_Ashes    17/01/2016    1 recensioni
"Hate me
Break me
I'm a criminal"
In città la gente mi indicava col termine di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Ma andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo.
Guardai il nome della mia nuova tela, la mia nuova vittima: Frank Anthony Iero.
E il nome non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto..?
"What have I done?"
[Revisionato 04/07/16]
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voglio comunicare che ho scritto questa storia qualche mese fa, e che in questi ultimi giorni l'ho corretta e revisionata. Più o meno..
Buona lettura.





 
 
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1. Ashes  (Prologue)


“Hate me
Hate me
Break me,
I’m a criminal.”
 
Sangue. Ricordavo bene il sangue. La mia vita era il sangue: quello che mi scorreva sotto la pelle, tra vene e arterie vulnerabili – e quello che mi scorreva sopra, e mi macchiava i vestiti, mi macchiava le mani, la pistola; e non andava più via, l’odore, l’immagine.
 
“Blood
Blood.
I feel the taste
The smell
The death
The warm,
warm blood
 
Mi passai la lingua sulle labbra secche. Anche quelle sapevano di sangue. Riappoggiai la matita su foglio.
 
The blood,
All over your face,
all over your fingers,
all over your soul
you can’t escape,
you’re red,
red like blood
that tomorrow
will be black.
That tomorrow
will be dead.”
 
Non mi piacevano insieme quelle parole. Le trovai vuote, tra loro, scoordinate.. ma forse, forse, il punto era quello. Sì, ma rimasi comunque insoddisfatto, stizzito, e chiusi di botto il taccuino, piegando più di un foglio; forse uno di quelli con poesie, forse uno di quelli con i disegni. Non mi importava, gettai tutto nella sacca di pelle con rabbia, e mi presi il volto tra le mani, perché, anche se la notte era fresca, la luce del fuoco mi arrivava direttamente in viso, scottandomi.
Il taccuino non aveva importanza. Io odiavo la mia arte, la odiavano tutti. Solo una sola arte, in quel mondo, veniva apprezzata, ed era quella delle armi, dell’agilità, della crudeltà, della sopravvivenza, della morte. Quella, quella la apprezzavano, finché loro non diventavano il foglio, la tela della mia arte. Nessuno vuole morire, ma tutti vogliono veder morire. Ero anche piuttosto bravo, e siccome le persone amavano l’arte della morte, avevo provato ad amarla a mia volta… forse c’ero riuscito, forse l’amavo anch’io. Quel che era certo, era che l’arte urlata sul quel taccuino non mi faceva vivere, non mi dava dei soldi, delle conoscenze, delle vere soddisfazioni, mentre l’arte della morte sì, oh sì, eccome; l’arte della morte mi trasmetteva brividi vivi, e mi permetteva di mangiare… però, non mi lasciava dormire: mi perseguitava, mi chiamava, mi assillava, mi ammaliava, mi trascinava a commettere ancora peccati, e poi taceva ed esultava allo stesso tempo, mentre avevo sulle mani il sangue fresco. E quando mi sdraiavo, nel buio del mio niente, quando il fuoco si affievoliva e moriva, lì tornava ancora una volta, per ridere di me: rideva di me l‘arte della morte, e mi rinfacciava quei peccati, quelle tentazioni, quelle abilità.
E io non dormivo, rimanevo vuoto, e allora prendevo il taccuino e ci sfogavo ciò che non avrei mai sfogato in lacrime, come farebbe un bambino, ma che non mi sarei nemmeno mai sfogato come un adulto, perché un adulto né piange, né esprime il suo dolore riempiendo di matita nera un foglio. Quindi, che cos’ero io? Non ero un bambino, i bambini non uccidono. Non ero un adulto, gli adulti hanno una vita.
Io ero un assassino, un artista, un vagabondo, un randagio, uno con la vita corta che non ricordava niente del passato, che non voleva sapere nulla del futuro, che come un automa eseguiva il presente. Meccanicamente. Puntuale. Mi facevo schifo.
In città la gente mi indicava col nome di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Mi andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo, perché i cacciatori escono a caccia, catturano un cervo e lo portano vincenti ai figli e alla moglie. Io non ero un cacciatore, anche se mi piaceva pensarlo: io uscivo a caccia sì, ma non portavo il cervo a qualcuno, non facevo nulla di utile, neppure a me stesso. Io mietevo freddamente una vita, e in cambio intascavo qualche soldo, che finivo col sprecare. Non ero un cacciatore, ero uno strumento, utilizzato da chi non voleva macchiarsi le mani. E come tale mi lasciavo usare.
Com’è che ero finito così? No lo ricordavo quasi più.
 
I know nothing
Help me, mother,
I feel empty,
I feel lost
I don’t wanna listen to my thoughts,
I hate what’s inside my head
and I guess you hate it too.
Blow my head off, if you dare,
I’m not brave enough,
such a coward, they may say,
but go and yell to them,
and please, it’s better if you do,
that they are right:
I think it too.
 
Ecco. Non mi ero accorto di aver preso di nuovo il taccuino. Maledizione, avrei dovuto bruciare quei fottuti  fogli di carta. Li gettai nuovamente nella sacca e mi spostai i ciuffi di capelli scuri dietro l’orecchio, sospirando e alzando il mento verso il cielo: il buio era glaciale, quindi le stelle si vedevano bene. Neppure la luna c’era ad illuminare, nascosta chissà dove oltre la porzione di cielo che dal quel bosco riuscivo a scorgere.
Il cielo, di notte, era davvero ricco di fascino, e rappresentava anche un gran mistero. Poteva davvero essere tutto così infinito? Mi faceva stare meglio, contrariamente a quanto si potesse pensare, la consapevolezza che in confronto all’enormità dell’esistenza, la mia piccola vita e i miei miserabili problemi non erano altro che polvere, o forse meno della polvere, forse polvere posata sulla polvere, che al soffio del vento già si è consumata.
Sorrisi amaramente e mi stesi accanto al fuoco, le braccia dietro la nuca. Ascoltai il battito del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie, in quel silenzio totale, che mi cullava nel sonno: il mio cuore mi ricordava che nonostante tutto ero ancora vivo, perché lui batteva, e continuava a battere, imperterrito, regolare, in un modo così puro e naturale che in quei momenti riuscivo a non odiarmi.
 
Sentii subito uno scalpiccio poco lontano nel bosco, e aprì gli occhi immediatamente, alzandomi e afferrando sia la pistola che il coltello, restando in allerta a fissare il buio. Non so quanto avevo riposato, ma il fuoco era spento. La mia mente era ormai tanto abituata a sentire rumori estranei nel bosco, che dovetti aspettare vari minuti prima che il responsabile del rumore si avvicinasse: l’avevo captato decisamente da toppo lontano. Non sapevo se essere orgoglioso di quelle abilità… avrei dovuto? Forse sì, non mi dispiaceva sapere che almeno, anche se mostro, ero bravo come un lupo. Ma il lupo è un cacciatore, io non lo ero.
«Se vieni fuori adesso con le mani alzate, giuro che ti lascerò tenere abbastanza sangue da vivere per almeno altri due giorni» dissi, imperiosamente, all’estraneo già piuttosto vicino, nascosto là nella boscaglia.
Indovinai che l’estraneo stesse ponderando le scelte. «Calma Gerard, sono io» disse, invece.
Aggrottai la fronte, ma poi riconobbi la voce. «Bert» dissi in risposta, posandomi giù in grembo la pistola e abbandonando a terra il coltello. «Potevi dirlo prima… » bofonchiai, vedendo l’uomo uscire con passo stanco dal bosco, e venire verso di me, col solito broncio. Scambiai con lui uno sguardo soltanto e neppure mi alzai, prendendo invece un legnetto per scoprire le braci rosse nascoste sotto la cenere, in modo da far tornare un po’ in vita il fuoco. Ormai ero sveglio, tanto valeva restare al caldo. Era davvero interessante come quel cuore ardente continuasse, nelle ore, a bruciare sotto la coltre grigia del legno morto, deciso a non arrendersi.. era un bell’esempio nella vita, pensai. Non importava quanta cenere ti tirassero negli occhi, non avrebbero spento quella luce. Decisi di memorizzare il paragone.
«Come va? » chiese Bert, ma sapevo che non gli importava davvero. Ci conoscevamo da tempo ma il nostro rapporto era freddo: lui era il mio informatore, io ero la macchina da guerra che faceva ciò che andava fatto e poi gli sganciava dei soldi. Di fatti, non gli risposi, se non con un’alzata di spalle. Anche se me l’avesse chiesto qualcuno a  cui importava davvero, probabilmente la mia risposta sarebbe stata comunque quella. In ogni caso il problema finiva in fretta, perché non avevo qualcuno a cui “importasse davvero”. Forse al mio taccuino importava, forse solo a lui.
«E a te?» mi costrinsi a dire infine.
«Scommetto meglio che a te. Stasera si mangia cervo a casa mia»
«Fottiti» mormorai acidamente. «Stronzo» aggiunsi. Neanche Bert era un cacciatore, però lui aveva il cervo. Io avevo un fuoco e un taccuino. Lui aveva una famiglia e una specie di lavoro, io avevo il fuoco e il taccuino. E la pistola.
Bert scrollò le spalle, non facendo neppure caso alla mia risposta, e si limitò a gettarmi sulle gambe incrociate un foglio arrotolato con del nastro rosso. Fin troppo elegante per essere stato portato a me. Alzai un sopracciglio.
«Hai un nuovo lavoro. Uno dei pezzi grossi della forza di guardia di una città poco lontana da qui ha richiesto i tuoi servigi. A quanto pare qualcuno di troppo furbo sta infastidendo la città…» sghignazzò, e io ghignai con lui. Di rado le guardie si abbassavano a tanto, di rado chiedevano aiuto a un cacciatore di taglie: preferivano perdere qualche uomo e risolvere da soli, o non risolvere affatto. Curioso…
Avevo bisogno di soldi e ormai non lavoravo da due settimane, avevo paura di rammollirmi... qualcosa mi dava l'impressione che l'immobilità mi avrebbe fatto perdere massa muscolare e agilità, aspetti fondamentali, nel mio lavoro sporco. Un molto vago ricordo mi suggeriva che non ero sempre stato cosi come ero adesso... e mi chiesi com’ero da ragazzo, come facevo a vivere, e soprattutto mi chiesi perché non ricordassi niente.
«Beh, grazie Bert, era l’ora» dissi con uno sbadiglio, chiudendo la mano attorno al foglio ingiallito.
Non era mio amico, non mi disse buona fortuna, non mi ammonì di non abbassare la guardia, non mi confessò che sperava non morissi, solamente accennò alla spartizione dei soldi, e poi se ne andò, così com’era venuto, ma con un foglio in meno.
Sospirai e cominciai a togliere il nastro e a srotolare il foglio: era scritto in una bella calligrafia, e lessi velocemente tutte quelle frasi inutili, saltai persino la cifra della ricompensa, e andai direttamente al punto: il nome, il nome era la cosa più importante, dovevo sapere come si sarebbe chiamata la mia nuova tela, il mio nuovo quadro.
Lo trovai dopo un istante, e l’espressione sul mio viso rimase impassibile. Ecco il nome della tela.
Frank Anthony Iero.
E non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto?
Forse avrebbe dovuto, ma la mia mente era nera, nera come la pece, nera come le notti in cui vagavo come un’ombra.
Avrebbe dovuto…?
 
“And down, and down we go,
while losing ourselves
to the ash, to the smoke.
And dead, and dead we fall
forgetting the days
where we smiled,
where we loved.
And black, and black is my soul,
And white, and white are my eyes.”




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Boh, prima volta che scrivo in questo fandom, anche se lo seguo da un po'..... l'idea mi è venuta dalla fissa per i cacciatori di taglie, e per Gerard. Dio, amo quell'uomo. Tanto. Eh, e anche Frank.
Sono indecisa se fare più di qualche capitolo, se farla finire male o meno, se farla finire in una frerard o meno, vedrò... ma per ora, ho scritto questo, forse a un'ora un po' tropo tarda considerando che domani devo svegliarmi alle 6...
Beh, in qualunque modo vada, spero di non avervi annoiati, e vi amerei per una recensione.
Le parole che Gerard scrive sono mie, non di altre poesie e testi di canzoni. spero che tutti voi capiate l'inglese, e non linciatemi, se come poeta faccio un po' schifo....
Oh beh, buonanotte!


_Ashes
  
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