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Autore: theuncommonreader    25/01/2016    7 recensioni
Roma, estate 1482. Mentre gli Stati Italiani si schierano nella guerra tra Venezia e Ferrara, Vannozza Cattanei, ex amante di Rodrigo Borgia, affronta la sua ultima gravidanza e un conflitto più personale: quello contro se stessa, tra presente e passato. Una battaglia persa in partenza.
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“Ci sono ricordi talmente vivi dentro, che lasciano un vuoto incolmabile.”
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Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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felix

 

Felix Infelixque

Nec Sine Te Nec Tecum

 

 

 

 

 

 

 

 

È una creatura indolente quella che le cresce in seno – pigra come la brezza che arruffa le foglioline di rosmarino, basilico e menta [1] che crescono nel suo ancora modesto orto oltre la finestra.

Questo nuovo bambino si muove poco nel ventre ingrossato, così duro e teso al tatto. Vanna lo carezza lentamente, la destra posata sulla stoffa leggera del fodero [2], gli occhi chiusi mentre si gode il sole di maggio; intanto, tamburella le dita della mano libera sul legno scuro e liscio del sedile, affondando nei morbidi cuscini che le sostengono la schiena.

Non è più una fanciulletta appena maritata che possa affrontare senza sforzo le fatiche di una maternità in fila all’altra e, anzi, era certa di aver chiuso con quei particolari accadimenti della vita – invece, evidentemente il Signore ha altri piani per lei.

Che il piccolo sia tanto calmo è una benedizione, una fortuna per il suo corpo non più giovane. Domineddio è stato tre volte generoso, coi suoi figli minori.

Lucrezia è stata la sua gravidanza più bella, a malapena una nausea, un capogiro; Jofré, il travaglio più semplice: quasi non s’è accorta delle doglie quando sono venute – e di mattina, per una volta, facendole la cortesia di non destarla dal raro sonno dei giorni che precedono il parto. 

Definirla una faccenda veloce e indolore sarebbe troppa gentilezza, ma è pur vero che il piccolo è scivolato fuori come un seme spremuto dalla polpa di un frutto maturo, qualcosa di cui ringraziare il Signore.

Checché sua madre ne dica dei fievoli ricordi delle partorienti, è ferrea la memoria di Vanna, che gioie, torti e pene non li scorda mai; certamente non ha dimenticato la straziante tortura che è stata dare alla luce il suo secondogenito – un torello [3] che non ha concesso requie dal primo malore all’ultima spinta.

Rammenta bene lo spalancarsi del ventre che le si contraeva come una bestia viva e irosa, il lancinante dolore alle reni, come pugnalate che la scuotevano tutta e le consumavano la voce a forza di urlare.

Juanito è venuto al mondo violaceo e col cordone avvolto attorno al collo – così le hanno detto – ma con un grido tanto arrabbiato da scacciar pure il Tristo Mietitore [4], tanto deciso a portarseli via entrambi nell’alba nascente.

Ecco, se ci pensa, quello strillo se lo risente nelle orecchie: la speranza a cui s’è aggrappata prima che la debolezza e il sangue versato la facessero svenire nel letto della camera padronale, fetido di ferro, sudore e sterco.

Deglutisce al ricordo – non è saggio riandare con la mente a certi brutti casi quando è tanto vicina a scoppiare, dice sua madre – e sorride tra sé: ah, ma è valsa la pena di soffrir tanto.

Aguzza le orecchie per cogliere qualche parola del chiacchiericcio infantile che giunge dall’altro capo della sala grande, reclinandosi meglio sui cuscini di seta e piume d’oca, ripieni e gonfi quanto lei.

Potrebbero passar per gemelli, per aspetto ed età, i suoi figli maggiori; persino le loro voci sono tanto simili da rendere arduo discernere l’uno dall’altro.

Due piselli in un baccello, se non fosse che i discorsi disordinati di Nito nulla hanno a che fare con le poche frasi ponderate di Cesàr [5] – pure troppo assennate per un fanciullo nemmeno al suo settimo autunno – o le orazioni in cui si lancia quando gli prende il ghiribizzo.

Suo figlio maggiore tace tanto a lungo che potrebbe esser sgattaiolato via dallo stanzone, per quanto lei ne sappia; ma no, non oserebbe mai. Quando si volta per controllare eccolo lì, infatti, ritto come un soldatino con le braccia dietro la schiena, nell’immobilità vibrante del fiume che, sotto la superficie cheta, ribolle.

Nito non si trattiene, invece – sia mai. Ha preso a correre per la stanza inforcando il cavallo di legno che Giorgio ha fatto intagliare per lui – ama tanto, questo nuovo marito, spendere la sua recente fortuna in doni costosi: balocchi per i bimbi, calici d’oro e cristallo da esporre in casa come trofei, gioie e abiti costosi per uomo e per donna.

Vanna sospira, socchiudendo le palpebre e facendosi accecare dai raggi del sole che penetrano dalle imposte spalancate.

Il mese della Madonna [6] volge al termine.

Il tepore d’inizio dell’estate è ancora sopportabile, ma con l’andare dei giorni l’Urbe si trasforma in una fornace. Roma è la bocca spalancata di un leone, il vento che la spazza è il suo fiato umido e bollente, che incolla gli abiti alla pelle e frigge il senno nel cranio; quello che resta, le zanzare lo divorano vivo.

Come le manca la sua Brescia, quando agosto toglie il respiro e la voglia di vivere: l’arietta fresca che spirava insinuandosi nel vicolo dove sorgeva la sua casa bigia e ocra, sopra il laboratorio di Jacopo il Pittore [7]; portava fino al piano alto l’odore penetrante delle terre e dei pigmenti lavorati dai pochi apprendisti della bottega – Giacomozzo, Tommaseo, Benedetto dal naso camuso e di pelo rosso.

Trasportava fino a lei gli sdegnosi rimarchi di sua madre, i lamenti sui ladrocini dello speziale, sui signori che non pagavano – e il silenzio di suo padre, maestoso come certe genti dalla pelle chiara che dicevano scese di Francia [8], con la criniera riccia e la barba d’oro brunito, le rughe sulla fronte appesantita dalle sopracciglia spesse.

Le ritorna alla mente quel modo segreto che aveva di guardarla come a celare la delusione, un rimprovero muto di non essere un maschio che potesse succedergli… 

Un verso acuto interrompe il ragionamento – Lucrezia che salta sulle ginocchia di suo padre – e una risata come un fulmine allegro.

“Sveglierete il bambino, Illustrissimo [9]!” redarguisce Betta la vecchia, che non teme nessuno quando si tratta dei fanciulli di cui si prende cura.

Riceve in replica docili scuse bonarie – non ha mai visto Rodrigo men che rispettoso con una donna, ma alla balia dei loro figli è riservato un garbo particolare; cortesia che, Vanna e Betta stessa ne sono ben consapevoli, si trasformerebbe nella più funesta delle ire, dovesse quella mancare in qualche modo ai suoi doveri.

Al Vicecancelliere di Santa Romana Chiesa si possono trovare mille difetti, volendo – e lo vogliono in molti: il secondo uomo più vicino al Signore è tutt’altro che uno stinco di santo, e i suoi peccati passati e presenti nessuno li scorda; ma non una parola di biasimo pronunciata contro di lui nelle vesti di padre corrisponde a verità.

Anche adesso che la guerra incombe – e lo sa persino Vanna, che dalla politica si è sempre tenuta lontana – ora che i suoi doveri di cardinale gli scavano gli occhi di stanchezza, ha trovato il tempo per venire a porgere loro visita, per riempire i bimbi di baci e carezze.

Vanna non dubita che, se necessario, farebbe del suo petto uno scudo di carne per ciascuna delle giovani creature nella stanza – sì, persino per Jofré.

Per tutti, eccetto quello che al momento dorme ancora dentro di lei come un seme in un campo fecondo.

Quando egli si congeda dalla loro dimora di Pizzo di Merlo – un bacio a labbra umide sulla fronte di una Lucrezia disperata come a ogni altra loro separazione; una vigorosa carezza sul capo di Nito, sempre quieto quando giunge il tempo di salutare quel padre taurino; due grosse mani sulle spalle di Cesàr, tristezza negli occhi alla muta accusa del loro primogenito – Vanna solleva la propria mole dal sedile intagliato e si china a baciargli l’anello nonostante le galanti proteste.

Esclusi i convenevoli del caso, non si sono detti una parola.

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Si è addormentata pensando a Subiaco.

Quando apre gli occhi il pomeriggio volge al finire, la stanza è una pentolaccia che bolle sul vivo fuoco estivo e a bagnarle il viso non è solo il sudore.

Tenta di sollevare un braccio per passarsi una mano sulla fronte madida, ma un peso glielo impedisce. Ah sì.

Volta il capo battendo le palpebre umide: sono tutti lì, nella penombra della tenda sottile che scherma il grande letto dai morsi assassini delle zanzare.

I suoi vitellini.

Il viso di Lucrezia le preme contro il seno sinistro, la testa incoronata di ricci chiari come l’aureola di una santa. Nito è dall’altro lato: dorme su un fianco a bocca spalancata, un filo di bava che cola sul prezioso lenzuolo tessuto dalla madre di sua madre. Jofré è incuneato tra i seni e la pancia prominente – è così piccolo, la metà di quanto lo fosse Juan alla sua età.

Cesàr è sveglio.

È il suo capo a impedirle il movimento, posato com’è sulla curva del suo gomito – quella testa così greve, su spalle tanto esili.

Vanna lo guarda in silenzio, seguendo con gli occhi i lineamenti delicati del suo viso.

Non c’è davvero nulla dell’aspetto di Rodrigo, in lui, che pure è destinato a esserne il successore. Pedro Luis al Secolo, Cesàr alla Chiesa; ma è nel maggiore dei suoi figli in cui Rodrigo potrebbe specchiarsi e rivedersi giovane: il colorito scuro di pelle e capelli, il naso importante, il mento sfuggente, la bocca fatta per ridere e dar baci, gli occhi tondi e infossati, neri come il manto di certi cavalli d’Andalusia.

Lo vede poco e non glielo ha partorito lei – né gli ha dato Jeronima, o Isabèl, ma come non amare quei fanciulli che tanto somigliano al loro grande padre?

Cesàr, invece, è tutto di Vanna: è suo negli zigomi alti, nei tratti dritti e decisi; è suo nello sguardo chiaro – occhi del colore delle stelle [10], li chiamano; nella sfumatura ramata dei capelli. Li adora tutti, i suoi vitellini, ma questa miniatura di sé le ha pugnalato il cuore alla prima occhiata, conficcandosi come un pungiglione di vespa che, invisibile sotto la pelle, avvelena dolcemente.

Si volta col busto verso di lui quanto i fardelli vivi su petto e su ventre glielo permettono, liberando il braccio da sotto il suo capo e stirando le dita per riguadagnare sensibilità nella carne formicolante.

Gli posa il palmo sulla fronte, scostandogli le ciocche umide dal volto.

“Parlavi nel sonno, madre.”

Vanna sorride: nessun preambolo. Dritto al punto, una freccia al bersaglio.

“E cosa dicevo…?” domanda – e Cesàr esita, sdraiandosi sulla schiena ed evitando di incrociare il suo sguardo. 

“Raccontami di Subiaco… per favore.” La osserva con la coda dell’occhio, come a saggiare la sua reazione. Vanna replica con un altro sorriso, scoprendo i denti – sente quella strana voglia di piangere che spesso la coglie da quando è in attesa.

Gli ha narrato più e più volte della sua nascita come fosse una bella favola, ma non dubita che questo figlio così strano abbia i suoi motivi per domandarglielo di nuovo.

“Volete sapere di quando siete nato?” chiede comunque, guadagnandosi un cenno impaziente che le strappa una mezza risata. Qualcosa di suo padre, dopotutto, c’è anche in Cesàr.

“Ah…” principia Vanna, avvicinandosi Lucrezia al seno. “Siete venuto al mondo su questo materasso, come ben saprete, ormai.” Lo carezza con la mano libera, facendosi nostalgica. Se non è sicura di aver concepito lì sopra tutti i suoi figli, di certo ce li ha partoriti.

Il primo dono di Rodrigo a loro due.

“Quando vostro padre mi annunciò che saremmo partiti per Subiaco, chiesi che lo arrotolassero e lo mettessero su un carretto dietro la nostra carrozza. [11]

Al solo menzionare quell’infernale trabiccolo su quattro ruote, Cesàr si tende di interesse come la corda di un arco. Troppo interesse: più di una volta è stata tentata di mettere il guinzaglio a lui e a Nito come fossero due cagnetti dispettosi per evitare di vederli calpestati dagli enormi zoccoli dei cavalli da tiro.

“Non era una sistemazione granché comoda, ma meglio che andare a piedi, suppongo,” chiosa in tono serio. “La strada era lunga anche allora, pure se non c’era ancora Nito a ricordarci esattamente quanto a ogni Pater Noster.”

Riesce a strappargli un verso soffocato che somiglia a una risata.

“Lunga e accidentata, e a ogni scossa vi sentivo muovere senza darmi pace alcuna.”

Ai tempi, dopo tante speranze false e infrante, era un conforto avvertirlo così vivo dentro di sé – così irrequieto come poi è venuto al mondo, l’espressione già accigliata che tanto ha divertito Rodrigo mentre lo teneva in braccio per la prima volta, rosso e caldo del suo ventre.

“Superato il fiume e la valle d’Aniene, il borgo grigio e verde scuro si inerpica sulla montagna come una scala a chiocciola; mi domandavo se saremmo mai arrivati in cima, ma ecco che, quando iniziavo a disperare, ci trovammo di fronte la nostra nuova casa.”

Cesàr la sta certo ascoltando con attenzione, ma Vanna si rende conto che è lei la prima a essere rapita dal racconto: mentre parla rivede tutto, così vividamente che le par quasi di essere lì. Immagina di ripercorrere la via verso la Rocca, con la sua torre e la sua chiesetta intitolata a San Tommaso proprio accanto.

Una partoriente ha poco da chiedere al patrono degli architetti, ma Vanna ugualmente si è inginocchiata di fronte all’altare e ha detto i suoi rosari, sperando che intercedesse per lei con Nostra Donna e con Sant’Anna per un parto facile.

Alla fine della fiera è stata ascoltata: Cesàr non è stato il peggiore da dare alla luce, ma neppure una passeggiata in giardino a coglier rose e viole.

“La ricordate, vero? All’epoca non era così: le mura e le prigioni [12] che tanto vi piacciono erano appena iniziate, e solo la parte nuova della Rocca era pronta per noi.”

La camera padronale specialmente, dove hanno fatto buon uso di quel materasso medesimo, Rodrigo e lei, pancia o non pancia. Che il Signore li perdoni.

Un lampo dietro gli occhi – un’immagine della mano di Rodrigo a coppa sul ventre teso, le dita allargate e l’aria fiera di chi si sia conquistato un tesoro prezioso – e Vanna quasi si lascia sfuggire un singhiozzo.

Eppure non è triste, no. Esser mesti di fronte a suo figlio non è cosa accettabile.

“Non lo perdono, mamma.”

Il tono duro, così estraneo alla sua voce di bambino, la riporta coi piedi ben piantati a terra. Ha preso a fissare il soffitto senza neppure accorgersene, come le memorie prendessero vita sui pannelli di legno là in alto.

Torna a guardare Cesàr, che ha il viso rivolto a lei, gli occhi solenni e la bocca priva della petulanza di Nito quando fa i capricci. “Non lo perdono perché ti fa piangere.”

Vanna si solleva portandosi dietro Jofré, beatamente addormentato, con uno sforzo immane. Fissa suo figlio e gli dice tante cose senza parole – ma il bussare di Betta, come un rullo di tamburi, le fa perdere l’attimo; quando si gira a guardarlo di nuovo, Cesàr si è accoccolato a Lucrezia, il viso tra i suoi capelli, e finge di dormire.

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Anche lo studiolo è immerso nella penombra.

Le morbide babbucce di Vanna frusciano contro il pavimento in losa [13]. Quando prova a piegarsi per baciargli l’anello, Rodrigo la prende per le spalle con decisione fermandola e guidandola a sedere su una cassapanca appoggiata al muro candido.

Vanna detesta quelle premure – i cuscini che sistema sotto di lei, dietro la sua schiena; ogni frase cortese pronunciata nella sua familiare cadenza catalana sulla sua grossezza [14] (“Ogni volta che ti vedo ti fai più tonda e più bella”), sulla lucentezza dei suoi capelli, il colorito roseo delle guance; le domande di rito su Giorgio (“E il nostro segretario? Si porta bene con te?”).

Quasi preferirebbe la freddezza dei primi tempi, quando la ferita del distacco, non ancora cauterizzata dalle buone maniere, sanguinava livore,.

Rodrigo, ovviamente, lo sa.

Vanna incrocia le mani sulla pancia. “I piccoli dormono,” dice, mentendo solo per tre quarti. Non è il caso di stuzzicare Cesàr, se è di umore cattivo – soprattutto ora che si è messo in testa di diventar condottiero solo perché suo padre lo vuole prete. “Questo caldo sfianca anche i più forti.”

“E grave è il pericolo delle febbri. Sei certa che sia saggio non spostarsi verso luoghi più salubri? Le porte di Subiaco sono sempre aperte per voi.”

Vanna lo osserva da sotto le ciglia.

“Credete che le tensioni possano arrivare anche qui?”

Le pare tutto così lontano.

Giorgio le dice che l’aria, fuori di casa, è irrespirabile tra le due fazioni; che le genti di Venezia e Ferrara si guardano in cagnesco per le strade, e la notte volano coltelli. Chiusa nella sua casa, per Vanna è un’estate non troppo differente da quella che l’ha preceduta, una stagione di tregua tesa, di ostilità lontane al nord, nelle terre che si è lasciata alle spalle che era quasi bambina.

Rodrigo si passa un palmo sul viso.

“La questione è tra Venezia e Ferrara principalmente, ma siamo tutti invischiati in questo impiccio, da Genova a Napoli. Sua Santità è cosciente della propria mortalità e cerca di lasciare una qualche sicurezza alla sua famiglia. La qual cosa non sarebbe male, di per sé, se non fosse che i parenti a cui si affida sono nullità e se non puntasse ai territori degli Este.”

Del nipote del Papa, Girolamo Riario, nessuno ricorderà il coraggio o l’intelletto.

 Rodrigo torce le labbra carnose in un verso di sdegno, tanto fuori posto sul suo viso gioviale. “Si mormora che Napoli si unirà a Ferrara e Firenze contro di noi – la recente pace col de’ Medici è solo un incentivo in più, per gli Aragona: re Ferrante non ci guarda con occhio benevolo dopo l’opposizione di mio zio Callisto alla sua ascesa al trono, e Venezia… la crede l’istigatrice dei turchi a Otranto.”

Un brivido passa lungo la schiena di Vanna al pensiero della città assediata.

Non è donna schifiltosa, ma i racconti terribili degli uomini decapitati in nome della Fede, dei bambini rapiti, violati e uccisi con le loro madri hanno disgustato anche lei, ai tempi. E l’hanno impaurita a morte.

“Sua Maestà potrebbe decidere di… tentare qualcosa. Si sussurra che il Duca di Calabria stia approntando l’esercito,” continua lui. “Le soluzioni sono due: restare entro le mura di Roma o spostarsi a Subiaco. La Rocca è fortificata, e non è la strada diretta per attraversare i territori dello Stato verso il nord. D’altra parte, se rimanete potrei avere modo di proteggervi qui. La verità è che non c’è posto realmente sicuro.”

Vanna si porta una mano al ventre, la fronte aggrottata, il respiro appena più corto. Non credeva che la situazione fosse degenerata tanto rapidamente.

“Occorre decidere in fretta. Presto non sarò più in grado di viaggiare.”

Rodrigo riflette in silenzio per qualche attimo.

“La villa di Messer Della Croce sull’Esquilino sarà prestissimo in grado di ospitarvi, mi dice. Preferisco avervi tutti vicini e agire di conseguenza in caso doveste fuggire.”

“Allora ci sposteremo lì, come pattuito.”

Vanna abbassa lo sguardo sulla pancia gonfia. Il silenzio si fa pesante mentre getta a Rodrigo un’occhiata veloce.

 “Non temete… non per i bambini. Godono di ottima salute. Sono tutti forti e robusti come vitellini da latte.”

Non riesce a farne a meno: quando si fa ombroso, parole di incoraggiamento le escono dalle labbra senza che possa evitarlo – anche se non sta più a lei pronunciarle.

“Cesàr e Nito non sono più così piccoli. Qualche anno e dovranno imboccare il loro cammino nel mondo.” Pare affranto all’idea: c’è tristezza nei suoi occhi. Comprensibile, con Pedro Luis lontano in Spagna, Jeronima appena sposata e Isabèl in procinto di compiere il medesimo passo.

Tra questo e la situazione, ha ben poche ragioni di essere allegro.

Vanna quasi allunga una mano a toccargli il braccio quando Rodrigo si accomoda accanto a lei – ma si frena un istante dopo, intrecciando le dita in grembo. Strette.

 “Manca ancora molto,” lo consola comunque – e rincuora se stessa, non più ansiosa di lui di staccarsene.

“Non troppo. Sua Santità mi ha cofermato il canonicato di Valencia per Cesàr, e già è stata stilata una lista di candidati per i tutori di Juanito.”

Dovrebbe essere felice, Vanna lo sa: contenta che si prenda cura dei loro figli, che non li abbia dimenticati e che il futuro sia di fronte a loro una strada sicura – ma non riesce. Avverte invece una preoccupazione senza nome, troppo lontana per darle una forma.

La morsa la prende allo stomaco, annodandole le budella.

“Mi date splendide notizie per il loro avvenire. Vi sono grata”

“Eppure non ti rallegrano, lo vedo.”

Suona quasi offeso, e a ragione.

Detesta non esser in grado di celargli i suoi pensieri. Gli dona un sorriso affaticato, dolente. “Ogni cuore di madre desidera veder crescere i suoi figli – e pure che restino sempre piccini.”

“Quello di padre non è diverso.”

Prima che lei stessa se ne renda conto, porta mano è su quella di lui.

“Abbiamo ancora tanto da goderci di loro, e di Lucrezia e il piccolo Jofré.”

Se lo ha visto illuminarsi alla sola menzione di Lucrezia – una regina fra le sue principesse – sentir nominare Jofré spegne subito quel brillio nei suoi occhi.

Vanna ritira la mano, lentamente: neppure lui può ancora nasconderle nulla, specialmente quello che non vorrebbe vedere.

“È figlio vostro quanto gli altri,” mormora livorosa, mentre si alza con difficoltà – vorrebbe farlo di scatto; invece Rodrigo deve precederla e sostenerla. Si libera immediatamente, portando le mani ai fianchi, sul piede di guerra.

“E io ti credo, se ne sei certa.”

Di nuovo quell’insinuazione; che la consideri una puttana perché ha accolto suo marito nel letto, poi, è il colmo.

Vanna si posa un palmo sulla pancia come a sostenerla, la fronte corrugata e le labbra strette tanto da sentire la pelle del viso tirare.

“Eppure, mi mettete in dubbio. Come potrei non esserne certa, di grazia? Per un uomo tanto intelligente, a volte vi mostrate più ostinato di un somaro.”

Il rossore gli fiotta alle guance, e Vanna comprende di aver esagerato, ma non le interessa. Non si può esser sempre saggi.

“Non ho giaciuto con mio marito se non dopo la sua nascita, come vi ho detto più volte, come ho giurato sull’anima di mio padre. Vi ho mai mentito, mi sono mai tirata indietro di fronte a una verità scomoda? Spero che mi vediate come una donna più onesta di così…”

“Una donna onesta, ma una madre amorevole, disposta a tutto per i suoi figli. Sono parole tue.”

Sì, è così. Sono parole sue.

Anche Vanna si fa cremisi, le dita che fremono dalla voglia di abbattersi su quel volto strafottente – e così amato.

“Una donna che vi conosce e che sa che vi sareste preso cura anche del figlio avuto con qualcun altro, dopo che la vostra passione per lei si fosse spenta. Come avete promesso di fare, appunto,” ribatte, indicando il rigonfiamento orgoglioso che spunta dalla seta leggera della veste da camera.

Rodrigo abbassa lo sguardo sul suo grembo e a Vanna pare di scorgervi qualcosa di simile all’odio per quel bambino non nato.

Quando la aggredisce tirandola contro di sé, vicino tanto da soffiarle sulle labbra ogni parola, Vanna lo lascia fare: non avrebbe modo di opporsi a tanta forza, pure se lo volesse.

Il suo fiato sa del vino che ha bevuto, della frutta candita abbandonata in una coppa sullo scrittorio alle loro spalle – l’ha avuta anche là sopra, ricorda Vanna senza un vero perché, in un lampo improvviso.

“Mi hai mentito, invero: è così. Il tempo della giovinezza è finito per me, Rodrigo. E ora guardati: gravida di questo nuovo marito che ho elevato dal niente, uno spiantato milanese qualunque. Lo hai preferito a me, il padre dei tuoi figli, il Vicecancelliere di Santa Romana Chiesa!” sibila.

E la bacia, quello sciocco.

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Giugno è il mese della paura.

Dei saccheggi dei Colonnesi, delle lotte nei rioni tra Orsini e Savelli. Dei morti ammazzati che galleggiano nel Tevere e imputridiscono sotto lo scrocchio del sole leonino.

Le campagne piangono e oltre le mura di Roma si levano grida.

Il mormorio che Napoli si unirà alla spedizione diventa una certezza, e la marcia dell’esercito del Duca di Calabria tuona la lontano rimbombando nell’aria irrespirabile.

L’ordine di Rodrigo di spostarsi dal rione Ponte all’Esquilino arriva a luglio, quando in città non si può più stare, ed è immediato e improrogabile: San Pietro in Vincoli è diocesi dei parenti del Papa, e dunque protetta più di ogni altra.

I preparativi sono rapidi. Niente carrozza, ma una lettiga, una processione di servi e pochi averi. Vanna tiene Cesàr per una mano, Nito per l’altra. Persino i piccoli sembrano solenni mentre, seguiti da Betta con Lucrezia e Jofré, scortati dai bravi di Rodrigo, lasciano la casa di Piazza Pizzo di Merlo.

Non ci sono risa e Nito non domanda quanto manca per arrivare a ogni Pater Noster.

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Vanna si fa sempre più grossa, chiusa nel guscio protettivo dei suoi appartamenti all’Esquilino. Ha lasciato a casa il vecchio materasso.

Proprio una bella villetta, quella che Giorgio ha scelto per loro – quel marito così serioso, tutto contento come un fanciullo che si balocca quando può prenderla sottobraccio e portarla in giro per il vigneto, tra le foglie di un verde allegro e i tralci che si arrotolano come ricci di donna, o quando può riposare con lei nelle ombre dell’uliveto (“Vedrete, Vannozza mia, che olio, che vino!”).

Nella nuova casa vivono un’esistenza a parte – separata dalla tempesta che infuria poco lontana dall’Urbe.

Giunge nuova dell’arrivo del Duca presso Velletri; giunge notizia della battaglia a Campomorto. Se c’è qualche loro parente tra le perdite, i servi lo piangono in silenzio.

Al nord non cessano gli assedi. Lungo il corso del Po Ferrara e Venezia sfiancano le truppe.

Quando l’inquietudine la assale, nella piccola cappella di casa Vanna prega per i suoi figli, nati e non nati, per Rodrigo e per se stessa.

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Quando il caldo dà requie, i suoi figli giocano fuori, sul prato: Nito a cavallo del suo destriero di legno, il canonico di Valencia con la sorellina per una mano e il fratellino per l’altra – il suo piccolo esercito, l’unico che potrà mai condurre se la volontà di suo padre farà il suo corso.

Sono lunghi gli ultimi giorni d’estate.

L’afa mefitica dell’Urbe è spazzata via dal venticello gentile che spira sul colle. Al risveglio si stupisce ancora di non avvertire il solito rumoreggiare della piazza – la quiete quasi eccessiva è rotta solo dal canto degli uccelli, dai versi delle vacche da latte in lontananza, del gallo di casa, tre volte al dì.

C’è tanto da fare, in questa nuova dimora, ma nessuno le permette di alzare un dito.

La figlia di Betta la vecchia – Lisa la giovane – comanda le fantesche di casa, e sia mai che Vincenzo il cuoco conceda a qualcuno di metter bocca sulla conduzione delle sue cucine; dalla finestra, Vanna vede suo marito in persona dilettarsi alla coltura delle viti sotto l’occhio vigile del massaro, mentre Anna, una giovane del posto dalle dita svelte, le massaggia le reni dolenti e i piedi gonfi.

Presto, sua madre lascerà la solitudine vedovile del convento per imporre a tutti loro la sua tirannia. Le ordinerà riposo assoluto e si farà rispettare con più fermezza di quanto Giorgio o Betta potrebbero mai, pure se Vanna ha imparato negli anni che quel che serve per raccogliere le forze in vista del parto sono camminate, cibo leggero, aria buona.

Stare serene, e non lasciare che la mente vada immaginando i letti dove il suo vecchio amante si rotola e con chi; non ripensare al suo ultimo bacio arrabbiato.

Dovrebbe rispettare il confino [15], ma ogni scusa è buona per sgattaiolare via coi figli, con Giorgio, finché ne ha la possibilità.

Le serate passano lente e pigre nel salone grande, dove Giorgio e Vanna siedono con le pance piene di focaccia e pasticci di verdura sulla grossa cassa della biancheria [16] ad ascoltare Cesàr e Nito che cantano per loro e recitano filastrocche e poesiole.

Vanna ci ha concepito un bambino con quest’uomo che le sta accanto, ma solo ora inizia a conoscerlo e c’è qualcosa del lombardo robusto, in lui, che pure ha l’aria tanto slavata, con gli occhi verde pallido e i capelli che al biondo mischiano il primo bianco.

Lo osserva mentre guarda i suoi bambini e gli vuole un poco bene per la pazienza – lo pagano profumatamente per essere un buon marito, ma prestare attenzione ai figli di un altro dubita rientri nel contratto.

Il Segnor Domenico [17], che lo ha preceduto, era una presenza tanto evanescente che, ci fosse o non ci fosse, non importava niente a nessuno; Giorgio qualche sorriso lo strappa e non le rimprovera le sue mancanze – a volte ne è complice e in quei momenti in cui sfuggono insieme ai ruoli scelti per loro, nel frutteto e tra gli ulivi, Vanna prova verso di lui una qualche gratitudine.

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Rodrigo viene a trovarli quando può – sospetta che senta il profondo bisogno di evadere dall’aria greve del Vaticano – e in quelle occasioni Vanna è la più responsabile delle partorienti: sparisce in camera sua, mentre Giorgio accoglie il Vicecancelliere alla loro piccola corte, e Betta la vecchia vigila come un falco sui figlioli – Lucrezia intronata sulle cosce paterne, Nito alla sua destra e Jofré sul pavimento che guarda quel padre riottoso da sotto in su.

Quando accade, Cesàr scivola nell’alcova di Vanna come un gattino silenzioso, spesso in preda all’improvvisa voglia di intrattenerla leggendo o recitando qualcosa per lei, che non ha cuore di punirlo per quanto non le riesce di castigare neanche in se stessa.

Rodrigo non si lamenta delle loro assenze, ma lei non fatica a immaginare quanto debbano offenderlo e farlo soffrire – soprattutto adesso. Vede i sacrifici, la sua buona volontà, ma saperlo lì la scaccia come caccia via anche Cesàr.

Vorrebbe essere più forte e agire secondo ragione, per il bene di entrambi.

Se togliesse loro il favore – se lo togliesse a Cesàr – sarebbe una perdita irrimediabile: un bambino ha bisogno di un padre che lo tenga per mano, per far strada nella vita; Vanna si tormenta al pensiero, ma qualcosa la blocca dal fare ciò che è giusto e mandarlo di sotto.

Cesàr potrà essere la miniatura di un uomo, ma è pur sempre un fanciullo non ancora adolescente, e alberga nel suo animo una gelosia corrosiva che Vanna non crede bene nutrire con la vista dei suoi fratelli, tanto affettuosamente coccolati. Il suo amore per Lucrezia è incondizionato, sì. Ma con Juan… la faccenda si fa più complicata.

La madre guarda il figlio, quelle assennate riflessioni che le vorticano nella testa pesante, e il figlio guarda la madre, seduto su uno sgabello avvicinato al bordo del letto – in attesa.

“Cosa vuoi che ti reciti, madre?”

“Qualche passo del Sacro Libro.”

L’espressione di Cesàr è talmente annoiata da strapparle un risolino.

“Va bene, va bene. Ma prima ditemi perché non siete dabbasso con vostro padre e i vostri fratelli.”

Cesàr scrolla le spalle minute, la bocca piccola arricciata in un broncio. “Ci sono gli altri a fargli compagnia. Io faccio compagnia a te.”

“Siete ancora arrabbiato con lui, piccolo mio?”

“Sì.”

Chiaramente.

Vanna sospira lenta. Con gli scuri quasi del tutto abbassati, è difficile leggere bene lo sguardo del bambino, ma sa già cosa vi troverebbe.

“Se anche vostro padre vi avesse fatto qualche torto, il dovere di un buon cristiano sarebbe quello di porgere l’altra guancia e perdonare.” Non ci crede neppure lei e la frase involontariamente sfugge con una sfumatura ironica dalle labbra.

“Tu sei una buona cristiana, madre?”

Proprio no.

“Faccio del mio meglio.”

Da quanto non si confessa?

“Allora perché non sei dabbasso con mio padre?”

Vanna aggrotta le sopracciglia sottili tanto da scavarsi una ruga in mezzo alla fronte, come un solco pronto per la semina.

“Quanti anni avete detto di avere, voi?”

Per la prima volta, un sorriso attraversa il volto di Cesàr. “Entrerò presto nel mio settimo anno.”

“Mhh…” mugola Vanna sospettosa, di fronte a quella faccetta strafottente. “Bene, dunque. Recitami il principio del De Bello Gaulico. [18]

Cesàr arruffa le penne e mentre la sua voce risuona squillante nel silenzio (“Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam…”), sciorinando parole che lei non comprende, Vanna chiude gli occhi lasciandosi trasportare in un altro tempo, in un'altra stanza da letto – quando ancora lo spettro di guerra, vecchiaia e bruttezza era tanto lontano.

---

“Vedi, Cesàr, come è grande la pancia della mamma?”

Suo figlio annuisce, carezzando con la mano minuta il ventre rotondo, tanto grosso che neppure le lunghe dita di Rodrigo, tese allo spasimo, riescono a contenerlo tutto.

Vanna sospira, lasciandosi viziare dalle loro attenzioni. I due uomini della sua vita paiono trovare molto affascinanti le sue attuali sembianze di vacca gravida, ma per quanto la riguarda, una parte di lei sarà solo felice di liberarsi del peso che le preme sulle budella, le gonfia le caviglie e le tortura le reni.

L’altra è tirata come una corda di viola, perché nonostante le rassicurazioni di sua madre e di Betta, il bambino è così grosso, e a Vanna non è sfuggita l’aria preoccupata della levatrice, l’ultima volta che le ha fatto visita.

“Cosa ci sarà, qui dentro?”

“Drago.”

La replica di Cesàr è rapida e definitiva. Vanna scoppia a ridere suo malgrado, portandosi una mano alle labbra.

Rodrigo, invece, mantiene l’aria seria mentre domanda: “E come ci sarebbe finito, un drago, lì dentro?”

“Ahm,” risponde Cesàr, fingendo di masticare l’aria con l’espressione più solenne del mondo sul visetto roseo.

A Vanna scendono le lacrime, che si asciuga veloce con le nocche. “Credo che vostro figlio desideri una bestia fantastica, Vicecancelliere. Immaginate la sua delusione quando al suo posto non spunterà altro che un mero fratello cadetto.”

“Sicché dovrei procurarmi un drago, per offrirgli un qualche conforto. Sua Santità dovrà intercedere per me presso San Giorgio. [19]

Cesàr li osserva con interesse vivo ma passeggero, poi prende a occuparsi del sonaglio d’osso che il padre di sua madre ha acquistato per lui, senza più badare ad altro. Vanna lo tiene d’occhio quando si calma, mentre si gode il lento massaggio delle mani di Rodrigo sulla bassa schiena.

“Non sarà una creatura delle favole, ma dentro di me c’è fuor di dubbio un bel vitellone. Povero piccolo, non ne può più di questo spazio angusto,” mormora, afferrando Cesàr con i piedi nudi prima che il bambino gattoni sulla grossa cassapanca in legno oltre i piedi del letto.

“So che sei ansiosa, mio amore, e lo sono anche io; a questo punto, però, dobbiamo metterci nelle mani del Signore e confidare nella bravura della levatrice.”

Vanna non vuol pensare a cosa accadrebbe a quella povera donna tonda e rubizza se lo contrariasse in qualche modo. Un incentivo in più a trattarla bene.

Non stacca lo sguardo dal figlio mentre allunga un braccio all’indietro, cercando la mano di Rodrigo – che subito la afferra e intreccia le dita alle sue.

“Sono preoccupato, non lo nego, ma anche fiducioso. La Fortuna ci arride” Si china a baciarle una spalla, scostando la veste di lino madida di sudore; poi le fa voltare il viso, sfregando assieme i loro nasi.

---

“Nostro padre è andato via!” annuncia Nito, strappandola al sogno a occhi aperti e correndo verso di lei per inerpicarsi al suo fianco.

Cesàr, interrotto nel mezzo della sua recita, ha l’aria prima contrariata, poi delusa mentre Betta sgrida aspra Juan per il suo comportamento da piccolo barbaro.

“Via via, Betta. Lasciameli godere prima che arrivi mia madre e ci costringa tutti all’ordine,” la blandisce Vanna, facendo cenno a Cesàr di raggiungerli a letto. “Lucrezia e Jofré dormono?” domanda, e mentre Betta annuisce, suo figlio si alza indolente, sdraiandosi con lei di malavoglia.

Sempre più spesso Vanna nota questi tentativi di darsi un contegno di fronte a Nito e a Rodrigo. E pensare che non è passato molto dacché si lasciava prendere in braccio.

Juan si posa contro di lei sull’altro fianco, abbandonando la testa su un seno e indirizzando una linguaccia di scherno al fratello maggior; Vanna gli preme un dito contro il nasino dritto, facendolo per qualche attimo somigliare a un maialino roseo dai capelli ramati.

“Sentite un poco, figlioli. Presto sarete ancora una volta fratelli maggiori. Avrete delle responsabilità.”

“Anche se questo bambino nuovo non è di nostro padre?” chiede Juanito con un’occhiata curiosa.

“È figlio di vostra madre. Non è abbastanza per volergli bene?”

“Suppongo di sì,” replica Cesàr, facendo sfoggio del solito parlare difficile col fratellino, che gli lancia un’occhiata vacua. “Sì,” annuisce comunque, Juan, tornando a guardare lei.

“Bene… Mi fido del vostro giudizio. Lo raccomando a voi.” Vanna li ricompensa con un sorriso

Li strizza tra le braccia, volgendo il viso prima all’uno, poi all’altro, strofinando la punta del naso contro le loro.

Li tiene ancora stretti quando la prima fitta le toglie il respiro.

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Cambia la luna [20] e Ottaviano viene al mondo l’ultima notte di agosto.

Vanna lancia qualche urlo e sua madre le impone di smetterla di fare la bambina mentre le tiene la mano madida di sudore e la incoraggia a spingere.

Giorgio pare aver dimenticato di essere un serio uomo lombardo e porta in giro il fagotto bianco di fasce di lino come un prezioso tesoro.

I bambini regalano sguardi curiosi al nuovo venuto – Lucrezia gli tocca il viso con le manine paffute, la delicatezza di chi sfiora un petalo di rosa. Vanna le sorride stancamente, e la sua principessa ricambia mite, mostrandole i dentini bianchi.

Hanno il medesimo ciuffo di capelli biondi, più chiari di quelli di Cesàr, Nito e Jofré – che, solitamente tanto composto, piagnucola fino a che la nonna non gli permette di tornare tra le braccia della madre.

“Neanche stavolta è un drago,” sente bofonchiare Nito a Cesàr, e le loro espressioni deluse le strappano una risata stanca.

Circondata dalla sua famiglia, Vanna avverte un senso di vuoto.

Le piace credere che si tratti dell’assenza di suo padre – quel padre con cui non è mai andata d’accordo, a cui ha tenuto più musi che fatto carezze e che ora ha lasciato lei e sua madre sole a sopportarsi e supportarsi a vicenda.

Ottaviano è l’unico nipote che non abbia tenuto tra le braccia.

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La quiete arriva per tutti coi primi di settembre.

Mentre sua madre Menica si occupa dei piccoli e la levatrice – una vecchia rugosa con un grosso neo sul mento raggrinzito – si dichiara soddisfatta delle sue condizioni, Alfonso di Calabria fugge da Velletri aiutato dai turchi e la calma dopo la tempesta si diffonde nell’Urbe.

Ottaviano dorme placido nella culla accanto al letto.

È tranquillo come lo era Jofré alla sua età, ancora rosso del ventre materno, con perfette falci di luna sulle unghie di mani e piedi e una bocca come un bocciolo ansioso di succhiar latte.

Quelli prima del battesimo [21] sono giorni di brodini leggeri, di visite degli amici che portano doni, di dolori per corpo e di noia per la mente – perlomeno per lei. I preparativi frenetici, accogliere i padrini, la vestina per il piccolo da sistemare; tutto questo grava sulle spalle di Giorgio e di sua madre, che, da bravi lombardi efficienti, si danno da fare lasciandola alle gioie della maternità una volta di più.

Nonché alla sonnolenza che la coglie quando meno se lo aspetta. Dormire è la miglior cura, ha sentenziato saggiamente la levatrice, sputacchiando dalla bocca priva di denti.

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Quando si sveglia e se lo trova al capezzale, a incombere possente sulla culla di Ottaviano, Vanna sperimenta una sensazione curiosa alla bocca dello stomaco.

Lo osserva confusa, chiedendosi per un attimo se sia davvero lì o se nuovamente si sia persa nei ricordi – se ormai faccia fatica a distinguerli dalla realtà.

Quando lui si volta, sorridendo dolente, comprende di non star sognando: non è l’espressione orgogliosa del padre-toro che osserva l’ultimo figlio con la gioia negli occhi; le sembra quasi… vergognoso.

E così stanco, tanto stanco.

“Ho saputo che il parto è andato bene. Me ne compiaccio.”

Si avvicina a lei, sedendo sullo sgabello solitamente occupato dalla giovane fantesca che le tiene compagnia, che scricchiola sotto il suo peso.

Vanna stiracchia gli angoli delle labbra in un sorriso poco convinto. “È così. Mi fa piacere che siate venuto a trovarmi.”

Un sospiro pesante gli sfugge mentre annuisce. “Sei la madre dei miei figli.”

Il silenzio. Potrebbe riempirlo parlandogli dello scampato pericolo, chiedendo notizie della città, lei che nella sua villa-fortezza viene a sapere tanto poco; potrebbe parlargli del tempo, del prezzo del pane.

Tace, invece.

“È un bel bambino, sano. Somiglia alla piccola Lucrezia,” riprende lui, fissando un punto imprecisato della parete affrescata oltre il letto.

Non nomina Jofré, e Vanna apprezza che la solita insinuazione che si erge tra loro come un muro d’aria solida venga messa da parte, per il momento dimenticata. Sorride più convinta. “Volete benedirlo per me?” chiede lentamente, sostenendo lo sguardo dei suoi occhi neri.

Trovarsi lì assieme è bello e terribile.

Rodrigo si alza di nuovo, e non c’è la solita energia in quel movimento. Si avvicina alla culla, posa la mano sinistra sul legno e la dondola mentre con la destra impartisce la benedizione, mormorando qualche parola in latino.

 Esita, chino su Ottaviano, e a Vanna pare che voglia sollevare il piccino, prenderlo in braccio.

Non l’ha mai visto indugiare, non Rodrigo Borja.

“Perché piangi, Vanna?” la interroga, un basso mormorio profondo.

“Perché soffro,” si sente replicare, la voce incrinata – due lacrime le rotolano giù dal mento e bagnano il lino della camicia da notte, i seni pesanti di latte. Sta davvero piangendo.

“Perché soffri?”

Perché pensavo di non esser più quello che volevate.

Perché è troppo tardi per domandarmi se allontanandovi ho commesso un errore.

Perché ero certa di fare il bene dei miei figli, certa che avrei sofferto meno se fossi fuggita prima che iniziaste a guardare altre.

Se fossi riuscita a conservare almeno la vostra amicizia.

Perché ora che ho quello che volevo, devo conviverci.

Quando si volta, ancora piegato, Vanna riesce a sorridergli. “Mi passate il piccolino, per piacere?”

Rodrigo si drizza e la guarda fisso, stringendo le labbra.

Lo so, vorrebbe dirgli Vanna, ma le parole le restano in gola.

Sono insieme a Subiaco, adesso, nella stanza da letto dal pavimento in cotto, dai muri bianchi dove Rodrigo ha fatto affrescare i ritratti dei bambini. [22] Ottaviano è il loro figlio appena nato, un altro viso da aggiungere alla collezione.

Si può soffrir tanto senza sanguinare?

---

Rodrigo si congeda senza altra parola.

Vanna sente la voce di Cesàr provenire da fuori, un breve scambio tra padre e figlio che si allontanano insieme in un echeggiare di passi.

Disturbato, Ottaviano dà un verso e lei si asciuga le lacrime sgraziatamente, con la manica della camicia. Sorride mesta al nuovo arrivato, carezzando con gli occhi il visino rubizzo.

Ci sono ricordi talmente vivi dentro, che lasciano un vuoto incolmabile.

Li inghiotte assieme ai singhiozzi, e quelli scivolano giù per la gola, cadono nel profondo del suo cuore e lì affondano far senza rumore.

 

 fin.

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Un grazie a Flora per il supporto, la pazienza e il betaggio. Sei preziosa. <3

POSTFAZIONE

Questo brano è ambientato nell’estate del 1482, sullo sfondo della Guerra di Ferrara. Si tratta di un breve conflitto che coinvolse gli Stati Italiani, i quali affiancarono l’uno o l’altro schieramento, in un delicato gioco di alleanze. La guerra si concluse qualche mese dopo, con una pace firmata nel dicembre dello stesso anno. Le ostilità si riaccesero in un secondo momento, terminando definitivamente nel 1484. Per una descrizione più dettagliata ma concisa, rimando a questo link.

L’episodio della presa di Otranto è altresì realmente accaduto nel 1480: un esercito ottomano diretto a Brindisi ma dirottato dalla tramontana sbarcò a nord di Otranto e assediò la città, conquistandola e sterminandone e schiavizzandone la popolazione. 800 otrantini furono decapitati alla fine delle ostilità per non aver rinnegato la religione cristiana.

Per quanto riguarda Vannozza, il suo passato, la sua casa in Piazza Pizzo di Merlo e la vita che doveva condurvi coi suoi figli – che rimasero con lei ancora per qualche anno – le fonti a cui mi sono rifatta sono il prezioso Lucrezia Borgia di Maria Bellonci, il Cronache di casa Borgia di Frederick Rolfe, Lucrezia Borgia di Ferdinand Gregorovius, nonché gli articoli dell’Enciclopedia Treccani dedicati ai vari personaggi.

Che Menica, la madre di Vannozza, si trovasse in convento dopo la vedovanza è una mia supposizione; si trattava del destino di molte donne non più giovani, che non potevano vivere sole senza perdere la reputazione.

La menzionata Rocca Abbaziale di Subiaco, ristrutturata da Rodrigo Borgia nella sua parte più antica, accolse realmente Vannozza e la sua piccola corte, fungendo da ritrovo per i due amanti.

Infine, il titolo del brano è una commistione tra la firma di Vannozza, che usava definirsi “Felice e Infelice Vannozza Borgia” in calce alle lettere intime, e una citazione di Ovidio: “Nec sine te nec tecum vivere possum”, letteralmente: “Non posso vivere senza di te né con te”.

 

 

NOTE

 

 

 

[1]: Erbe aromatiche la cui raccolta si effettua nel mese di maggio.

[2]: Veste da donna leggera, scollata e senza maniche che si indossava sopra la camicia.

[3]: Nello stemma dei Borgia, assieme ai loro colori, compare l’effigie di un toro al pascolo.

[4]: Durante il Medioevo e il Rinascimento, la Morte veniva identificata al maschile.

[5]: Nelle lettere private, Cesare usava firmarsi con la variante spagnola del nome, Cesàr, appunto; è dunque plausibile pensare che così venisse chiamato in famiglia.

[6]: Nella liturgia cristiana, maggio è il mese della Madonna.

[7]: Spesso, il locale del laboratorio di un pittore fungeva sia da bottega (al piano terra), che da dimora del pittore stesso.

[8]: Si tratta dei Normanni, stabilitisi nella Francia occidentale alla fine del X° secolo e discesi al centro e al sud d’Italia a partire dalla prima metà del XI°.

[9]: Il titolo di “Eccellentissimo” venne attribuito ai cardinali solo più tardi, sotto Urbano VIII nel 1600. Prima di allora veniva usato l’epiteto “Illustrissimo” e, nel caso del Cardinale Decano o Cardinal Nepote, “Osservantissimo” o “Colendissimo”.

[10]: Nel Rinascimento, dove la distinzione tra i colori non era ancora tanto netta, il “color delle stelle” indica, così come “occhi bianchi” una sfumatura chiara dell’iride, celeste o grigia; in una cronaca del tempo, gli occhi di Cesare vengono descritti proprio come di “color delle stelle”. 

[11]: Appena inventate in Ungheria, nazione in stretto rapporto con la Chiesa di Roma, è plausibile che le carrozze, usate per spostamenti su un lungo tragitto, fossero già presenti in Italia tra le classi più agiate.

[12]: Venuto in possesso della Rocca Abbaziale di Subiaco, Rodrigo Borgia fece ristrutturare e fortificare la parte più vecchia, tra le altre cose migliorando il sistema difensivo con mura e una prigione. Il riferimento alla fascinazione di Cesare per queste opere architettoniche non è causale: in età adulta, si dedicherà alla fortificazione e al rinforzo tanto di fortezze quanto di prigioni romane.

[13]: Pietra tagliata a lastre usata per la pavimentazione.

[14]: Sinonimo di gravidanza che lascia traccia nel francese “grossesse”. 

[15]: Negli ultimi mesi di gravidanza, le partorienti erano sottoposte a un periodo di confino, generalmente trascorso nella penombra dei loro appartamenti, in cui esse si ritiravano dal mondo per pregare e riposare in attesa del parto.

[16]: Una cassapanca di solito intagliata dove veniva conservata la biancheria per la casa portata in dote dalla sposa. Di solito si trovava nella sala principale.

[17]: Domenico d’Arignano figura come il primo marito di Vannozza e, prima che Rodrigo lo riconoscesse, come padre di Cesare. La condizione di figlio legittimo era necessaria per l’accesso alla carriera ecclesiastica. I rapporti tra loro, come si deduce dalla mancata menzione della loro unione nel contratto matrimoniale con Carlo Canale e dall’assenza del suo nome tra quelli per cui Vannozza dispose si dicessero messe per la salvezza dell’anima nel suo testamento, erano probabilmente tesi.

[18]: Il nome è volutamente storpiato: nonostante l’abilità nella gestione delle sue proprietà terriere, Vannozza non doveva essere particolarmente acculturata a questo punto della sua vita per quanto riguarda le opere latine. Maggiore interesse si svilupperà dopo il matrimonio col letterato Carlo Canale, nell’86.

[19]: Il Santo inglese famoso per aver sconfitto un drago.

[20]: Secondo una credenza popolare, le fasi lunari influirebbero sul corso della gravidanza.

[21]: Il battesimo avveniva di solito entro la prima settimana di vita del bambino. A causa dell’alta mortalità infantile, ci si voleva assicurare che il nuovo nato fosse purificato dal peccato originale il prima possibile. Era anche un periodo in cui la puerpera osservava riposo assoluto, ricevendo gli ospiti venuti a portarle doni di auguri e non partecipando alla cerimonia stessa in quanto “impura”.

[22]: I muri delle case erano prevalentemente nudi e bianchi, ma nelle dimore più ricche spesso la pareti erano affrescate con ritratti dei membri della famiglia.

   
 
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