Anime & Manga > Mahō shōjo Lyrical Nanoha
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Autore: Diavolo Bianco    30/01/2016    4 recensioni
In una Midchilda perennemente coperta da una fitta coltre di fuliggine Fate vive la sua vita. Una vita senza una prospettiva migliore per il futuro. Ma non aveva previsto l'incontro con Nanoha.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Fate T., Nanoha T.
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cenere

Macchie nere lampeggiano davanti alla vista cha dà su un soffitto spoglio. Gli occhi faticano a mettere a fuoco. Il capo si piega da un lato, verso una scrivania. Su di essa sono ammassate diverse tazze da caffè, dei fogli di carta e dei sogni che sono stati ordinatamente impilati da una parte. Il corpo striscia fuori dal letto. Inspira l’aria invernale ed espira ghiaccio. I piedi nudi avanzano sulle travi di legno del pavimento. Esse cigolano con familiarità. L’odore di umidità, intonaco ammuffito e la cena di ieri sera le riempie le narici. Lo ignora e mette un bollitore sulle fiamme. Pensa agli impegni della giornata.

Nessuno. Proprio come lei.

Perché Fate Testarossa è soltanto una delle tante migliaia di persone che lavora duramente sotto un sole celato perennemente da un velo grigio. Di giorno sono tutti schiacciati dal peso dei macchinari, di notte sono ricoperti di fuliggine. Fate può lavarsi quanto le pare. Sfregarsi la pelle fino a scorticarsi ma ci sarà sempre un residuo nero sotto le unghie. Avrà sempre della cenere tra le piaghe della pelle pallida o tra le ciocche bionde. Così ha rinunciato alla speranza di essere completamente pulita. Quindi non ha niente in programma. Semplicemente perché tutte le sue giornate sono uguali. Un susseguirsi di caos e cenere. Anche se la cosa non la infastidisce più, dal momento che sono state così da quando ha lasciato l’ospedale all’età di quattordici anni. In quel momento si è accorta di non essere nessuno nella grande Midchilda. Una città fortemente industrializzata dove il pesante lavoro porta soltanto al nulla o alla morte. Quest'ultima è la più comune tra le due opzioni. Nella speranza di evitare il polmone nero ha lasciato il lavoro nelle cave ed è riuscita ad arrivare a lavorare per gli Artificiere. Così non passa più le sue giornate ad estrarre pezzi di carbone mentre inala nient’altro che fuliggine. Indossa un equipaggiamento protettivo e sta ad appena cinque passi da una vasca di caldo metallo fuso.

Stampaggio, formatura, creazione. Si sforza di pensare che quello che fa è una forma d’arte contorta.

Fate però odia gli Artificieri. Uomini fusi con macchine. Loro mettono in pratica le leggi e sono brutali. Lei lo sa. Sa come rastrellano i quartieri poveri di Midchilda. Sa come sterminano i bambini che ritengono possedere dei doni. Sa come uccidono gli uomini e le donne schiacciati dai debiti. Sa come i mendicanti tendono le loro mani per la pietà solo per ritirare braccia monche. Ma Fate non può e non vuole fare qualcosa. Perché ha capito che così sarà al sicuro.

E stare al sicuro è tutto ciò che conta.

Fate ha trent’anni e suppone di essere contenta della sua vita. Lei va a lavorare dalle quattro di mattina fino alle nove di sera. Torna a casa in un appartamento vuoto, fa una veloce cena per uno e dorme tutta notte. È un ciclo. È prevedibile. È una routine e a lei piace la routine.

La rottura di quella quotidianità pare però inevitabile.

Si verifica con una sequenza di colpi flebili alla porta del suo spoglio monolocale. È una notte di marzo e il cielo è una miscela piuttosto sporca di marmo e grigio scuro. Ha appena finito di cenare ed è pronta per andare a letto. Ignora il suono e si infila sotto le coperte. I battiti si fanno però più incessanti. Non le danno tregua. Si alza sbuffando e apre la porta senza controllare dallo spioncino. Si ritrova davanti ad una figura più bassa di lei. Il copro è avvolto in un largo cappotto appesantito dalla cenere e dalla pioggia pastosa che permea il tessuto logoro. Un cappuccio cela il volto dello sconosciuto. Fate si appresta a chiudere l’uscio. Vuole evitare di essere assassinata. Un piede si frappone rapido tra la porta e lo stipite.
“Ho fame.” Dice una voce rauca, ma indubbiamente femminile. Fate sa che dovrebbe chiudere a costo di scardinare il piede della tipa. Non aprire agli sconosciuti è una delle prime cose che insegnano tutti i genitori. Eppure sua sorella Alicia le ha sempre detto di aiutare chi è in difficoltà. Prende un respiro profondo e si allontana. Lascia l’uscio socchiuso in un silenzioso invito. La sconosciuta entra timidamente. Ad ogni passo si alza un po’ di cenere. Fate trattiene la voglia di mandarla via. Eppure odia l’idea che quella fuliggine invada il suo piccolo appartamento. Non la sopporta. Fa di tutto per mantenere qualcosa di pulito nella sua vita sporca. Si concentra sull’intrusa. Essa si abbassa il cappuccio rivelando una chioma ramata malamente contenuta in una coda sbilenca. Il viso è nero. Macchiato dalla pioggia grumosa. Il volto è incavato e gli occhi sono stanchi. In loro c’è un colore bizzarro. Indeciso. Un azzurro con striature violette. Fate tenta inutilmente di distogliere lo sguardo.  
“Che cosa vuoi?” Chiede con distacco. La sconosciuta è più giovane di lei, ma ciò non toglie che potrebbe essere pericolosa. È una minaccia per la sua vita. Questo è però un controsenso, visto che è stata proprio lei ad averla fatta entrare.
“Ho fame.” Ripete quella. Questa volta con una certa timidezza. Però è sincera. Basta guardare il modo disperato con cui fissa la mela marcia che sporge dalla spazzatura. Fate sospira mentalmente. Quella poveretta deve essere una senzatetto, una delle tante che popolano Midchilda.
“Datti una lavata mentre preparo qualcosa.” Fa un cenno verso il bagno. L’altra non si muove. La fissa diffidente. Fate capisce cosa sta pensando. Proprio come lei non si fida. Si starà chiedendo il perché le stia dando la possibilità di farsi una doccia. Ma Fate non lo fa per gentilezza, non solo. Vuole evitare che la fuliggine dei suoi abiti, e anche il suo fetore, intacchi il piccolo appartamento. “Muoviti.” Così si ritrova a lavare i vestiti stracciati di una sconosciuta. Li mette ad asciugare e prepara un pasto caldo. È strano sentire l’acqua che scorre senza che lei ne sia la causa. È abituata al silenzio assordante. Alla solitudine. Poggia un piatto fumante sulla tavola e vi ci accosta un cucchiaio storto e ammaccato. Si siede dalla parte opposta e aspetta. Quando la sconosciuta ritorna, avvolta in un asciugamano, pare uno scheletro che ha appena subito un trattamento sbiancante. La pelle brilla sotto la fioca luce della lampadina che pende dal soffitto. I capelli ramanti hanno dei lampi rossi e gli occhi paiono fin troppo vivi. La ragazza è più giovane di Fate e sicuramente più magra. Dita ossute grattano un braccio esile. Lo sguardo famelico è puntato sul pasto semplice. “Non uccidermi.” Dice Fate mentre poggia i gomiti sul tavolo. Ha controllato le tasche degli abiti della tipa. Nessuna moneta, arma o bomba. Solo cenere. Ma magari ha qualche lama nascosta con sé. Quella sorride. E quel sorriso è troppo luminoso per una persona della sua età.
“Ho fame.” Sussurra sedendosi lentamente davanti al pasto. Con quella frase le fa capire che non vuole la sua vita, ma vuole del cibo. Segue un silenzio particolarmente tranquillo. Fate la osserva mangiare. La ragazza non è fine. Trangugia il pasto e ben presto abbandona la posata per usare le mani. Beve dal piatto. Non sporca niente. Ogni goccia, ogni briciola finisce nel suo stomaco. Fate scommette che più della metà di Midchilda si comporterebbe così se fosse al suo posto. La fame è un problema comune. Perfino lei salta dei pasti per potere pagare le tasse e l’unico cibo che consuma è quello in scatola. Non ricorda nemmeno l’ultima volta che ha mangiato un dolce. Ma la causa non è soltanto il costo spropositato che ha un misero dolcetto. È piuttosto il ricordo. Sa che anche la più buona fetta di torta del mondo saprebbe di un intruglio di rammarico e agonia nella sua bocca. Perché Alicia aveva un debole per i dolci e Alicia non c’è più. Fate pensa con non sia giusto che lei si goda un dolce quando Alicia non è più in grado di godere di nulla. “…Ne hai ancora?” Quella domanda pare essere costata parecchio sforzo alla ragazza. Gli occhi bordeaux di Fate ne incontrano due violetti. Non ha altra zuppa, ma può trovare qualcosa. Rifila alla sconosciuta una scatoletta di tonno. Quella mangia tutto in pochi minuti, compreso l’olio. È chiaro che non è ancora sazia, ma sta comunque meglio di quando è arrivata. Pare più viva. Fuori piove ancora. La sconosciuta si sta rivestendo per andarsene. Fate lava il piatto e il cucchiaio. Guarda per un secondo la ragazza. Le dà le spalle. Può vedere la sua schiena e la cresta di ogni vertebra. Torna a concentrarsi sulle stoviglie. Stivali pesanti colpiscono il pavimento. Esso scricchiola in modo anomalo. La figura minuta è scomparsa sotto quegli abiti pesanti ma puliti. Certo hanno ancora gli strappi, ma c’è molta meno cenere tra le pieghe. Il cappuccio viene calato sul capo. Fate si chiede dove andrà la giovane per ripararsi dalla pioggia e dove passerà la notte. Per un secondo pensa di invitarla a restare, ma non lo fa. Sarebbe troppo pericoloso e strano. Corromperebbe ancora di più la sua routine. Così le apre la porta. La invita a muoversi ad andarsene. Improvvisamente la sua presenza è diventata esageratamente scomoda. “Grazie.” Mormora quella prima di andarsene. Fate chiude l’uscio con una forza sconosciuta. Fa per tornare a letto e spera di dimenticare presto quel bizzarro incontro. Nota l’asciugamano umido poggiato sulla sedia. Lo prende e lo annusa. Un flebile profumo di vaniglia. Lei non ha nessuno prodotto da bagno a quell’aroma e così capisce che la sua routine è stata completamente spezzata.

Rimangono solo dei pezzi di vetro incrinati.

Il colpo di grazia arriva qualche settimana dopo. Si presenta sotto forma di una ragazza. La stessa che ha dato inizio a quel disastro. Indossa gli stessi abiti e ha di nuovo il viso sporco di fuliggine. Per un secondo Fate si rivede in quel volto segnato. Non sa perché ha aperto la porta, ancora una volta senza guardare. Proprio non trova una spiegazione logica. È notte fonda e lei non dovrebbe spalancare l’uscio ad una sconosciuta. Dovrebbe restare a letto e dormire. La ragazza la fissa con un piccolo sorriso in viso.
“Ehm… mi dispiace per averti svegliata…” Sussurra spostandosi da un piede all’altro. “Ma, uhm, ho fame e non ho nulla da mangiare e vorrei chiederti se hai una scatoletta di tonno. Perché, sai, mi è piaciuto il tonno dell’altra volta. Era davvero buono. Quindi potresti, ehm, darmi del tonno? Per favore?” Fate la fissa mentre tenta di dare un senso a quella accozzaglia di parole. È troppo intontita per decifrare quei vaneggiamenti. Vuole che se ne vada in fretta.
“Tonno?” Chiede lentamente. L’altra annuisce. Un grugnito esce dalle labbra di Fate mentre va in cucina. Lascia la porta aperta, ma la sconosciuta non si azzarda ad entrare. Ritorna con in mano una scatoletta di tonno.
“Grazie.” Dice la ragazza. “Sono Nanoha, tra l’altro.” Si presenta. Fate non ricambia. Chiude l’uscio in faccia alla sconosciuta e torna a dormire.

Ma Nanoha è una ragazza fastidiosa. Ogni notte, esattamente alle tre e mezza, si presenta alla sua porta con un sorriso e la richiesta di una scatoletta di tonno. Lei la lascia sempre sull’uscio e risponde freddamente e brevemente alle sue domande. La vagabonda però le sorride e la ringrazia comunque.
“Smettila di ringraziarmi.” Sbotta un giorno Fate, esattamente un mese dopo che Nanoha ha fatto irruzione nella sua vita vuota. Quella la fissa confusa. “Ti do il tonno così da sbarazzarmi di te. Non ho nessuna considerazione di te e non sono una buana samaritana. Quindi smettila di ringraziarmi.” Quasi ringhia. Nanoha resta in silenzio. Con un dito traccia distrattamente la circonferenza del bordo della scatoletta di tonno.
“Quella notte mi hai aiutata.” Mormora.
“Mi facevi pena.” Sputa fuori. Altro silenzio. Poi Nanoha sorride dolcemente.
“Beh, grazie lo stesso.” Se ne va. Scompare nella notte con il suo grande cappotto. Fate chiude la porta. Vi ci poggia confusa la fronte. Respira pesantemente. Sente qualcosa dentro di lei muoversi, qualcosa che non percepiva da molto tempo. Rifiuta di credere che siano le farfalle nello stomaco. Lei non è più una ragazzina. È una donna che ha buttato via la parola amore e tutto ciò che la riguarda, che ha accattonato in un angolo tutti i suoi sogni e le speranze. È una semplice lavoratrice al servizio degli Artificieri, ma non è più sicura del perché lo faccia.

Non è più sicura di niente.

In un pomeriggio in cui il cielo è di un grigio così piatto che l’occhio nudo si annoia a guardarlo Fate lascia il supermercato non molto lontano dal complesso di appartamenti in cui abita. In mano regge una busta di plastica e dentro vi sono per lo più scatolette di tonno. Tiene l’ombrello sulla sua testa. Quando è uscita di casa era bianco. Ora è nero. Un pesante strato di cenere ne ricopre la superficie. Cammina tra la folla. Sembrano tutti uguali. Pelle grigia, visi incavati e occhi gialli. Esseri umani in attesa di una fine. Di una liberazione. Occasionalmente si becca una spallata, ma non riceve nessuna scusa. Una figura attira però la sua attenzione. È accovacciata in un angolo sopra le grate della metropolitana. Fumo scuro e pesante esce da lì. È caldo, ma la persona trema comunque. Ha le braccia strette intorno al busto, le gambe ripiegate al petto e il capo chino. Il cappuccio è abbassato. Fate riconosce la vagabonda. Si appresta a cambiare strada. Si rifiuta di condividere il suo tempo con qualcuno se proprio non è strettamente necessario. Per sua sfortuna Nanoha alza la testa come se l’avesse percepita. I loro sguardi si incontrano.
“Oh, ciao!” Bofonchia la giovane tirandosi su. Fate si vede costretta a fermare la sua fuga.
“Ciao.” Dice a malincuore. “…Io ora vado. Quindi, ciao.”
“Cosa? No, aspetta!” La voce è incrinata dal sonno, ma comunque seria. Il suo viso è pallido, con segni neri. Le occhiai sono profonde e le labbra tagliate. “Stai andando a casa?” Chiede avvicinandosi.
“Si.”
“Ti posso accompagnare?”
“…Va bene.” Dichiara prima di pensare. Si infuria con sé stessa, perché quella è una pessima idea. Lei non è brava a socializzare. Non sa incominciare una conversazione e nemmeno ridere al momento giusto. In generale non ricorda nemmeno l’ultima volta che ha riso per davvero. Il suo mondo è fatto di curve di metallo, ottone lucente e giorni pieni di cenere. Lei va a lavoro dalle quattro alle nove, fa qualcosa di pericoloso e allo stesso tempo noioso. Va a casa in un appartamento vuoto e prepara un pasto per uno. In un raro giorno va al supermercato per comprare i generi alimentari di prima necessità o al parco. La sua vita è noiosa e prevedibile. Lei non vuole che cambi, perché ha troppa paura dell’imprevedibilità. Così spreca la sua vita. Vive solo un piccolo pezzo di ciò che potrebbe essere, ma ha troppa paura di uscire per confrontarsi con l’esterno. Per Fate camminare con Nanoha, una senzatetto leggermente stalker con la fissa del tonno, è un rischio che non è molto sicura di volere correre. Nanoha è imprevedibile. È un’anomalia. Un proiettile vagante per una città perennemente ricoperta di cenere.

Ma lei la lascia fare comunque.

Così camminano insieme, sotto lo stesso ombrello, per le strade affollate di Midchilda. Nanoha sembra essere meglio di lei nel conversare, ma i silenzi sono ancora scomodi.
“Perché non chiami gli Artificieri?” Chiede ad un tratto la ragazza. “Ti assillo e ti importuno. Senza contare che siamo di classi sociali differenti. Non che tu sia ricca però… almeno tu una casa ce l’hai.”
“Perché non ti cerchi un lavoro?” Le scoccia fare domande. Allungano il discorso, ma è sempre meglio che rispondere alla prima domanda. Nemmeno lei ha una risposta e questo la infastidisce. Nanoha le dà parecchi problemi. Le toglie ore di sonno e le fa spendere soldi. Basterebbe chiamare gli Artificieri e la giovane sarebbe fuori dalla sua vita. Magari senza più braccia e gambe. O semplicemente senza testa. Eppure non vuole questo. In qualche modo la senzatetto rappresenta il suo unico aggancio con l’esterno. Perché Fate non ha più nessun parente e non ha mai avuto un amico. Si accorge del teso silenzio tra di loro. La sua domanda deve avere fatto qualcosa all’altra. “Non sei costretta a rispondere.”
“Da piccola ero ricca. Vivevo nei piani alti della società. Poi mio padre ha perso tutto al gioco d’azzardo.” Racconta Nanoha con voce strana. Malinconica. Eppure furiosa. “Ha costretto mia madre a prostituirsi pur di riguadagnare le ricchezze perse. Ha mandato mio fratello nell’esercito e ha fatto sposare mia sorella con uno sconosciuto potente. Io ero ancora troppo giovane per servire a qualcosa.” L’edificio in cui Fate abita appare tra gli alti e grigi palazzi. “Per un anno le cose sembravano essersi ristabilizzate, ma poi tutto è crollato di nuovo.” Improvvisamente c’è un forte disagio tra loro. La notte avanza e la temperatura si abbassa. Fate parla, ancora una volta, senza pensare.
“Vieni dentro.” Mormora mentre infila le chiavi nella toppa della sua porta. Apre e si sposta di lato. La ragazza entra con il passo strascicato. “Vai a farti una doccia. Ti preparo qualcosa.” Di nuovo si ritrova a lavare gli abiti di Nanoha e di nuovo le cucina un pasto caldo. Apparecchia proprio come la prima volta in cui l’ha incontrata. Ha un déjà-vu. La giovane ritorna avvolta nell'asciugamano. Pare ancora più magra. La cosa insospettisce Fate. Sa che il tonno non è molto nutriente, ma avrebbe dovuta aiutarla leggermente. Tiene quei pensieri per sé e la guarda mangiare. Anche il suo modo di nutrirsi è cambiato. Non è più vorace, è lento. Faticoso. Come se le sue articolazioni fossero arrugginite. Deglutisce come se stesse mandando giù dei sassi. “Stai bene?” Non riesce a trattenere la domanda. Gli occhi chiari la fissano e sembrano più viola del solito. Un sorriso tirato.
“Il piano di mio padre era quello di recuperare i beni persi tramite lo stipendio militare di mio fratello, i soldi che mia sorella prendeva dal suo nuovo marito e da quelli che guadagnava mia madre ogni notte. Poi mio fratello è morto e mia sorella si è suicidata. Mia madre è stata rapita e ritrovata affogata nello scarico di qualche fabbrica. Mio padre è stato sommerso dai debiti e alla fine gli Artificieri l’hanno ucciso. Sono rimasta sola a dieci anni. Ho odiato ogni cosa da quel giorno in avanti.” Il racconto di Nanoha è triste ma lei ha una voce ruvida. Quasi come se quelle parole le stessero grattando follemente la gola.
“Mia sorella si è suicidata quando avevo quattordici anni.” Dice all’improvviso. I suoi occhi bordeaux sono vitrei e le labbra sono piegate in una linea sottile. Comincia a lavare il piatto e il cucchiaio. “Un giorno l’ho trovata con un proiettile in petto e una pistola nella mano sinistra. Ha lasciato un biglietto con scritto ‘Mi dispiace’… Non so perché lo fece. Stava bene. Andava tutto bene.” Stringe le dita sul bancone e presto le nocche diventano bianche. Smette di parlare e stringe i denti così forte che crede che stiano per rompersi. Una mano tiepida si poggia sulla sua fredda. Nanoha la guarda con tristezza, ma non le dice nessuna parola di conforto. Perché non ne ha. Fate decide di permetterle di passare la notte da lei. Se avesse un divano la metterebbe a dormire lì, ma il suo appartamento ne è sprovvisto. Così si ritrovano nello stesso letto. Tra di loro c’è di tutto. Ricordi dolorosi, pensieri inutili, sogni infranti e cenere.
“Non dormo su un materasso da anni.” Commenta piano la ragazza. Fate non le dice che quel materasso è ormai da discarica, che ha le molle cigolanti e diversi buchi nel tessuto rovinato. Sta zitta e si gira su un fianco. Si danno le spalle. Non si toccano. La notte passa senza che nessuna delle due se ne accorga.

Fate si sveglia di soprassalto prima del suono della sveglia. Questo è strano perché lei si sveglia sempre alle tre e mezza in punto ogni giorno. Ma sono le tre e ventinove. Questa è un’altra rottura della routine. Questa volta però la causa non è Nanoha. Sono morbidi fiocchi bianchi che cadono a terra un po’ più in fretta della cenere.
“Nevica.” Sussurra con diffidenza. A Midchilda non nevica mai. Ci sono sempre siccità, ondate di calore estreme e piogge tiepide che non fanno nulla per portare sollievo alla già umida e intasata atmosfera della città, data dai fumi soffocanti che escono da ogni camino. Si accorge della figura rannicchiata accanto alla finestra. Nanoha. Un raro sorriso infantile piega le sue labbra verso l’alto.
“…Io… ho un debole per la neve…” Sussurra poggiando la mano sul vetro freddo. La condensa ne crea una copia perfetta.

Ma la neve non è altro che cenere bianca e fredda.

Un’altra sera come tante Fate si ritrova in compagnia di Nanoha. Una mangia, l’altra ricontrolla alcuni documenti sulle forniture dei metalli. Regna un silenzio tranquillo, interrotto solo dai risucchi della ragazza. Dall’esterno arrivano i suoni della città in movimento. Sirene, voci, rombi di motori. Nell'appartamento però quei rumori scompaiono. Fate si è abituata ad avere l’altra intorno. È diventata parte della sua vita. Perché lei ora torna a casa in un appartamento che è vuoto solo per mezz’ora, poi prepara un pranzo per due e va a dormire con qualcuno accanto. Non sa bene cosa le sia preso, ma ogni volta che torna da lavoro è stranamente felice. Perciò non si lamenta.
“Perché lavori per gli Artificieri?” Chiede ad un tratto la giovane.
“Non ho avuto molta scelta e poi era quanto di più sicuro ho potuto trovare.” Risponde senza staccare gli occhi dai fogli.
“…Quello che voglio dire è… come è iniziato?”
“Per sopravvivere.” Guarda Nanoha. “Non è per questo che la maggior parte delle cose iniziano? Io abbozzo e creo. Posso manipolare il metallo in ciò che voglio e questo mi rilassa e calma. Non importa quanto spesso o sottile sia, io lo controllo. Per la maggior parte della mia vita sono stata fuori controllo e questo lavoro mi ha permesso di riprendere un certo possesso delle mie azioni.” Prende fiato dopo quel rapido discorso. 
“Questa era la risposta che volevo. È sensata. Logica. Proprio come te.” Mormora la ragazza mentre si alza. Afferra il bordo della larga maglietta, che le ha prestato Fate, e mostra quanto illogica sia invece lei. Ci sono dei lividi e dei morsi sulle sue cosce. Soprattutto verso l’interno. Fate non capisce, ma in un certo senso si sente terribilmente furiosa. “Io ho seguito le orme di mia madre.” Dichiara con una voce terribilmente piatta. È l’unica frase che Nanoha dice prima di indossare i suoi abiti pesanti e lasciare l’appartamento. Fate rimane in silenzio per diverso tempo. Tenta di capire e assemblare i discorsi dell’altra. Ma quella non è mai stata molto chiara di suo. Però questa volta ha tentato di farsi capire senza essere troppo diretta di sua spontanea volontà. Fate finalmente comprende.

Preferiva non farlo.

Sono ormai passati due mesi dal loro primo incontro. I cieli di Midchilda non sono cambiati. Continua ad esserci una perenne cappa di fumi industriali e giorno dopo giorno nuovi corsi d’acqua diventano oleosi e radioattivi fiumi neri. La città continua ad essere dilaniata dal caos e dalla miseria. Gli Artificieri diffondono il terrore e la paura per le strade. Eppure qualcosa in Fate è mutato. Se ne accorge una mattina quando guarda il suo riflesso. C’è una minuscola scintilla nei suoi occhi. Piccola e appena percettibile.

Ma c’è.

Pochi giorni dopo Nanoha e Fate camminano fianco a fianco. Vanno verso l’appartamento e trasportano una borsa piena di scatolette di tonno. C’è silenzio. Lei non chiede alla giovane perché si prostituisca. Non le dice che vorrebbe che la smettesse. Tace. L’ombrello bianco diventa nero sotto la pioggia calda e appiccicosa mescolata con alcuni pezzi di cenere umida e catrame fresco. Fate bacia Nanoha. Veloce e decisa. Non sa di preciso perché lo faccia. Nanoha è una ragazza. Non ha nessun attributo maschile che dovrebbe attrarre Fate. Però ha un qualcosa di speciale che non riesce ad ignorare. La giovane si tira indietro subito. È esposta. Comincia a bagnarsi. A sporcarsi.
“Non affezionarti a me. Domani me ne andrò.” Lei non capisce quell'affermazione, ma non le importa. Lascia andare l’ombrello e abbraccia la ragazza.
“E' troppo tardi.” Sussurra tentando di baciarla ancora. Nanoha si libera dal suo abbraccio.
“Tu non capisci.” Scappa e Fate sente di stare perdendo la testa.

La conferma arriva presto.

Ritorna a casa alle nove di sera, come sempre. Prende l’ascensore ed estrae le chiavi prima ancora che l’abitacolo si fermi, come ogni giorno. Poi nota i due poliziotti davanti al suo appartamento, che ha la porta sfondata, e la proprietaria del palazzo che piange. Fate si avvicina. Uno degli agenti le va incontro.
“È il suo appartamento?” Chiede freddo. Nessuno di quei due è un Artificiere. Quelli si occupano di chi infrange le leggi e lei sa di non avere mai fatto una cosa del genere. Annuisce appena. “È mio dovere informarla che una ragazza, Nanoha Takamachi, vent'anni, ha fatto irruzione nel suo appartamento questa mattina intorno alle dieci. Si è lanciata giù dalla finestra. Mi dispiace.” Il poliziotto però si sta scusando per il disturbo, non per la morte della senzatetto.

C’è una strana sensazione nel petto di Fate.

Come un’esplosione o come la rottura di un qualcosa di fragile su un pavimento di pietra. Oppure è qualcosa di molto diverso. Una crepa piccola, superficiale, ma non per questo meno dolorosa. Perché quella indica comunque il cuore di Fate che si spezza.

I giorni che seguono dopo il suicidio di Nanoha sono a dir poco distorti.

Fate continua ad andare a lavorare, ma quando torna a casa il suo viso è impastato di lacrime e cenere. Le labbra sono sempre piegate in una smorfia. Si prepara una cena per uno ma il cibo pare argilla colorata.

Il tempo passa e lei comincia a capire di odiare Nanoha. La odia per averle donato una scheggia di felicità, odia i sorrisi luminosi che le dava e i suoi occhi che le ricordavano un lontano cielo senza cenere, la odia per averle dato della speranza. Perché per una volta nella sua vita Fate si era sentita miracolosamente piena di speranze. Era come se fosse stata sotto l’effetto di qualche sostanza eccitante in cui credeva che tutto sarebbe stato possibile. L’ha fatta sentire come se la sua vita fosse davvero degna di essere vissuta. E Fate così stupidamente, così pietosamente, si era aggrappata a Nanoha come una sanguisuga parassita.

Perché lei voleva credere.

E poi Nanoha è morta.

Le cose non vanno bene. Perché quella vagabonda, più che una sconosciuta ma meno che un’amica e sulla via di diventare una fidanzata, si è lanciata dal suo appartamento come se avesse le ali ed è finita per schiantarsi a terra circondata da sangue rosso cremisi. Un colore non nuovo per le strade grigie di Midchilda. Le basterebbe chiedere ai poliziotti che hanno recuperato quello che restava del corpo per scoprire che Nanoha era malata.

Tumore al cervello, AIDS, pneumoconiosi.

Le restava poco da vivere e ha scelto la via più rapida e facile per farla finita. Ha spento la fiamma di Fate e l’ha lasciata ad inciampare da sola nell'oscurità. Ma lei la rivuole indietro.

Perché Fate è egoista e lo è sempre stata.

Così una notte anche lei salta e spicca il volo.


-Parole Dovute-
Vi devo delle spiegazioni, lo so. Due anni fa Kaninchen dichiarò che il 30/01 sarebbe stata la giornata dei depressi, quindi ho tentato di scrivere una fiction abbastanza triste. Ecco perchè ho fatto quelle strane manovre.
Spero che la storia vi sia piaciuta (nonostante abbia un non so che di nonsense). Grazie per averla letta e scusate per gli errori.
  
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