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Autore: BabaYagaIsBack    09/02/2016    1 recensioni
●Book I●
Aralyn e Arwen anelano alla libertà. Fin dall'alba dei tempi quelli come loro sono stati emarginati, sfruttati, ripudiati, ma adesso è giunto il momento di cambiare le cose, perché nessun licantropo ama sottomettersi, nessun uomo accetta la schiavitù. Armati di tenacia e coraggio, i fratelli Calhum compiono la più folle delle imprese, rubando a uno dei Clan più potenti d'Europa l'oggetto del loro potere. In una notte il destino di un'intera specie sembra cambiare, peccato che i Menalcan non siano disposti a farsi mettere i piedi in testa e, allora, lasciano a Joseph il compito di riappropriarsi del Pugnale di Fenrir - ma soprattutto di vendicarsi dell'affronto subìto.
Il Fato però si sa, non ama le cose semplici, così basta uno sguardo, un contatto, qualche frecciatina maliziosa e ogni cosa cambia forma, mettendo in dubbio qualsiasi dottrina.
Divisi tra il richiamo del sangue e l'assordante palpitare del cuore, Aralyn e Joseph si ritroveranno a dover compiere terribili scelte, mettendo a rischio ciò che di più importante hanno.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 0

"Don't send me no angel
This city's too cold"

Dark Night, Dorothy


 

Con un colpo secco delle braccia si calò il cappuccio largo e rovinato sulla testa e, aguzzando la vista, prese a scrutare nel grigiore che la stava circondando. Il suono ininterrotto della pioggia provò più volte a distrarla, cadendo tra le foglie e nelle pozzanghere, eppure lei non si fece ammaliare: qualcosa di ben più importante, al momento, richiedeva la sua totale attenzione.

Riportando le dita nell'enorme tascone della felpa, la figura incappucciata premette vigorosamente i polpastrelli sul cuoio ruvido della fodera che vi stava all'interno, custode di un oggetto che mai si sarebbe aspettata tanto piccolo e al contempo minaccioso - e il cuore non poté che balzarle in gola esattamente come la prima volta che lo aveva sfiorato. Era strano sentirsi quell'affare addosso, le sembrava quasi sbagliato. Durante la fuga le era addirittura parso che pesasse quanto un corpo morto, un cadavere che si stava trascinando dietro e di cui avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi; ma a dire il vero, ciò che aveva con sé non era più di una spanna di argento e qualche altro centimetro d'acciaio. Un pugnale, nulla di meno, ma come poteva soggiogarla a quel modo?
Mordendosi il labbro pregò silenziosamente in un ultimo atto di misericordia da parte di Arianrhod, Arawn, SegomoFenrir e tutti gli Dèi in cui la sua specie credeva. Le sarebbe bastato solo qualche altro minuto della loro pietà, niente più. Se l'avessero graziata abbastanza da compiere quegli ultimi metri di corsa si sarebbe assicurata di riverirli nella giusta maniera, così come era certa avrebbero fatto i suoi compagni – e pensando a loro, non riuscì a resistere alla tentazione di guardarli. Erano lì, se non tutti quantomeno la maggior parte e, tutto sommato, sembravano essere in buone condizioni: nessun arto penzolante né copiose colate di sangue, anche se distinguere il loro da quello altrui era un'impresa pressoché impossibile; perché nella ressa di corpi era stato difficile impedirsi di ferire e venir feriti, così alla fine si erano comunque ritrovati ad assomigliare a qualche comparsa da film splatter – peccato che gli omicidi compiuti e le enormi chiazze cremisi sui loro corpi fossero tutto fuorché finzione.
Certo, c'era da dirlo, ciò che era accaduto aveva di gran lunga superato le aspettative generali, immaginari talmente catastrofici che, tra le mura della sua stanza, l'avevano più volte svegliata nel cuore della notte, ansimante. Ad essere onesti, Aralyn dubitava fortemente che qualcuno, esattamente come lei, avesse sperato di arrivare sin lì in quelle condizioni. Era certa che persino Garrel, Fernando e i gemelli Vogel avessero intrapreso quella missione con la chiara consapevolezza che qualcuno sarebbe morto, o che nessuno di loro sarebbe tornato a casa; invece eccoli lì, tutti con il fiato grosso e i corpi semi nudi a testimoniare le fatiche compiute in quelle ultime sei ore. Grazie agli Dèi!, si ritrovò a pensare prima di prendere l'ennesimo grosso respiro nel tentativo di fermare l'ansia e poi spostare ancora una volta lo sguardo, riprendendo così a osservare i pochi metri di terra che separavano lei e i compagni dall'asfalto e dal Van parcheggiato accanto a un guardrail malconcio. 

Ecco lì loro passaggio verso la salvezza. 

Solo qualche falcata, pochi secondi, e poi avrebbero davvero potuto ricominciare a sperare di averla fatta franca.

Finalmente.

Quel canale di scolo ormai in disuso era stato per loro una vera e propria manna dal cielo, li aveva aiutati sia ad avvicinarsi alla Villa, sia ad allontanarcisi senza essere visti, ma ciò comunque non significava che fossero del tutto al sicuro dai loro inseguitori, per questo stavano esitando.
Con i sensi animali tesi fino allo spasmo, tutti e cinque se ne stavano acquattati nell'ombra di quel cunicolo di cemento alla disperata ricerca di un suono che potesse, se si fossero mossi, tradire il successo della missione, eppure, oltre allo scrosciare della pioggia, ad Aralyn pareva non esserci nulla, non il suono di passi e men che meno di rami spezzati. Forse avrebbero sul serio dovuto cogliere quell'occasione prima che fosse troppo tardi, si disse.

Staccando i denti dal labbro provò ad allungare il collo oltre il limitare del loro nascondiglio, ma prima che potesse mettere a fuoco qualsiasi cosa Garrel l'afferrò per il cappuccio della felpa, strattonandola indietro.
«Ferma» le sussurrò appena i loro sguardi s'incrociarono: «Tu non puoi essere la prima.» E anche se non era stato quello il motivo delle sue azioni, non poté negare il fatto che, in qualsiasi caso, l'amico aveva ragione: lei non poteva essere l'apri-fila. Nonostante si trovasse a capo della missione farla fuggire per prima voleva dire mettere a rischio ogni cosa, Arwen stesso lo aveva ripetuto più volte durante i mesi spesi a preparare quel colpo: lei doveva restare nel mezzo. Così facendo infatti, gli altri le avrebbero fatto da scudo, proteggendo il pugnale – dopotutto era ovvio che la forza bruta fosse il suo punto debole, che sotto attacco avrebbe rischiato di farsi uccidere e poi fregare quel cimelio.

Deglutendo, Aralyn tornò al proprio posto, scostandosi dal viso le ciocche di capelli che vi erano ricadute davanti e, nel farlo, scorse con la coda dell'occhio le dita imbrattate di sangue – un'immagine che seppur macabra non generò in lei alcun senso di colpa, men che meno ribrezzo. Era una prova dei crimini commessi quella notte, ma uccidere ormai era diventato qualcosa di così familiare da non aver più il sapore del peccato. Nel mondo in cui era nata e cresciuta, insieme alle persone presenti con lei in quel tunnel fognario, certe cose potevano definirsi quasi all'ordine del giorno - perché essere più bestie che umani conduceva solo a quel punto: a difendersi e a lottare senza sosta, usando artigli e zanne fino a spezzare vite.

D'un tratto i fratelli Vogel le si affiancarono. Sporchi e affaticati, con i muscoli tesi fino allo spasmo come ognuno di loro, provarono comunque a darle conforto con un sorriso che, sulle facce chiazzate di sangue e nella penombra di quel cunicolo, stridette tanto da mozzarle il respiro.
Hugo, il più lontano dei due, fu il primo ad allontanare gli occhi da lei e prepararsi allo scatto piegandosi leggermente in avanti. La sua schiena nuda s'incurvò mostrando sotto alla pelle le vertebre della spina dorsale, tanto evidenti da far pensare che potessero strappargli la carne e uscire. Qua e là, come il gemello, lunghe linee rosse svettavano sul suo busto, sulle braccia sottili e il viso scarno, testimoniando con quanta brutalità si fosse fatto largo tra le file nemiche.
«Andiamo noi per primi, voi seguiteci» sibilò con il suo consueto tono divertito, come se tutto quello che avevano e stavano facendo non fosse altro che un gioco, e nessuno, a quella proposta, obbiettò. Entrambi i fratelli erano terribilmente veloci, sorprendentemente impavidi, inarrestabili e letali – tre doti che Aralyn gli aveva invidiato sin dal primo incontro.

Garrel, sul fianco opposto, li osservò con meno ammirazione. L'espressione corrucciata che aveva in viso tradiva l'impassibilità che aveva cercato di mantenere fino all'ultimo, eppure, qualsiasi pensiero paterno gli stesse vorticando nella mente, in quel preciso istante non gl'impedì di dar loro il via. Quello dell'uomo fu un movimento leggero, tanto veloce che se non si fosse stati attenti sarebbe facilmente passato inosservato – ma a quanto parve i gemelli lo videro, o forse percepirono la vibrazione dell'aria e, in un istante, furono allo scoperto. I loro corpi si fecero strada tra i tronchi e il fogliame, lasciandosi nel fango alle spalle orme che gli altri, soprattutto lei, con il cuore in gola seguirono.
Aralyn sentiva i propri piedi affondare nel terriccio bagnato, avvertiva il rumore di quei passi amplificarsi dopo ogni falcata e, segretamente, temette di attirare su di sé le attenzioni di chiunque fosse sulle loro tracce. In fin dei conti i Fior-Ghlan erano vigili, i loro sensi notevolmente superiori e, se non si fossero sbrigati, gli sarebbero saltati addosso senza alcuna pietà, vendicandosi per tutto ciò che era accaduto all'interno delle mura di Villa Menalcan.

Senza staccare gli occhi dalla sagoma del veicolo che li attendeva a qualche centinaio di metri dal tunnel fognario, la giovane si costrinse a non pensare al peggio - anche se era conscia di non potersi realmente permettere un simile lusso. Quei viscidi sarebbero potuti spuntare in qualsiasi istante e lei doveva farsi trovare pronta, eppure la sua mente non riuscì a focalizzarsi su nient'altro che non fosse la carrozzeria di quel veicolo preso a noleggio giorni prima. La salvezza era lì, le bastava resistere e ricordarsi di restare vigile. Doveva solamente compiere un ultimo sforzo, fingere che i muscoli non le dolessero così forte, seguire Hugo ed Eike e pregare gli Dèi, oltre che mantenere il contatto con la realtà. Non doveva fare altro, eppure qualcosa parve tradirla. Non seppe dirsi se fosse per via del fango sotto ai piedi, per la stanchezza o per la distrazione data da quei pensieri assillanti, ma d'improvviso Aralyn sentì l'equilibrio venir meno. Il tallone grattò sull'asfalto umido, bruciò, e se non fosse stato per Fernando palesatosi alle sue spalle sarebbe rovinosamente ruzzolata a terra, mettendo a repentaglio tutti. Già, perché persino il più misero tra gli errori avrebbe condannato lei e i suoi compagni – e quello che stava accadendo, purtroppo, era esattamente ciò che doveva evitare; lo sapeva lei, così come qualsiasi altro membro della squadra.
L'uomo allora la strattonò malamente, le strinse il braccio con talmente tanta possanza da farle storcere la smorfia, ma non un suono le sfuggì di bocca. Non poteva permetterselo esattamente come non poteva permettersi di cadere a terra. Non in quel momento. Così Fernando la issò davanti a sé, schermandola da possibili attacchi e con una spinta la gettò contro la portiera anteriore del veicolo. La foga gl'impedì di ponderare la forza con cui l'allontanò dal proprio corpo e, a quel punto, la ragazza si ritrovò a fare i conti con un contraccolpo tanto inaspettato che le mozzò il fiato. Sentì l'oggetto nascosto nel tascone della felpa cozzare contro la lamiera, premerle sul costato e spingere sulla carne indolenzita, costringendola a fermarsi qualche secondo per boccheggiare.

Merda!, le gridò la mente in un ultimo istante di lucidità, mentre sgranava gli occhi per riuscire a non perdere contatto con la realtà. La vista le si annebbiò appena, forse a causa della vicinanza con l'argento, del dolore che non le stava dando tregua o, piuttosto, per via dell'eccessiva perdita di sangue, eppure Aralyn, nonostante l'imminente mancamento, si costrinse ad allungare un braccio e afferrare la maniglia: se doveva svenire, che almeno fosse stato sul sedile del passeggero del Van che l'avrebbe ricondotta a casa. Ancora una volta però, le mani dell'amico corsero in suo aiuto. Appena la portiera si aprì, Fernando le appoggiò una delle sue enormi mani sul coccige, spingendola nell'abitacolo.
Aralyn si lasciò quindi cadere sulla pelle del sedile, quasi le gambe non avessero più la forza per sorreggerla. Udì qualcuno sbattere la sua portiera, colpirla nella frenesia del momento e, poi, con il cuore in gola e le palpebre serrate, attese il suono della marcia venir inserita, gli ultimi click delle serrature che si richiudevano e, infine, avvertì il veicolo muoversi. Il motore ruggì oltre il cofano, indicando una partenza tutt'altro che sicura e che, viste le leggi della fisica, la schiacciò contro lo schienale a cui era appoggiata. Non si azzardò ad aprire gli occhi perchè, in tutta sincerità, non aveva idea di cosa temesse di più: se l'idea di vedere spuntare sulla strada al di là del parabrezza un capannello di licantropi inferociti, o di scoprirsi ancora sul punto di un mancamento. Così restò muta, ascoltando sia i segnali del proprio corpo, sia i respiri scoordinati dei quattro uomini dietro di lei. Non li distingueva, ma riusciva a percepirli tutti – o quasi.

«Metti la cintura.» Una mano le picchiettò sulla coscia, facendola trasalire. Si era talmente estraniata che, seppur fastidioso, Aralyn non si era resa conto dell'allarme che aveva preso a suonare dal momento in cui l'auto era partita – e come poteva, quando c'erano questioni più importanti a occuparle la mente?
Si concesse ancora qualche respiro affannato, poi ubbidì. Le ci vollero vari tentativi prima di trovare il punto d'inserimento, ma alla fine riuscì nell'impresa, sentendosi già più leggera.

«Ti hanno ferita agli occhi?» Ancora la stessa voce, stavolta meno dura.
«No.»
«E allora che cazzo stai facendo? Non mi sembra il momento di imitare Ray Charles.»

Aralyn contò fino a dieci, stringendo involontariamente le dita sul pugnale. Le serviva concretezza, qualcosa a cui aggrapparsi per essere certa di essere ancora vigile - ma soprattutto per non sbottare malamente, insultando la persona accanto a lei. E il tempo intanto passava, senza però svanire nell'incoscienza di uno svenimento; così aprì gli occhi, scoprendosi più lucida di quanto previsto.
La carreggiata di fronte a loro si estendeva per miglia, fiancheggiata da entrambi i lati da un muretto basso in pietra grezza oltre cui si diramavano in ogni direzione le campagne scozzesi. Non c'era nulla se non quello, qualche palo elettrico, alberi in lontananza e il cielo che pian piano si tingeva d'azzurro – e le venne naturale chiedersi se fossero già così lontani?

Rimase incredula a fissare i piccoli dettagli del paesaggio al di fuori del veicolo, quasi non fosse sicura di ciò che stava vedendo, ma quando si accorse d'essere l'unica a esserne così stranita tornò a schiacciarsi contro il sedile.

Ce l'avevano fatta, constatò corrugando le sopracciglia, erano davvero riusciti a compiere l'impossibile, anche se realizzarlo aveva un ché d'insolito - eppure più i suoi occhi vagavano da un finestrino all'altro, più si rendeva conto che si trovavano in viaggio, lanciati in direzione dell'autostrada che li avrebbe condotti al Tunnel sous la Manche e poi nel cuore dell'Europa, lì dove la Tana li attendeva.

Dentro di sé Aralyn avvertì la gioia montare. Sapeva che se non si fosse trattenuta avrebbe finito con il sorridere e gridare, entusiasta, peccato che una parte di lei sapesse che non era ancora il momento di festeggiare. C'erano fin troppe ragioni per aspettare: in primo luogo, il fatto che fossero ancora nelle terre di uno dei Clan più minacciosi della loro specie, licantropi pronti a ucciderli senza alcuna esitazione pur di riprendersi ciò che gli avevano sottratto. Oltre a quello, non potevano certo dire di aver ottenuto quella vittoria facilmente. Le ferite fisiche erano solo un piccolo sfregio, in qualche giorno sarebbero sparite dai loro corpi, ma Luke, invece, non sarebbe tornato. Né l'indomani né i giorni a venire. Ed era lui l'unica, vera perdita che avevano avuto, il cadavere che forse le era pesato così tanto durante la fuga, dando al cimelio nella sua felpa tutt'altro valore.

Si morse il labbro.

In quella vita c'erano molte cose a cui si faceva l'abitudine: alle ossa che si rompevano nel mezzo di una mutazione, ai sensi amplificati fino all'inverosimile nelle notti di Luna Piena, alle membra che si risanavano in tempi brevissimi, alle faide, le ringhia, gli artigli nella carne, ma non alla perdita di un amico.

Voltò il viso. 

La chioma di Marion era costretta in una crocchia sfatta, impedendo alla donna di nascondere il profilo – e la smorfia, quella contrattura delle sopracciglia che le incupiva lo sguardo, rivelava la frustrazione, ma soprattutto il dolore, che la stava lacerando.

Aralyn staccò le dita dal fodero del cimelio, portandole al polso dell'amica.
«Ci ho provato, però-»
L'altra la interruppe. «Non ho bisogno di spiegazioni, Ara.» Stizzita allontanò il braccio: «Sono quindici anni che mi trovo in questo schifo, so come funzionano le cose.»
Alle loro spalle, i quattro uomini sembrarono sparire. I loro respiri si erano improvvisamente fatti silenziosi, regolari; forse stavano scrutando fuori dai finestrini in cerca del pericolo, o più probabilmente stavano cercando di non peggiorare la situazione.

«Okay. Però questo non vuol dire che tu non stia soffrendo, o debba negarlo.»
«E cosa vuoi che faccia?» Gli occhi di Marion dardeggiarono nella sua direzione. Il fantasma delle lacrime minacciava la durezza dello sguardo, quel suo voler apparire forte, e Aralyn non seppe cosa provare. Una parte di lei avrebbe voluto abbracciarla, farla sfogare, un'altra rinfacciarle l'accondiscendenza con cui aveva accettato la partecipazione di Luke a quella missione – perché a diciassette anni non si dovrebbero correre simili rischi. Non con un'esperienza così rosicata.
«Ormai è successo, no? Non si può tornare indietro. Seppur lo desideri con tutta me stessa non può succedere. Dovevo pensarci prima.» Già, peccato che avesse ignorato ognuno dei pareri dei suoi compagni – e Garrel, dal fondo del veicolo, non perse occasione per gettare sale sulla ferita aperta: «Dovevi essere oggettiva. Ecco come dovevi comportarti. Invece ti sei fatta fregare dal suo bel faccino.» Il suo commento fu tagliente, privo di qualsiasi empatia, ma nessuno osò rimproverarlo. Era un pensiero condiviso, anche se fastidioso da ammettere.

Marion s'irrigidì, e la ragazza provò ancora una volta l'impulso d'allungare una mano e darle sostegno – ma si trattenne, conscia della furia con cui l'altra l'avrebbe potuta aggredire. Litigare sarebbe stato tra le cose meno indicate, visto che non si potevano ancora dire definitivamente in salvo; La loro attenzione doveva restare sull'obbiettivo, tornare a casa, e non si potevano concedere il lusso di rallentare o distrarsi fin tanto che fossero rimasti in Scozia. Così, pigiando maggiormente i denti nel labbro, Aralyn tentò di scacciare il desiderio di sfiorare Marion mettendosi a districare i nodi formatesi nei capelli. Grumi di sangue rappreso e fango secco le avevano attorcigliato malamente le lunghezze, peggiorando un aspetto che, era certa, fosse già di per sé terribile. Più e più volte strattonò, strappandosi ciocche chiare e mugugnando a denti stretti per il dolore, ma mai osò riportare lo sguardo sull'amica.
La guerra faceva schifo, si disse. E non solo per il modo in cui aveva ridotto lei o gli altri membri del branco, ma per decine di altri motivi. Però aveva uno scopo, e a lei questo bastava - o meglio, ad Arwen bastava, quindi da devota sorella non avrebbe fatto alcuna obiezione di fronte ai suoi desideri. Non si sarebbe lamentata per la gioventù persa, per le cicatrici riportate, le atrocità viste o i compagni caduti, l'importante era soddisfare suo fratello. In qualsiasi modo. Sempre. Era il minimo che potesse fare per lui e, in quel momento, seppur lui ancora non ne fosse a conoscenza, c'era sicuramente riuscita. Portando il Pugnale al suo cospetto avrebbe posto la pietra più importante per la realizzazione del suo progetto, dando il via a un cambiamento che, si auguravano tutti, avrebbe riscritto la storia dei Neo-Ghlan.

Lo sguardo di Aralyn cadde sul tascone della felpa e nel riportare la mano sul cuoio intarsiato il cuore riprese a palpitarle nel petto.

Avevano il Pugnale di Fenrir.
Tra le mani di una piccola e insignificante meticcia c'era la chiave del potere e, finalmente, sarebbero riusciti a distruggere la dittatura dei Fior-Ghlan.  

 

   
 
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