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Autore: DarkYuna    19/01/2016    5 recensioni
"Trovate l’Argus Apocraphex.".
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*Il Risveglio*









Non essendo l'inconscio solamente
un riflesso reattivo ma un'attività autonoma,
produttiva, il suo campo d'esperienza
è un mondo proprio,
una realtà propria, di cui possiamo dire che agisce
su di noi come noi agiamo su di essa,
come lo diciamo del campo d'esperienza
del mondo esteriore.
Carl Gustav Jung, L'Io e l'inconscio, 1928
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo non è un sogno: è la realtà.
 Abbandonatevi all’istinto.
In un luogo dove la ragione non ha alcuna influenza.
Tutto può avvenire in una sola notte
o per l’eternità.
 
 
 
        



La luce abbacinante inglobò il campo visivo, bruciò insopportabile nella retina sensibile e depennò l’ultima memoria tangibile a cui potevo fare sul serio affidamento.
In lontananza un “bip” molesto, tintinnava frenetico nelle orecchie, come un fischio sordo che stava man mano rallentando, forse destinato a fermarsi irrimediabilmente. Voci frenetiche pronunciavano concitate il mio nome, riempendolo di turbamento preoccupante. Mani invisibili mi strattonavano, comprimevano sul petto dolorante e bolle d’aria si riversavano fastidiose nella gola.
 
 
Poi il silenzio.
 
 
Vi era qualcosa di inspiegabilmente sinistro nella quiete che era conseguita alla tempesta, di sbagliato nella placida tranquillità, di inesatto, una verità al rovescio, un incubo da cui non riuscivo a liberarmi. Un senso di spasmodica attesa.
Ero sola qui, attorniata dalle tenebre del non esistere, il ronzio dell’aria condizionata che serviva a mascherare l’odore di morte, in gocce d’attesa che filtravano via.
Ero sola qui e una luce calda scivolò lesta sul soffitto, più volte. Macchine di passaggio, probabilmente, i cui fari passavano attraverso le piccole finestre del corridoio e non seppi spiegarmi il perché, fossi così sicura dell’esistenza di quegli infissi, dato che non li avevo visti.
Ero sola qui… e anche questa convinzione, venne ben presto messa in discussione.
 
 
Di nuovo un fascio rischiarò la stanza asettica e sulle pareti bianche, un inchiostro nero le macchiò, disegnando dei ghirigori raffinati, gotici, dagli intrecci complicati e che in breve, ricoprirono l’intera camera. Le iridi seguivano passo passo ogni svolazzo, ricciolo e arzigogolo, innamorata persa di quel labirinto di rovi, che abbelliva il nulla.
 
 
Non seppi dire l’istante preciso che, il bussare molesto, non rimase più come un fastidioso rumore di sottofondo, ma crebbe esponenziale ed esplose in mostruosi pugni su una superficie d’acciaio, il cui eco mi risuonò dentro. 
Di sottecchi notai una piccola porta in fondo alla stanza asettica, che fino a poc’anzi non c’era, si aprì cigolante e una figura alta, scheletrica, indubbiamente femminile, strisciò nell’oscurità, verso di me.
 
 
Tentai invano più volte di riprendere il controllo di un corpo ormai estraneo. Dentro scalciavo impazzita, mentre fuori rimanevo immobile nella postura rigida e gelida… urlavo, ma il silenzio era così pesante da soffocarmi.
 
 
La creatura guadagnava terreno, usando solo la parte superiore del busto per muoversi e si portava dietro le gambe, come un peso morto, di cui non poteva disfarsi. Era me che voleva e non sarei potuta fuggire da nessuna parte.
Innegabilmente la realtà non era più quella che conoscevo, ora distorta, malsana e spaventosa.
L’essere salì con gesti bislacchi, assomigliando ad un ragno paralitico, sul letto in cui ero riversa e si fermò su di me. La testa aveva scatti eccentrici, come se fosse affetta da gravi attacchi di epilessia e gli occhi indemoniati erano dritti nei miei. Cercava qualcosa e quando la trovò, la bocca cerea si dischiuse e si accostò al mio orecchio.
 
 
<< Svegliati. >>, sibilò, la voce era tetra ed infantile. << Svegliati! >>, ordinò, premendo poi le labbra sulle mie e tornando da dove era venuta.
 
 
Il buio divenne nuovamente luce e solo dopo essermi protetta dal riverbero abbagliante ed improvviso, mi accorsi che, finalmente, ero in grado di muovermi di nuovo. I gesti erano goffi, fiacchi e dovetti riabituarmi ad essere viva, anche se, il colorito livido della pelle era sconcertante.
A fatica mi sedetti sul duro lettino, dalle lenzuola azzurre. Accanto il braccio era adagiato una vecchia flebo vuota, sul braccio vi erano tre buchi violacei recenti. Uno schermo spento giaceva alla mia destra, sul pavimento un lungo foglio sottile, riportava il monitoraggio cardiaco di una persona chiaramente morta.  
 
 
Non rammentavo che le pareti dell’ospedale fossero di marmo pregiato e che le finestre avessero quella forma ad arco, affrescate a mano, raffiguranti dipinti sacri o mosaici antichi. Il condizionatore, aveva smesso di fischiare e, il luogo, era dotato di un freddo ricamato nelle viscere… lo stesso freddo che rappresentava la sottoscritta.
La camera appariva vuota, come disabitata da anni, l’unica fonte di luce proveniva dal neon al di sopra il mio letto, per il resto l’oscurità più tetra mi circondava. Dalle finestre non vi erano alcuni punti di riferimento per capire dove fossi e il perché ero finita in ospedale.
Da quanto ero qui? Un giorno, una settimana? Una vita? Per quale motivo? E dov’erano tutti?
 
 
Lo scorrere del tempo era mutato impercettibilmente e non riuscivo più ad interpretare quanto durasse un minuto o un’ora intera. Non esisteva più alcun tempo per me. Le leggi e le convinzioni terrestri, non potevano più essere applicate con la sottoscritta, anche se non capivo cosa fosse accaduto e come uscirne.
 
 
Scesi dal lettino, tra le mani un bouquet di rose rosse che  fino a poc’anzi non c’era e fui sorpresa nel non percepire la temperatura del pavimento lucido, pulito e corvino. Strano per un ospedale avere un simile arredamento.
 
 
 
Sforzai la mente a riportare a galla il viaggio che mi aveva portato qui, ma per quanto cercassi di rammentare, una spessa e fitta coltre di bruma impalpabile, si addensava come un muro impenetrabile e su cui andai a scontrarmi.
 
 
Non vi era più alcuna traccia dell’orribile creatura, così come della piccola porta da cui era stata risputata.
Incerta e turbata mi trascinai nel corridoio buio, ci fu un ronzio elettrico e poi, uno dopo l’altro, i neon attaccati al soffitto si accesero in contemporanea. A metà della corsia era stato abbandonato un vecchio carrello metallico, pieno di oggetti sanitari usati ed un paio di cartelline appartenenti a pazienti dell’ospedale.
Avrei potuto trovare informazioni rilevanti che avrebbero spiegato l’astruso frangente, fu principalmente questa la motivazione che mi spinse verso il carrello. Tra le vecchie siringhe utilizzate, boccette rotte, macchie di liquido giallastro su carta assorbente, c’erano sei fascicoli medici. Riportavano date disparate, forse errate, con salti temporali pazzeschi e collegate dal nessun senso logico.
 
 
L’ultimo incartamento era del millenovecentonovantanove e apparteneva a me: Jennifer Thompson. Dichiarata morta dopo un tentato suicidio.
 
 
Battei le palpebre, ed ebbi un dolorosissimo tuffo al centro del cuore palpitante. Le iridi scatenate rintracciavano notizie più precise e fu impossibile che fossi scomparsa all’età di otto anni, poiché era palese che ci fosse un vistoso errore, che non ero deceduta.
C’ero arrivata a ventiquattro anni, ma come?
Mi aggrappai ad ogni spiraglio, a reminiscenze che non esistevano a particolari illusori. Ero viva, benché non ricordassi di esserlo stata. Più tempo passava e più dimenticavo chi ero veramente.
E nel terrore di non riuscire a rievocare nulla che potesse confutare tale teoria, avvertii una sensazione di disagio crescente, come di un pericolo imminente che stava giungendo per uccidermi per davvero e mi voltai atterrita.
 
 
In fondo al corridoio, al confine tra la luce e le tenebre, un uomo nerboruto, alto, il volto rivestito da una maschera in lattex da sadomaso che gli copriva interamente ogni centimetro visibile della faccia, abbigliato con un gessato nero, teneva in mano un grosso martello da lavoro e restava minacciosamente immobile.
Non potevo vedere gli occhi, ma sapevo che mi stava fissando, ed era lì per me.
Sicuramente non era venuto a trovarmi per invitarmi a bere un caffè insieme, le intenzioni era tutt’altro che pacifiche e cordiali.
 
 
Come se avesse avuto un ordine impercettibile, l’uomo procedette minaccioso a passo di carica verso l’unica persona presente al momento.
 
 
<< Cazzo! >>, sbottai e d’istinto andai nell’unica direzione possibile.
Corsi a perdifiato, lo sconosciuto mi stava alle calcagna e, per quanto veloce andassi, lui riusciva ad essere doppiamente rapido.
 
 
Nell’avanzare nei meandri dell’ospedale, riuscivo a scorgere luoghi ed oggetti che fino ad un momento prima non c’erano, era come quando si guidava di notte, con i soli anabbaglianti accesi, che illuminavano a pochi metri dalla macchina, paesaggi che erano celati nel buio, ma che le luci svelavano.
L’uomo mi era sempre più vicino, pochi secondi ancora e mi avrebbe ghermita e nello svoltare in una sala a cerchio, mi accorsi di essere incappata in un vicolo cieco. Era una grande stanza a mezzo cerchio, composta da grossi finestroni chiusi, l’unico aperto era situato al centro di essa e dava su un meraviglioso cielo al caffè, ricamato da stelle e da una piena luna pallida, che donava un’atmosfera spettrale all’edificio.
Decimo piano forse, magari più in alto di così.
 
 
Da qualche parte, dentro di me, un barlume di ragione mi spingeva a fermarmi, pensare ad una soluzione differente, tuttavia una sorgente organica di pulsioni oscure cancellò ogni minima traccia di razionalità e l’unica cosa che feci, fu buttarmi dall’unica via di fuga a mia disposizione. La caduta avrebbe dovuto essere veloce, sfocata, spaventosa, mi aspettavo un vento gelido sferzarmi la pelle, ma accadde tutto con una lentezza esasperante, un po’ come avveniva nei sogni. Il senso di cadere c’era… un’agghiacciante, fiacco ed esasperante senso di caduta nel vuoto e, invece di morire schiantata sull’asfalto, ruotai su me stessa ed atterrai agile come un gatto sulle gambe.
 
 
Non indossavo più il camice bianco: avevo smesso di essere una paziente. Calzavo vestiti che non erano stai mai miei, semplici converse nere, leggins corvini e una t-shirt bordeaux.
 
 
Benché avessi ricorso ad un estremo gesto per salvarmi, la minacciosa figura che mi aveva inseguita nell’ospedale, era a pochi metri da me, neppure mi avesse aspettata.
Ripresi a correre dalla parte opposta, attraverso ad una città fantasma, piena di lampioni accesi, negozi chiusi, nessuna macchina, né in movimento, né parcheggiata, silenzio assordante.
Solo io.
 
 
Stavolta fui più rapida o forse più fortunata, stava di fatto che riuscii a seminarlo. Dopo essermi accertata di essere in salvo, mi nascosi a riprendere fiato in un vicoletto poco illuminato, e a venire a capo della matassa ingarbugliata.
Un lampo improvviso squarciò il cielo, seguito da altri due, poi più niente, il temporale era imminente, però non iniziò mai.  Tra i ciottoli del vicoletto in cui mi ero rifugiata, lessi la scritta sul tombino: Manhattan.
Anche questo era errato, non ero di Manhattan, ma non ero certa di abitare in altro luogo, se non questo.
 
 
Ci impiegai una manciata di secondi ad udire il rumore inconfondibile di una moto in lontananza che si approssimava spedita, certo, poteva essere di nuovo l’uomo mascherato, però dovevo correre il rischio, non avevo altra scelta.
 
 
Furtivamente uscii fuori dal rifugio momentaneo. Il rombo del motore echeggiò nella città deserta, curvò ad una velocità sconsiderata nella mia strada e per paura che non mi vedesse, ubbidii all’istinto convulso e mi portai nel bel mezzo della carreggiata a braccia spalancate.
Dalla corporatura massiccia decretai fosse un uomo, non quello che voleva prendermi a martellate, questo era meno nerboruto e meno grosso di stazza. Indossava una tuta da motociclista bianca, nera e blu, il casco integrale occultava la fisionomia.
I fari mi offuscarono la vista e prima che potessi scansarmi, per non essere investita, il tipo sterzò brusco, perse il controllo del mezzo, poi l’equilibrio e ruzzolò malamente a terra, ruotando più volte sulla schiena, anche la moto, che scivolò per pochi metri fino a me.
Dopo una caduta del genere, sarebbe dovuto morire, così come sarei dovuta morire io, dopo essermi buttata da chissà quale piano dell’ospedale.
 
 
Si alzò a fatica, sorpresa che non si fosse fatto alcunché; il vetro del casco si era appannato. Se lo sfilò e lo lasciò cadere, come se non gliene importasse niente.
Indubbiamente era di aspetto affascinante e, in un paradossale contesto del genere, fu il particolare più scioccante di tutti. I capelli erano di un castano scuro, dal taglio semplice, pochi tocchi di gel. Le iridi di un verde scuro cangiante mi scrutavano magnetiche e sbalordite. Provvisto di un’aria familiare a cui non avevo fatto caso di primo acchito, lì per lì, non riuscii a ricollegai la somiglianza. Ero certa di averlo già incontrato prima di adesso, di averci parlato per giunta, di sapere chi fosse, ma, come per il resto, anche questo restò un’incognita irrisolvibile. 
Il viso era affilato, dai lineamenti maschili, forti e in più, il sottile strato di barba gli donava come a pochi.
Mi guardava come se fossi un fantasma.
 
 
<< Sei reale? >>, chiese l’incerta voce di velluto caldo, che fu una carezza soffice sulla pelle. Ne doveva aver viste di cotte e di crude, per porgere un simile quesito bislacco. Speravo che avesse delle risposte.
Mi sentii un alieno sotto analisi, dal modo strampalato in cui mi squadrava accorto, neppure dovessi sparire da un momento all’altro. 
Se non contavo il fatto che avevo appena scoperto di essermi suicidata all’età di otto anni, ero più che reale… e viva.
 
 
<< E tu? >>, replicai di rimando. Stavamo mettendo in dubbio che la tangibilità attorno a noi fosse veritiera? Che diavolo di gioco era mai questo, se era incerto ciò che i nostri occhi vedevano? E più di questo, ciò che i miei occhi vedevano era attendibile? Questo posto esisteva?
 
 
Inarcò un sopracciglio e lo sguardo divenne affilato, come quello di un predatore.
<< L’ho domandato prima io. >>, perseverò, mantenendo le debite distanze: non si fidava.
Se avessimo proseguito a rivolgerci l’identico quesito e su chi doveva rispondere, avremmo continuato per sempre e non volevo restare a lungo in strada, con uno sconosciuto armato che mi braccava.
 
 
<< C-credo di essere reale. >>, balbettai, incerta di esserlo davvero. Evitai di rivelargli che, probabilmente, ero un cadavere, sembrava già scioccato di suo, meglio non complicare il frangente. 
 
 
 
<< Cosa ti ricordi, prima di esserti svegliata? >>, interrogò, nemmeno gli fosse capitata l’identica cosa. Zero memorie su come fossi giunta qui e perché. Non muoveva un muscolo, restando cauto.
La caligine nel cervello avvolgeva i tre quarti del passato, l’ultimo quarto era iniziato da quando mi ero ritrovata nel lettino dell’ospedale abbandonato.
 
 
<< So solo come mi chiamo, non c’è niente prima del risveglio. Tu sai dove siamo? >>. Non mi sembrava Manhattan questa città.
 
 
Scosse le spalle vigorose, recuperò il casco ed alzò la moto. Non mi teneva più sotto tiro. Constatò se il mezzo funzionasse ancora.
<< Dove siamo? >>, ripeté, schernendomi. Con un colpo secco della gamba, la motocicletta riprese vita. << È una domanda relativa il “dove siamo?”, potremmo essere ovunque e in nessun luogo. >>.
 
 
Aggrottai la fronte, non volevo sapere, ma non potevo fare altrimenti, se volevo capirci qualcosa.
<< Che vuoi dire? >>, esortai a rivelare.
 
 
Si sedette virile a cavalcioni sulla moto, teneva il casco graffiato in grembo: se ne stava andando.
<< Secondo te dove siamo? Lascia perdere i cartelli stradali, non sono attendibili. >>.
Se non potevo basarmi su ciò che c’era scritto sul tombino, allora non ne avevo la più pallida idea. Il mio sgradevole silenzio, fu la risposta e mi mandò nel panico.
 
 
La testa oscillò da una parte all’altra e mi persi nel verde cangiante degli occhi dello sconosciuto.
<< Non lo so. >>, fu il terribile giudizio. << Cosa significa? >>.
 
 
<< Significa che ne so quanto te, che non so più da quanto vado avanti e indietro per trovare un’uscita da una prigione che non ha sbarre. >>.
Prima che potessi aggiungere altro, mi anticipò. << Non si esce da qui, almeno non a piedi o in moto o in auto. >>.
 
 
Portai una mano davanti la bocca, per impedire all’orrore di venirne fuori. Eravamo circondati da alti edifici, strade desolate e silenzio lugubre.
<< Ci siamo solo noi? >>. Se non contavo lo psicopatico con il martello.
 
 
<< No. >>, rivelò cupo. << Ma non credo che gli altri siano reali o umani. Questo posto ha dell’assurdo, non c’è tempo o ricordi. >>.
 
 
<< Come non c’è tempo? >>, sbottai e la voce raggiunse picchi indicibili. Troppe informazioni tutte insieme e la mente faticò ad assorbire le nozioni preoccupanti.
 
 
<< Da quando mi sono risvegliato è sempre stato notte, non ho trovato orologi e non sono riuscito in alcun modo ad orientarmi. Non so se sono trascorse ore, giorni o settimane. So solo che non posso stare per troppo tempo fermo da qualche parte, perché verrei preso. >>.
 
 
Sbiancai di botta.
<< Da chi? >>.
 
 
“L’uomo con il martello!”.
 
 
 
 
Morse il labbro inferiore e malgrado fosse un uomo di una certa corporatura, il panico gli valicò i lineamenti decisi.
<< Non dirmi che non li hai incontrati? Non so chi siano, ma è palese che le intenzioni non sono delle più pacifiche. Più ci si muove e meno sono le possibilità di essere uccisi. >>. Ce n’era più di uno?
 
 
Avevo bisogno di sedermi, di un bicchiere di acqua e zucchero e di riprendermi dal trauma.
<< Dove hai trovato la moto? >>. Di mezzi di trasporto in giro non ne avevo scorto da nessuna parte.
 
 
<< Mi sono risvegliato accanto ad essa. Credo che sia la mia, ma non è certo. >>. Conoscevo perfettamente la sensazione di non essere sicura di qualcosa che mi pareva garantita. << Hai un posto dove nasconderti? >>.
 
 
Lo stomaco gorgogliò dispettoso, preda di una fame incontrollabile e un bisogno di saziarmi all’istante.
 
 
Sorrise di sbieco, l’unico segno di normalità, in mezzo a tanta confusione.
<< Se ti fidi, ho trovato dove poter mette cibo sotto i denti. >>.
Non mi aveva uccisa fino ad adesso, per evitare di investirmi si era schiantato sull’asfalto, dubitavo che d’un tratto cambiasse idea e mi massacrasse.
 
 
Salii al posto dietro al suo, gli cinsi i fianchi ed attesi che partisse.
 
 
Mi passò gentile il casco.
<< Mettilo principessa: andremo forte. Prima ci togliamo dalla strada e meglio è. >>.
 
 
Indossai la protezione sulla testa e mi tenni salda al suo addome. Da sotto la tuta potevo avvertire i muscoli dello stomaco contrarsi e dopo un colpo di gas, ci avviammo ad una velocità folle.
 
 
La città fluiva sfocata ai lati, assomigliava a Los Angeles, poi a New York, senza la Statua della Libertà. Il ponte era simile al Ponte di Brooklyn, ma non era lo stesso. Le acque erano scure, talmente tanto da non percepire la profondità, era come se sotto di noi vi fosse il nulla più totale.
In compagnia di quest’uomo, che non conoscevo, fui meno agitata e più al sicuro, e non badai affatto alla voce interiore che insisteva sulla questione che fosse pericoloso salire in moto con uno sconosciuto. Ma era una voce lontana, un flebile eco, che andava via via spegnendosi, sopraffatta da un’urgenza inarrestabile di soddisfare voglie difformi, che non avevano alcun nesso coerente tra di loro.
 
 
Giungemmo davanti ad una tavola calda, sorprendentemente aperta, accogliente ed illuminata. Fu strano, era l’unico negozio aperto, in un corso dove perfino la strada era chiusa.
 
 
Spense la moto e restò in spasmodica attesa, fissando all’interno della tavola calda.
 
 
Impensierita dall’atteggiamento singolare, sfilai il casco e seguii la direzione imprecisa dello sguardo vitreo.
<< Che succede? >>, sussurrai, poggiandomi sulle spalle possenti.
 
 
<< Occhi aperti, principessa. Niente è sicuro. >>, avvertì lugubre.
 
 
Feci per scendere dalla moto, restando il più vicina possibile a lui.
<< Mi chiamo Jennifer. Jennifer Thompson. >>. Gli passai il casco e lui lo assicurò al manubrio. I nomignoli non facevano per me, li detestavo a priori, specialmente “principessa”, non avevo niente di canonico che potesse ricordare una principessa.
 
 
<< Shannon Leto. >>, si presentò semplicemente. Era vigile, allerta ad ogni movimento fuori posto. Assomigliava ad un guerriero, pronto alla battaglia. 
Strano che, per entrambi, il nome ed il cognome erano gli unici dati anagrafici che rimembravamo.
 
 
All’interno la tavola calda era gradevole e confortevole, le forti luci al neon rischiaravano i tavolini puliti in legno, posti ai lati del grande camerone. In fondo vi erano scaffali di cibo vuoti.
<< C’era da mangiare. >>, rese noto. Un profumo invitante proveniva dal retro. << Sono venuto qui, forse, un paio di ore fa o ieri. Comunque sia, saremo al sicuro per un po’. Dopo ci occuperemo di dove ci sistemeremo per la notte. >>.
 
 
Shannon mi precedeva avveduto, saltò agile dall’altra parte del bancone e mi aiutò a fare ugualmente. Le cucine erano abbandonate da chissà quanto, ma il profumo succulento stava ad indicare che vi erano ancora leccornie fresche, pronte per essere divorate.
 
 
Aprì il frigo, afferrò del pane, marmellata aperta e me li lanciò.
<< Se gradisci dell’altro, basta dirlo. >>. Si avventò su un tubo di Pringles alla paprika, si sedette su un tavolo metallico, gambe a penzoloni, e prese a sgranocchiarle.
 
 
 
Non trovai le stoviglie, così mi adattai a spezzare il pane con le mani e a versare il grumo gelatinoso alla fragola su di esso. Restai in piedi a mangiare, dovevo sbrigarmi.
<< Hai delle ipotesi su dove diavolo siamo? >>, sbiascicai, con la bocca piena e le labbra sporche di marmellata.
 
 
<< Nessuna che abbia un senso. Ci sono cose che non capisco, come… dove sono le persone? Perché non sono riuscito ad andarmene? Che razza di posto è questo? Come ci siamo arrivati? All’inizio ho creduto fosse uno scherzo, poi ho capito che c’è qualcosa di imperfetto, è come se qui fosse tutto fermo, in attesa, come se niente esistesse davvero. Per non parlare del fatto che vogliono ucciderci. >>.
 
 
Masticai piano, non volevo perdermi neanche una parola, poi ingoiai e boccheggiai appena, visto che erano le identiche congetture che avevo supposto io.
 
 
Fu mentre stavo per esprimermi sulla faccenda confusionaria che, un rumore sospetto nella tavola calda, spezzò il discorso. Shannon mollò le patatine, balzò fluido dal tavolino, mi afferrò per un polso e, senza guardarsi indietro trottò spedito verso l’uscita di sicurezza.
Non aveva alcuna intenzione di fermarsi, restare un minuto in più lì e capire se avremmo trovato un altro come noi o un nemico, magari lo psicopatico con il martello. 
 
 
Si portò un dito sulla bocca, come per segnalarmi di non fare un fiato, decise di abbandonare la moto dall’altra parte dell’edificio e ci inoltrammo rapidi nel cuore della notte a piedi.   










Note: 
Beneeeeeeeeeeeeeeeeee, che dire, eccomi tornata di nuovo nel fandom dei Mars dopo parecchi anni. 
Questa storia è largamente ispirata al video musicale Hurricane, video che ho amato tantissimo e che amo ancora. E' da quando l'ho visto per la prima volta che non ho fatto altro che provare a scriverci una storia. Quindi sì, sono quasi sei anni che mi scervello su una trama decente e alla fine è giunta, come per magia dopo un sogno. 

Proverò a spiegare per quanto mi sia possibile il capitolo, cercando di non rivelare troppo dell'intera trama, dico solo che ogni cosa scritta ha sempre un motivo. Frutto di ricerche e un po' del mio sapere di base. E niente sarà come appare, specialmente la verità.  

Allora, premetto che non sono una fan assidua, ma amo molto le loro canzoni, li seguo dal 2005 e, da come si è capito, il mio preferito è Shannon.
La storia è iniziata dal mio insistente cercare l'Argus Apocraphex, cosa che FINALMENTE sono riuscita a trovare, grazie alla stesura di questa ff e le numerosissime ricerche fatte in mitologia, siti e libri di magia vari. 

Ho deciso di mantenere sempre la notte nella storia, dopo aver letto che i Mars hanno fatto un tour che si chiamava "Forever night, Never Day".  

Nella storia verrà trattato l'argomento della ricerca dell'Argus Apocraphex, ma non rivelerò mai cosa sia, per i più attenti, però, ho disseminato indizi specifici e rilevanti. Come diceva Socrate: La verità sta nella ricerca, non nella conclusione.



Stavolta ho preferito non creare una copertina, benché io sia una grande fan delle copertine nelle storie. 


La storia può presentare errori ortografici, dato che preferisco non sottoporre le mie storie a nessuna Beta. 


Non accetto insulti, commenti idioti, critiche gratuite senza un vero motivo logico. Non verranno accettate nemmeno le critiche pesanti, con i "non ti offendere", sperando che io non mi offenda.Verranno segnalate al sito e poi cancellate. Se non vi piace, nessuno vi obbliga a leggere e soprattutto a commentare.


Aggiornerò lentamente, poiché, visto che sono pochi capitoli, preferisco non bruciarmeli tutti insieme. 


Ringrazio già da adesso chi commenterà o chi leggerà solamente. 
 
 
Adesso la smetto, dato che le note stanno diventando più lunghe del capitolo stesso xD Alla prossima.


Un abbraccio.
DarkYuna.  
 


 
  
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