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Autore: Mikaeru    08/03/2016    1 recensioni
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“Perché ti sei ridotto a farti del male da solo, se hai me?”
I canini di Hannibal brillano del suo sangue come quelli di un vampiro, di un mostro nascosto nella foresta. Si allunga e lo lecca via. “Hai detto di non aver più bisogno di farmi del male.”
“Questo sarebbe solo un piacere.”
Will scopre il masochismo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Hannibal Lecter, Will Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piove. Non c’è vento, la pioggia non batte contro i vetri; la casa è incredibilmente silenziosa, i fantasmi non alzano la voce, girano attorno alle caviglie senza far rumore. Guarda fuori dalla finestra in quella maniera che probabilmente Hannibal definirebbe da poeta, qualcuno che cerca quel luccichio d’ispirazione nel tempo avverso, nelle nuvole cariche e scure, nelle pozzanghere che diventano specchi deformanti e frastagliati. Un’intera parete dl salotto è fatta di finestre, un’enorme porta trasparente sulla città. Hannibal ha scelto Londra, o forse Londra ha scelto lui, lo ha chiamato di nuovo a sé come una madre, e come tale Hannibal ha cominciato a mostrargliela, con l’orgoglio di un figlio che torna dopo troppo tempo. Tiene le braccia attorno al corpo, stringe le unghie contro la carne, ma ha un maglione addosso. In casa non fa freddo (in casa di Hannibal non potrebbe mai fare freddo) ma sente brividi lungo la schiena da quando si è svegliato. Si infila le mani sotto le maniche, comincia a grattare fino a quando non sente frammenti di pelle staccarsi. Oh, brucia.
“Will?”
La voce di Hannibal sembra distante, quando in realtà ha appena fatto capolino da dietro la porta. Ha addosso un profumo caldo, di qualcosa di terreno. Deve aver cucinato il pollo; Will ha sempre collegato il pollo alla terra, anche quando non ne porta nessun odore. Erbe, limoni, piccole bacche rosse, olio d’oliva che esalta i sapori, pelle croccante che non mangerà, ma che Hannibal non butterà. Per lui lo spreco di cibo è un peccato assai più mortale dell’omicidio. (“L’uomo ha una coscienza che gli permette di salvarsi dal meritarsi la morte, il cibo non ha questa possibilità.”)
“Sì?”
Non si volta quando risponde, attende che sia Hannibal ad avvicinarsi. Non lo fa. Il suo odore rimane dov’è, solido e pesante come una statua votiva.
“Il pranzo è pronto, se hai fame.”
Ha lo stomaco sottosopra, ma non sa se è più forte il senso di fame o il senso di nausea, per cui rimane fermo senza parlare. Hannibal raccoglie il suo silenzio come un ciottolo del fiume e se lo mette in tasca senza asciugarlo.
“Il tuo piatto sarà sulla tavola, per quando ne avrai voglia.”
Chiude la porta con delicatezza – no, non la chiude, l’appoggia soltanto. Will rimane lì a guardare la pioggia cadere, sottile come capelli; osserva la pioggia attorcigliarsi attorno a tutto, soffocandolo.
 
In camera sua c’è uno specchio a figura intera dall’aspetto antico – ora che ci pensa, sicuramente lo è, perché Hannibal non arrederebbe mai la propria casa con insultanti imitazioni per inseguire la moda corrente; quattrocento anni di storia nella sua stanza, forse appena ritoccati, e non ne sente neppure uno. Hannibal ne sarebbe contrariato. Ci passa davanti e cerca di fuggire al proprio riflesso, ma il suo riflesso ama giocare sporco, gli afferra le mani e lo costringe davanti a se stesso. Conosce tutte le cicatrici a memoria, saprebbe ripeterne le coordinate a occhi chiusi, anche dopo mesi di occhi chiusi. Immagina di strappare i punti con le unghie, lasciare che il sangue scorra sul suo corpo. Gli era piaciuto sentirlo addosso, non è così? Il suo assieme a quello di Dolarhyde. Non dovrebbe essere diverso ora, se si aprisse del tutto, se annegasse.
Tira un pugno al proprio riflesso, schegge di vetro finiscono sotto pelle, le nocche cominciano a sanguinare. Le lecca, succhia le ferite come un vampiro, ma maledice solo se stesso. Le gambe cedono, si ritrova con le ginocchia al petto, comincia a tremare e non trova la forza di smettere. Trema così forte che gli fanno male, come se battessero contro il suo corpo, disperate per uscire. Prende uno dei cocci di vetro, comincia a passarlo verticalmente sul braccio; c’è una lunga riga ininterrotta sulla sua pelle, ora, ma non c’è sangue, perché non ha premuto forte. Che cosa teme? La morte, forse? Ne ha visto così tante il viso che ormai dovrebbe esserle sorella, perché dovrebbe temerla? O teme il dolore della morte? Neppure quello gli è nuovo – gli è famigliare come se stesso. E non è forse questo che gli fa paura? Quella presa di coscienza totale e che non lascia più spazio alle congetture, alle domande dalle molteplici risposte. Ora è tutto meno sfumato, meno probabile – non ha più possibilità di salvezza perché non ci sono più ambiguità. Stringe il coccio tra le mani, si ferisce, e allora lo preme di più contro la pelle, la spacca appena. Il sangue è così chiaro, così fresco, frutti appena nati su un ramo. Non sembra affatto nero ora che non è sotto la luna piena.
Preme il vetro più forte, vicino al gomito.
 
“Spero tu abbia fame, stamattina. Non è consigliabile per la tua salute fisica continuare a saltare i pasti.”
Anche la colazione, se servita da Hannibal, ha le fattezze di un quadro, di una natura incredibilmente viva. Piatti di pane tostato da coprire di marmellata, ciotole di frutta fresca appena comprata; allunga una mano verso l’uva, strappando un paio di acini che si mette in bocca senza ancora morderli.
Ha più freddo di ieri, per cui ha indossato un maglione più pesante; di cashmere, pensa di aver letto distrattamente sull’etichetta, un regalo. È incredibilmente morbido e caldo. Hannibal gli ha chiesto più volte di misurarsi la febbre, perché non gli sembra possibile che possa sentire così tanto freddo senza essere malato. Will si è rifiutato con inutile testardaggine per il solo gusto di dirgli di no, inoltre non si sente malato, ha solo freddo. Non è influenza, è qualcos’altro, ma si rende conto piuttosto lucidamente che non è un malessere di natura fisica.
“Oggi avrei avuto voluto uscire, ora che non piove più, ma non mi sembri nelle condizioni adatte.”
Will mordicchia una fetta di pane senza avere davvero appetito, senza un vero desiderio di mangiare – più una sorta di tranquillità nell’avere qualcosa in bocca. Quanto tempo è trascorso dal loro arrivo a Londra? Un paio di mesi. Sessantacinque giorni, contando oggi. Non era mai stato fuori dall’America prima di scendere all’aeroporto di Stanstead. In sessantacinque giorni non è uscito molto. All’inizio ha dato la colpa al fuso orario, all’incapacità di prendere sonno agli orari giusti – o prenderlo e basta; il sonno ristoratore sembra essere tornato un miracolo a cui non può accedere, non ora. (ci sono troppi peccati da espiare perché possa meritarselo) Poi è subentrata la paura irrazionale della folla, dettata da una più razionale di essere identificato, anche quando Hannibal gli ha fatto notare che in una città così grande e cosmopolita non si riconoscerebbero neppure tra fratelli; ma Will (o, per meglio dire, una voce che aveva le sue note, un pensiero che aveva le sue impronte) ha continuato ad insistere che non poteva uscire, perché era pericoloso, perché le grandi masse di persone sono pericolose in quanto tali; le ha sempre odiate, gli hanno sempre fatto tremare i denti di angoscia e di rabbia. Hannibal ha sempre rispettato i suoi desideri.
(non è incredibilmente ironico? Hannibal Lecter che lo rispetta. Che non insiste, che non lo forza. Dice che ora non ne ha più bisogno, che può permettersi di essere malleabile.)
Sono usciti una manciata di volte, quando Will si svegliava con qualche idea nebulosa in testa – un museo non troppo affollato, un concerto per pianoforte in una chiesa, il vento intrecciato con il maglione – e gli chiedeva di fare colazione velocemente perché sì, quella era la giornata perfetta per uscire; e allora Hannibal gli ha sorriso, gli ha offerto la colazione fuori, gli ha mostrato angoli della città in cui era più difficile trovare un turista, hanno ascoltato ore di concerti che rimbalzavano contro le pareti di chiese dai soffitti altissimi, hanno visto il tramonto e l’alba in due punti diversi di Londra.
(Hannibal Lecter che fa quel che gli chiede, che prende a cuore la sua volontà. A volte si chiede se non stia vivendo una realtà parallela troppo ben costruita.)
Ma oggi no, non ha voglia di uscire. Il braccio gli brucia, e ama che gli bruci. Si infila una mano sotto la manica, gratta con le unghie fino a far sanguinare di nuovo i graffi. Oh, bruciano. Pulsano. Sa che Hannibal lo sta guardando, ma non crede lo stia vedendo. Non così in profondità, perlomeno.
(sostiene di conoscerlo più di se stesso. Non sa se è vero. Non sa nemmeno se è falso.)
“Non hai sempre bisogno di aspettarmi, Hannibal. Puoi uscire. Soffri chiuso in casa, sembri un gatto ansioso. Esci pure per me. Io rimarrò in casa a leggere.”
Hannibal taglia un pezzo di frittata e se lo porta alla bocca. Un pezzetto di prosciutto cade sul piatto, Will lo raccoglie col dito e lo mangia prima che Hannibal possa rimproverarlo.
“Sarebbe molto più piacevole se tu potessi farmi compagnia.”
Prende un altro acino d’uva. Si sente già pieno. Prende il quarto, ma si limita a farlo rotolare sul piatto, raccogliendo le minuscole briciole di pane.
“Non ho voglia di uscire. Ieri ho iniziato un libro che avevo intenzione di finire oggi.”
Sono dettagli troppo vaghi perché Hannibal possa prenderli per buoni, lo sa perfettamente, ma non è abbastanza concentrato sul presente perché possa tirare fuori dal cappello una storia più elaborata.
“Deve essere incredibilmente appassionante, se hai pianificato le tue giornate attorno ad esso.”
Annuisce. Si infila l’acino d’uva in bocca. “Te lo farò leggere quando l’avrò finito.”
“Con piacere.”
 
Hannibal è finalmente uscito di casa, alle dieci e un quarto. Dalle finestre del salotto lo guarda camminare verso la sua meta sconosciuta, dritta davanti a sé; lo vede voltare la testa verso di lui, fargli un cenno del capo. Forse sta sorridendo, non saprebbe dirlo.
(sorride spesso, Hannibal, come se fosse una buona abitudine che si è ripromesso di mantenere tanto tempo fa. Una volta ha detto quanto si senta felice, soprattutto in questo momento. Will ha chiuso gli occhi e ha cercato di immergersi in quella gioia. C’è riuscito per un paio di minuti.)
La casa è troppo grande. È l’ultimo di cinque appartamenti di un palazzo dall’aspetto solido e antico, circondato di verde. Will avrebbe preferito una villa indipendente, ma quell’appartamento è l’abitazione più bella che il mercato abbia offerto al momento della loro ricerca, e Hannibal si è fatto guidare da motivazioni estetiche, come al solito. Inoltre Will si è presto abituato, perché stare in alto gli permette di vedere meglio Londra e di esserne sufficientemente sollevato, così da non doverne sentire costantemente i suoni, i rumori. Non si è invece ancora ammorbidito attorno a lui tutto quello spazio che gli sembra inutile. Tre stanze da letto, un salotto più grande della sua casa di Wolf Trap, una sala da pranzo abbastanza larga e lunga da contenere un tavolo per dodici persone – e, ovviamente, la cucina, perché Hannibal non potrebbe vivere senza una cucina più grande della maggior parte delle case della maggior parte della popolazione.
Ora ha fame.
Si siede per terra con un piatto di frutta – uva, mandarini, limoni, fette di mela dalla buccia rossa e lucida come quelle della matrigna di Biancaneve – e dei cioccolatini che ha trovato in frigo. Appoggia la schiena al forno, si toglie il maglione perché gli è passato il freddo, almeno un po’. Si guarda il braccio perché i suoi occhi ne sono attirati come i bambini lo sono dal fuoco; ci sono tracce di sangue fresco che lecca in punta di lingua, si morde e guarda con una certa soddisfazione inspiegabile i segni dei denti, quelli appena più profondi dei canini, quelli larghi e regolari degli incisivi. Pensa a quanto amerebbe potersi riempire in quel modo, potersi mordere ovunque. Affonda i denti nella carne più morbida del braccio, stringe più forte che può ma la pelle non si spacca, come un giuramento eterno. I morsi fanno più male dei tagli del vetro, ma non è ancora un dolore che lo fa piangere.
(quanto tempo è che non lo fa? Avrebbe creduto che, dopo la caduta, sarebbe riuscito a farlo. Gli sembra così innaturale non riuscirci. Come se avesse scordato come farlo. Ma gli esseri umani possono davvero dimenticarsi come piangere? Non crede sia possibile. E forse questo è un segno ulteriore della sua appartenenza ad un’altra razza – non sa quale, ma non sembra essere quella umana, o tutto quello che dentro di lui sta scoppiando, urlando, troverebbe il modo di urlare fuori dal suo corpo.)
Si ricopre il braccio di morsi con una lucidità spaventosa. Non si sta abbandonando a nessuna furia autodistruttiva; ogni morso è piazzato mentre guarda negli occhi le proprie intenzione. Non chiude mai gli occhi. La pelle è violacea e rosso scuro; ora può mangiare quello che ha nel piatto. Si mette in bocca un cioccolatino e uno spicchio d’arancia, li morde nello stesso momento per farli esplodere sulla lingua. Si passa una mano sul braccio e gli dà l’impressione di un libro scritto in braille, ed è terribilmente rilassante, quasi avesse trovato un briciolo di pace.
(di pace ne ha fin troppa, è questo il problema. Si sente ribollire ma c’è troppa pace.)
Sospira, chiude gli occhi. Pensa lontanamente che potrebbe mangiare altro, che vorrebbe farlo perché ha lo stomaco completamente vuoto, però c’è qualcosa nel masticare che renderebbe il momento più fragile e sarebbe molto più semplice spezzarlo. Per questo non si rende conto che Hannibal lo sta guardando. Ha una borsa di carta in una mano.
“… sei entrato da Starbucks?”
“Ho pensato di portarti un regalino. Una piccola deviazione non avrebbe mandato all’aria i miei programmi.”
Appoggia il caffè sul bancone della cucina, quello stesso caffè per cui Hannibal riserva l’odio che molti riservano per i molestatori di bambini, e si inginocchia al suo livello. “Avresti piacere di spiegarmi perché ti sei ridotto il braccio a quel modo?”
“Mi piace il dolore,” sputa fuori senza pensarci. Gli manca l’aria quando comprende che non è la prima bugia che gli sia venuta in mente, ma una verità inaspettata.
(no, non è inaspettata. Per quale altro motivo si sarebbe così legato ad Hannibal, se non fosse quella una delle verità più semplici della sua vita?)
“Oh,” è tutto quello che sa dire Hannibal, che lo fissa con occhi sorridenti e gentili.
(è così incredibile.)
“È tutto qui?”
“È tutto qui. Non ho altre spiegazioni, dottore.”
Will non abbassa lo sguardo. Hannibal allunga la mano verso il suo braccio e lo accarezza. Preme il pollice sui segni dei morsi e Will chiude gli occhi.
“Posso?”
“Fai pure,” gli risponde subito, nonostante non abbia idea delle tue intenzioni. Potrebbe anche volergli strappare il braccio a mani nude, ma non gli importa. E invece si limita a morderlo, affonda i denti fino a quando non lo fa sanguinare. Will vorrebbe urlare ma tutto quello che esce dalla sua bocca è un gemito bagnato con una venatura di sofferenza. Hannibal non gli lecca il sangue come avrebbe pensato; prende il limone e lo spreme sopra le ferite e questa volta Will urla davvero. Brucia. Brucia, brucia, brucia. Dio, quanto brucia. Dio, che bello.
“Perché ti sei ridotto a farti del male da solo, se hai me?”
I canini di Hannibal brillano del suo sangue come quelli di un vampiro, di un mostro nascosto nella foresta. Si allunga e lo lecca via. “Hai detto di non aver più bisogno di farmi del male.”
“Questo sarebbe solo un piacere.”
Will si ferma a pochi centimetri dal suo viso, immobile; sente il respiro di Hannibal sulla sua pelle.
“Prima non lo era?”
Hannibal preme il dito sulle tracce del sangue che si sta seccando, ma riesce comunque a  macchiarsi. Gli dipinge le labbra di rosso, si avvicina così tanto che non ci sono che pochi millimetri tra loro. Non lo bacia, come Will avrebbe creduto.
(come avrebbe voluto?)
“Ora lo sarà di più, ora che ti piace, ora che lo vuoi.”
“Allora continua.”
Hannibal gli morde la cicatrice vicino al gomito e spreme un altro spicchio di limone; Will si contorce per il dolore ma non si alza, non si sottrae.
(sì, sì, sì, è questo che vuole, è questo che ha sempre voluto, un dolore più forte di lui. È così liberatorio. Ed è così liberatorio che Hannibal lo abbia scoperto, è liberatorio lasciargli il potere di fargli male, ora che è lui a decidere i tempi e le modalità. Sa che potrebbe alzarsi in qualsiasi momento e dirgli di smetterla e lui non muoverebbe più un passo verso di lui. Sa che è così ed è per questo che non si muove, perché vuole sentirlo fino in fondo.)
“Sai ferirmi solo dove l’ho già fatto io? È troppo facile. Non puoi vivere nei percorsi già stabiliti da altri.”
Gli occhi gli bruciano, sente che sta per piangere, e accoglie quella nuova consapevolezza con un sorriso.
(ma per i motivi sbagliati, come sempre. Ma va bene, in un qualche modo va comunque bene, perché è la sensazione di essere davvero umano che desiderava. È una consapevolezza spaventosa, ma ci farà i conti più tardi. Ora sta bene. Ora va bene.)
Hannibal gli sorride, lecca le gocce di succo di limone che scivolano lungo il braccio. È ancora troppo vicino ad un essere umano; quando tornerà quella bestia fatta di carne viva e cuore pulsante? Vuole che sia quell’animale a distruggerlo fino in fondo. Fin dove dovrà immergere le mani, per risvegliarla?
“Oh, no, mio caro Will, è solo che non posso darti tutto subito.”
Will geme di nuovo, e di nuovo geme di piacere.
“Altrimenti dove sarebbe il divertimento, giusto?”
“Assolutamente. Sei sempre il mio ragazzo furbo.”
Will apre le gambe e Hannibal ci si inginocchia in mezzo. Gli allunga il braccio martoriato che Hannibal accetta con la grazia di un’offerta di salvezza. Gli alza la manica, lo morde sulla spalla. Non spacca la pelle. È solo un assaggio, in fondo. Ripassa i segni dei denti in punta di lingua, come se spingesse i tasti di un pianoforte. Will si inarca appena, chiude gli occhi. Oh.
“Sempre.”
  
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