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Autore: ChiiCat92    19/02/2016    0 recensioni
"Non riesco a immaginare di poter essere tornato in questo mondo da solo. Mi rifiuto anche solo di pensarlo. Perché se così dovesse essere so bene che cosa fare. Non ho intenzione di vivere questa vita senza di loro, e se anche tornare nel Lifestream non servirà a uccidermi davvero, questo non vuol dire che smetterò di provarci, ancora e ancora e ancora. Finché avrò la forza di farlo.
Non è la morte a spaventarmi, è vivere senza di loro."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kadaj, Loz, Yazoo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Advent Children
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Avvertimenti prima di cominciare:

Visto che siamo nel periodo di Pasqua *Trombette che suonano* Ho inserito in questa storia delle Easter Eggs. 
Uno è quello principale, l'altro è un bonus del bonus.
Buona caccia alle uova!

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08/02/2016

 

Finché vita non ci separi

 

Kadaj!

Bang, bang, BANG.

Muori, muori, muori.

Il dolore mi dilania, vado in pezzi, non c'è una sola parte del mio corpo che non bruci.

Ogni singola molecola di cui sono composto va in fiamme, si vaporizza in un istante.

Non rimane che cenere.

Kadaj.

Kadaj.

Tenshi.

Non sono riuscito a proteggerti.

È buio assoluto, il che è un sollievo. Ammesso che io abbia ancora degli occhi.

Sono morto, di questo sono assolutamente certo, anche se è una consapevolezza che riaffiora piano piano in me, come se fosse stata tenuta in disparte da tanto di quel tempo da essere scivolata nell'oblio.

Sono morto, indubbiamente.

Sono morto quando Cloud ha passato a fil di spada Kadaj.

Sono morto in quel momento, quando lui ha preso l'ultimo respiro, anche se il mio cuore, o quell'agglomerato di cellule che dir si voglia, ha smesso di battere qualche istante dopo.

Me lo ricordo il dolore. Non quello della morte, no, quello non è neanche lontanamente paragonabile al vero dolore.

Ricordo il dolore di vedere mio fratello accasciarsi senza vita e morire tra le braccia di quel...traditore. La sola parola evoca un sibilo nella mia testa, un meccanismo di difesa animale che mi porterebbe ad estrarre la pistola dalla fondina e sparare.

Come d'altronde ho fatto.

È morto anche lui, quel maledetto è morto.

Anche questa è una consapevolezza che torna pian piano nel buio che mi circonda ed è un balsamo per le ferite che sento di avere addosso, non nel corpo quanto nello spirito.

È morto, Cloud è morto.

Riesci a sentire quanto suona bene questa frase, Loz?

Loz?

Ehi, Loz?

Ah.

Ricordo.

Sei morto anche tu.

Siamo tutti morti quel giorno.

Il dolore dei ricordi è sordo ma vivo, pulsante, persistente. Fa male.

Per provare dolore bisogna necessariamente avere un corpo? Perché sono abbastanza sicuro che il mio non esista più, che si sia carbonizzato e ridotto in pulviscolo a causa delle Materie. Non si è trattato neanche di sacrificio, ma solo di necessità.

A che scopo rimanere al mondo senza Kadaj?

Ma in ogni caso il mio non è un dolore fisico, non è un braccio o una gamba a farmi male. È il cuore, il cuore.

Il cuore.

Non avevo mai fatto caso prima a quanto fossero dolorose le ferite del cuore, a quanto facessero soffrire. Forse lo capisco adesso che non ho più un corpo, o forse è una conseguenza della morte.

Kadaj.

Loz.

Dove siete?

Da qualche parte in questo buio?

Da soli in un'oscurità diversa dalla mia?

Starai piangendo, vero Loz? Non sai fare altro.

Kadaj, il tuo ultimo pensiero è stato per la Madre, non è così? Sei con Lei adesso? Spero di sì, spero che almeno tu sia dov'è giusto essere. Al Suo fianco.

Che importa se ti sei lasciato indietro pezzi di te?

Sei sempre stato l'unico ad avere la possibilità di riuscire, noi potevamo solo essere il trampolino che ti avrebbe permesso di spiccare l'ultimo balzo.

Kadaj.

Solo pensare il tuo nome è un'ondata di gelido orrore, dolore, disperazione. Solo pensare che non ero lì per te, che non sono state le mie braccia a stringerti, ad accompagnarti alla morte, mi fa sprofondare un po' di più in questo baratro.

Kadaj.

Non siamo arrivati in tempo per salvarti, e neanche per dirti addio.

Ma ho ucciso il tuo assassino, adesso è cibo per i vermi.

Puoi sentirmi Kadaj?

L'ho ucciso.

E questo?

Cos'è?

Acqua?

Pioggia?

Lacrime?

Sono lacrime. Le sento scivolare lungo il viso. Bruciano, bruciano come fossero acqua bollente, scavano solchi profondi nella pelle.

Ho ancora un cuore che può soffrire e occhi che possono versare lacrime.

È questo l'Inferno?

Patire eternamente il dolore della perdita? La consapevolezza della solitudine? Vedere e rivedere e vedere ancora gli ultimi istanti della mia vita terrena?

Non voglio vederti morire ancora, Tenshi. Non voglio vedere ancora i tuoi occhi pieni di lacrime. Non voglio sentire sulla pelle il bisogno di stringerti. Non voglio.

Bang, bang, BANG.

Muori, muori, muori.

Il mio corpo va di nuovo in fiamme, mi sento dilaniare. Boccone dopo boccone, pezzo dopo pezzo, l'oscurità mi divora.

Non c'è più niente, non c'è più niente a parte questo dolore.

Per favore, basta, basta. Ve ne prego!

Madre, perché lasci che mi facciano questo?

Non sono forse anch'io tuo figlio?

E anche se per te sono solo uno strumento, perché lasci che io venga fatto a pezzi, riassemblato e poi distrutto di nuovo?

Perché, Madre?

Ho fatto come mi avevi ordinato di fare, abbiamo fatto tutti quello che ci avevi ordinato di fare. Ci avevi promesso la resurrezione.

E invece guardaci.

Guardami.

Guardami, Madre.

Di me non rimane altro che polvere, buio, tormento.

Le lacrime non smettono di scorrere, furiose come un torrente in piena eppure silenziose.

E poi un singhiozzo.

Loz?

In lontananza, un piccolo singhiozzo spaventato. Qualcuno che piange.

Loz, sei tu? Mi senti?

Sempre più forte, sempre più vicino.

Stai venendo da me, fratello?

È il singhiozzare e il piangere disperato di un bambino. Non è solo dolore, è paura, è orrore, è solitudine.

Non piangere, Loz.

Sono qui, sono qui, non sei solo!

È proprio quando è talmente vicino da sentirmelo addosso che capisco.

Non è Loz a singhiozzare, non è il suo pianto accorato quello che sento.

È il mio. È la mia voce. È il mio petto a scuotersi, tremare, gemere e scricchiolare come una vecchia casa nel bel mezzo di una tempesta.

Sono io a piangere.

E nel momento in cui me ne rendo conto, piango più forte. Non posso impedirmelo, non voglio neanche.

Nel buio del mio personale oblio, urlo, piango, mi dispero, perché so che nessuno potrà sentirmi.

Nessuno può sentirmi gridare, nessuno.

Ho le orecchie piene delle mie stesse urla, tanto da ovattare persino i miei pensieri.

Vorrei scalciare, vorrei dimenarmi, vorrei colpire qualcosa fino a scorticarmi le nocche.

Vorrei di nuovo un corpo che possa gestire e sfogare quest'enorme, sofferente rabbia, perché il mio cuore da solo ne sarà sopraffatto.

All'improvviso è una sensazione di vuoto quella che mi prende lo stomaco, o almeno, che mi prenderebbe lo stomaco se ne avessi ancora uno. È la sensazione di cadere, precipitare, che dura un istante di secondo prima di...

Tumpf

...prima di cadere dolorosamente al suolo.

È un dolore fisico quello che provo, il dolore che si prova per essere caduto a peso morto da una non troppo considerevole altezza. Eppure mi sento schiacciato e pesante, è come se il corpo pesasse una tonnellata.

Il corpo.

Il mio corpo.

È un abbacinante flash di consapevolezza quello che per un attimo mi fa trattenere il respiro. E nel farlo lo sento subito, tu tum tu tum tu tum tum, il galoppare frenetico di un cuore che batte, l'espandersi e il contrarsi di polmoni nella cassa toracica, il sibilo fischiante di sangue nelle orecchie.

Ho un corpo, un corpo vero, di carne, sangue, muscoli, ossa.

Sollevare un braccio non mi è mai sembrato così difficile come adesso. Quando sono “nato” il mio corpo aveva tutte le istruzioni, sapeva come muoversi ancora prima che lo sapessi io, questa volta è come se dovessi ancora imparare. D'altronde quello che prima sapevo non erano mie conoscenze.

Nonostante il buio pesto intorno a me, piccoli impulsi sensoriali mi avvertono che c'è tutto un mondo nascosto nell'oscurità. Sento la schiena dolere, schiacciata contro quello che deve essere un pavimento freddo. Sento il tic tac di un orologio che si espande pigramente nel buio. Sento che l'aria sa di chiuso, ma sento anche un retrogusto floreale che si deposita nella parte inferiore della lingua come se potessi assaggiarlo. Sento le dita di entrambe le mani che si aprono e si chiudono, che si flettono e rispondono ai miei ordini cigolando come cardini di una porta non ben oliati.

Sento di essere di vivo.

In qualche modo, per qualche assurda ragione, per il volere inaspettato di qualcuno che non mi ha voluto all'Inferno, sono vivo.

Vivo ma debole, intorpidito, braccia e gambe che ancora non collaborano.

Mentre realizzo lentamente – con un'attenta analisi – che non mi manca nessun arto, che tutto sembra funzionare come dovrebbe, che tutto è delle giuste dimensioni, so che devo alzarmi, o quanto meno devo provarci, prima che le mille e più domande che mi opprimono la mente diventino troppo reali per lasciarmi la forza di fare anche solo un passo.

Lacrime mi bagnano ancora il viso, ma non perdo tempo ad asciugarle. Ci sarà, dopo.

A tentoni nel buio cerco un appiglio. Con le dita incontro la morbidezza e il calore di una coperta. Continuando a tastare capisco di essere sul pavimento accanto...

...devo essere caduto dal letto.

Quel pensiero arriva come un fulmine a ciel sereno. Riesco a trovare almeno due motivi per riderci su, data l'assurdità della cosa.

  • 1, io non dormo, mai

  • 2, se anche dormissi, non cadrei di certo dal letto.

Eppure più le dita osservano, cercano, creano un mondo abbozzato e vago nella mia mente, più quell'assurdo pensiero viene confermato.

Non sai cosa ti è successo quando sei morto, prova a consolarmi la mia mente. E in effetti lo trovo stranamente confortante.

Non so cosa mi è successo quando sono morto, e benché io sia nato esclusivamente per il sacrificio, per morire di lì a poco e bruciare di un bellissimo fuoco, non avevo mai considerato cosa sarebbe successo dopo. Forse semplicemente non pensavo che sarei mai potuto morire.

Sephiroth doveva essere immortale, insieme con quella parte di lui che io rappresento.

Non sai cosa ti è successo quando sei morto, ribadisce la mia mente, obbligandomi a smettere di tormentarmi a riguardo per badare a cose più importanti. Come ad esempio mettermi in piedi, trovare una luce, capire dove mi trovo. E cercare i miei fratelli. Se sono vivo io, perché non anche loro?

La prospettiva di poterli riabbracciare, di poterli riavere al mio fianco, mi causa una scossa elettrica che mi fa venire la pelle d'oca, ed è una sensazione nuova: fin ad ora non avevo mai avuto ragione di rabbrividire. Mi ritrovo ad accarezzarmi il braccio con la punta delle dite per tastare quella nuova e ridicola reazione del mio corpo. È vera, è reale.

Concentrati Yazoo. Concentrati.

Torno a cercare con le mani, al buio, qualcosa che possa fungere da appiglio. Riesco a tirarmi su in ginocchio a fatica, le gambe sono pesanti, non mi reggono, non potrò andare molto lontano in queste condizioni.

Mi dico che è solo una condizione “post mortem”, d'altronde mi sono appena risvegliato da un oblio senza fine e senza fondo, scoprendo di avere nuovamente un corpo, respiro nei polmoni e un cuore nel petto, perché dovrebbe essere semplice?

In qualche modo riesco ad arrampicarmi sul letto, e cerco di ignorare il fiatone che mi costringe ad ingurgitare quantità spropositate di aria.

Definitivamente, questo non è il mio corpo. Non sento la familiare scarica di Mako che precedeva ogni mio normale movimento, rendendolo tutt'altro che normale. Non sento la mia forza.

Post mortem, ricorda che sei andato in mille pezzi, che di te non sono rimaste neanche le briciole. Datti tempo.

Quando il cuore diminuisce i battiti abbastanza da smettere di riempirmi le orecchie con quell'assurdo, martellante, doloroso tu tum tu tum – come di un treno che corre sui binari – torno a tastare tutto intorno con dita curiose.

Se c'è un letto, deve esserci anche un comodino. Se mi trovassi in una prigione perché darmi una coperta morbida e appendere un orologio alla parete? Immagino che siano tocchi di classe di cui un prigioniero non avrebbe bisogno.

Sento che il pensiero di essere in mano ai Turks, la paura di poterlo essere, lentamente mi abbandona. Sono sicuro che se loro fossero, in qualche modo, riusciti a farmi tornare in vita, dubito che mi avrebbero trattato tanto bene, tanto da darmi un letto, una coperta e un orologio. Dubito che mi avrebbero lasciato svegliare da solo, libero di muovermi – per quanto debolmente – senza prendere alcuna precauzione.

E allora dove sono?

Sotto le dita incontro quello che indubbiamente deve essere l'interruttore di una lampada.

Lo faccio scattare ancora prima di prepararmi per le eventuali conseguenze.

In ogni caso è molto...meglio di quanto mi aspettassi.

È una stanza da letto, semplice, pulita, essenziale, ideale per qualcuno come me. Mi sento immediatamente a mio agio e riconosco inconsciamente gli oggetti che ho intorno.

La scrivania con la pila ordinata di libri da una parte, le mensole colme di quaderni, manuali, libri di ogni forma e dimensione, il letto con la coperta di paille grigia a fantasia romboidale, persino la tinta panna delle pareti: tutto mi è familiare. E l'orologio che rompe il silenzio con il suo fastidioso ticchettare è accanto alla scrivania.

Peccato che nella mia vita io non sia mai stato in un posto del genere, e che, a livello cosciente, non riesca a riconoscere niente di mio in quel posto. Eppure il cuore smette di agitarsi, l'ansia e l'angoscia spariscono, qualcosa nella mia mente sussurra “sono a casa”.

Mi rifiuto di riconoscere quel posto come “casa”, e cerco, cerco, cerco nelle profondità del mio essere i ricordi di quell'uomo del quale non sono che una misera parte. Cerco un'immagine di quella stanza, di quegli oggetti, cerco di capire se il senso di tranquillità e familiarità provenga da lui o meno.

Ma non trovo nulla, nulla che non siano quelle immagini che conosco a memoria, quelle sensazioni e quei ricordi che nelle due settimane della mia lunga esistenza non ho fatto che guardare e riguardare, provare e riprovare, assaggiare e riassaggiare.

Questo posto non si trova in nessuno dei ricordi di Sephiroth, e neanche nei miei, eppure non riesco a sentirlo estraneo.

Cerco di spingere quel pensiero in un angolo della mente, adesso è necessario che valuti i danni sulla mia persona.

A parte l'essere orribilmente più magro di quanto ricordassi di essere, sembra che niente sia fuori posto.

Anche se non posso vedermi in viso, tastandolo ritrovo i lineamenti che conosco, e il familiare dondolio frusciante dei capelli argentei mi è di sollievo.

Mi tocco le spalle, muovo il collo facendo scrocchiare le vertebre, tasto ogni parte del petto, arrivo a contarmi persino le costole: è tutto qui, non manca niente.

A parte...

Lascio scivolare le mani sulle cosce e il cambiamento è repentino, immediato. Riuscirei a dire esattamente dove comincia la totale insensibilità anche ad occhi chiusi.

Tre dita sotto l'ombelico, non un millimetro di più.

Quel che mi preoccupa di più, però, è il fatto di non essere preoccupato. Per nulla. Anzi, una sottilissima vocina dentro di me mi rimprovera dicendomi: di cosa ti stupisci, lo sapevi che è così.

Come mi preoccupa l'assenza di battito cardiaco accelerato mentre continuo a toccarmi le gambe, pizzicarle, cercando una reazione. Nulla. Totalmente insensibili.

Provo a muovere un piede, fissandolo come se dovessi usare solo la forza della mente per farlo. Ma c'è qualcosa...qualcosa che manca. Manca il collegamento. Qualcuno ha tagliato i fili di comunicazione che dal cervello arrivavano alle gambe. Non c'è segnale, non c'è movimento, per quanto lo desideri tanto da farmi venire mal di testa.

Sono paralizzato dalla vita in giù.

Lo realizzo solo diversi istanti dopo quando, vagando con lo sguardo perso lungo i contorni di quella stanza semibuia, incontro una sedia a rotelle. Semplice, essenziale, leggera e maneggevole all'apparenza. Sembra qualcosa che potrei aver scelto io, scelto ed accettato.

Ma non è possibile.

So, però, che non potrò andare molto lontano senza usarla, per questo affronto l'avversione per la mia stessa debolezza e mi trascino giù dal letto per raggiungerla.

Cerco di non guardare il modo in cui, scompostamente, le gambe seguono il mio avanzare carponi, con la sola forza delle braccia. Cerco di non provare vergogna o disgusto per questo corpo.

Perché riesco solo a pensare a Kadaj e Loz.

Se questo è successo a me, cosa può essere successo a loro?

Se sono vivi come lo sono io, sono feriti, bloccati in un letto, spaventati?

Non riesco ad ignorare le nuove lacrime che mi scorrono dagli occhi. Sembra che io non riesca a smettere di piangere. E se l'iniziale sorpresa per essermi risvegliato vivo aveva anestetizzato tutte le mie sofferenze, adesso che è svanita il dolore è tornato più forte, unito ad un pungolo di orribile fastidio al centro dello stomaco. Mi rifiuto di pensare che sia paura. Io non provo paura.

Trovo essere stranamente facile l'accomodarmi sulla sedia a rotelle, il mio nuovo corpo si muove adesso con la stessa innata consapevolezza di quello vecchio. Come riuscivo a fare cose che non avevo mai fatto prima, così è adesso.

Sistemo le gambe inermi e molli e le braccia trovano subito la loro naturale posizione sulle ruote, spingendomi verso la porta della stanza.

Qualsiasi cosa ci sia oltre quella porta, sono assolutamente sicuro che non sia il mio mondo, non quello che ho lasciato quando sono morto almeno. Nonostante la paura soverchiante che mi stringe l'esofago, il cuore tace mentre spalanco la porta e, senza indugiare, spingo la sedia a rotelle oltre la soglia.

Non mi aspettavo tanta luce. Avverto la fisica reazione delle pupille che si restringono e per un attimo vedo solo scintille bianche invadere il mio campo visivo.

È una bella giornata di sole, lo intravedo dalle finestre del soggiorno. E la casa è silenziosa.

La stanza da cui sono uscito – che nego fortemente essere la mia stanza anche se il mio corpo mi avverte che è così – è la seconda che si affaccia in un largo corridoio. A sinistra una porta chiusa, a destra una semi aperta.

È solo con un rapido sforzo di pensiero che capisco che il corridoio, le porte, ogni spazio in quel posto è stato adattato per il passaggio agevole della sedia a rotella.

Una fitta di orrore mi stringe lo stomaco. Com'è possibile? Sono appena tornato in vita, come può essere tutto a mia misura?

Mi spingo a forza verso la porta socchiusa. Qualcosa mi suggerisce che quello è il bagno. Neanche mi stupisco quando la apro e sì, è davvero il bagno.

Dai servizi igienici, al lavandino, al mobiletto dei medicinali e persino allo specchio: tutto è stato rimodernato in modo che possa arrivarci stando seduto e questo, oltre che stringermi il petto in una morsa di angoscia, mi mette estremamente a disagio.

Trovo facile piazzare la sedia a rotelle davanti allo specchio, quel che non è facile è accettare quello che vedo.

Prima ancora di vedere il mio riflesso nello specchio, era il volto di Sephiroth quello che mi appariva davanti agli occhi: questo succedeva prima.

Adesso in quella lastra di vetro lucida quello che vedo non è Sephiroth, non ci assomiglia neanche lontanamente. Ma non è neanche Yazoo.

Dimostro l'età che avevo prima di morire, e lo stesso longilineo fisico da predatore sebbene indecorosamente smagrito, gli stessi lunghi, lisci, morbidi e sottili capelli argentei che svolazzano eleganti seguendo i movimenti della testa. Ma gli occhi. Non i sono i miei occhi.

Verdi come poche cose al mondo possono essere, mancano però del brillare soffuso e scoppiettante del Mako, quell'energia che prima sosteneva il mio corpo come un secondo sistema circolatorio. E le pupille. Se c'era qualcosa che metteva a disagio gli umani solo a guardarmi non era tanto il mio vestire esclusivamente di pelle nera, il fatto che fossi armato e infallibile e che la mia arma si chiamasse Velvet Nightmare, e neanche che fossi una delle tre Remnant di Sephiroth. No, a mettere davvero a disagio gli essere umani erano le pupille sottili, feline, dei miei occhi, quello sguardo tagliente e pericoloso anche quando non ero davvero intenzionato a renderlo tale.

Quel che vedo adesso sono pupille rotonde, dilatate abbastanza da farmi capire quanta paura devo provare, affondate in un mare di meraviglioso quanto comune verde.

I miei occhi sono umani.

Mi tocco il viso con mani che, a dispetto di come mi sento, non tremano e non indugiano.

Riconosco Yazoo, quello è Yazoo, so che lo è. Sono io, eppure è come se non lo fossi, come se avessi perso quella parte di me che mi rende...me.

Un rumore improvviso mi fa sobbalzare, ma sgrano ancor di più gli occhi alla vista nello specchio di quel ragazzo umano spaventato.

Una porta che sbatte, chiavi che vengono rumorosamente gettate in un contenitore – forse di vetro – scarpe col tacco basso che risuonano sul pavimento.

- Yûji sei sveglio? - mi sento tremare da capo a piedi, torna la pelle d'oca e constatarlo guardandomi allo specchio mi fa venire la nausea. Più forte di me è l'impulso, il bisogno fisiologico di cercare alla cintura la mia pistola. Ma non indosso una cintura e non ho nessuna pistola, figurarsi la mia. Sono solo un ragazzo in pigiama sulla sedia a rotelle. - Yûji? -

Stringo i pugni intorno alle ruote della sedia tanto che mi fanno male le dita. I passi si fanno più vicini. Come un animale in gabbia considero le mie alternative. L'unica via d'uscita è la porta principale, ma la donna – considerata la voce sì, si tratta di una donna – ci si sta dirigendo. In più sono bloccato sulla sedia, e non sono decisamente in grado di combattere. Se avessi il mio vecchio corpo anche disarmato non sarebbe un problema, un balzo elegante e potrei uscire dalla finestra che da su un giardino.

Sto ancora valutando l'idea di provare comunque ad arrampicarmi fuori dalla finestra quando la donna raggiunge il bagno e si ferma sulla soglia.

Se fossi meno impegnato a cercare una via di fuga, potrei guardare con attenzione la donna e arrivare alla conclusione che sì, in qualche modo, lontanamente, potrebbe rispondere alla mia idea di “madre”, o almeno a quell'idea di madre sentimentale e appiccicosa che Loz mi ha attaccato addosso quando eravamo ancora vivi.

Di fisico nervoso e sottile, tanto quanto il mio, alta e slanciata, la donna sembra essere forte e decisa, una combattente, una guerriera, sebbene non sia muscolosa né prestante. La sua è un'eleganza sottile che condivido. Condividevo. I capelli biondo chiaro sono argentei alla radice e qualcosa nel profondo mi suggerisce che si tratta di vecchiaia e non di una qualche appartenenza alla “famiglia Remnant”.

Con lo sguardo cerca il mio, e se prima era severo quando lo trova si scioglie. Non sorride però. Lo apprezzo.

- Eri qui? Perché non mi hai risposto? - se per questo non rispondo neanche adesso. Mi scopro ad avere la mano sinistra nervosamente appoggiata sul gamba, dove un tempo con la punta delle dita avrei potuto sfiorare il calcio di Velvet Nightmare. - Yûji. - mi sento sobbalzare a quel nome, o forse al tono che ha usato per pronunciarlo - Almeno ascoltami quando ti parlo. -

- Non ti ho sentito rientrare. -

La prima e più ovvia scusa che mi viene in mente.

Riconosco la mia voce, ma è comunque strano parlare. Ed è in qualche modo noioso e snervante come lo era stato in vita.

Quando la donna sospira e scuote la testa, portando le mani ai fianchi in una classica posa “come devo fare con te”, io mi perdo un attimo a studiarla. Studiare il suo viso, studiare il suo corpo, studiare i suoi movimenti inconsci. Perché mi sembra così familiare quando non l'ho mai vista prima?

- Non ti sei alzato proprio dal letto stamattina, eh. - riprende. Valuto quanta forza mi ci vorrebbe per scostarla e spingere la sedia a rotelle fuori di lì. La sensazione di essere in trappola aumenta ad ogni parola che dice. - C'è puzza di chiuso nella tua stanza, dovresti aprire le imposte, oggi è una così bella giornata. - la osservo mentre colma la distanza tra noi e cerca, cerca, di toccarmi. Mi viene spontaneo ritrarmi. Se fossi stato in piedi sulle mie gambe avrei fatto un salto indietro. O uno in avanti, addosso a lei, e poi oltre, verso l'uscita. - Scusa. - dice subito, tornando ad allontanarsi - Bhe, allora ti preparo qualcosa. Nel frattempo vedi di arieggiare la tua stanza. -

Prima di concedermi di tornare a respirare, prima di rilassare i pugni e abbassare la guardia, aspetto che i suoi passi si spengano in lontananza, in cucina, e di sentire il rumore di pentole e stoviglie che vengono maneggiate.

Solo in quel momento, quando tutto il mio corpo si abbandona contro lo schienale della sedia, realizzo che la donna mi ha chiamato Yûji.

Non riconosco il nome eppure, come lei, come quella casa, come quella vita, mi sembra familiare.

Yûji.

Yazoo.

Pronuncio piano entrambi i nomi, mormorandoli a me stesso.

Yûji.

Mi sembra più reale, più tangibile, qualcosa che posso riconoscere anche senza vederlo.

Yazoo.

È lontano, perso nel tempo e nei ricordi, chiari eppure frammentati, di una vita che non so più quanto tempo fa ho vissuto.

È questo che sono adesso? Sono Yûji?

No, sono Yazoo.

E devo capire come ci sono arrivato qui, come andarmene. E ritrovare i miei fratelli.

Spingo la sedia a rotelle nella “mia” stanza e mi rendo conto con una smorfia che la donna aveva ragione: c'è puzza di chiuso.

Come tutto in quella casa anche la “mia” stanza è stata modificata in modo da essere...accessibile alle mie esigenze.

Posso prendere i libri sulla mensola più alta della libreria solo allungando un po' il braccio.

Una volta tirate su le tapparelle e scostate le tende trovo che la finestra, come quella della bagno, da su un giardino, ma a differenza di quella è un accesso diretto. Spalancata un'anta neanche mi stupisco del fatto che posso spingere la sedia fuori.

Forse è il bisogno di guardare il cielo, di sentire l'aria del mondo esterno, o semplicemente quella spasmodica ricerca di libertà che mi fa spingere in avanti per uscire.

Hanno creato un piccolo sentiero di mattonelle nel bel mezzo del prato per consentire alla sedia di passare senza che le ruote si inceppino nell'erba e nel terriccio.

Questo Yûji è molto fortunato.

Prima di alzare gli occhi al cielo per la prima volta solo con il desiderio di guardarlo, mi rendo conto di riconoscere in piccola parte il mondo oltre il cancello che delimita la proprietà.

È un via vai tranquillo di un quartiere apparentemente agiato, con piccole villette a schiera qua e là che si disperdono alla vista.

So che lo stile di costruzione è quello di Midgar, della vecchia Midgar, ma è tutto troppo nuovo, troppo fresco, come se fosse stato messo su da poco tempo.

Non è la città che la mia mente ricorda, quella richiamata alla memoria da Sephiroth, e non è neanche la città che nella mia breve vita ho cercato di distruggere. È tutto cambiato.

C'è troppo spazio, troppa luce, troppa aria, troppa vita. Troppa felicità.

Sento dei bambini ridere poco distante da qui, forse due case più in là, e una fitta di dolore mi colpisce al cuore, come se mi avessero dato un pugno. Mi ritrovo a massaggiarmi il petto senza neanche accorgermene.

Kadaj. Loz.

Spingo la sedia indietro, verso “casa”. Per quanto io desideri scappare via, andarmene il più lontano possibile, non sono così stupido da cedere all'impulso.

È un mondo che non conosco quello là fuori, un mondo in cui non posso muovermi. Per quanto senta il bisogno di cercare i miei fratelli, non è adesso il momento. Prima devo saperne di più.

Qualcosa dentro di me urla e scalcia, quel qualcosa che è ancora Yazoo, grida, graffia, cerca di opporsi, cerca di correre via. Ma quel qualcosa è basso istinto primordiale, e non posso lasciarmi sopraffare.

Quando mi chiudo la finestra alle spalle sento come un crack dentro al petto.

Ignoro il dolore, ignoro la paura, ignoro l'improvvisa, impellente, devastante voglia di piangere che ho, ignoro tutto e spingo la sedia fino alla scrivania.

Mettere le mani in quell'ordine e scombinarlo mi fa sentire come un ladro, e la sensazione non migliora quando penso che in fondo quella è tutta roba mia.

Non so neanche cosa sto cercando, ma le mie mani sembrano saperlo, perché frugano a colpo sicuro dentro un cassetto per tirare fuori un portafogli. Sarebbe vuoto se non fosse per il documento di identità.

Yûji Kishi. Dovrebbe essere il nome completo.

Gli occhi corrono sulla data di nascita e il cuore per un attimo si ferma.

Faccio i calcoli.

Non può essere.

Riprovo.

Continua a non tornare.

Chiudo gli occhi e spero che niente di quello che troverò quando li riaprirò sia ancora lì. Spero di svegliarmi con accanto Loz, in mezzo tra noi Kadaj. Spero di essere tornato a quelle due brevissime settimane di vita.

Ma quando torno ad aprire gli occhi nulla è cambiato. Sono ancora sulla sedia a rotelle, sono ancora un essere umano, sono ancora bloccato in questo mondo.

Vent'anni. Sono passati vent'anni da quando Cloud ci ha uccisi. Sono passati vent'anni e non ricordo un singolo giorno di questa vita.

So solo che il mio nome è Yazoo, e sono nato oggi.

 

Nonostante senta lo stomaco supplicarmi, implorarmi di mangiare qualcosa, rimescolo il cibo nel piatto con la forchetta come fosse qualcosa di orribile.

Non voglio mangiare niente che sia stato cucinato da quella donna.

Ho scoperto che viviamo soli in questa casa, soli io e lei.

Mi rifiuto di pensare che sia mia madre. È la madre di Yûji, e questo basta e avanza.

- Non mangi? -

Non alzo lo sguardo dal piatto, dalla cosa che appare informe ai miei occhi e che punzecchio con la forchetta.

- Non ho fame. -

- Ma non hai mangiato niente neanche ieri sera. -

A quanto pare io e Yûji siamo entrambi di gusti difficili.

- Non ho fame. -

Ribadisco. Eppure non allontano il piatto, perché una vocina dentro la testa continua a sussurrarmi che dovrei mangiare per essere in forze. Per cercare i miei fratelli.

Ma l'orgoglio mi impedisce di prendere la prima forchettata, così continuo a scostare il cibo da una parte all'altra come se così potessi tramutarlo in qualcosa di migliore.

- Pensavo di andare in centro più tardi, vuoi venire con me? -

No.

Sì.

No.

Un respiro profondo. Alzo appena gli occhi su di lei. Ha l'espressione scoraggiata di chi prova a penetrare una barriera difensiva da anni, senza mai riuscirci. Mi scopro stranamente interessato a ciò che può averle fatto Yûji per ridurla così.

Ma è sbagliato provare emozioni per un'estranea.

Non rispondo, non prima di aver valutato attentamente i pro e i contro dell'“andare in centro più tardi”.

Pro:

  • potrei capire meglio dove mi trovo

  • analizzare le possibili via di fuga

  • cercare punti di riferimento

  • fare un primo giro di ricognizione per trovare Kadaj e Loz

Contro:

  • essere riconosciuto

  • fare possibili incontri indesiderati

Mi trovo mentalmente ad eliminare la seconda voce dalla lista. Sono passati vent'anni, chi dovrebbe ricordarsi delle tre Remnant di Sephiroth che hanno cercato di distruggere prima la città e poi il mondo?

I Turk?

Tseng, Elena, Rude, Reno.

Sono vecchi, sono passati vent'anni.

Quel pistolero con il mantello rosso?

Sarà vecchio anche lui ormai.

Gli “amici” di Cloud non ci hanno neanche visti in faccia, i nostri corpi si sono vaporizzati nel momento della nostra morte, e l'unico filmato che ci ritrae è in mano alla Shinra.

E Cloud, ovviamente. Ma lui è morto.

Per di più, ad una prima, disattenta occhiata, di Yazoo non ho le sembianze.

Chi potrebbe mai sospettare del ragazzo sulla sedia a rotelle?

- Sì. -

È quindi la mia risposta, giunta con non più di un secondo di ritardo.

Pensa velocemente, agisci velocemente.

La donna annuisce e abbozza un mezzo sorriso, poi torna a mangiare, con un po' più allegria di prima.

Yûji, mi devi un favore.

 

La città si chiama Edge.

Nell'aria si respira meno...insoddisfazione, meno sofferenza, meno povertà.

Ovunque guardi spicca il simbolo rosso della Shinra. Io ne sono l'esempio, ma è proprio vero che l'erba cattiva non muore mai.

La donna scarica dall'auto la sedia a rotelle si offre di aiutarmi per sedermici. La nausea mi stringe lo stomaco quando vedo le sue mani tese e subito la scaccio.

- Posso fare da solo. -

Quasi lo ringhio, ma sottovoce, tanto che non sono sicuro che mi abbia sentito. In ogni caso basta la mia occhiata gelida.

Mi trascino sulla sedia non senza sforzo, e maledico il mio orgoglio per avermi fatto rimanere digiuno: forse se avessi mangiato avrei un po' di forza in più.

Di nuovo, sento il bisogno di piangere. È una sensazione strisciante che si fa spazio tra le altre, ed è più forte e pressante di qualsiasi cosa.

Non piangere, Loz, mi sussurra in automatico la mia mente. Devo davvero strizzare gli occhi per trattenere le lacrime.

È solo un attimo, e per fortuna dura quanto basta per allontanarlo senza conseguenze. Ma una parte di me non lo dimenticherà.

Benché la madre di Yûji si offra di spingere la sedia per me, non le lascio neanche il tempo di allungare le mani che ho già fatto da solo. Non ho bisogno della sua pietà, né del suo aiuto. Tutto quello che voglio è solo ritrovare i miei fratelli.

Non riesco a smettere di pensarci, è un'ossessione che mi divora dall'interno, un tarlo che sta rosicchiando tutto quanto è rimasto dentro di me.

Kadaj. Loz.

Non riesco a immaginare di poter essere tornato in questo mondo da solo. Mi rifiuto anche solo di pensarlo. Perché se così dovesse essere so bene che cosa fare. Non ho intenzione di vivere questa vita senza di loro, e se anche tornare nel Lifestream non servirà a uccidermi davvero, questo non vuol dire che smetterò di provarci, ancora e ancora e ancora. Finché avrò la forza di farlo.

Non è la morte a spaventarmi, è vivere senza di loro.

E se, propone la mia mente, Se dovessero essere rinati molto prima di te e fossero degli uomini adulti? Se invece fossero solo dei bambini? Se dovessero ancora rinascere?

No, mi impedisco di scivolare in quei pensieri, mi impedisco di accettarli e di prenderli in considerazione.

In qualunque caso sarebbero ancora i miei fratelli.

C'è molto più di quello che si vede tra noi, condividiamo cellule, sangue, pensieri e azioni. Siamo nati insieme la prima volta, perché adesso dovrebbe essere diverso?

Solo perché Gaia vuole punirci? Andiamo, scommetto che nel Lifestream ci sono persone che potrebbero fare di meglio e che, soprattutto, non vedrebbero l'ora di farlo.

Come Cloud ad esempio.

Quindi no, farmi tormentare da questi pensieri è un inutile spreco di tempo. E di lacrime, perché ogni volta che anche una sola di quelle immagini mi sfiora la mente, il bisogno impellente di piangere scombussola il mio essere e obnubila i sensi.

Non riesco a farmene una ragione. Non ho mai provato prima tante e tali emozioni. Me ne sento schiacciato e per quanto tenti di affogarle nel profondo trovano sempre modo di tornare a galla.

Qualcuno strattona la mia sedia e mi sento improvvisamente tirato indietro, nell'istante subito successivo un camion passa sfrecciando nell'esatto punto dove mi trovavo.

- Yûji! Ma che combini! - è la donna che mi ha evitato di essere investito - Non l'hai visto arrivare? -

- No. -

Ed la pura, semplice, soverchiante verità. Non l'ho visto arrivare né l'ho sentito, i miei sensi non mi hanno avvertito del pericolo. Ho sfiorato la morte perché il mio corpo è troppo umano.

- Va tutto bene? Hai la testa tra le nuvole. -

- Sì, sto bene. -

Spingo le ruote in avanti e lei lascia la presa. Non voglio che legga la menzogna sul mio volto. Non voglio che mi guardi. Non voglio nulla da lei.

So che mi segue silenziosamente rimanendo indietro, anche se non ho più un udito sottile, sostenuto e amplificato dall'energia Mako, posso distinguere i suoi passi alle mie spalle. Ho memorizzato il rumore che fanno i suoi stivali mentre cammina.

Deve essere ora di punta perché le strade sono ingombre di mezzi e di persone. È difficile muoversi con la sedia a rotelle in mezzo a quel caos, ma meno di quanto mi aspettassi.

Gli occhi mi corrono da un lato e dall'altro, cercando punti di riferimento del mio passato, cercando forse una prova della mia esistenza. Sono stato a Midgar solo il tempo necessario per cercare di distruggerla. I vicoli, i palazzi, persino il manto stradale mi sembra diverso, scintillante di una nuova forza vitale. Riesco quasi a sentire l'energia di Gaia che pulsa in ogni essere vivente e non posso non chiedermi che cosa sia successo dopo la nostra morte.

In che modo tutto è rinato più fiorente che mai? È solo nel tempo la risposta?

Mi blocco all'improvviso quando mi ritrovo in una grande piazza. La riconosco, la riconosco anche se è profondamente diversa, tanto diversa da essere sbagliata.

Al centro si erge un monumento, uno di nuova fattura, perché l'ultimo siamo stati io e Loz a distruggerlo. È una statua che rappresenta il momento più nero della mia esistenza. Ed è umiliante prima ancora di essere doloroso.

Nonostante sia sbagliato, schiacciato sotto i piedi di Cloud – dritto, fiero, pateticamente orgoglioso – si trova un'abbozzata rappresentazione di Kadaj – il mio Kadaj – trafitto al petto da una spada.

Non riesco a vedere nient'altro perché la vista mi si appanna di lacrime. Né tanto meno riesco a distogliere lo sguardo dal viso spento e morente di mio fratello.

- Ah, l'hanno restaurata finalmente! - esclama allegra la donna che nel frattempo mi ha raggiunto e mi si è affiancata. Le sue parole mi raggiungono ovattate, perché nelle orecchie ho solo la voce di Kadaj. - Per almeno cinque anni è rimasta coperta, il che è un peccato, è una così bella statua. -

- Cosa rappresenta. -

Non sono io a chiederlo, perché io non sono in grado di parlare, ma è quella parte di me che è ancora analitica e fredda, quella che deve raccogliere più informazioni possibili su quel mondo, quella che è ancora totalmente Yazoo, totalmente inumana, totalmente Remnant.

- In effetti sei un po' giovane per saperlo. È successo poco prima che scoprissi di essere incinta di te. - con un sorriso. Sento il bisogno di vomitare. - Una terribile infezione aveva contagiato molte persone, la chiamavano Geostigma. All'epoca anche una delle mie sorelle ne era affetta, era solo una bambina. - le labbra si riducono ad una linea dritta e sottile, le stringo mentre un'ondata di bile mi risale l'esofago - E poi dal nulla sono arrivati questi tre terroristi. Non ho mai ben capito chi fossero e che cosa successe esattamente, ma per poco la città non rimase distrutta! Per fortuna ci ha pensato Cloud. - il solo sentire il suo nome fa inceppare qualcosa dentro di me tanto che per un attimo mi sembra di smettere di respirare, di pensare, di vivere - Li ha sconfitti in un terribile combattimento e ha ristabilito la pace, da quel momento in poi persino la malattia è stata debellata e gli infetti sono guariti. In onore di Cloud e di ciò che ha fatto hanno eretto questa statua, la città gliene sarà eternamente grata. -

- È morto. -

- Come? -

- È morto. - è un sollievo dirlo, è caldo, dolce, delizioso - È morto in quello scontro. -

- Quasi. -

Ma basta quella parola per frantumare quella sensazione, insieme con pezzi di me che sento crollare a terra come un costone di roccia dopo una frana.

- Non...è morto... -

Non è neanche una domanda, quindi non voglio una risposta. Non voglio saperlo.

- No. - zitta, non voglio saperlo ho detto! - Gli hanno sparato alle spalle. - sono stato io a farlo, l'ho visto cadere, l'ho visto esalare l'ultimo respiro prima di morire a mia volta - Ed è stato coinvolto in una brutta esplosione. - la spettacolare, ultima fiamma delle nostre esistenze. Loz ed io, brucianti come supernove. Deve essere morto. Deve. Deve. - Ma evidentemente Gaia aveva altri progetti per lui, non era giunta la sua ora. L'hanno trovato in fin di vita, ma non so dirti bene cos'è successo, nessuno lo sa con esattezza. In ogni caso, è ancora vivo ma si è ritirato a vita privata, è un eroe discreto. -

So io cos'è successo.

Lo realizzo con tanta tranquillità, in silenzio, nell'intimo della mia mente.

So io cos'è successo.

Gaia, avevi altri progetti per lui, non è così? Non l'hai voluto nel Lifestream perché doveva essere il tuo Eroe, doveva essere il tuo paladino. Ti ha aiutato la Ragazza dei Fiori, mh. L'hai risputato come un boccone amaro, e poi hai fatto lo stesso con me.

Mi hai portato qui in questo momento, in questo tempo, in questo luogo, in questo corpo, solo perché potessi assistere al mio fallimento? Solo perché potessi rendermi conto di quanto sono inerme davanti al tuo potere?

Solo per farmi vedere come la mia esistenza sia stata inutile e breve, ben meno intensa di una candela che si consuma nel buio?

Sento le lacrime scivolarmi lungo il viso, sono incapace di trattenerle. E fanno male, così male che se avessi fiato in petto urlerei. Ma non posso che rimanere così, attonito, consapevole di aver perso anche l'ultimo appiglio che mi era rimasto prima di sprofondare nella pazzia.

È proprio quando sento il mio cuore cadere a pezzi che lo vedo. È uno spiraglio di salvezza in mezzo all'oscurità che minaccia di soffocarmi.

Un flash argenteo, una figura familiare, dall'altro lato della piazza. Il mondo smette di girare, il tempo si ferma, tutto si concentra in quel misero, fugace attimo in cui i nostri sguardi si incrociano. È una scossa elettrica di immane voltaggio, un terremoto dell'anima che mi lascia boccheggiante.

Ma dura solo quanto basta perché io possa rendermene conto, poi il tempo torna a scorrere, il mondo riprende a girare, e riesco di nuovo a sentire le voci intorno a me ma non a comprenderne le parole.

Niente ha importanza adesso se non raggiungerlo, niente, niente. Per un attimo il desiderio di correre è così forte che tutto il corpo trema, salvo poi tornare cosciente del fatto che non posso farlo. E allora spingo e spingo, imprimo tanta forza alle ruote della sedia che mi si scorticano le palme delle mani.

È qui, è qui, così vicino.

Se socchiudo gli occhi riesco a sentire il battito del suo cuore, il suo respiro. Riesco a sentirlo vivere, riesco ancora a sentire il sottile filo invisibile che ci ha sempre tenuti legati. Non si è dissolto.

La donna alle mie spalle grida qualcosa, non capisco cosa, non mi interessa. Le rispondo anch'io qualcosa, di nuovo non capisco cosa, di nuovo non mi interessa.

Riesco solo a vedere quel flash argenteo, quella figura familiare, i miei occhi escludono tutto il resto.

Vieni qui, vieni da me.

Non so neanche se sia un mio pensiero o un suo, sento solo che ad ogni metro, ad ogni centimetro che diminuisce la distanza tra noi i nostri cuori tornano a battere all'unisono. Come l'elastico di una fionda teso troppo a lungo, la forza gravitazionale mi spinge verso di lui e prima che possa davvero rendermene conto...è tra le mie braccia.

Finalmente.

Kadaj.

Kadaj.

Tenshi.

Sento il suo profumo inebriarmi i sensi, sento il suo corpo schiacciato contro il mio, sento la sua anima che trema e si scuote, che danza incapace di trattenere la felicità.

Sento lacrime, le mie, le sue, che si mischiano e creano un tappeto di sale sui nostri visi.

Ed è tutto reale.

Gli prendo il viso tra le mani e assaporo il momento in cui i nostri sguardi, ora ritrovati, si cercano e si studiano.

È giovane, così giovane, così esile, così indifeso. I suoi occhi sono grandi occhi, pieni di qualcosa di orribilmente spaventoso che prima non avevo mai visto. Occhi umani, ma di uno splendido e lucido verde. Gli accarezzo le labbra con un pollice, gli zigomi, la forma del naso, cerco in quel piccolo viso i lineamenti che ricordo e amo.

È lui, è davvero lui.

Mi tocca il volto come ho fatto con lui con fare circospetto, come se dovesse tornare a farci l'abitudine, come se dovesse imparare di nuovo a farlo. Mi studia, e anche se vorrei socchiudere gli occhi per godere del contatto, ho paura di vederlo scomparire se solo batto le palpebre.

- Kadaj. -

Mormoro, quando le sue dita si ritrovano ad accarezzarmi le labbra.

Scuote la testa come a dirmi di non parlare, un piccolo, minuscolo sorriso a illuminarlo tutto.

Tra le stelle dell'Universo Kadaj è la più splendente.

Senza smettere di tenermi il volto tra le mani, indica con il mento la sedia a rotelle, le sopracciglia aggrottate a dargli un'espressione interrogativa quanto sofferente.

- A quanto pare non posso camminare, ma non è nulla. - mento sapendo di mentire, e sapendo che lui capirà perfettamente - E tu? Non dici niente? -

Allora abbassa la testa, sospira, e lascia il mio volto solo per portarsi una mano alla gola.

Batto piano le palpebre come per assimilare l'informazione.

- Non puoi...non puoi parlare? -

In ogni caso non ci sarebbe bisogno di una risposta, mi basta il suo sguardo, il modo in cui scuote la testa, il suo leggero tirare su col naso che lo fa sembrare più bambino di quanto non sia.

Il mio Tenshi ha perso la voce.

Gli prendo la mano che ha ancora alla gola e la stringo.

Non c'è nessun altro al mondo a cui rivolgerei un sorriso se non a Kadaj, ed è quello che faccio adesso. Un sorriso piccolo, cauto ma sincero.

- Non importa, adesso siamo di nuovo insieme. - lui annuisce ma ancora non riesce a sollevare gli occhi per guardarmi. Mi sembra quasi di non riconoscere in lui il leader carismatico che è stato nell'altra vita. È solo un ragazzino magro senza voce. Esattamente come io sono solo un ragazzo storpio sulla sedia a rotella. - Loz? - chiedo, con la gola stretta in un nodo. Scuote la testa negativamente e tira di nuovo su col naso. - Allora dobbiamo cercarlo, non credi? Sarà spaventato, starà piangendo. - trema un po' e sembra quasi che la sua sottile figura possa dissolversi in mille scintille verdi, esattamente come quando l'ho perso. Per questo stringo di più la sua mano. No, stavolta non lo lascerò andare.

Alza gli occhi solo dopo qualche istante, il ciuffo di capelli argentei gli ricade sul viso e per una volta sembra volerlo usare per nascondersi, quasi avesse paura.

“Seguimi” sillaba con le labbra. Per un attimo ho il terrore che di vederlo correre via, di non riuscire ad eseguire quel singolo ordine, ma lui prende a camminare piano davanti a me, dandomi agio di spingere la sedia a rotelle quel tanto che basta per rimanere solo ad un passo di distanza.

So che non si offrirà mai di spingerla per me, e tacitamente lo ringrazio, lo ringrazio perché non mi ha guardato con disprezzo. Adesso non sono più l'abile e veloce pistolero che gli copriva le spalle, eppure non mi rivolge altro che occhiate colme di un'emozione a cui non so dare un nome ma che mi scaldano il cuore e l'anima.

- Tenshi. - lui diminuisce appena l'andatura e siamo fianco a fianco. È strano dover alzare la testa per guardarlo negli occhi, ma da seduto è inevitabile, anche se lui è così piccolo...così piccolo. Sembra la miniatura di se stesso. Quanti anni deve avere? Non ne dimostra più di quattordici. - Mi...dispiace...non sono riuscito ad arrivare in tempo. -

Lo vedo sospirare e fare una smorfia, anche se cerca di nascondere quell'espressione dietro il ciuffo che gli copre il viso.

Si ferma e così anch'io. Per un lungo istante leggo nei suoi occhi la necessità di parlare e posso capirlo: è la stessa che io ho di camminare.

Schiude le labbra per poi richiuderle e scuotere la testa.

Mi biasima? È arrabbiato? Qualcosa tra noi si è rotto?

Non posso saperlo, perché continua a camminare all'improvviso, un po' più speditamente di prima, costringendomi ad investire ogni mio sforzo nel seguirlo e non nel pormi domande che rimarrebbero senza risposta.

 

L'insegna fuori dal bar dice “7th Heaven”. Non sembra essere il settimo cielo, ma l'umore di Kadaj si potrebbe definire così.

So quanto possono essere repentini e altalenanti i suoi cambi d'umore, ho imparato a prevederli come si fa con le tempeste, ma vederlo così...felice e a suo agio tutto d'un tratto mette a disagio me.

Entra quasi saltellando nel bar e la sua entrata è accompagnata dallo scampanellio di una campana appesa sopra lo stipite. Sembra essersi scordato di me abbastanza da sbattermi la porta in faccia, per fortuna arrivo in tempo perché non mi lasci un'impronta sul naso.

L'ambiente è caldo, confortevole, familiare. Nonostante sia affollato il chiacchiericcio sommesso dei presenti non è fastidioso, anzi, è quasi piacevole sentire tante voci allegre, risate e conversazioni futili.

Com'è stata la tua giornata?

Hai comprato un Chocobo?!

Sì a lavoro tutto apposto.

Prendiamo un'altra birra!

Brindiamo ai bei tempi!

Ai bei tempi!

Salute!

Mi sento escluso da tutta quella spensieratezza, soprattutto constatando che Kadaj ne fa parte.

Chiunque incontri mentre si avvicina al bancone lo saluta come se fosse di casa, qualcuno gli rivolge un sorriso, qualcun altro un cenno del capo, e lui timidamente ricambia, non sorride in risposta e sembra quasi voler sprofondare nell'imbarazzo, ma è grato di quelle attenzioni. Lui è sempre grato di qualsiasi attenzione.

Quando arriva al bancone si arrampica sullo sgabello e si infila due dita in bocca per fischiare. Non sapevo neanche che sapesse farlo.

- Arrivo! -

Immediata la risposta.

Affannata, una giovane donna sbuca da sotto il bancone, i capelli castani raccolti in una treccia con un grande fiocco rosso sono scombinati. Ma gli occhi gentili e il sorriso la fanno subito apparire bella e luminosa. Non avrà neanche trent'anni.

- Ah Shotaro! - esclama la donna. Più la guardo più mi sembra di averla già vista da qualche parte. Ma dove? Il suo viso, il suo viso mi dice qualcosa. Devo averlo visto in un'altra occasione, quando non era così rilassato e sorridente. - Sei tornato! Ti ho cercato dappertutto, possibile che bisogna sempre tenerti d'occhio? - amorevolmente “colpisce” Kadaj con lo strofinaccio che ha sulla spalla. Sento un ringhio nascermi in gola e sono già pronto a difendere mio fratello, quando lui scoppia a ridere. È una risata silenziosa, senza voce, che però lo illumina e accende di un delicato colorito le guance pallide. È con le mani che comunica qualcosa alla donna, gesti complicati uniti al lieve movimento delle labbra che lei osserva...e comprende. Sta parlando e io non riesco a capirlo. Mi indica subito dopo e la donna sgrana un po' gli occhi. - Sei sicuro? - Kadaj annuisce e continua con un'altra seria di gesti per poi indicarmi ancora - Va bene, vai sul retro mentre io lo chiamo. -

Lui annuisce e scende dallo sgabello. Mi si avvicina con un sorriso timido. Piega di lato la testa e mi porge la mano.

“Vieni?” mi dice, sillabandolo.

Il cuore mi batte forte in petto. Mi sento messo da parte, escluso da quel mondo in cui lui sembra essere più inserito di me. Ma non desidero altro che ubbidirgli. Neanche sapevo di volere così tanto poter tornare a rispondere ai suoi ordini, potergli dare tutto quello che desidera, essere per lui qualsiasi cosa desideri che io sia.

Lo seguo in silenzio mentre lui saltella contento verso la porta che da sul retro.

Non mi è sfuggito il nome che quella giovane donna ha usato per riferirsi a lui.

- Shotaro. - ripeto e, con mio sommo stupore, lo vedo voltarsi. Forse non si aspettava di sentirsi chiamato da me, con quel nome poi. Sento lo stomaco stringersi in una morsa. - È il tuo nome? È così che ti chiamano? -

Lui annuisce, le mani dietro la schiena, quel leggero ondeggiare del busto da una parte all'altra come di un bambino timido.

Per un attimo la mia mente stenta a riconoscere in lui Kadaj.

L'improbabile quanto folle forza d'animo, il carisma aggressivo e imprevedibile, l'agglomerato di rabbia, genio e pazzia : quello è mio fratello. E benché il cuore mi confermi, mi tranquillizzi, che il ragazzino che ho davanti è Kadaj, razionalmente non riesco a concepirlo.

Mi indica e, di nuovo, muove le mani in quel linguaggio silenzioso che non comprendo. Mi ritrovo a piegare la testa di lato come a chiedergli di ripetere e lui sospirando appena sillaba un “come ti chiami”.

Mi arrovello per trovare una risposta che non mi faccia soffrire, e un tono di voce che non sembri rotto dalle lacrime e dalla sofferenza.

Non capisco cosa mi prenda, ma il mio cuore è così...debole, esposto, mi sento in balia degli elementi, nell'occhio di un ciclone di distruzione.

- Yûji. -

Mormoro con una smorfia, senza riuscire a staccare gli occhi da lui.

“Yûji” ripete lui, sillabandolo attentamente con le labbra. Sembra pensarci per un attimo per poi rivolgermi un sorriso. “Mi piace.”

A me no, vorrei dirgli, lo odio, rivoglio il mio vecchio nome, rivoglio il mio vecchio corpo, rivoglio il mio vecchio me.

Ma non posso dire nulla, perché una presenza alle mie spalle mi fa raggelare il sangue nelle vene.

È qualcosa di atavico in me che lo riconosce, forse quella parte che non è ancora del tutto umana, forse un vago ricordo genetico del mostro che sono stato prima, ma all'improvviso il cuore mi batte forte contro il petto e sento l'adrenalina inondarmi come un fiume in piena. La mano corre alla gamba, alla fondina e alla pistola che non ci sono più. Rendermi conto che sono inerme e paralizzato mi fa soffiare come un gatto mentre mi volto.

È lì, davanti a me, orgoglioso e dritto esattamente come la statua che lo rappresenta.

Certo il tempo è passato anche per lui, ma non dimostra i quarantanni che deve ormai aver superato.

È ancora biondissimo, con quell'improbabile chioma spettinata. E i suoi occhi sono ancora blu come l'oceano. Con una fitta allo stomaco posso vedere e sentire il Mako che gli scorre dentro e che si mostra come frammenti di verde smeraldo dentro le iridi blu.

È un avvertimento quello che ha nello sguardo, un tacito memento. Se dovessi anche solo pensare di fare qualcosa, lui mi fermerebbe.

- Fratello. -

Dico solo, impregnando quella parola di odio e disprezzo, di veleno. Lo vedo rabbrividire appena e dissimulare il disagio che gli ho provocato con una scrollata di spalle.

- Non più. -

C'è un velo di soddisfazione nella sua voce, una voce da uomo maturo che ha solo un sfumatura di quella che ricordo.

- Finché avremo vita e respiro saremo fratelli, Cloud. -

Un secondo brivido, una seconda ondata di disagio, me ne accorgo con sensi che sono tutti miei, come se all'improvviso non fossi il patetico umano che sono, ma Yazoo, armato fino ai denti, pericoloso, elegante.

Poi sento la piccola mano di Kadaj che mi si poggia sulla spalla, il suo sguardo di dissenso che cerca il mio. Scuote la testa lentamente e capisco.

È una battaglia che abbiamo perso, vero Tenshi?

Ma anche se tu hai potuto accettare di essere qui, in presenza del tuo assassino, senza sentire il bisogno di vendicarti, io non ci riesco.

Non riesco a non desiderare di vedere il sangue di Cloud scorrere tra le mie dita, non riesco a non desiderare di ucciderlo non una, ma dieci, venti, cento volte, non riesco a non desiderare fargli quello che ha fatto a te.

Quei pensieri viaggiano tra me e lui, veloci e silenziosi.

Con un leggero cenno del capo mi dice che ha capito, che lo sa, che ha imparato a convivere con quelle sensazioni. Ma poi torna a scuotere la testa.

No. No Yazoo. No.

È un ordine.

Sospiro. Va bene. Ma non me lo farò piacere.

Torno a rivolgere lo sguardo a Cloud, mentre Kadaj continua a tenermi la mano sulla spalla a mo' di ammonimento. Mi piace pensare che lui mi ritenga ancora pericoloso, quando è evidente che non lo sono. Non in queste condizioni.

- Mi devi delle spiegazioni. -

Mormoro, quel tono di voce chioccolante come fusa di un gatto.

Vedere Cloud rabbrividire per la terza volta è un sollievo e una soddisfazione insieme.

Qualsiasi stregoneria gli abbia permesso di sopravvivere, sono pronto a scommettere tutto, non può aver cancellato le cicatrici. Se non nel corpo, quantomeno nell'anima.

- Immagino di sì. - risponde, cupo. Non avevo notato che fino a quel momento la giovane donna che stava dietro al bancone è rimasta al fianco di Cloud, tanto ero concentrato su di lui. Messa in quella posizione, quasi stretta al suo braccio come una bambina, ricordo dove l'ho vista. È l'ostaggio che Loz ha portato con sé insieme con la cassa di Materie, la bambina con la treccia che si era schiacciata contro nostro fratello per avere da lui una qualche protezione. Bhe, si è fatta grande. - Quanti anni hai? -

Batto le palpebre, velocemente, quasi non capendo la domanda, ma poi realizzo. Deve riferirsi al mio corpo umano.

- Venti. -

- Da quanto sei tornato cosciente? -

- Solo oggi. - poi alzo lo sguardo verso Kadaj - Perché? -

Ma non so bene neanch'io a chi è rivolta quella domanda. A lui o a mio fratello?

- Shotaro ha sempre vissuto con noi. - sento un ringhio nascere sul fondo della gola. Kadaj mi stringe la spalla. Di nuovo. No Yazoo. - L'abbiamo trovato in un vicolo quando era solo un neonato, e l'abbiamo cresciuto come fosse un membro della nostra famiglia. Ma abbiamo realizzato che si trattasse...di Kadaj solo quattro anni fa, quando lui stesso è tornato consapevole. -

Cerco conferma negli occhi di Kadaj.

È vero quello che dice, Tenshi?

Sei in questo mondo da così tanto tempo senza di noi?

Quanto hai sofferto sapendo di essere solo? Quanto hai cercato di combattere, scappare, ribellarti?

Quanto hai aspettato che venissimo a prenderti?

Il petto mi si stringe in una morsa. Respingere il bisogno di piangere è fisicamente doloroso.

Ecco perché riesci a sopportare di stare in presenza del tuo assassino. Ti ha cresciuto.

- Perché non può parlare? -

Riesco a chiedere dopo aver inghiottito quello che mi sembra essere un ammasso intricato di rancore, rabbia, lacrime e dolore.

- Tu perché non puoi camminare? -

Che è come dire che non lo sa.

- È sempre stato così? -

- Sì, che io sappia. - e perché sembra così diverso? Così timido, remissivo, ingenuo? Perché sembra aver perso...quello che faceva di lui Kadaj, come io ho perso quello che faceva di me Yazoo? - Capisco che per te possa essere difficile. - non immagini quanto, fratello, soprattutto non sai come resistere alla tentazione di ucciderti mi scuota nel profondo - Ma in qualche modo siete tornati in vita, solo non con...i vostri corpi. Avete come assorbito l'esistenza di qualcun altro. -

Oh, ha senso. Considerato che dei nostri corpi non è rimasto niente, e che in fondo non erano neanche nostri.

Mi sfugge un mezzo sorriso. Biasimo me stesso o biasimo lui?

- Gaia non ci ha voluti nel Lifestream. -

- Gaia vi sta dando un'altra opportunità. -

- Ah sì? Davvero? Quanta generosità. - vorrei che fosse un tono sprezzante e acido, ma scopro che la voce mi trema più del voluto - Impareremo una bella lezione da tutto questo, non è vero Kadaj? - lui non reagisce, ma non mi importa - Mai, mai, mai cercare di distruggere il mondo o ti reincarnerai in un patetico essere umano paralizzato sulla sedia a rotelle, o muto. -

- Non mi sembra il caso di fare questa scenata. -

- Da quand'è che può “sembrarti il caso” di fare qualcosa piuttosto che un'altra, Cloud Strife? Sappiamo benissimo che sono tutte stronzate, lo sappiamo entrambi. Se Gaia ci avesse dato un'altra opportunità ci avrebbe solo rimesso al mondo come ha fatto con te. O avrebbe resuscitato il tuo amichetto e la ragazza dei fiori. - sobbalza, ne sono lieto - Non ci avrebbe permesso di rubare l'esistenza di qualcun altro. E a che scopo renderci consapevoli? -

Questa non è una seconda possibilità, questa è una punizione.

Mi mordo le labbra, evito di dirlo. Fa troppo male ammetterlo ad alta voce.

Ma è così evidente.

Altrimenti non avrebbe tolto a Kadaj quello che di più importante aveva: il suo carisma, la sua voce, la sua forte personalità. E non avrebbe paralizzato me in questo marasma di emozioni e lacrime che in vita avevo sempre disdegnato.

- Pensala come vuoi. - Cloud scrolla le spalle - Che tu sia vivo o meno per me non fa alcuna differenza, finché non attenti alla sicurezza della città. Non ti negherò di certo di venire a trovare Shotaro quando ne avrai voglia... -

Mi viene spontaneo ridere, interrompendolo.

- IO? Venire a trovare Kadaj? Noi ce ne andiamo insieme, adesso. Dobbiamo trovare Loz. -

Il Cielo solo sa che punizione può essergli toccata.

Oh Loz.

Cerco lo sguardo di mio fratello, cerco l'assenso nei suoi occhi, ma quello che trovo è...un misto di dispiacere e indecisione.

Si allontana quel tanto che basta per dire qualcosa nel suo strano linguaggio dei segni, qualcosa che fa sorridere Cloud e che mi manda nel panico più totale.

- Cosa? - sibilo - Che cosa ha detto? -

- Ha detto che non vuole andare via. - ripete, calmo, Cloud, mentre un tizzone ardente di dolore si accende nel mio stomaco - Che da quando è tornato in sé il suo obbiettivo è trovarvi, ma non vuole andare via. -

- Che vuol dire? Tenshi? Che vuol dire? -

Cerco la sua mano da stringere prima che il panico mi soffochi. Ma le sue mani sono la sua voce adesso, quindi sfugge alla mia presa e riprende a gesticolare. Mi guarda come se potessi capirlo, ma poi sono costretto a rivolgermi a Cloud per avere la traduzione.

- Ti aiuterà a trovare Loz, perché è quello che desidera da tanto tempo, ma ribadisce che non ha intenzione di andarsene. -

È in questo istante che realizzo che Kadaj è parte di questo nuovo mondo semplicemente perché ha avuto più tempo per viverci, per accettarlo, per abituarsi all'idea di essere umano.

E che considera la sua famiglia l'uomo che l'ha ucciso e non me che sono suo fratello.

 

In silenzio spingo la sedia a rotelle lungo la strada. Seguo Kadaj e Marlene – il nome della bambina che il tempo ha reso donna – rimanendo indietro quanto basta perché non mi sentano singhiozzare.

Non mi è mai sembrato tutto tanto inutile, non mi è mai sembrato di vivere in incubo come adesso.

Ho trovato uno dei frammenti della mia anima solo per scoprire che non coincide più, che la sua forma è cambiata.

Come è cambiata la mia.

Lasciarmi andare alle lacrime mi umilia, ad ogni singhiozzo avverto una coltellata allo sterno. È come se non fossi abituato a piangere. E non è così forse?

I miei occhi non avevano mai versato una lacrima, fino ad ora.

Kadaj parla, parla tanto, parla a gesti in quel linguaggio tutto suo che condivide con lei.

Dei loro discorsi colgo solo la metà del senso, la metà delle parole, quelle che Marlene usa per rispondergli.

È solo pensando a Loz che riesco a non farmi sopraffare dalla rabbia e dalla frustrazione. È solo per lui che scaccio le lacrime.

Gli occhi sono gonfi, la testa mi scoppia. Odio piangere. Credo che non riuscirò mai più a prendere in giro Loz per questo.

Kadaj indietreggia quanto basta per affiancarmi di nuovo.

Per un momento siamo occhi negli occhi e l'umiliazione di farmi trovare in quelle condizioni è tale che sento il bisogno di chiedergli scusa. Ma lui mi precede, forse leggendomi nel pensiero, scuotendo la testa in segno negativo.

“Non devi scusarti” leggo le parole dalle sue labbra e subito dopo mi regala un sorriso.

Fischia, infilandosi le dita in bocca come aveva fatto al bar, per avere l'attenzione di Marlene che forse, non volendo essere di disturbo, ha scelto di continuare a camminare davanti a noi.

Kadaj le rivolge qualche parole nella sua lingua dei gesti e lei sorride.

Ha gli stessi occhi di quand'era bambina, ha la stessa paura.

- Certo Shotaro, non c'è problema. -

- Per cosa? -

Non sono arrabbiato con Kadaj. Può solo esprimersi in quella lingua, biasimo me stesso per non conoscerla. Sono arrabbiato con lei che sembra scegliere le parole giuste per rispondere affinché possa capire il meno possibile.

- Mi ha chiesto se posso tradurre per lui, non riesce a esprimersi veloce come vorrebbe se deve mettersi a sillabare ogni parola. -

Mi guarda con un sorriso e vorrei ringhiarle contro, ma sono troppo concentrato a trattenere la rabbia e la frustrazione.

Tu l'hai lasciato andare” è il pensiero che mi attraversa la mente “e adesso non è più tuo.”

Kadaj gesticola, ma ha gli occhi fermi su di me. È con me che sta parlando. Me che vuole.

- Dice che gli dispiace che tu debba affrontare tutto questo all'improvviso, e che sa benissimo come ti senti. Svegliarsi nel corpo di uno sconosciuto e per di più con delle limitazioni non è semplice. -

Il mio piccolo Tenshi annuisce.

- Ho avuto momenti migliori. -

Riesco solo a rispondere, guardando altrove.

Vorrei solo rannicchiarmi in un angolo e piangere. Tutto questo è assurdo.

- Dove pensi che possa essere Loz? -

Mi ritrovo a sospirare e tremare insieme.

Prima di pensare a dove potrebbe essere dovremmo pensare a cosa possa essergli successo. Abbiamo tutti perso qualcosa, quel qualcosa che ci rendeva noi stessi. Deve essere lo stesso per Loz.

- Non sappiamo neanche se sia tornato o meno in sé. -

Ci ritroviamo di nuovo nella piazza con la statua. Impedisco allo stomaco di rivoltarsi, anche se il bisogno che sento di vomitare quasi mi fa impazzire. Lancio uno sguardo a Kadaj. Ha gli occhi incollati sulla figura di Cloud, perché so che più giù non riesce a guardare. Non ci riesco neanche io.

- Sono venuto qui tutti i giorni da quando sono tonato cosciente. - continua Marlene, che adesso parla in prima persona, forse per rendere fluida la traduzione dei gesti di Kadaj - Qui avete combattuto insieme per l'ultima volta tu e Loz, pensavo che se ci fosse stato un posto su tutta Gaia in cui avrei potuto trovarvi sarebbe stato questo. - rumori di catene, urla e spari mi riecheggiano per un attimo nella mente. Riesco a vedere, come sovrapposta alla nuova statua, quella vecchia che io e Loz abbiamo cercato di distruggere. Speravamo che la Madre si trovasse qui, per questo era tanto importante per noi questo posto. - Il cratere dove siamo “nati” oggi non esiste più, ci sono stato. -

Tenshi alza gli occhi su Marlene e so che è stata lei ad accompagnarcelo. Quanto schifosamente buoni ed eroici devono essere per aver accolto il piccolo mostro che è Kadaj in casa loro e crescerlo come un figlio, un fratello, un membro della famiglia. Quanto onore gli fa.

Vorrei potergli chiedere che cosa è successo quando si è risvegliato, che cosa ha provato, quali sono stati i suoi primi pensieri, se anche lui ha sentito il dolore, se ha visto e rivisto come in un enorme ed infinito loop l'attimo subito precedente alla sua morte. Se ha desiderato uccidere Cloud quando l'ha riconosciuto nell'uomo che gli ha dato una casa.

Vorrei potergli chiedere queste ed altre cose, ma la presenza di Marlene me lo impedisce.

Non voglio che lui risponda usando lei come filtro, non voglio che mi apra il suo cuore attraverso di lei.

Vorrei poter riavere l'intimità di pensiero che c'era prima tra noi, quella sottile linea di comunicazione che ci permetteva di sapere dove fossimo senza guardare, che faceva scorrere le nostre menti su un piano di logica che era solo nostro. Sento quella connessione, sento di essere irrimediabilmente, innegabilmente legato a lui per tutta l'eternità. Eppure è muto, il ricevitore funziona, ma non il trasmettitore.

È quasi con folle speranza che penso a Loz come ad un ponte tra di noi, un collante che possa rimetterci insieme per essere quello che eravamo.

L'ultimo pezzo per essere davvero vivi.

Immagino il momento di riaverlo tra le braccia come qualcosa di magico, immagino di sentire che la sua sola presenza possa farci tornare completi, che ridia la voce a Kadaj e le gambe a me.

Ma è solo un'immaginazione, e come tale è anche una perdita di tempo.

Rimaniamo in piazza per quella che sembra un'eternità, aspettando qualcosa che non arriva, qualcuno che non arriva.

Loz, dove sei? Dove ti nascondi?

Percorro con lo sguardo i volti delle persone che passano. Bambini, adulti, anziani, persino le donne: non mi importa che forma abbia, mi importa solo che torni da noi.

Così la giornata passa lenta, il cielo si fa scuro, e prima di rendermene conto stiamo tornando al 7th Heaven.

- Non hai qualcuno da avvertire? -

Mi chiede Marlene, e allora inarco le sopracciglia. Ah, già. La madre di Yûji.

Scuoto la testa. Anche se fosse un “sì” non saprei comunque come contattarla.

L'insegna del bar si fa più luminosa, ed io mi sento stringere il cuore.

Loz è ancora là fuori da qualche parte, e noi non possiamo fare più niente.

Marlene entra dentro prima di noi ed io sono già pronto a spingere la sedia per oltrepassare la soglia, quando Kadaj mi tira indietro.

Sorpreso mi volto a guardarlo. Serio, deciso, anche se umano per un attimo scorgo in lui il leader di sempre. Deve essere gioia quella che, d'un tratto, mi inonda la lingua di dolcezza.

“C'è ancora un posto” sillaba “che possiamo controllare.”

- Allora che aspettiamo? -

Niente, non aspettiamo niente.

È lui a spingere la sedia per me, stavolta.

 

Anche se non fossero passati vent'anni stenterei comunque a riconoscere quel luogo per il semplice fatto di non esserci mai stato di persona.

So cos'è grazie ai ricordi condivisi con Kadaj.

È una piccola chiesa in stile classico, probabilmente sconsacrata, ristrutturata, sembra, da poco.

Per qualche ragione una fitta mi stringe il petto e so che lo stesso deve essere per Kadaj, perché tentenna un po'.

I grandi battenti di legno che costituiscono la porta d'ingresso sono socchiusi.

Abbiamo entrambi paura di cosa potremmo trovare all'interno.

Leggo da qualche parte, con la coda degli occhi, il nome “Aerith”, e qualcosa dentro di me si contorce e si agita.

“Pensi che sia lì dentro?” vorrei chiedere a Kadaj.

“Sì” vorrei che mi rispondesse.

Ma taccio, tenendo i pensieri dov'è giusto che stiano, spingendoli più a fondo che posso.

La sento echeggiare nel silenzio.

Tre note veloci, tre lente, una più lunga e subito due veloci.

Tre note veloci, tre lente, una più lunga e subito due veloci.

È bitonale. Monotona. Fastidiosa.

Tre note veloci, tre lente, una più lunga e subito due veloci.

Tre note veloci, tre lente, una più lunga e subito due veloci.

La suoneria di un cellulare.

Non ho neanche bisogno di guardare Kadaj.

Se potessi correre non correrei, volerei su gambe veloci irrompendo nella chiesa con tanta foga da ribaltare le panche.

Il cuore mi pulsa nelle tempie, mi sembra quasi che mi stia per esplodere la testa.

Dolore è sollievo si mischiano insieme quando lo sguardo incontra quella figura, in piedi, di spalle, di fronte ad una placida pozza d'acqua contornata da fiori gialli che pigramente accolgono gli ultimi raggi di un sole morente. Attraverso le vetrate colorate, la luce assume mille sfumature sul pavimento. Come anche sulla lama della spada conficcata per metà in fondo alla navata come un altare alla patria.

È di nuovo come se il mondo si fermasse, di nuovo come se niente e nessuno importassero quanto lui, quanto il lento movimento della testa mentre si gira, quanto i suoi occhi verdi che mi mettono a fuoco, non stupiti ma quasi compiaciuti.

Siamo lì dove dovevamo essere sin dall'inizio.

E non importa, non importa davvero quanto siamo cambiati, quanto diversi siano i nostri corpi, quanto possiamo essere schiacciati dal nostro essere umani. Non importa finché siamo di nuovo insieme.

Non riesco a muovermi, forse perché le braccia mi fanno tanto male dopo aver spinto la sedia per tutto il giorno, ma neanche Kadaj arrischia a muovere un passo. Riesco quasi a sentire le gambe molli, le sue. So che cadrebbe se provasse a camminare adesso.

È lui che ci viene incontro a piccoli passi.

Ma non è la sua massiccia figura quella che ci viene incontro. È quella di un ragazzo troppo alto e magro, cresciuto in fretta. I capelli argentei sono tirati indietro come sempre, scoprono un viso dai lineamenti più infantili e docili del normale. Non è ancora un uomo, ma non è neanche un bambino.

I suoi occhi verdi ci scrutano con attenzione, posso sentirli frugare dentro di me alla ricerca di un segno, qualcosa che gli dica che i sensi non lo stanno ingannando.

Mi mordo le labbra per non ricominciare a singhiozzare. Non davanti a lui.

Sta bene.

Il mio universo si rilassa e si dilata, si distende.

Sta bene.

Cosa importa se non sia l'imbecille ammasso di muscoli a cui sono abituato? Sarà solo più facile batterlo a braccio di ferro d'ora in poi.

Non ho mai vinto prima.

- Yazoo? - sentirlo pronunciare il mio nome è come sentirmi afferrare e scuotere dall'interno. Le dita fremono, la pelle si accappona. - Kadaj? - sento la stessa elettricità che passa nel corpo di Kadaj attraversare anche il mio con la stesse, devastante intensità - Sapevo che sareste venuti. -

Non aspettavamo altro che quel momento, il momento in cui le nostre mani potessero posarsi sul suo corpo, sul suo volto.

Ho gli occhi annebbiati e devo essere grato al mio autocontrollo per non ridurmi ad un umiliante ammasso di singhiozzi mentre le dita stringono le sue, mentre gli accarezzo il volto, mentre imprimo di nuovo in me la coscienza del suo corpo.

Anche quest'ultima parte di anima è tornata da me.

Ma è fredda.

Mentre il mio cuore sta impazzendo, correndo a rotta di collo e rimbalzando su e giù nel petto, il suo è lento, batte un ritmo tranquillo, non disturbato dalle stesse emozioni che potrebbero uccidere me.

- Loz? -

Chiamo, preoccupato, una mano che si poggia al centro del suo petto per accettarsi che davvero sotto pelle, muscoli, tessuti e ossa ci sia e batta un cuore.

- Kenji. - risponde lui, e in qualche modo lo so. Il mio dolce, patetico, grande, ingombrante fratello frignone non è più qui. - Sono molti anni che vi aspetto. -

Forse è la sua voce, fredda, statica, calcolatrice, che mi costringe a tirarmi indietro nel tentativo di inghiottire le lacrime.

So cosa mi ricorda quel modo di parlare, quella cadenza, persino l'atteggiamento del corpo.

Indica la chiesa con una mano, alza gli occhi allontanandoli dai nostri e per un attimo mi sembra di perderlo di nuovo.

Loz, Loz dove sei? È come se si fosse occultato alla vista, per poi tornare totalmente cambiato.

- Credo che non avrò pace finché non avrò chiuso con questa storia. È per questo che negli ultimi dieci anni sono venuto qui, aspettando questo momento. Sapevo che alla fine sareste arrivati. -

- Gli ultimi...dieci anni... -

Sento la lingua attaccarsi al palato ad ogni parola. Mi rifiuto, mi rifiuto. Non è possibile.

Però lui annuisce, tranquillo, sterile, non una traccia di emozione sul viso.

- Sono sempre stato consapevole della mia vera natura. So chi sono sin dal giorno in cui sono nato. - ed è sbagliato il tono di voce, il modo in cui scrolla le spalle come se il pensiero non lo sfiorasse nemmeno, come se tutto gli fosse estraneo - Dovevo liberarmi di voi per andare avanti con la mia vita. -

- Loz, cosa stai dicendo. -

È improvvisamente rabbia, nera, oscura e profonda, che mi prende il petto e mi costringe ad artigliarmi alla sedia. Vorrei prenderlo a schiaffi, vorrei fargli sentire lo stesso dolore che mi sta facendo patire. Ci sta facendo patire. Leggo terrore negli occhi di Kadaj, stretto nelle spalle come il bambino che è.

- Sto dicendo - continua, leggero, eppure ancora come se fosse lontano da noi anni luce. È lì, ma neanche possiamo sfiorarlo. - che siamo tornati su questo pianeta per un motivo. Ma non lo stesso motivo. -

- Smettila di dire stronzate. -

Quasi urlo. Sento Kadaj sobbalzare al mio fianco. Sento il cuore che sta per scoppiare. Sento che potrei strapparmelo dal petto per farglielo vedere. Forse solo così capirebbe il mio dolore.

- È una prova, Yazoo, non l'hai ancora capito? - il fiato mi si mozza in gola, non tanto perché, di nuovo, sentirgli pronunciare il mio nome è una coltellata al petto, ma quanto perché il tono che ha usato è...condiscendente, come se stesse parlando ad un bambino. Come io ero solito fare con lui. - Per questo abbiamo corpi diversi, e menti diverse. Per questo ognuno di noi ha perso qualcosa. Solo che scommetto che non hai capito davvero cosa. - i miei occhi scivolano, abbandonando i suoi, per poggiarsi brevemente sulle gambe paralizzate e la sedia a rotelle. Lo vedo scuotere la testa, non desolato, non dispiaciuto. - Noi, Yazoo. Abbiamo perso noi stessi. E con noi abbiamo perso tutto quanto condividevamo. -

- Non è vero...i ricordi... -

- Quali ricordi, mh? Quelli di una vita durata non più di due settimane? Quelli di Sephiroth? Io non ho altri ricordi che i miei e... -

Il cigolio della porta della chiesa ci fa sobbalzare, tutti e tre.

- Kenji. - è una bimba, non avrà più di cinque o sei anni, un pulcino appena uscito dall'uovo - La mamma è arrabbiata, dice che non le hai risposto al telefono. -

- Lo so tesoro, ero occupato. - è orribile sentire come la sua voce cambia, come si riempie di affetto. Gli occhi della bambina sono di un verde speciale. Indugiano su di noi prima di tornare in quelli di lui. - Tra cinque minuti esco e torniamo a casa, okay? Richiama la mamma e dille che stiamo per tornare. -

- Va bene... -

Un altro timido sguardo e sparisce così com'è venuta.

- Chi è? -

La voce mi trema, non riesco a scollare lo sguardo dal punto in cui è apparsa e poi scomparsa la bambina.

- Mia sorella. - il cuore smette di battermi. Il respiro si gela nei polmoni. - Questa è un nuova vita, e io non intenzione di sprecarla, e non dovreste neanche voi. - lacrime mi scendono lungo le guance, non ho neanche la forza di nasconderle. Lui mi guarda, un piccolo, lieve quanto secco sorriso si apre sulle sue labbra. - Non piangere, Yazoo. -

Il dolore diventa tanto intenso che mi sento morire una seconda volta, una terza, una quarta.

Ad ogni passo che Loz fa, allontanandosi da noi, mi sento venire meno.

Di nuovo vado in fiamme, di nuovo vado in pezzi, del mio cuore e del mio corpo non rimane nulla.

In quel bruciante dolore non riesco neanche a chiamarlo.

Fermati Loz. Ti voglio. Ho bisogno di te. Non importa quanto sei cambiato, quanto sei diverso.

Non voglio che questa vita ci separi.

Non voglio.

Cerco Kadaj, i suoi occhi. Lo cerco perché mi dica cosa fare, ma il suo sguardo spaurito e infantile è lontano.

Si è allontanato da me ancora prima che me ne rendessi conto. Le mani che si agitano nel tentativo di dirmi qualcosa.

- Non ti capisco. Tenshi, non ti capisco. -

Singhiozzo, ogni parola esce tra le lacrime, non riesco più a respirare.

Non si volta indietro quando se ne va.

No, Kadaj! Non lasciarmi anche tu, non lasciarmi!

Mi alzo. Per un attimo mi reggo in piedi. E lo vedo, vedo quello che potrebbe succedere se le gambe assecondassero il mio passo.

Raggiungerei Kadaj, lo stringerei al mio petto, non gli permetterei di lasciarmi. E poi Loz, prenderei anche lui, li terrei stretti a me così tanto da poterci fondere, da tornare ad essere un'unica entità.

Gli direi che possiamo vivere insieme anche così, in questo mondo nuovo. Gli farei capire quanto li amo. Quanto ho bisogno di loro.

Ma le gambe non mi reggono più di qualche secondo, e nell'istante in cui cado a terra, in avanti, attutendo appena l'impatto con le mani, tutto quello che sono fa in frantumi.

Mi aggrappo disperatamente ai miei ricordi, a quelle cose poche di me che conosco, che posso dire con certezza di essere mie e mie soltanto.

Yazoo, mi chiamo Yazoo, i miei fratelli, Kadaj, Loz, sono tutto il mio universo.

Senza di loro, io non esisto.

 

Mi risveglio perché sento un braccio formicolare. E perché qualcuno mi scuote per una spalla.

Per la trova luce devo battere piano gli occhi e abituarmi a tutto quello che ho intorno abbastanza da mettere a fuoco l'interno della chiesa, le panche, i fiori, la pozza d'acqua e la spada.

- Tutto bene giovanotto? Hai bisogno di aiuto? -

La persona che mi stava scuotendo ha tutta l'aria di essere il custode della chiesa, o almeno lo deduco dal mazzo di chiavi appeso alla cintura.

- No. Faccio da solo. -

Per quanto sia difficile rimettersi seduto sulla sedia a rotelle con anche le braccia parzialmente insensibili. Devo essermici addormentato sopra ad un certo punto.

- Come ti chiami ragazzo? -

Un affilato spillone di dolore mi si conficca per un attimo nel cervello, tanto doloroso da farmi salire le lacrime agli occhi.

Ma è solo un attimo, un momento di intontimento passeggero.

- Yûji, Yûji Kishi. -

Rispondo quindi, massaggiandomi una tempia. Il dolore è passato, ma ne rimane un'ombra, come un'eco sbiadita.

Sembra che qualcuno stia urlando.

- Bene, Yûji. C'è qualcuno che vuoi chiamare per venirti a prendere? È tardi, devo chiudere la chiesa, capisci. Non puoi rimanere qui. -

- Sì, sì, ha ragione. - mi stropiccio un occhio cercando di scacciare insieme alla confusione anche la sensazione che qualcuno mi stia gridando nelle orecchie. O nel fondo della mio anima. - Potrei chiamare mia madre, per favore? Sarà preoccupata. -

- Ma certo giovanotto, ma certo. -

Mi porge il cellulare.

5-2-3-2-5 5-6-9*

Dopo neanche due squilli sento un suono bitonale e la voce registrata di una donna che ne specifica il motivo “Il numero da lei selezionato è inesistente o non raggiungibile! La preghiamo di riprovare più tardi, grazie e arrivederci.”

Ah, che stupido.

Ho digitato il numero sbagliato.

Devo avere la testa altrove. Mi sembra che sia passata una vita dall'ultima volta che ho usato un cellulare.

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*ritengo necessario dare un indizio su questi numeri misteriosi: munitevi di telefono cellulare e provare a comporlo. E fate attenzione alle lettere corrispondenti!

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The Corner 

Voilà,
siamo di nuovo qui.
Rischio di diventare ripetitiva, ma purtroppo sono sempre quelle le cose da dire.
Avrei così TANTE storie da finire, 
ma ogni volta un'idea per una one shot sbuca fuori dal nulla
e non posso fare altro che scriverla.
Spero stavolta di avere un po' di tregua e di poter cambiare fandom *coff coff*.
Soliti ringraziamenti alla solita persona, che ha reso la mia vita un po' meno solita.
Ti voglio bene Bestie. 

Chii

   
 
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