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Autore: Flora    01/03/2016    10 recensioni
“L’esistenza perde di significato quando viene a mancare ciò che ti tiene in vita [...]."
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Al culmine del suo potere, il declino di Alessandro di Macedonia inizia con l'improvvisa scomparsa di Efestione, compagno nella vita quanto in battaglia. Il vuoto scavato dai ricordi nel petto del Re pare incolmabile, ed egli si lascia lentamente andare alla deriva; neppure la Morte, tuttavia, può scindere un legame voluto dal Fato.
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"Non ti ho lasciato. Non lo farò mai."
Ovunque sia, non dovrà attendere a lungo.

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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
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Partecipa al contest "Cielo, donne, ricordi" indetto da 9dolina0 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Un ringraziamento speciale a theuncommonreader, che ha betato il racconto, rendendolo migliore di quello che era.
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Nota dell'autrice: questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro di Macedonia e dei suoi contemporanei mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.


Per i nomi propri ho usato la traslitterazione dal greco antico, in questa forma:

Alessandro: Aleksandros / Al’skandros
Efestione: Hephaistion
Bagoa: Bagoas
Tolomeo: Ptolemaios
Achille: Akhilleus
Patroclo: Patroklos
Glauchia: Glaukias



Un riparo dal freddo








Le sette mura di Ecbatana sono dipinte di nero, imbrattate di lucida pece. Un tempo sfolgoravano nel sole, il bianco brillante della pietra e la policromia dei fregi e delle gemme a circondare la città, fiammeggiando a perdita d’occhio nella pianura.
Il carro solare ha compiuto il suo percorso solo sette volte da allora, ma sembra una vita intera.
Questa è la sensazione almeno – anche se il mondo non può davvero essere mutato tanto in così poche albe. O forse non è il mondo, ma solo la parte che lo riguarda, come se poi potesse fare differenza.
In passato, Bagoas si sarebbe fatto maledire pur di condividere anche solo la metà delle attenzioni che il Grande Re Al’skandros aveva per l’uomo che considerava il suo amico più caro. Ora… ah, ora si considererebbe benedetto nel riuscire a vederlo, il suo Re – essere nella stessa stanza con lui, respirare la sua aria.
Tutto è cambiato.
È strano come gli uomini siano portati a desiderare qualcosa tanto a lungo e poi, quando finalmente la ottengono, si rendano conto di non volerla affatto.
Bagoas non ha mai creduto che si sarebbe afflitto per la morte di Hephaistion. Non è stato un nemico per lui, questo è vero – eppure gli ha comunque augurato la fine, e in più di una occasione. Forse ha pensato che, una volta sparito, Al’skandros si sarebbe rivolto a lui per trovare consolazione; si è addirittura illuso che avrebbe potuto prendere il suo posto nel cuore del suo Signore. Ora la sa più lunga.
Ha ottenuto quel che voleva e ha imparato la lezione.
Gli elleni sono soliti dire: quando va male, gli Dei ti favoriscono; quando va bene, ti ignorano. Sono creature crudeli e volubili, gli Dei occidentali – Bagoas è arrivato a comprenderlo fin troppo tardi. Quanto meglio sarebbe stato se l’avessero ignorato, con il suo cuore stupido e le sue meschine gelosie. Quanto meglio se Hephaistion fosse sopravvissuto. Senza di lui, Al’skandros sta andando in pezzi.
Non si era mai reso conto di quanto gli occhi tranquilli e il sorriso franco di quell’uomo l’avessero tenuto insieme. Ha sempre creduto che la forza di Al’skandros gli venisse da dentro, non che la traesse da qualcun altro. Non si era mai interrogato sulla sua capacità di amare e di essere amato, e su quel bisogno che aveva di reclamare affetto da coloro che lo circondano. Per lui, Hephaistion era sempre stato soltanto un’ombra che schermava il sole mentre ora, senza di lui, il mondo sembra sprofondato nella tenebra più cupa.
La sua morte è stata improvvisa; l’aveva colto una qualche febbre dopo il loro arrivo a Ecbatana, ma era sembrato che si stesse riprendendo. Non c’era ragione perché non lo facesse: era giovane e forte, e aveva il miglior medico del contingente a prendersi cura di lui. Nessuna ragione – se non gli oscuri e segreti desideri del suo animo invidioso.
Qualche divinità deve averli percepiti – ed esauditi – e ora anche il suo cuore è in frantumi.
Lo è certamente quello di Al’skandros; alcuni sussurrano che lo sia anche la sua mente.
Avevano cercato di tenerlo lontano, Ptolemaios e gli altri, quando era corso via dallo stadio, disertando i Giochi; Bagoas era giunto solo dopo aver sentito la confusione provenire dai quartieri privati di Hephaistion, e li aveva visti: aveva scorto Ptolemaios afferrare il Re per le spalle e tirarlo via, sussurrandogli qualcosa.
Il viso di Al’skandros era come marmo e i suoi occhi avevano per un attimo mostrato il bianco, nell’oscurità del corridoio. La sua voce era risuonata chiara, rimbombando tra le pareti – “No. Stai mentendo. Non è possibile.” – e Ptolemaios aveva parlato di nuovo, tentando di condurlo via. Al’skandros gli era passato accanto, spintonandolo – si era fatto strada tra la selva di mani che tentavano di agguantarlo, fino a raggiungere la soglia della camera.
Uno dei generali aveva fatto il gesto di andargli dietro ma Ptolemaios l’aveva fermato. Rammenta bene il dolore che gli aveva visto in volto, e quello che aveva detto: “Lasciatelo andare.” Il suo tono vibrava di disperazione.
E poi, dal ventre di quella camera in cui non aveva mai messo piede, era filtrato un lamento che risuonava come lo spezzarsi di un’anima – acuto e affilato e colmo di strazio, cocci di vetro conficcati nelle orecchie, a spillare il sangue – e allora aveva saputo che Hephaistion era morto. Forse in quel momento, nel profondo della sua oscurità, ne era persino stato lieto.
Adesso non c’è più alcuna letizia in lui.
Al’skandros era rimasto con i suoi amici, aggrappato al cadavere per tutto il giorno mentre si raffreddava e si irrigidiva – la pelle un tempo tiepida che si faceva di pietra. L’avevano trascinato via a forza alla fine, e lui si era premurato di non farsi vedere in quel momento.
Non voleva essere ricordato come uno di quelli che l’avevano strappato alle braccia del suo amico. Già era sufficiente sapere che, in fondo al cuore, gli aveva augurato la morte; la peggior condanna sarebbe stata che Al’skandros glielo leggesse negli occhi.
Il cordoglio del Re è qualcosa che lui non può neanche sfiorare. Una fortezza – di questo si tratta – e Al’skandros ne è al centro, a gridare il suo tormento contro il cielo indifferente.
Ha fatto uccidere Glaukias: il medico è stato abbandonato a marcire inchiodato a una croce in cima alle mura della città, il cadavere nero per i corvi, come coperto da un drappo funebre.
Al’skandros non riesce più a dormire, oppure dorme troppo. Non mangia né beve, a meno che qualcuno non lo obblighi. Si è tagliato la chioma bionda, lasciando al suo posto pochi ciuffi sparuti come fili d’erba intirizziti dall’inverno, e gli occhi sono rossi e infossati su un viso che sembra di cuoio. Quando li ha rivolti su di lui, quegli occhi, è certo che non l’abbia riconosciuto.
C’è una sorta di giustizia in tutto ciò, deve convenirne: lo metterà da parte prima o poi. Sarebbe una forma di sacrificio – e Al’skandros ha fede in questo genere di cose. Quell’uomo alto, con i suoi capelli scuri e la risata sonora, sarà per sempre il suo amante, glorificato e intoccabile. Nessun mortale potrà mai eguagliarlo – mai più. Nessuno dovrà provarci.
Forse gli causerà dolore allontanarlo dal suo talamo, ma è certo che il Re lo farà, in onore della memoria del suo compagno. Per la sua ombra, e perché dolori di questa portata non possono né debbono essere leniti da piaceri tanto triviali.
Eppure, deve uscirne. Per il suo bene, e per quello del suo impero. E, in tutta verità, anche per il bene di questo stupido eunuco persiano che si è augurato cose che non avrebbe mai dovuto desiderare. Gli Dei gli avevano già mostrato grande riguardo a concedergli la benevolenza di Al’skandros; è stata una follia volere di più. La sua cupidigia ha portato a questo – e non c’è modo per rimediare, ora.
Può darsi che Ptolemaios possa aiutarlo. Conosce Al’skandros da quando era un bambino, ed è sempre stato gentile con chi ha saputo servire bene il suo Re. Non gli ci è voluto un grande coraggio per andare a cercarlo, meno di quanto avrebbe creduto in un primo momento. In ogni caso, è più facile fronteggiare Ptolemaios che incrociare di nuovo gli occhi vuoti e brucianti di follia del suo amato.
Lo trova da solo, e di questo ringrazia la sua buona fortuna. Ptolemaios si è sempre dimostrato cordiale, ma non può dire lo stesso della gran parte degli uomini di Al’skandros. Molti di loro dedicherebbero più volentieri del tempo a un cane in fin di vita che non a un barbaro buono solo a danzare e a riscaldare il letto. A un cane darebbero cibo; per lui riserverebbero soltanto calci e ingiurie.
Sono lupi, questi macedoni – alti, chiassosi e ruvidi, senza alcuna inclinazione per la gentilezza. E dopo tanti anni ha imparato chi è bene evitare.
Ptolemaios alza la testa quando lo raggiunge in una delle sale adibite alla memoria di Hephaistion, circondato dalle statuette votive con la sua effige che Al’skandros ha fatto commissionare, e che i suoi generali sono stati ansiosi di donargli per mostrare il loro compianto. Il Re ha preso a trascorrere sempre più tempo tra quelle stanze – una volta l’ha seguito ed è rimasto a spiarlo, al di là di una tenda, sentendolo parlare a bassa voce con i simulacri senza vita né calore – come se davvero Hephaistion fosse ancora lì e potesse rispondergli.
Stavolta, però, Al’skandros non è presente – c’è solo Ptolemaios, venuto forse anche lui per comprendere il segreto di questo legame che neanche la morte è riuscita a recidere ma che ha addirittura serrato più stretto, come un nodo scorsoio attorno alla gola del Re.
Gli sorride persino, quando si fa avanti; non abbastanza da cancellare il dolore dai suoi occhi, ma quanto basta per dargli il coraggio di non scappare via.
“Bagoas,” lo saluta. “Mi sono chiesto spesso dove fossi finito. Ti senti bene?”
Bagoas sente che potrebbe piangere. Tuttavia non lo fa – i macedoni non sono inclini neanche alle lacrime, e men che meno quando qualcuno può vederli.
“Io…” prova a rispondere, poi si morde la lingua. Cosa può dirgli, in verità? Il suo mondo è crollato e ha solo il suo desiderio scellerato da biasimare, con il suo dolce Sovrano a pagarne il prezzo.
“Mio Signore,” ritenta, “ho timore per il Re. Il suo cordoglio, intendo. È come fosse pazzia.”
“Lo credi davvero?” Ptolemaios non sembra sorpreso, solo appena più triste. Si alza dalla panca su cui era seduto, poggiando a terra il piccolo busto di Hephaistion che teneva nel palmo. Il bronzo scintilla di fiochi bagliori alla luce dei bracieri e delle lampade d’argento. “Bagoas, tu li conoscevi. Che cosa potevi aspettarti?”
Le sue parole lo colpiscono come uno schiaffo, facendolo vacillare.
Tu li conoscevi.
Ah, ma non li aveva conosciuti affatto, questa è la verità; forse aveva saputo i loro nomi, e alcune delle loro abitudini – quel modo che avevano di ridere insieme per scherzi che lui non poteva capire; quel vezzo di parlarsi per mezze frasi, come se davvero non necessitassero di parole per comprendersi; aveva persino saputo un poco di ciò che erano l’uno per l’altro. Non era mai stato in grado di capirlo fino in fondo – non è costume persiano per un uomo darsi in tal modo a un altro uomo – eppure era riuscito a vedere che nessuno di loro lo era meno, per questo. Non aveva mai capito, no – e non li aveva mai davvero conosciuti.
Così lo dice, e lo fa a voce alta. “Non lo so. Ti prego, spiegamelo.”
Ptolemaios lo guarda a lungo, in silenzio. Si avvicina a uno dei tavoli ingombri di busti di bronzo e teste di marmo e sembra volerne sfiorare una, ma ritira le dita un attimo dopo. In un angolo sono abbandonati una coppa di ceramica e una caraffa. Si versa del vino e fa il gesto di offrirlo anche a lui.
Bagoas scuote la testa. Non riesce più a guardarlo, il vino. Hephaistion ne aveva avuta una coppa accanto al letto, ma nessuno sembrava averlo notato. In Persia, avvelenare il vino è uno dei modi prediletti per eliminare un ostacolo – un congiunto, un sovrano.
Un rivale.
Per molti giorni aveva temuto che potessero incolparlo per quel calice vuoto – più di tutto aveva temuto che la voce potesse arrivare alle orecchie di Al’skandros. Non avrebbe neanche potuto professare una completa discolpa: dopotutto, l’aveva voluto morto.
Ptolemaios si stringe nelle spalle e lascia andare la caraffa.
“Hephaistion arrivò a Pella quando Aleksandros era tredicenne. Erano più o meno della stessa età, li separavano due anni soltanto.” Sorride, distendendo le labbra sul volto indurito. “Non so che cosa li fece avvicinare, tutto lasciava intendere che non avrebbero mai potuto andare d’accordo.” Prende un sorso di vino, poi storce la bocca in una smorfia, riabbassando la coppa. “Hephaistion veniva da Atene; a vederlo sembrava che dovesse defecare margherite. Aleksandros era più selvatico, come tutti noi del resto.” Alza gli occhi, puntando il lungo naso al soffitto. “A ogni modo, furono amici dal primo momento. Inseparabili. Vent’anni, e nulla è cambiato. Fino a ora.” Riabbassa la testa e si lascia sfuggire un sospiro che potrebbe sembrare un risata in un altro momento. Ora, invece, è solo un rantolo straziato alle orecchie di Bagoas.
“Hanno imparato a cacciare insieme,” continua Ptolemaios, “hanno studiato insieme, alla scuola del vecchio filosofo. È stato in quel periodo che il legame tra loro è stato forgiato. Tutti noi l’abbiamo visto nascere, più saldo ogni giorno, davanti agli occhi di uomini e Dei. Eravamo molto uniti, ma loro erano… diversi.” Si stringe di nuovo nelle spalle. “Noi avremmo potuto esserci o meno, e per loro non avrebbe fatto differenza.”
Bagoas annuisce. Ricorda che Al’skandros gli ha accennato qualcosa della scuola di quel filosofo chiamato Aristoteles, e di un luogo caro alle ninfe che porta il nome di Mieza. Non gli ha detto molto in verità – sa che i rapporti col suo antico maestro si sono presto raffreddati dopo la partenza per l’Asia – ma abbastanza da comprendere la sacralità di quelle memorie.
“Hanno vissuto insieme le prime campagne militari,” continua Ptolemaios dopo una breve pausa, “al fianco di Philippos, il padre di Aleksandros. Hanno persino complottato contro di lui.” Ride, nonostante l’affermazione suoni oltraggiosa alle orecchie di Bagoas.
“Oh, Hephaistion ha tentato di dissuaderlo, è sempre stato quello più assennato tra i due, ma Aleksandros… non c’è nulla in grado di fargli cambiare idea, una volta deciso. Hephaistion non ha mai tentato di compiacerlo, non si è mai umiliato per ottenerne il favore. Per questo Aleksandros lo rispettava.” Stringe le dita attorno a una delle statuette e la solleva, rivoltandosela nel palmo ed esponendola alla luce flebile delle lampade.
Il bagliore del bronzo sulla scultura ferisce gli occhi di Bagoas, che tuttavia non riesce a staccare lo sguardo dai lineamenti severi dell’uomo di cui rappresenta l’effige; ha odiato quel volto: ne ha detestato la bellezza, l’eleganza nei tratti, la profondità degli occhi, la linea decisa delle labbra. Ora, invece, vorrebbe bagnare il bronzo con le sue lacrime e col sangue, per riportarlo alla vita.
Ptolemaios rimette a posto la statua, poi si volta di nuovo a guardarlo.
“Quando arrivammo a Troia, fecero qualcosa che incise il loro legame nella pietra imperitura. Conosci la storia della Grande Guerra e dei suoi eroi?”
Bagoas annuisce in un gesto lento. Conosce la storia, sì – il fulcro importante quantomeno; L’Iliade è sempre stata la lettura preferita di Al’skandros, dunque si è sforzato di comprenderla. Gli è sembrata in gran parte una storia di sangue, morte e ira divina e questo l’ha lasciato interdetto.
Akhilleus lo conosce, però – un antenato del suo Re, guerriero feroce e indomabile, con in sé l’icore immortale. Ptolemaios sta ancora parlando e lui si sforza di tornare ad ascoltarlo; sa cosa sta per arrivare ma gliel’ha chiesto lui, e non sarebbe onorevole fuggire via ora.
“Akhilleus aveva un amico che gli era più caro della sua vita stessa,” lo sente dire. “Quando Patroklos gli fu strappato, il suo cordoglio fu pari solo alla sua ira. Volle infliggere la sua vendetta su colui che l’aveva ucciso, anche se sapeva che questo avrebbe significato la morte per lui.” Scuote la testa, le palpebre socchiuse come per un dolore improvviso. “L’esistenza perde di significato quando viene a mancare ciò che ti tiene in vita, suppongo. A ogni modo, Akhilleus ebbe la sua vendetta e morì com’era suo destino. Quando attraversò lo Stige, Patroklos era ad attenderlo dall’altra parte.”
Ptolemaios si allontana dal tavolo e si avvia verso le tende che schermano le grandi finestre squadrate. Le discosta appena, facendo filtrare una lama di luce. Al di là dei vetri, Bagoas riesce a scorgere le alte montagne ammantate di bianco, e il nero delle sette mura, stagliate come un incubo contro lo sfolgorio del cielo terso. Per un attimo gli occhi gli bruciano di lacrime, ma le ricaccia in gola senza emettere un gemito.
“A Troia c’è un monumento che commemora i due eroi,” continua Ptolemaios, le palpebre socchiuse per schermarsi dalla luce. “Attraccammo là, dopo aver attraversato l’Ellesponto. Aleksandros sembrava…” Si ferma a cercare parole che paiono sfuggirgli. “Sembrava fuoco divino incarnato quando saltò giù dalla nave per reclamare il primo passo sul suolo dell’impero ch’era venuto a prendersi. Aveva in tutto e per tutto l’aspetto di un re. Richiamò a sé Hephaistion, davanti agli Dei e a tutto il maledetto esercito, e resero omaggio ad Akhilleus e a Patroklos.”
Bagoas lo osserva richiudere la tenda; le ombre inghiottono di nuovo la sala come un drappo oscuro – solo le fiamme dei bracieri baluginano e sfrigolano nel buio.
“Non lo fecero perché erano eroi, né per il legame ancestrale tra Akhilleus e Aleksandros,” riprende Ptolemaios, sbattendo le palpebre. “Lo fecero per celebrare ciò che erano l’uno per l’altro. Lo capisci, ragazzo? Videro un’eco di loro stessi in quel luogo, e vollero riportare in vita la leggenda per farla propria.”
Ptolemaios si volta verso di lui e lo osserva per qualche istante; sa come deve apparirgli: una cosa piccola e debole, senza valore se non quello di un corpo mutilato e buono solo per affogare gli appetiti della carne. Sente di nuovo il groppo delle lacrime serrargli la gola, perché ora può vedere il confronto – riesce a figurarseli anche lui, sotto la luce sfolgorante di un ricordo che non gli appartiene: due purosangue forti e bellissimi che correvano selvaggi attorno alla piana, nella gloria del loro amore e nella perfezione del corpo e dell’anima.
“Questo è ciò che erano, ragazzo,” dice Ptolemaios, la voce severa. Non sa se lo stia punendo, e in ogni caso è finalmente pronto a versare ogni goccia di sangue.
“Certo, il cordoglio di Aleksandros è profondo e sì, può sembrare pazzia. Probabilmente lo è. Ha perso la metà di se stesso e non augurerei una tortura simile al mio peggior nemico. Possiamo pregare che ne esca, per il bene di tutti noi, ma… per l’amore degli Dei, ragazzo, che cosa ti aspettavi davvero?”
Bagoas può solo restare immobile a scuotere la testa, le spalle poggiate contro la porta e le gambe che gli tremano, incapaci di reggerlo se non per quel barlume di dignità che gli rimane e che non è disposto a lasciarsi strappare assieme al sangue e alle lacrime.
Non li ha mai conosciuti davvero, adesso lo sa. È stato vicino a qualcosa di tanto grande e non ha saputo capirlo. Invidia e amore l’hanno accecato, ed è stato fin troppo occupato a pensare a se stesso. Ora c’è un prezzo da pagare e intende onorare il suo debito fino in fondo.
Sente la sua stessa voce fluire lieve tra le labbra, si sente dire a Ptolemaios: “Deve venirne fuori. Qualcuno lo deve aiutare.” Anche se non sarò io. “Ti prego, dimmi che cosa può essere fatto, qualunque cosa, mio Signore.”
“Ragazzo.” La voce di Ptolemaios è un sospiro venato di tristezza e indurito dal dolore. “Bagoas. L’unico uomo che abbia mai potuto aiutarlo era Hephaistion. E ora se n’è andato. Cosa siamo noi, a confronto?”
Cosa siamo, pensa Bagoas mentre volta le spalle e si allontana in silenzio nella penombra del corridoio. Cosa siamo davvero.








Quando le fiamme cominciano a salire, Aleksandros si avvicina alla pira; solo e immobile, la torcia ancora in mano e il cuore aperto e rovesciato sotto il cielo nero di Babilonia.
È una sensazione strana: pensava che sarebbe stato un dolore crudo, come ossa che spuntano fuori dalla pelle, tutto angoli e spigoli e sangue rappreso. E invece non è così, non del tutto.
È più come… cadere, e attendere di essere afferrato, oppure di sfracellarsi sulle rocce aguzze. Questo è il tormento – proprio qui, proprio ora – non la caduta, ma l’attesa. E lui le ha sempre odiate, le attese. Si può essere una cosa o un’altra, non galleggiare nel mezzo.
Il buio antelucano è freddo e duro ma il fuoco lo tiene a bada; è stato solo un bagliore all’inizio, alto e chiaro, allungato nel cielo. E magnifico, anche – oro e vermiglio e bianco, attorcigliato su se stesso come un serpente. Prometheos l’ha rubato agli Dei, così vuole la leggenda. Nessuno può biasimarlo per questo; qualunque sia stato il prezzo, è valso la pena di una tale bellezza.
Rimane più vicino che può, il cuore che gli rimbomba nel petto come avesse dentro un tamburo di guerra. Ma forse è solo la pulsazione dell’incendio, quello che ha sempre avuto dentro e che ora ha trovato la strada per scorrergli nelle vene fin dentro i tessuti.
Fissa dentro il rogo più a lungo possibile, gli occhi che lacrimano per il fumo e per il chiarore abbagliante del suo nucleo. Quella fiamma non può che essere nitida al suo interno, sapendo che cosa vi giace.
Il fuoco crepita e ondeggia, lanciando nell’aria nugoli di scintille; lui non si muove neanche quando un ricciolo di cenere incandescente si attacca al bordo del suo mantello, facendo sfrigolare la lana prima di consumarsi.
Inclina la testa all’indietro e chiude gli occhi contro il lucore feroce, lasciando che lo avvolga. Dietro le palpebre, le fiamme stanno danzando. Sente le labbra guizzare e sussurra poche parole a se stesso – come una preghiera, o forse una invocazione.
“Posso ancora vederti.”
E lo fa: non il corpo imbalsamato sdraiato composto al sommo della pira, tra le braccia di sirene e centauri di legno, avvolto nelle spire infuocate che lo stanno già consumando.
Lo vede tra i cespugli di rosa canina, nel giardino di Mieza, che lo prende per mano e gli scompiglia i capelli; lo scorge sul suo cavallo, nella prima battaglia, fiero e splendente e vestito di bronzo, l’elmo con il cimiero scarlatto e un sorriso orgoglioso; era con lui quando le vampe hanno consumato Tebe e quando hanno polverizzato Persepoli – perché il fuoco c’è sempre stato, stava solo attendendo; era al suo fianco ogni notte quando sognava le fiamme e si svegliava urlando, e lui gli diceva di non avere paura. Adesso il fuoco è ovunque ed Hephaistion è ancora qua – dietro le palpebre e nelle fibre e nel sangue, in ogni respiro.
Tiene gli occhi chiusi quando la pira comincia a collassare nel crepitio del legno che si schianta e nello scoppio di scintille bollenti e feroci contro la pelle. Dietro le palpebre può percepire i primi bagliori dell’alba, flebili squarci grigi e argentei sfumati nell’oro.
Che cosa vedi in me?
Può ancora sentirla, quella domanda; gliel’aveva rivolta la notte in cui Hephaistion l’aveva preso tra le braccia la prima volta. Lui l’aveva baciato sulla fronte, e le sue labbra erano fresche come l’acqua di una sorgente.
Davvero me lo stai chiedendo?
Aveva annuito. Teso e in silenzio aveva atteso la sua risposta.
Risplendi come il sole, Alekos. Potrei vederti con gli occhi chiusi.
I suoi li riapre ora, secchi e doloranti, bruciati da lacrime che non ha saputo versare.
Le fiamme stanno ancora danzando ma non distoglie lo sguardo. C’è stato un tempo in cui il fuoco era dentro di lui – alto, chiaro e magnifico, ed Hephaistion ne era parte.
Ma non nel modo in cui è parte di questo.
Eccolo il dolore, proprio ora: come frammenti di ossa che perforano la pelle. Ed è tutto finito: il fuoco si sta spegnendo e non resta altro che cenere.
Ritorna in sé lentamente, come richiamato indietro da un sogno; può sentire i suoi uomini dietro di lui, immobili e muti, l’intero esercito che l’ha seguito fin sotto quel cielo straniero in cui si è appena distesa l’alba. Attendono un cenno, aspettano pazienti che si volti verso di loro e sia di nuovo e soltanto se stesso. Ma non sa se sarà in grado di farlo.
È una cosa strana, il coraggio; molti credono che lo si dimostri in battaglia, ma non è così e ora lo sa. È stato lodato per la sua audacia, per la temerarietà in guerra o durante la caccia. Ma nulla di ciò è stato difficile: amava queste cose, e non c’è valore nella passione.
Il coraggio è ciò che ti permette di vivere in un mondo dove quel che hai di più caro se n’è andato; è voltare le spalle al bagliore morente di un incendio che s’è portato via tutto; coraggio è allontanarsi e dire che è finita senza gettarsi nelle fiamme.
Ma non è del tutto esatto: non c’è valore neanche nel continuare a vivere – niente prodezza in questa attesa – né una cosa, né l’altra, restando a galleggiare nel mezzo.
La grande pira si dissolve nella luce dell’alba e lui segue la scia di fumo e cenere che sale verso il cielo.
“Posso ancora vederti, philè,” sussurra, prima di voltare le spalle.
Posso ancora vederti.








Il calore è soffocante. Aleksandros si rigira senza posa nel suo letto, gli occhi fissi al soffitto. La testa gli pulsa per il bollore e in bocca gli sembra di masticare la sabbia.
Quando si volta e allunga un braccio per afferrare la caraffa, le coperte gli si appiccicano addosso, intrise di sudore. Le calcia via con un grugnito irritato.
Babilonia nel pieno dell’estate – e qualche idiota d’un servo che ha pensato bene di imbottirgli il letto con lenzuola sufficienti a coprire un reggimento.
Neanche si ricorda di essersi coricato. Forse ha bevuto – lo fa sempre più spesso ultimamente. Certamente c’è stata una ragione per farlo, ma al momento non la ricorda.
Non riesce a dormire ma non è neanche capace di restare sveglio. Non del tutto almeno – c’è un alone sfuggente attorno alle cose, come fluttuassero in sogno. Anche l’acqua ha un sapore strano sulla lingua, come una lama di ferro, e si sente la bocca asciutta persino dopo averla bevuta. È il caldo, questo è il problema: lo fa sentire come se qualcuno l’avesse avvolto nella lana bagnata e poi gettato in una fornace. Non c’è modo di potersi schiarire la mente con un’afa del genere.
C’è una piscina nella sala da bagno, subito dopo i portali, alla fine di un alto colonnato. È mantenuta fredda da barili ricoperti di paglia e riempiti di neve raccolta sulle montagne e portata a palazzo. Quando l’aveva sentito dire l’aveva giudicata una bizzarria fuori misura, tipica manifestazione del lusso persiano. Adesso però, con la testa che vaga alla deriva e il corpo fradicio di sudore, gli sembra la cosa più vicina alla beatitudine. Inoltre, gli servirà per svegliarsi e liberarsi da questa fastidiosa sensazione di nuotare nella pece.
La camera si inclina appena quando si mette in piedi, e lui aggrotta la fronte irritato, poggiando una mano alla parete fin quando l’impressione scompare. Cerca di ignorare il dondolio del pavimento, certo com’è che un buon bagno farà passare anche questo.
Piedi e gambe sembrano accusare gli stessi problemi della testa – se li sente fiacchi e intorpiditi, come stessero ancora dormendo; ma la sala da bagno non è lontana – pochi passi e starà meglio.
Quando la raggiunge e si immerge nella vasca, l’acqua fresca gli si chiude attorno come una seconda pelle. Non è abbastanza da schiarirgli la mente ma pare almeno lenire il calore rabbioso che ingoia il palazzo. Può ancora sentirlo pulsare dentro di lui, come una fiamma che lambisce il legno di una porta chiusa, ma l’abluzione sembra almeno tenerlo a bada.
Babilonia: che posto maledetto. E pensare che ha creduto di poter governare il suo impero da questo nucleo infuocato di sabbia e argilla, perso in mezzo alle paludi infestate di zanzare tra i due fiumi.
L’acqua, però, è morbida e liscia sulla pelle riarsa, e lui si lascia galleggiare sulla superficie senza opporre resistenza.
Non saprebbe dire quant’è rimasto in ammollo – abbastanza da sentire il freddo affondare il primo morso nelle ossa; per qualche ragione, però, non se ne cura. È meglio del caldo – più gentile e più dolce. Gli fa tornare in mente la Macedonia, con quell’odore di neve nell’aria anche in estate.
Il gelo sa avere pietà per gli uomini – li racchiude e li culla fino ad affondarli in un sonno ovattato dal quale non si sveglieranno mai più. È misericordioso, il freddo – questo può riconoscerglielo.
Neanche si accorge dei brividi che gli risalgono lungo la schiena, facendogli tremare le labbra. Quella strana sensazione di fluttuare nel vuoto è più forte adesso, come se il suo corpo non lo riguardasse più. Non è sgradevole, una volta che ci si abitua: è qualcosa di simile al lasciarsi andare una volta per tutte.
“Alekos.” La voce gli arriva da dietro le palpebre chiuse e sopra il battere dei denti. “Aleksandros. Non puoi rimanere lì dentro tutta la notte.”
È familiare questa voce – come il respirare.
Aleksandros sorride mentre continua a galleggiare e andare alla deriva nell’oscurità. Riconoscerebbe quel timbro anche alla fine del tempo e dentro le ossa, sotto la pelle e nelle fibre dell’anima. Apre gli occhi e punta lo sguardo nella direzione del suono.
Hephaistion è seduto sul bordo più lontano della vasca, i piedi che sfiorano il pelo dell’acqua. Per un istante sembra avvolto da una luce così intensa da fargli dolere gli occhi, ma poi batte le palpebre e il bagliore sparisce. Resta solo Hephaistion, con addosso un semplice chitone candido e un sorriso caldo che gli distende le labbra.
C’è qualcosa di strano in questo, e una parte di lui lo sa e si affanna per metterlo in guardia, ma il pensiero evapora nel momento stesso in cui prende forma.
Philè,” gli risponde sollevando appena la testa, “neanche tu riesci a dormire?”
Hephaistion si stringe nelle spalle. “Non sono stanco. E non ho bisogno di dormire.” Tuffa un piede nella vasca e poi lo solleva di scatto, spruzzando una sventagliata di gocce trasparenti. “Ora che ne dici di uscire da lì?”
“E perché?”
“Perché…” Hephaistion sorride, divertito e paziente allo stesso momento. “Perché stai gelando. Ti vedo tremare da qua. Se ti raffreddi ancora andrai a fondo come un macigno. E inoltre…” Il sorriso si allarga un po’ di più, “… non sei mai stato bravo a nuotare.”
“Non quanto te. Tu nuoti come un pesce.” Aleksandros se lo ricorda bene fin dai giorni di Mieza, quando facevano a gara nella polla d’acqua fresca del nymphaion. Hephaistion ha sempre avuto la meglio su di lui in quell’elemento, così lungo e agile e aggraziato com’è. E poi c’è stata quella volta nelle sale da bagno di Menfi – bizzarro come riesca a rammentarlo chiaramente anche adesso: Hephaistion che si avvita in un tuffo azzardato, il suo corpo che scivola fluido sotto la superficie, la luce che gli accende i capelli di riflessi bronzei quando riemerge, e poi la sensazione umida e morbida della sua pelle contro il petto, quando si avvicina. Aleksandros sorride, rievocando il ricordo. A ogni modo Hephaistion ha ragione: sta gelando.
Non ha idea di come sia successo, dato che stava soffocando per il caldo solo un momento fa. Adesso però i denti gli battono tanto forte da rimbombargli nelle tempie; ha il corpo attraversato dai fremiti.
Hephaistion gli tende la mano, le labbra incurvate in un mezzo sorriso.
“Vieni qua, Alekos. Stai diventando livido.”
Eppure c’è davvero qualcosa di strano in tutto ciò – qualcosa fuori posto. Si chiede vagamente che cosa, ma è un pensiero lontano come le coperte di lana che ha lasciato ad appassire in camera. Si allunga verso la sua mano e lo sente afferrargli il polso in quella stretta familiare – calda, forte e gentile allo stesso tempo.
Sembra anche reale, una parte di sé non può fare a meno di notarlo. Gli fa venire voglia di ridere: certo che è reale, Hephaistion è sempre stato qui dopotutto, come altro dovrebbe sembrargli?
In un angolo della mente, una memoria appannata sembra risvegliarsi e gorgogliare appena: un muro di fuoco, alto fino al cielo, il crepitio delle fiamme – ma poi le labbra di Hephaistion sono sul suo collo, e lo sente mormorare: “No, non ci pensare,” e l’immagine evapora.
Fa così freddo, però. La pelle sembra gridare e volersi ritrarre a contatto con l’aria. Come gli sarà venuto in mente di mettersi a nuotare in una vasca gelida nel bel mezzo della notte? C’è da ammalarsi in questo modo, l’ha visto accadere fin troppo spesso.
A Ecbatana, nove mesi prima, Hephaistion si è ammalato per molto meno.
Un brivido più forte lo scuote a questa riflessione, e deve stringersi nelle braccia per calmare il tremito. Hephaistion se ne accorge e gli rivolge di nuovo quel suo sorriso tranquillo.
“Sciocco. Si può sapere perché fai queste cose a te stesso? Vieni. Lascia che ti aiuti.”
C’è un divano basso e lungo addossato al muro, ricoperto di morbidi cuscini di seta e broccato. Hephaistion lo conduce lì, i piedi scalzi che sembrano sfiorare appena le mattonelle di maiolica azzurra, senza fare rumore. O forse non è in grado di sentirlo perché batte i denti troppo forte per udire alcunché.
Si lascia sdraiare docile sul divano, poi allunga le braccia a circondare il collo di Hephaistion, raccogliendosi nel suo abbraccio. Sente i muscoli rilassarsi e si lascia andare con gratitudine, assaporando il calore del suo corpo e facendoselo scivolare addosso come sole che filtri nel cuore di una pietra. Fino a un attimo fa la sua pelle aveva l’insensibilità e la consistenza bianca del marmo, mentre ora pizzica e si accende dove Hephaistion la sfiora con le dita.
Fa quasi male ma è un dolore chiaro e pulito, e lascia uno strano conforto dopo che è passato. I brividi cominciano a diminuire, dentro e fuori di lui. Si appoggia contro il petto di Hephaistion, zitto e attento a cogliere il battito lento e regolare del suo cuore, e godendo del calore delle sue mani e del suo respiro sulla pelle.
Qualcosa in lui sospira e sembra muoversi, come una mano che sposti un carico invisibile. Oh, Dei, quanto ne aveva bisogno. È questo che gli è mancato da quando…
Il pensiero indugia ancora su Ecbatana, sulle sue mura dipinte di nero – sette nastri lucidi lasciati a sfaldarsi sotto il sole. È un simbolo di morte e la sua mente si ritrae di nuovo, scartando di colpo all’idea, come un cavallo che abbia intravisto il fuoco.
Lascia rifluire via il ricordo, perché sembra più facile farlo; a ogni modo, è tutto molto distante, avvolto nella consistenza liscia e scivolosa dell’acqua.
O nel bozzolo caldo di un sogno.
Rabbrividisce di nuovo, in tutto il corpo.
“Hai ancora freddo.” Hephaistion si allunga ai piedi del divano e tira su il suo mantello, drappeggiandolo sopra entrambi. “Ecco. Così va meglio.” Il mantello è di solida e ruvida lana, tinta nella sfumatura più chiara di porpora fenicia, una tonalità che ricorda quella dell’ametista. Aleksandros lo riconosce: è un suo dono, perché Hephaistion una volta gli aveva detto di amare quel colore. Sente la stoffa distendersi su di lui, assieme al soffice calore racchiuso al di sotto. Hephaistion si accomoda meglio sul divano, traendolo vicino. Per un attimo Aleksandros percepisce la sua risata – una vibrazione gentile nel petto, come le fusa di un gatto.
“Mi fa tornare in mente molte cose,” dice Hephaistion, circondandolo di nuovo con le braccia. “Da quanto tempo non condividevamo un mantello? Cinque anni? O sono dieci?” Ancora quella risata soffice, impalpabile come piume sulla pelle. “Te la ricordi quella vecchia pelliccia di lupo che avevamo a Mieza?”
“Sì.” Aleksandros percepisce la sua stessa voce arrivargli da lontano. “Ricordo tutto.”
Ed è così: si erano baciati per la prima volta sotto quella pelliccia, ed esplorati al buio, solo con il tocco delle dita, nelle lunghe notti della loro giovinezza.
Adesso sarebbe soltanto uno straccio, per quanto meravigliosa fosse sembrata allora, ma conserva ancora un alito di magia nel modo in cui Hephaistion la rievoca.
Ha avuto così freddo negli ultimi tempi. Tanto freddo. E nei templi, tutti i fuochi sono stati spenti.
Lo sente di nuovo: quel senso di stranezza e di distanza, come se la realtà si srotolasse in una lingua invisibile dietro di lui, senza memorie né conseguenze. Potrebbe persino essere un sogno, se solo non apparisse tanto reale. Glielo domanda comunque.
“Hephaistion? Sto sognando?”
Lui gli risponde con una risata bassa e una stretta più forte delle braccia in cui lo racchiude. “Tu sogni sempre. Sei un sognatore incallito. È il tuo difetto peggiore.”
“Sì, ma ora…”
“Aleksandros, qual è il problema?” Anche la voce è più bassa. “Ti sembra un sogno?” Gli poggia un bacio sulla spalla; niente è più reale di questo – più vivo della mano che scende tra le sue gambe a sfiorarlo là dov’è più uomo.
Aleksandros geme piano e si muove a quel tocco. “No,” dice. Poi ripensa a quella sensazione di galleggiare, e al modo in cui i ricordi sembrano sfilacciarsi e riannodarsi in grovigli dolorosi, e serra le palpebre. “Sì, invece.”
Hephaistion si ferma un istante, poi lo bacia ancora sul collo. “Beh, almeno è bel sogno.”
Ad Aleksandros pare di avvertire una sfumatura triste nella sua voce. “L’ho sognato altre volte,” continua, e fatica a ritrovare le parole sul fondo della gola. “Ho sognato di te. Eri malato, e poi sei morto.” Il petto si espande e si rapprende, trattenendo un sospiro che per un attimo sembra squassarlo. “Ho sognato che te n’eri andato. Ed era così reale che temevo non mi sarei più svegliato.” Un pausa, un sospiro più forte. “Reale come adesso.”
“I sogni possono sembrare veri, talvolta,” dice Hephaistion in tono tranquillo, “ma restano solo sogni.”
Aleksandros si sofferma a pensarci. C’è ancora quel tepore sulla sua schiena, quel tocco gentile e distratto tra le gambe – e il desiderio doloroso che gli accende. Reale. Ed è tutto il rifugio dal freddo di cui aveva bisogno.
Ci sono ricordi talmente vivi dentro, che lasciano un vuoto incolmabile; ma ora questa voragine scavata nell’anima è di nuovo ricolma, e trabocca di luce e calore.
“Tu non…” Incespica di nuovo sulle parole, sentendosele scivolare sulla lingua impastata. “Non mi hai lasciato.”
“Per le palle di Erakles!” Hephaistion lo strattona di colpo, facendogli battere i denti. “Come ti viene in mente? Certo che non ti ho lasciato, Alekos. Non lo farò mai. Sono qui, no?”
Sembra di sì; non c’è modo di negarlo, pensa Aleksandros. E si chiede perché mai dovrebbe farlo. Scocca un’occhiata a Hephaistion e gli rivolge un ghigno improvviso, scoprendo i denti in un sorriso. “Provamelo.”
“Mi stai sfidando?”
“Oh,” dice Aleksandros, inarcandosi verso la mano che gli scivola lenta tra le cosce. “Direi di sì.”
“Bene.” Hephaistion sorride a sua volta, poi si lascia andare a un grugnito che è tutto fame, e desiderio. “Lascia che te lo provi, allora.”
Non dura a lungo. Hephaistion ha sempre saputo il fatto suo e Aleksandros non è incline a volergli resistere. Per qualche momento non c’è altro che il calore umido della sua bocca sul collo e quel languore delizioso sulla carne sotto il suo palmo. Poi Hephaistion fa qualcosa con le dita – un affondo rapido e sapiente dei polpastrelli e un guizzo del polso – e lui sente il suo corpo raccogliersi e poi espandersi, mentre la bocca si allarga in un grido.
“Per gli Dei, Alekos. Quanto ti amo.”
Aleksandros si tende tra le sue mani, gli occhi pieni di lacrime. Quel sussurro è tutto ciò che riesce a sentire prima che qualcosa si spezzi dentro di lui, e lo precipiti di nuovo a testa bassa nell’oscurità densa e soffocante dietro le palpebre.








Lo ritrovano solo il mattino seguente, addormentato sopra il divano basso e lungo nella sala da bagno. Non si sveglia neanche quando lo chiamano per nome, mentre il suo petto si alza e si contrae in rantoli secchi e rumorosi. La febbre è più bassa che nei giorni passati – o forse è solo l’aria fredda nella stanza, l’alito gelido che si solleva dall’acqua e gli fa increspare la pelle.
I medici si scambiano occhiate nervose, le espressioni eloquenti – qualcuno azzarda che dovrebbero lasciarlo dov’è, se è ciò che desidera. Non c’è più nulla che possa essere fatto, e in ogni caso non sarà ancora per molto.
Bagoas, che si è risvegliato in una nube di panico quando non l’ha trovato, si fa da parte per lasciarli passare. I suoi sogni sono stati bizzarri questa notte. Crede di aver sentito Al’skandros parlare con qualcuno, e un paio di volte ha pronunciato il nome di Hephaistion. Non è strano di per sé – il delirio e la febbre gli hanno giocato più volte questi scherzi, per non parlare di quel cordoglio selvaggio che ha continuato a farlo a pezzi per mesi, succhiandogli via la vita.
Quel che è strano – ciò che l’ha fatto risvegliare sudando freddo nel suo giaciglio, ai piedi del letto di Al’skandros – è che non aveva mai sentito nessuno rispondergli; eppure è certo di aver udito una voce, poche parole scandite nell’aria ferma e impregnata di calore: Non ti ho lasciato. Non lo farò mai.
La voce di Hephaistion – ecco cos’era; chiara come il giorno sebbene di quell’uomo non rimangano altro che ceneri e ricordi, bruciati e polverizzati sotto il cielo di Babilonia.
Osserva Aleksandros allungarsi sul divano e mormorare qualcosa che sembra in parte sospiro, in parte singhiozzo. Affonda una pezza dentro il bacile, la strizza e poi l’appoggia sulla fronte del suo Re. Per un attimo questo pare quietarlo; il suo respiro si placa, resta solo il rantolo basso che gli risale dal petto fino alle labbra socchiuse.
I medici gli hanno detto di limitarsi ad accudirlo, e di pregare. Bagoas fa entrambe le cose, al meglio che può.
I suoi occhi vengono attratti dal pezzo di stoffa che ricopre il corpo del Re. Gli è stranamente familiare, e del tutto fuori posto. Conosce a memoria ogni oggetto posseduto da Al’skandros, e questo non rientra tra i suoi averi. Non è neanche una coperta ma un lungo mantello di lana, tinto nella porpora chiara di Tiro.
Il mantello di Hephaistion.
Bagoas rimane a fissarlo a lungo, poi distoglie lo sguardo.
Non ti ho lasciato. Non lo farò mai.
Ovunque sia, non dovrà attendere a lungo.



Fine




Note:

1) Ecbatana è un’antica città della media (l’odierna Hamadan, nel nord dell’Iran), edificata da Astiage, e poi conquistata da Ciro il Grande al tempo del dominio persiano. Fu proprio Astiage a far innalzare le sette mura per cui la città era famosa, ciascuna di un colore diverso per le gemme e i fregi di cui erano decorate. Ecbatana era una delle cinque capitali dell’impero persiano (assieme a Susa, Persepoli, Babilonia, Pasargade) e fu eletta dagli imperatori achemenidi come residenza estiva, data la vicinanza delle montagne.
Nel 324 a.c., sulla strada di ritorno dalla lunghissima campagna che aveva portato Alessandro e il suo esercito a conquistare la gran parte del mondo conosciuto e a essere alla testa di un impero che si estendeva dai confini della Grecia fino all’India, Efestione si ammalerà proprio a Ecbatana, e morirà improvvisamente in pochi giorni – poco più che trentenne.
Tutte le fonti storiche sono concordi nel riportare che Alessandro fu letteralmente devastato dal dolore.
Giacque sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin quando non ne fu tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase rinchiuso nella sua stanza per giorni, senza bere né mangiare, incapace di fare altro che lamentarsi e dormire.
Quando tornò in sé, fu per dare il via a una bizzarra – all’epoca fu creduto pazzo – forma di compianto. Aveva già dato ordine di impiccare il medico che, invece di rimanere con Efestione, se n’era andato a vedere i Giochi indetti per festeggiare l’arrivo in città; si tagliò i capelli (come Achille aveva fatto per Patroclo) e fece fare lo stesso con le criniere di tutti i cavalli; fece spegnere tutti i fuochi nei templi (un privilegio riservato solo alla morte del Re e che fu infatti interpretato come cattivo auspicio) e ricoprire le sette mura di Ecbatana con vernice nera.
Il tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al suolo, ed egli stesso si imbarcò in una guerra lampo contro la tribù dei Cossei, per offrire i morti in sacrificio all’ombra dell’ amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad perpetuum e che tutti gli accordi commerciali fossero firmati in suo nome.
L’azione più folle, e anche la più disperata, fu l’invio di un’ambasciata diretta all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto libico, dove Alessandro stesso, anni prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon, affinché anche a Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo era molto più di un semplice “riconoscimento” per il morto.
Secondo i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano ammesse nell’Elysium, mentre ai comuni mortali era riservata un’esistenza inferiore, nell’Ade.
In quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon essere riunita all’anima mortale di Efestione, figlio di Amintore, se non riconoscendo anche a lui uno status superiore?
A ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu comunque permesso che venisse adorato come eroe divino, permettendogli così l’accesso all’Elysium.
Il funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che Alessandro fece costruire fu ricordata come il monumento funebre più colossale dell’antichità, nel quale spese una somma esorbitante per l’epoca.
Il suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno, divenne sempre più autodistruttivo: beveva spropositatamente, e continuò a farlo anche quando si ammalò, nove mesi dopo la morte di Efestione, mentre si trovava ancora a Babilonia.
Rifiutò ostinatamente di essere visto da alcun medico e la malattia lo consumò in dieci giorni, nonostante anni e anni di campagne al limite dell’immaginabile avessero dimostrato la tempra di cui era fatto.
Quando morì aveva trentatré anni.

2) Bagoa era un giovane eunuco persiano di straordinaria bellezza, un tempo favorito dell’ultimo imperatore achemenide Dario, e poi entrato a far parte del seguito di Alessandro dopo la morte del suo padrone. Le fonti riportano che ben presto divenne favorito anche di Alessandro, e il legame durò negli anni; Plutarco racconta che, dopo l’attraversamento del deserto della Gedrosia, vennero indetti dei festeggiamenti e Bagoa vinse una gara di danza a cui anche Alessandro era presente. L’esercito, che era a conoscenza del loro legame, incitò il Re affinché baciasse il giovane eunuco alla presenza di tutti, cosa che Alessandro fece platealmente, confermando così che il rapporto era ancora ben saldo.
Il nome Al’skandros col quale Bagoa chiama Alessandro in questo racconto, è una persianizzazione del nome Aleksandros, che veniva usato in alternanza col più diffuso Iskandar.

3) Tolomeo era il figlio di uno degli uomini di fiducia di Filippo (padre di Alessandro), e poi compagno di Alessandro fin dalla tenera età, nonostante fosse di qualche anno più grande. Divenne uno dei suoi generali più fidati e fu indubbiamente uno dei Diadochi (i successori) più potenti; a lui andò la satrapia dell’Egitto, di cui divenne faraone. Sotto di lui la nazione prosperò, e Alessandria divenne il centro più importante di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa biblioteca per la quale ancora oggi la città è famosa.




  
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