Capitolo II: Fine
Ticchetta furioso il
vistoso orologio appeso alla parete, lo fissi svogliata, distesa sul divano.
Non hai notato la mia presenza: non lo fai mai. Giochi coi tuoi capelli,
vistosamente annoiata da qualcosa, forse aspetti qualcuno o qualcosa, casualità
della sorte.
Afferri il tuo Ipod,
indossi le vistose cuffie, alzandoti di scatto come una molla. Chissà quale
canzone fa da sottofondo alla nostra storia, spero sia una bella canzone, di
quelle che lasciano il segno. Lo saprò più tardi. Al passo di un sordo ritmo
volteggi per la sala da pranzo, imitando il claudicante passo di una scatenata
rockstar, accompagnando con un sottile falsetto la voce che rimbomba nelle tue
orecchie. Alla fine tutto ritorna come prima: palco e platea, attrice e
spettatore. Il sipario grava sulle nostre teste, su d’una coscienza che non
sento ribollire in petto.
Sei una trottola
impazzita, di quelle che amavo da bambino, come quelle che facevo girare per
ore sperando che le cose cambiassero. Ma non è mai successo. Mio padre ha
continuato ad abusar di mia sorella ed io ho continuato a far l’omertoso. “Ci
si nasce” con certi ruoli nella vita disse Amy Fisher, la mia prima maestra.
Una donna crudele, non come te. Mi ritrovo dunque alla fine di questa lunga
corda di pensieri, aggrappato alle sottane di quella gran puttana ch’è la
sorte. Perché mi ricordi tutto ciò? Hai
colpe quanto me, per quanto sia gradevole la tua figura in penombra. Indossi
gli stessi pantaloncini di quella prima volta, la prima volta in cui ho potuto osservarti.
Sono malridotti, li ami fin troppo per gettarli. Strana cosa l’affetto verso un
oggetto, un puro legame tra schiavitù e finta umanità. Ti risulterebbe più
facile infilarmi una mano nel tritacarne che spogliarti per me, stupida,
stupida. E vaneggio tra una finta consolazione e i pensieri che dominano i miei
lenti passi. Finirà tutto nel giro di due minuti, nessuna sofferenza, nessuna
violenza eccessiva. Ancora prima che la tua cena finisca di scaldarsi nel microonde.
Volteggi, danzi con
una spensieratezza commovente, ignara dei segnali. Non hai mai prestato
attenzione a me, il sorriso invadente. Le scuse per vederti; le ruote dell’auto
bucate; il gatto sparito… niente, ti sei fidata di me, o forse sapevi. Sì,
sicuramente sapevi. Non hai mai detto niente, mi chiedo il perché. Gelo.
Incapace di muovere un muscolo. Il tuo bianco collo, esile, anche da qui mi
indica la sua fragilità.
-Non ho la testa per
una relazione- così mi hai ripetuto più volte. Brutta bugiarda, impossibile che
tale voglia di vivere sia data da te stessa. Impossibile non vivere schiavi
delle proprie voci, sei una bugiarda. Nessuno si basta, nessuno. Altrimenti non
avresti pianto la notte. Non avresti noleggiato migliaia di volte la solita
commedia romantica, quella che ti fa ridere a crepapelle. Bensì avresti aperto
il tuo mondo al prossimo, condiviso le tue malinconie con me. Mi avresti amato.
Ed io avrei amato te, immensamente. Saremmo guariti da questo enorme fardello,
un enorme peccato. Saresti guarita dal fantasma di un marito infedele, sì, so
anche questo. Dei figli, li immagini? Avrebbero avuto una infanzia senza
violenza, molto meglio della mia. Folle!
Signori e signore il
gran numero: la salita sul tavolo, nel pieno della tua celebrazione dell’ego.
Alle ultime battute, un fill di batteria e il solo di sax, il finale è giunto.
Tempo di calare il sipario sull’illusione ch’eri. Ho sempre sperato che le cose
cambiassero, anche questa volta. Ed ora mi chiedo, amore mio, dandoti l’occasione
di riguadagnar i piedi al suolo:
Se avessi risposto
al telefono saremmo qui?
Se avessi chiuso la
porta avresti paura?
Senza musica ti
saresti accorta della mia intrusione?
Hai mai guardato
fuori dalla finestra?
Ti
volti. Urli. Mi avvento.