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Autore: mrdancedance    12/02/2016    0 recensioni
Quattro sorelle e un fratello, orfani, vivono un'esistenza piuttosto tranquilla grazie ai loro poteri soprannaturali. Una notte però, rientrando a casa scoprono che qualcuno ha rubato una cosa a cui tenevano molto e che potrebbe metterli nei guai.
Paura e oscure presenze li attendono dietro l'angolo.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Viper



Vanilla adorava essere al centro dell’attenzione. Anzi, lei adorava che gli altri sentissero l’improvviso e irresistibile desiderio di guardarla, studiarla, bramarla. Fremeva di eccitazione all’idea che quei grossi uomini sudaticci la volessero e, io lo so, quando vedeva uno di loro muoversi sulle seggiole, lei immaginava che lo facessero per darsi una calmata, per trattenersi dal saltarle addosso.
Vanilla era così, una Lolita moderna che si inumidiva le labbra con la lingua, in un movimento lento e spudorato. Venice le avrebbe tagliato quella protuberanza rossa molto volentieri. Le avrebbe dato con gioia uno schiaffo che l’avrebbe fatta sanguinare. L’avrebbe messa in punizione, chiudendo la porta e gettando la chiave. Ma non poteva. Non poteva perché Vanilla avrebbe scambiato quei gesti per gelosia, ma soprattutto perché era quella sua sfacciataggine a darci da mangiare.
Da quando nostra madre era morta, un paio d’anni prima, Vanilla era stata la nostra principale forma di sostentamento. Oh, non avevamo bisogno di molto, ma anche il poco aveva il suo prezzo. Quindi, di tanto in tanto, di sera attraversavamo i prati dietro casa e correvamo nell’erba alta a piedi scalzi, con le scarpe buone in mano. Attraversavamo un boschetto e costeggiavamo l’autostrada fino a un bar sporco e senza pretese. Era sempre pieno di camionisti in sosta dopo lunghi viaggi. Puzzolenti, spesso grassi e stanchi. Bevevano birre su tavoli di legno e sgabelli malfermi. Mangiavano qualche porcheria che non avrei saputo identificare o semplicemente ruttavano facendo gli indifferenti, ma essendo contenti per la loro giornata finalmente conclusa. Poi, Vanilla andava dal barista, gli faceva l’occhiolino e giocava un po’ con la radio. Girava la manopola passando da una stazione all’altra. Faceva appositamente digrignare i denti agli avventori, con quei suoni tipici dei canali vuoti, e una volta trovata una canzone di suo comodo alzava il volume. Entusiasta, trascinava una di noi, di solito Velvet, in mezzo alla sala e si metteva a ballare come un’aspirante cubista, come una soubrette che deve solo mostrare il culo per farsi applaudire. Agitava poco le braccia e saltellava molto, per far sobbalzare più curve possibili.
Gli uomini parevano risvegliarsi dal loro torpore di fatica. Li si vedeva rizzarsi per bene, allungare il collo per osservare meglio la scena. Andavano su di giri. Si surriscaldavano come locomotive a vapore e non ci si sarebbe stupiti nel vedere uscire fumo dalle orecchie. Era in quel momento che entravamo in azione noi. Vice si sistemava in un angolo e sfruttava il suo dono per controllare quali fossero i camionisti più intenti ad ammirare lo spettacolo. Appena individuati ce li indicava, e io e Venice, che continuava a scuotere la testa, ci esibivamo allora nella sottile arte dello sfilamento dei denari. Rubavamo banconote di piccolo taglio che fuoriuscivano dai portafogli, nelle tasche dei pantaloni. I culi larghi di quei gorilla ci facilitavano il compito senza volerlo. Le nostre dita dovevano essere veloci, abili, ma cercavamo vittime facili.
Non sono mai stata brava, in queste cose. Ma il nostro caro fratellino ci indicava sempre persone poco attente, e noi riuscivamo a non farci scoprire.
Finite un paio di canzoni, Vanilla faceva qualche sorrisetto innocente, se voleva irritare Venice dava un bacio al barista, e poi scappava fuori con Velvet alle calcagna. Venice sbuffava rumorosamente, in segno di disapprovazione, e imitava le sorelle. Io dovevo raccattare Vice, colpito dal suo solito mal di testa, e tentare di seguire il gruppo. Arrancando nel terriccio, li avremmo raggiunti solo una volta entrati nel boschetto.



Anche quella sera andò così. Finito il nostro numero uscimmo caoticamente dal locale, io e Vice per ultimi, lentamente.
“Non occorre infilarla in bocca, sai?” Fu la prima frase che sentimmo una volta raggiunto il gruppo.
“E chi ha detto che l’ho fatto?”
“Lo so che lo fai apposta?”
“E perché dovrei?”
“Per farmi arrabbiare!”
“Dici?” Stava sorridendo, Vanilla. Un po’ cattivella.
“Ragazze!” Tentò di gridare Vice appena arrivammo. A quel punto lo diceva sempre con un tono sofferente, forse per farci provare compassione. Forse perché stava male davvero. “Ho mal di testa.”
Si voltarono tutte e vennero a circondarlo. Era il nostro tesoro da proteggere, l’unico maschietto della famiglia. La prima strega maschio da generazioni, ci ripeteva nostra madre. Una volta.
“Hey, tesoro...” Vanilla si fece dolce come il suo nome. “Sei stato grande.”
“Gia, anche stasera ne siamo uscite senza polizia.”
“Stai tanto male?” Velvet parlava di rado, e quando lo faceva era sempre per coccolare gli altri. Lei era la più bella. Sembrava la bella addormentata della Disney, con i suoi boccoli biondi, le labbra rosa e le sue forme così femminili e aggraziate. Era anche la meno egocentrica, però. Anzi, pareva quasi che fosse incorporea, perché mai si pronunciava sul suo aspetto. Lei fluttuava tra di noi, magnifica. Ci faceva sfigurare senza volerlo e non se ne rendeva conto.
“No, non tanto. Ma voglio tornare a casa.”
Ci incamminammo. Piano.
Il terreno era discontinuo, irregolare. Il boschetto piuttosto buio nascondeva la luna, l’unica fonte di luce, e ci faceva ricordare tutti i film dell’orrore che avevamo visto, rigorosamente di nascosto, quando la mamma era ancora viva. Ah, la mamma. Era a lei che Venice pensava quando sgridava Vanilla. Era lo spirito moderno ma protettivo della donna che ci aveva cresciute a farle credere di star sbagliando tutto. Che poi, era davvero possibile sbagliare qualcosa, se non si aveva ancora imparato niente?
Poi il bosco prese a diradarsi e noi arrivammo nei campi dietro casa. Era bello lì. C’era l’erba alta e sottile e piegata nella brezza notturna. Le stelle ci guardavano dalla loro immensa distanza e caricavano di nei quell’oceano nero che era lo spazio. Vanilla corse tra le foglie e strappò un ciuffo d’erba verde. Si tagliò la pelle ma, incurante, si mise a benedirci con la rugiada. A Vice toccò in regalo anche una goccia del suo sangue chiaro e tutte ridemmo spensierate. In fondo, eravamo vive, stavamo bene, avevamo la nostra casa e il nostro cibo e le nostre scaramucce. Dovevamo divertirci! Dovevamo sorridere, per mamma.
Velvet corse incontro a Vanilla che l’abbracciò mettendosi a ballare sulle note della canzone che le dedicava sempre.

She wore blue velvet
bluer than velvet was the night
softer than satin was the light
from the stars.
She wore blue velvet
bluer than velvet were her eyes
warmer than May her tender sighs
love was ours.

Ridendo e ballando e cantando arrivammo a casa, e lì tutto il divertimento si congelò in una cattiva sorpresa. La porta d’ingresso secondaria, che dava su un patio di legno, ci stava attendendo spalancata. Una grande bocca aperta in mezzo a quella faccia famigliare, come intenta a gridarci qualcosa. E una cosa l’avevamo imparata, da nostra madre: le grida portavano sempre problemi.
Ci guardammo per scoprire un po’ di spavento su ognuno dei nostri visi pallidi. Non sapevamo bene cosa fare, ma poi Vanilla corse dentro. Corse per non mostrarci quanto le tremassero le gambe.
“Che sciocca.” bisbigliò Venice, più a se stessa che a noi. Poi la seguì dentro e noi seguimmo lei.
L’ingresso era scuro. Non accendemmo la luce e ci mettemmo in ascolto. Qualche scricchiolio del legno, qualche soffio di vento, ma niente di umano. C’era però un odore diverso, un odore che non conoscevamo. Aleggiava tra il grande divano verde e le scale che portavano al piano superiore.
“Ce la siamo dimenticata aperta noi?”
Ovvio che no, ma la domanda di Velvet esprimeva più una speranza che un vero quesito.
Nessuno le rispose e insieme ispezionammo ogni stanza, ogni angolo e ogni ingresso (ne avevamo tre, uno per la vita, uno per la morte e uno per il tempo, anche se del tempo ce ne fregava poco, e quello della morte era sempre chiuso). Non trovammo nulla fuori posto. Nulla. e questa cosa era estremamente snervante.
“Forse Velvet ha ragione. Forse l’abbiamo dimenticata noi aperta.”
“Impossibile.”
“Lo so. Era tanto per dire.”
“Non dire niente tanto per dire. Lo sai.”
“Forse è stato un colpo di vento.”
“Macché!”
“Da quando il vento apre le serrature?”
“E poi c’è questo odore.”
Lo sentivamo tutte. Si era attaccato alle nostre magliette, come fa il fumo delle sigarette. A Vice fece leggermente aumentare il mal di testa.
“Ma che odore è?”
“Un profumo scadente, secondo me.” sputò sarcastica Vanilla.
“Non è un profumo.” le risposi io.
“E’ odore di fretta. E di curiosità.”
“Ne sei sicuro?”
“Quasi.”
“Che qualcuno abbia scoperto qualcosa?”
“E come?”
“Che ne so! Per quanto mi riguarda potrebbe essere uno del paese che si è messo a spiarci!”
“Non dire scemenze!”
“Non dirle tu!”
“Per favore...” Vice ci rimise in riga.
Poi mi venne un’intuizione, una di quelle che si vorrebbe risultassero false. Senza dire nulla corsi su per le scale, mi fiondai nel bagno che era stato di mamma, quello tutto bianco con la rubinetteria rossa, aprii l’armadietto che conteneva ancora le sue creme per il viso, le scaraventai tutte a terra, smossi la mattonella che c’era dietro e trovai un buco vuoto. Vuoto e grigio. E non doveva essere così.
Mi voltai ed erano tutte lì. La mia faccia dovette lasciar trasparire la disastrosa scoperta, perché Velvet si portò le mani alla bocca, Venice sbiancò di colpo, Vice si sedette sul water e Vanilla, incredula, venne a controllare, quasi non potesse credere alla mia espressione facciale.
Purtroppo, la mia bocca spalancata, le pupille tremanti e il mio colorito latteo dicevano il vero: il diario di mamma era sparito.


 
***


DISCLAIMER

Le strofe riportate nel capitolo sono della canzone "Blue Velvet" di Tony Bennet.
  
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