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Autore: determamfidd    04/03/2016    1 recensioni
Lui era troppo piccolo e noioso, e loro erano decisamente troppo cattivi. Non volevano nulla a che fare col loro cuginetto, e lui voleva avere meno a che fare con loro.
Improvvisamente ciò cambia – in fretta. Diventa noto ai Nani di Ered Luin che i figli di Dís ora hanno un'ombra.
Ma poi loro partono per un luogo dove lui non li può seguire, e così la loro ombra deve imparare a brillare di luce propria.
Genere: Angst, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fili, Gimli, Kili
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Appendici di Sansukh'
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La storia si svolge in parte prima di "Lo Hobbit" e in parte dopo la riconquista di Erebor. La storia originale può essere trovata qua.

«Fate i bravi» ricorda Dís, sistemando il mantello attorno alla testa di Fíli e spingendone gli orli nel colletto della sua pesante giacca invernale. È un po' troppo piccola per lui ormai, ma gli piace troppo per darla a Kíli.

Suo fratello minore è già scappato dalle loro calde stanze, piena del fumo dei fuochi invernali e di bevande calde e di pellicce sudate, verso le gallerie che portano alla superficie, il suo strillo allegro echeggia ancora sulla roccia. Fíli stringe la mani nei guanti mentre sua madre gli stringe ancora il colletto, e poi gli dà una carezza sulla testa.

«Vai, allora» dice «Manderò il Signor Dwalin a prendervi fra un po'. Non perderlo!»

Normalmente intenderebbe dire Kíli, ma non oggi. Gli occhi di Fíli cadono sulla piccola sagoma coperta così pesantemente che è quasi immobile, dondolando ai piedi di sua madre. «Dobbiamo?» frigna «Lui è ancora un bambino! È troppo piccolo per divertirsi!»

Lei si inginocchia davanti a Fíli e lo guarda. Lui geme. Conosce quello Sguardo. Tutti conoscono quello Sguardo. È quello che usa sua madre quando la sua famiglia è particolarmente cocciuta. «Non era gentile, inùdoy» dice severamente «Sì, è piccolo. Anche tu eri così piccolo una volta, però gli altri passavano tempo a giocare con te. Non dicevano mai che tu fossi stupido o noioso solo perché eri giovane.»

Fíli abbassa lo sguardo, e poi lancia un'occhiata risentita alla figura imbacuccata. «Ma...»

«No, Fíli» dice lei, alzandosi di nuovo. Spinge gentilmente il piccolo verso Fíli, e lui avanza con riluttanza – persino nervosamente. Ha visto come Fíli lo ha guardato, e sa che non è voluto.

Bene.

Fíli sospira il più rumorosamente e drammaticamente possibile. «Oh va bene» dice irritato, e prende la manina coperta di lana nella sua «Andiamo allora.»

Il piccolo non dice nulla mentre viene tirato. I suoi piccoli stivali risuonano come piccoli martelli contro la roccia di Ered Luin.

Fíli batté le palpebre quando la fredda, acuta luce del giorno gli trafigge gli occhi. C'è sempre un momento di difficoltà quando uno passa dall'intima, calda oscurità sotto la pietra al mondo all'aria aperta. Fíli ormai è bravo! A malapena sobbalza.

Accanto a lui, il piccolo trattiene un gemito. Fíli lo guarda, ancora sta stringendo la sua mano con una presa ferrea. «Stai bene?»

Il bambino annuisce, asciugandosi le lacrime con una mano goffa. «Sì.»

Fíli è un pochino impressionato, ma non tanto da dimenticarsi il suo risentimento. «Bene. Allora? Muoviti!»

Kíli è avanti, e ha già fatto una fantastica pila di neve. È una buona neve con cui costruire: dura e scricchiolante. «Guarda!» ride quando Fíli si avvicina «Sarai fortunato a colpirmi una volta oggi!»

«Nei tuoi sogni» dice Fíli, ghignando apertamente, e riconosce il momento in cui Kíli vede il piccoletto al suo fianco.

«Ah, perché abbiamo dovuto portarci lui?» si lamenta Kíli, e si siede fra tutta quella neve dura, le sopracciglia aggrottate petulantemente.

«L'ha detto Mamma» dice Fíli, e guarda il bambino «Dobbiamo tenercelo solo oggi. Non per sempre.»

Il piccolo alza il mento. «So giocare» dice coraggiosamente. I suoi occhi brillano. «Davvero.»

Kíli è apertamente scettico. «Sei piccolo.»

«Come giocate?» chiede il bambino, lasciando la mano di Fíli e facendo un passo avanti. Le sue manine si chiudono ai suoi fianchi. «Ditemelo, e vi batterò.»

«Fai dei sassi con la neve, e li tiri agli altri» dice Fíli, lanciando a Kíli uno sguardo di avvertimento (uno che Kíli assolutamente ignorerà, senza dubbio) «Vince chi colpisce gli altri di più.»

«Io ho la mira migliore» dice Kíli, alzando il mento orgogliosamente.

«È vero» conferma Fíli «Non puoi batterci.»

Il Nanetto non esitò. «Va bene. Gioco anch'io. Posso.»

«Verrai battuto, e inizierai a piangere» dice Fíli, incrociando le braccia «Ci scommetto.»

Gli occhi del piccolo brillano. «Quanto?»

«Che dici di non giocare mai più con noi se vinciamo?» dice Kíli, dopo aver guardato suo fratello.

Il piccolo sorride, i capelli gli escono da sotto il cappello. «Sì, va bene. E se io vinco?»

I fratelli si guardando, e scoppiano in ululati di risa. «Se tu vinci?» ansima Kíli «potrai giocare con noi quando vuoi!»

Loro cugino ci pensa, e poi alza un sopracciglio. «Perché?»

«Perché cosa?»

«Perché giocare con voi? Siete cattivi» il piccolo tira su col naso. Poi socchiude gli occhi. «Che dite di questo? Non direte più cose cattive su di me. Non sono troppo piccolo, e posso giocare anch'io. Giuro.»

Fíli si sente leggermente in colpa, ma è interrotto da uno sbuffo di Kíli. «Va bene, va bene» dice, alzando una mano «Non diremo una parola. Ha, se tu vinci!»

«Vai a preparare le armi» dice Fíli, dando le spalle alla cosetta cocciuta. Onestamente. Sarebbe stata una noia mortale, dover prendersi cura di loro cugino. Magari questo gli sarebbe stato di lezione, e non sarebbe mai più venuto con loro.

«Se lo attacchiamo in due, tornerà di corsa da Mamma» sussurra Kíli, ghignando, mentre le sue mani modellavano la neve in sassi e li impilava.

«Sì, ma se piange lei si arrabbierà» lo avverte Fíli.

«Ma lei non può rimanere arrabbiata tutto il tempo – ma lui può stare via tutto il tempo» gli fa notare Kíli, ancora ghignando.

«Bene» sentono il piccoletto che parla fra sé e sé, la sua vocetta acuta soddisfatta «Così andrà bene.»

«Pensi abbia idea di in cosa si è cacciato?» ridacchia Kíli.

«Nah» dice Fíli, e ride un po' «Gli insegneremo a seguirci!»

Kíli alza la testa, il cappello gli scivola su un occhio mentre dice trionfante: «Giusto! Gli insegneremo a dar fastidio a un paio di Principi della linea di- ah!»

Il mondo è bianco e freddo e gelido, e Fíli sputacchia, tossendo e tremando. Non sa bene da che parte sia l'alto.

«Fee!» sta dicendo Kíli, acuto e nel panico «Fee?! Cos'è successo?»

Fíli riesce a uscire dal bianco, e si libera. I suoi occhi bruciano di nuovo – stavolta per la neve. «Cosa...» dice, confuso e un po' arrabbiato.

La macchia confusa davanti a lui diventa la forma di suo cugino. Il suo cappello è pieno di sassi di neve, ma non è ancora tirato nemmeno uno.

Per ora.

«Eravate seduti sotto un albero» dice allegramente, e poi inizia a lanciare. I sassi di neve esplodono contro la petto e al mento di Fíli e lui deve alzare le mani per tenerli lontani dalla faccia. Kíli sta urlando di nuovo, ma stavolta per motivi diversi. «Uno, due, tre, quattro» conta il piccolo, la faccia concentrata.

«Ha tirato un calcio all'albero» geme Kíli, e Fíli dice una parola che ha sentito usare Zio Thorin e che sua madre sarebbe molto, molto arrabbiata nel sentire uscire dalla bocca di Fíli «Ha tirato un calcio all'albero!»

«Sta zitto» sputacchia Fíli, e si fa avanti fra la pioggia di sassi di neve per poi cadere addosso al bambino, bloccandolo a terra «Smettila!»

«Avete detto che vinci chi colpisce...» dice il piccolo, accigliato.

«Sì, ve bene, hai vinto» dice Fíli, ancora sputando neve «smettila però!»

«Ho vinto?» l'espressione accigliata del bambino diventa un sorrisone, un dente mancante molto visibile alla luce del sole «Ho vinto! Sì! Ho vinto!»

«Furbo» geme Kíli.

Il bambino, ancora bloccato dal peso molto maggiore di Fíli, fa spallucce. «Siete tanto più grossi di me» fa notare «Devo essere furbo. Sono piccolo, ma posso giocare.»

Fíli si siede, lasciando andare il Nanetto. «Sai giocare» mormora, e il bambino sorride, arrossato per la vittoria e la vendetta.

I capelli di Kíli gocciolano mentre si libera dall'enorme pila di neve che era caduta su di loro. Sta tremando, e batte i denti, e il Signor Dwalin riderà fino a star male. «Puoi davvero» dice, e lo sguardo che si scambia con Fíli è molto diverso.

«Va bene, cugino» dice Fíli, e mette un braccio attorno alle robuste piccole spalle «Rimani con noi. Bisogna prendersi cura di una mente così.»

Il bambino sembra confuso dal loro completo cambiamento, ma lo accetta senza problemi. «Va bene. Non sarete più cattivi?»

«Ma più, Gimli» dice Kíli solennemente «Sei con noi d'ora in poi. Prometto.»

E poi sia Fíli che Kíli saltano sul bambino e gli riempiono i capelli di neve e Kíli si prende una manata di neve nella giacca e Fíli ne ha un'altra manata ficcata nei pantaloni e tutti e tre sono senza fiato e rossi per le risate.


Kíli gli tira i capelli. Sempre. I capelli di Gimli sono luminosi e folti e praticamente indomabili, o almeno lo saranno finché non saranno abbastanza lunghi da essere legati. Gimli impara a ignorarlo – anzi, le tirate di capelli lo portano a ignorare i propri capelli con un disprezzo quasi unico fra i Nani. Li pettina a malapena.

(Kíli gli insegna a piegare a dovere un arco, con la pazienza infinita che mostra solo per tirare: come mirare e scoccare senza farsi male da soli. Kíli un giorno gli dà un violino e gli mostra le corde. Gimli fa pratica diligentemente. Vuole impressionare suo cugino mostrandogli quanto è migliorato.)

Fíli gli nasconde i giocattoli. Gimli è tanto più giovane di loro – quindici anni meno di Kíli – e i suoi giocattoli sono per bambini piccoli. Ma Gimli odia essere visto come un bambino piccolo. Sua sorella è una bambina piccola: Gimli è un bambino grande. Quindi Fíli gli nasconde i giocattoli, e guarda allegramente Gimli diventare sempre più frustrato perché non si permetterà di piangere come il Nanetto di dodici anni che è.

(Fíli gli insegna ad annodare corde: tutti i modi diversi e i nodi e gli anelli che vengono usati nelle miniere dove lui non può andare senza sua madre o suo padre o suo zio Óin. Fíli lancia un diamante imperfetto a suo cugino un giorno, e Gimli è meravigliato. “Dimmi cosa c'è che non va in esso” dice Fíli, e Gimli lo studia con avida concentrazione per due settimane finché non riesce a dare la risposta con sicurezza.)

Gimli li prende a calci negli stinchi. Forte. Lui è molto forte per un Nano così piccolo, e i suoi calci sono piuttosto potenti. Fanno saltellare Kíli stringendosi un ginocchio fra le mani, e lasciano lividi a forma di punta di stivale sulla pelle di Fíli.

(Fíli sente il peso della responsabilità che gli pesa sulla testa – il pesante, polveroso sapore delle parole solenni di suo zio, l'enorme aspettativa sulle sue spalle come un enorme e soffocante mantello. Anche il suo fratello vivace e incosciente è un ricordo di ciò che sarà a venire: il terzo in linea, il suo erede. Lui è troppo giovane per pensare a suo fratello come il suo erede, ma non può evitarlo, non quando Zio Thorin lo guarda con quegli occhi duri e tristi. Ci sono sempre le grandi, solenni ombre del futuro, che si allungano davanti ai suoi occhi, alte e minacciose alla luce del fuoco. Di Gimli può prendersi cura con più facilità. Può voler bene a Gimli senza sentire il peso di una corona che gli serra la fronte in una morsa.)

Litigano e lottano e di tanto in tanto dichiarano il loro eterno odio uno per l'altro. Non dura mai a lungo.

(Kíli è tanto, tanto stanco di essere il più giovane, il bambino, il piccolo della famiglia. È stanco di essere escluso. È stanco della gente che parla come se non fosse lì. È stanco di sentirsi dire che capirà un giorno, quando sarà più grande. È stanco di sicurezza e cautela, di soffocare la vocina costante dentro di lui che sussurra: “perché non andare lì? Perché non fare quello? Sarà un'avventura!” E poi, Kíli è quasi cresciuto ormai! È più alto di suo fratello! Essere attorno a Gimli aiuta. Lui è così giovane – il Nano più giovane in Ered Luin, a parte la sua sorellina in fasce. Gimli obbedisce a Kíli. Gimli ammira Kíli. Gimli ascolta sempre.)

Diventa conoscenza comune fra i Nani di Ered Luin che i figli di Dís si sono guadagnati un'ombra.


C'è freddo nell'aria mentre Gimli scende le scale. Fa sempre freddo lì. I fuochi non sono accesi spesso – solo in occasioni particolari. Occasioni terribili.

L'ultima di quelle occasioni è stata due anni fa, ormai.

Gimli non era stato lì, allora. Il viaggio da Ered Luin fu lungo e lento, con tutti quei carri e quelle famiglie che attraversavano le Montagne Nebbiose. I sentieri non erano meno pericolosi, ma tutti quei Nani avevano quantomeno scoraggiato la maggior parte dei predatori più animali. C'erano stato un incontro con alcuni goblin che era, fino a quel momento, la cosa più eccitante e spaventosa di tutta la giovane vita di Gimli.

Certo, è così buio e freddo qui che Gimli rabbrividisce. Non è superstizioso, e sa di essere nella casa dei suoi antenati, tenuto stretto e al sicuro nell'abbraccio della Montagna. Però. Non è esattamente un luogo confortante, e la torcia che tiene in mano è l'unica luce che si permette.

Lui è un Nano della Linea di Durin. Non deve temere la sua famiglia.

Infine le scale finiscono, e la nuova camera gli è rivelata. È lunga e stretta e piena di ombra, colonne sono allineate lungo i muri. Fra ogni colonna è una figura immobile, a guardia della grande bara di marmo che vi è dietro.

Gimli alza di più la torcia, guardando i solenni volti intagliati di Nani morti molto tempo prima. La stanca, determinata faccia di Thráin il Vecchio, il primo Re Sotto la Montagna, lo osserva con occhi scavati. Il suo bis-bis-nonno Borin lancia al suo discendente una fredda occhiata di marmo. Una Nana, il nome oscurato dalla pietra crepata, guarda nell'oscurità come in attesa.

Infine le figure e i grandi e pesanti sarcofagi di pietra diventano meno frequenti mentre Gimli va verso il fondo della lunga sala. I suoi passi sono molto pesanti, e l'aria è molto ferma. Sente ogni respiro che gli riempie i polmoni, tanto è silenziosa.

Ci sono spazi dedicati a Nani caduti in altri luoghi, i loro corpi bruciati da fuoco di drago o davanti ai cancelli di Khazâd-dum o marciti sotto il cielo, i loro volti persi per sempre. Dei nomi sono stati intagliati sopra i piedistalli vuoti dove dovrebbero essere le loro bare grige: Frís, Haban, Gróin, Hrera, Frerin, Fundin, Thrór, Thráin II. Non riposano sotto la pietra come ogni Nano dovrebbe. Sono persi per sempre ai loro familiari. Pochi ora ricordano i loro volti e nessuno di loro sa intagliare la pietra, o sono troppo vecchi per poterlo fare.

Le arcate vuote sono in qualche modo solitarie. Gli manca qualcosa. Gimli sospira passando davanti ad esse, i suoi occhi esitano sul nome di sua nonna. Lei è perduta: sono stati tutti perduti. Sono stati tutti perduti per così tanti anni, e molti non saranno mai ritrovati.

Poi vi sono tre nuove statue, solenni come le altre. La pietra è liscia e appena intagliata, grigia senza segni di acqua o macchie di licheni, fresca dalla terra e senza i segni degli anni, a differenza di quelle dietro di lui. Gimli alza la torcia e il suo cuore batte più forte.

Il suo grande cugino, eroe di guerre, colui che ha compiuto grandi azioni e richiamato la loro case, il Re Sotto la Montagna, è vestito in semplici, umili abiti da viaggio. Gimli sa che se alzasse il coperchio della bara dietro la statua troverebbe la luminosa Archepietra sul suo petto scheletrico, le falangi per sempre avvolte attorno all'elsa di una spada Elfica. Gimli fa una smorfia, e guarda il volto severo e risoluto. L'espressione non è pacifica.

Sembra incredibilmente ingiusto che persino in questa rappresentazione scolpita di morte, Thorin Scudodiquercia non è in pace.

Gimli non riesce a guardare l'eroe del suo popolo, non per molto. Un tempo ci fu un fabbro delle Montagne Azzurre, un Nano tetro che amava i suoi nipoti e picchiava i piedi a ritmo delle canzoni più rumorose e cantava quelle più dolci e beveva la sua birra come se lo avesse offeso personalmente. Gimli ricorda bene quel Nano. Questo non è lo stesso. Questo è per sempre fermo in implacabile dolore di pietra. Questo li trovò tutti, tutti coloro che erano perduti e senza casa e senza proprietà, e li riportò indietro. Questo compì grandi azioni, ma perse se stesso nel farlo. Questo è un avvertimento: sii cauto nei tuoi desideri.

Gimli si inchina profondamente a lui, lascia che la sua testa accarezzi il piedistallo dove poggiano i piedi scolpiti. Egli si merita questa, e altro.

Poi si raddrizza e si gira verso la nicchia successiva. Lì vi sono due statue.

Bene. Loro non vorrebbero essere separati.

I suoi amici sembrano più alti di quanto non lo erano in vita, e più vecchi, e più cupi. Gimli sistema la torcia davanti a loro e sospira profondamente osservando le loro immagini. Non sono accurate. Non sono giuste. È sbagliato che Kíli non stia sorridendo, Kíli sorride sempre. E Fíli sembra piegato sotto un enorme peso, piuttosto che dritto e orgoglioso con quel modo arrogante che aveva di camminare.

È sbagliato che i loro arti siano ora null'altro che ossa strette in un abbraccio di roccia, piuttosto che in movimento costante e energetico, dando a Gimli pacche sulla schiena e appoggiandosi alle sue spalle entusiasti. È terribilmente, terribilmente sbagliato.

«Ciao, Fíli, Kíli» dice piano, e la sua voce rimbomba per la stanza, echeggiando verso le scale «Alla fine sono arrivato, camminando dove avete camminato voi. Sono nella Montagna che voi ci avete ripreso. Sono a casa ora. Vi ho seguiti, come ho sempre fatto.»

Ma no. Gimli non può seguirli ora, non più.

China la testa, e poi alza di nuovo lo sguardo, un sorriso triste agli angoli della sua bocca. Alza una mano e si slega la corta barba prima di tirar fuori il suo coltello e tagliarne tre ciocche. I piedi delle tre statue sono già coperti di capelli: degli altri non faranno molta differenza. I suoi luminosi capelli rossi si uniscono agli altri, per marcire insieme alle ossa dei morti onorati.

«Maledetti» dice, e poi ride piano. Il suono gli torna indietro: mille Gimli stanno ridendo di lui. «La mia barba ormai è abbastanza lunga da essere legata» dice al volto solenne di Kíli «Niente più ciuffi. Quanto saresti geloso!»

«Mi alleno con due asce oggi» dice a Fíli «Non sono spade, ma ne saresti orgoglioso, penso – prima di spedirmi nel fango!»

I suoi occhi bruciano. «Chi dovrò seguire ora?» chiede ai morti, e loro non rispondono. Gimli ha sessantaquattro anni, non è ancora adulto. È troppo, troppo vecchio per tirar calci agli stinchi di pietra di Fíli – ma troppo giovane per seguirli. «Chi mi deriderà e provocherà e insegnerà e mostrerà come essere migliore? Chi mi tirerà i capelli e nasconderà le cose? Chi berrà con me e mi insegnerà canzonacce da ubriachi e ballerà sui tavoli e racconterà storie incresciose e ci farà bandire da tutte le taverne della Montagna? Chi mi sosterrà quando sarò un idiota, e ascolterà quando sarò saggio? Chi affronterà la mia rabbia e le mie asce quando nessun altro proverà ad ascoltarmi? Chi mi porterà ai miei più grandi trionfi e alle mie peggiori disgrazie? Non sono pronto per guidare me stesso! Non sono pronto, e voi avevate promesso! Avevate promesso!»

«Coppia di bastardi» aggiunge per buona misura, e la testa rossa di Gimli si abbassa, e si controlla con grande sforzo.

La cripta è silenziosa, a parte per il suono del suo respiro affannoso.

«Dovrò riprendere da dove voi avete smesso, suppongo» si dice infine. I suoi occhi sono lucidi e gonfi per aver trattenuto le lacrime, ma la sua bocca è una linea determinata. «Mi mancherete. Stupidi idioti. Vi renderò orgogliosi. Vedrete.»

Poi riprende la sua torcia e fa per andarsene, ma non prima di fissare i suoi cugini con uno sguardo duro che fa a gara persino con i loro piatti occhi di pietra. «Tornerò» borbotta. La sua voce rimbomba per la cripta, profonda e ferma e certa.

Per la prima volta, Gimli suona come l'adulto che sarà un giorno.


Gimli ha sessantaquattro anni, non è nemmeno di età, ed è troppo giovane per avere marchi di lutto sulla sua pelle. Ciò non lo ferma. Sua madre sussulta e poi impreca come un soldato quando vede i tre nuovi tatuaggi sulle sue spalle: linee gonfie e insanguinate che escono dal colletto della sua tunica troppo piccola. Sua sorella osserva meravigliata la sua audacia.

«Sei così, così, così morto» sussurra.

Gimli non la corregge. Essere nei guai – di nuovo – è quasi come tornare a casa in un modo che camminare per Erebor non è. Quei nuovi marchi sono speciali e lui non rimpiange di esserseli fatti. Il simbolo del suo eroico Re morto è in cima alla sua schiena, e ognuna delle sue pallide, lentigginose e robuste scapole è coperta dal disegno di un cugino: Fíli sulla destra, Kíli sulla sinistra. Sono un memento, scavato nella sua carne. Sono un ricordo disegnato sulla sua pelle. Sono una promessa: ora io guido me stesso, ma non dimentico. Vi renderò orgogliosi. Un giorno, vi seguirò ancora.

Glóin sospira forte e stanco. Ormai nulla lo sorprende più. «Non devo nemmeno chiedermi chi ti abbia ispirato a farli» ringhia, dando uno scappellotto alla nuca di Gimli. Gimli lo evita. «Piccolo sciocco incosciente, inùdoy. Spero tu abbia quantomeno mentito a un artista della pelle rispettabile. Di certo mantieni la loro reputazione come loro apprendista e successore!»

Gimli non assomiglia molto al ramo maggiore della Linea di Durin, nonostante i tratti che condivide con loro: la larghezza della sua fronte, le sue spalle squadrate e le sue enormi mani. La loro famiglia è una linea minore, il ramo discendente dal fratello minore del primo Dáin. Gimli è a sei generazioni di distanza da un Nano che abbia indossato una corona.

Ma alza il mento nel modo orgoglioso e arrogante che gli ha insegnato Fíli, e ghigna con tutta l'allegria di Kíli – ed è uguale a loro, se solo per un istante.

«Aye» dice, e i suoi occhi scuri brillano di soddisfazione e determinazione. Quasi può sentire le loro risa. «Aye, lo farò.»

FINE

   
 
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