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Autore: Gwen Chan    11/03/2016    7 recensioni
È qualcosa che insegnano a tutti dalla più tenera età: nel suo mondo i colori sono prerogativa solo di chi ha incontrato la propria anima gemella.
[...]
Francis scoppia di nuovo a ridere, ma questa volta la sua è una risata sincera, diversa da quella di poco prima.
"I tuoi gesti contraddicono le tue parole. Non c'è motivo di bruciare le tappe, personalmente ho sempre trovato affascinante l'amore che si sviluppa lentamente. Francis Bonnefoy, stagista ufficio marketing."
Allunga la mano libera, che Arthur stringe con fare dubbioso. La stretta di Francis, invece, è decisa.
"Arthur Kirkland, risorse umane."
Si volta in fretta per nascondere un mezzo sorriso.

[Soulmates!AU][FrUk/UkFr]
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Maybe it's destiny, maybe something else'
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It feels like enough
 
Ci sono due tipi di tè nella scatola che Arthur tiene in cucina: tè nero e tè bianco. Allo stesso modo, nella credenza sono impilate con cura tazze nere e tazze bianche, vicino a piattini candidi e a piattini scuri, in una cucina dove il pavimento è grigio e le pareti color panna 
Almeno così lo vede Arthur, perché a detta di sua madre, felicemente sposata da trent'anni,  il tavolo è color ciliegia, il pavimento verde mela e le pareti giallo paglierino.
L'ammasso di grigiore perenne che Arthur chiama cielo, a suo dire è azzurro, come il mare, mentre il prato - una distesa antracite – brilla di verde. Qualunque cosa significhi. Nato in un mondo privo di colori, quei nomi per lui erano privi di senso, perché non ha nulla a cui paragonarli. 
 
La prima volta che Arthur cessa di vedere in bianco e nero, sta attentamente separando le fragole dalle banane, che detesta, nella macedonia acquosa della mensa aziendale.
Non è sempre facile mangiare quando non puoi vedere i colori. Le caramelle gommose, ad esempio, sono una lotteria e, nonostante col tempo si sviluppi la capacità di distinguere da grigio a grigio, rimane sempre il rischio di pescare l’unico gusto, tra i tanti, detestato.  Arthur ama quelle al limone tanto quanto odia quelle all’arancia; l’unica soluzione, allora, è sottoporre il pacchetto a qualcuno il cui mondo è a colori. Anche Arthur fa così, persino all’alba dei vent’anni.
Per fortuna fragole e banane si distinguono senza l’ausilio delle tinte, pensa il giovane, mentre impila con cura le rotelle candide nel piatto. Se il cibo della mensa è appena passabile, con il cuoco che non manca mai di cuocere le pietanze ben più a lungo del necessario, le banane sono argomento tabù. Al solo pensiero, Arthur sente lo stomaco attorcigliarsi.
È tanto impegnato nel suo compito che quando qualcuno gli chiede se i posti vuoti del suo tavolo sono liberi, scuote la testa in un cenno di diniego, sovrappensiero, senza aver davvero recepito la domanda; quando solleva lo sguardo, chiunque abbia interrotto il suo pasto si è già allontanato. Da quel momento bastano pochi secondi perché tutto cambi.
 
È il rosso il primo colore che Arthur scopre e non bastano anni di racconti, per quanto dettagliati, a prepararlo all'esperienza. L’ultimo pezzo di fragola, ancora infilato sulla punta della forchettina di plastica, si tinge di colpo di un vermiglio che vibra con prepotenza sotto il suo naso, con una bellezza tale che i suoi occhi si riempiono di lacrime. È solo uno stupidissimo pezzo di fragola, ma è anche il primo frammento di un mondo nuovo, brillante, è il segnale che qualcosa di grande accadrà a breve. Insomma, è qualcosa di troppo importante per essere mangiato.
Man mano che la mensa muta, spogliandosi dal velo di grigiore fino ad allora indossato, Arthur si impone di rimanere calmo, di respirare profondamente per impedir che il cuore, in preda a un attacco d’ansia, gli schizzi fuori dal petto. Batte così forte che non ha nemmeno bisogno di posare la mano sullo sterno per sentirlo.
 
È qualcosa che insegnano a tutti dalla più tenera età: nel suo mondo i colori sono prerogativa solo di chi ha incontrato la propria anima gemella. Di norma la maggioranza della popolazione trova la propria metà verso i vent’anni, a volte per caso, più spesso grazie ai raduni che i diversi Stati organizzano perché anime gemelle nate in Paesi diversi possano conoscersi.
Alcuni, invece, si innamorano da bambini, all’asilo, per una stretta di mano o un bacio leggero dato sulla guancia. Altri trascorrono l’esistenza in una vana ricerca, perché la persona a esse destinata non incrocerà mai il loro cammino; non mancano i casi di chi decide di sorvolare su certi dettagli, accontentandosi di qualcuno che, per quanto innamorato alla follia, non sarà mai il compagno perfetto.
Un’anima gemella non conosce sesso, età, razza, religione: per questo la sua società è così aperta.
 
Arthur scandaglia la stanza in cerca di qualcuno che abbia un comportamento molto simile al suo, sorvola un uomo stempiato con la fede al dito, ignora la ragazzina con la faccia quasi infilata nella ciotola d’insalata, si sofferma qualche secondo sulla donna che legge il giornale alla pagina di cronaca sportiva, infine il suo radar suona e Arthur fissa lo sguardo su un ragazzo poco più grande di lui, intento a chiacchierare con una coppia di amici.
È lui, non ha dubbi. Nei suoi occhi di un non-sa-ancora-quale-colore, non avendo termini di paragone, riconosce la propria medesima sorpresa. È abbastanza vicino da captare frammenti di conversazione e, se anche non fosse, bastano i gesti per spiegare la situazione.
“Sicuro che siano viola?” domanda. La voce è la medesima di chi gli ha parlato poco prima. Arthur sbircia da sopra il bicchiere pieno a metà d’aranciata, mentre all’altro tavolo si discute attorno a un piatto di carote.
“Ma sì, sì, viola!” assicura un secondo ragazzo, passandosi una mano tra i ciuffi castani, pur con la voce che già trema per una risata a stento trattenuta. “Andiamo, Francis, vuoi fare lo stilista e non sai nemmeno che le carote sono viola!” lo schernisce. L’altro corruga la fronte e Arthur può quasi vedere le metaforiche rotelline del cervello che girano all’impazzata nel tentativo di capire se i suoi amici stiano dicendo la verità o se lo abbiano designato come la vittima di una burla.
“Non guardare me!”
Un terzo ragazzo con i capelli chiari alza le mani per indicare che non vuole essere coinvolto nella faccenda. Poco dopo, tuttavia, aggiunge: "Secondo Lindz le carote sono arancioni, ma non mi fiderei più di tanto."
"Ancora arrabbiato per quella storia?"
"Figurati. Che si tenga pure la sua noiosissima anima gemella. Con lui i colori sono sprecati. Voglio dire, i tasti del piano sono già bianchi e neri!"
L'improvviso ingresso di un crocicchio di ragazze che chiacchierano a voce troppo alta e sembrano muoversi come una cosa sola, impediscono ad Arthur di sentire oltre. Quando torna il silenzio, i tre stanno discutendo su chi tra i presenti sia l'anima gemella di Francis.  A turno indicano qualcuno e commentano; tanto basta perché Arthur distolga lo sguardo per mascherare il proprio turbamento, insieme a un nuovo sentimento che gli fa tremare le  mani: rabbia. No,  antipatia.
"Spero non sia lui. Voglio dire, si è vestito al buio?"
Cosa ci sia di male nell'indossare pantaloni color magenta e un panciotto giallo zafferano, secondo i cartellini cuciti all'interno degli indumenti, Arthur non lo sa. Personalmente lo trova un ottimo abbinamento cromatico, ora che può verificare con gli occhi quanto sua madre gli ha sempre assicurato a parole.
"Perché il tuo maglione è bello" sbotta, a voce troppo alta.
Perfetto. Ora il suo cervello riesce a formulare un unico ordine: andarsene prima di diventare uno zimbello. La faccenda delle anime gemelle è un'idiozia, credere di essere destinati a qualcuno dalla nascita, a un’unica, esclusiva persona in tutto il mondo, è una sciocchezza al confronto della quale le fate incontrate da bambino sono reali quanto un esperimento scientifico. In bocca si diffonde un gusto amaro, mentre raccoglie i suoi averi e, senza indugiare oltre, si alza, col bordo del vassoio premuto contro lo stomaco.
“Già, sarebbe terribile. Ops …”
Il giovane dai capelli chiari, Gilbert, allunga con finta noncuranza una gamba in avanti, proprio dove sta passando Arthur, che finisce inevitabilmente con l’inciampare. Il vassoio schizza via dalle mani, il piatto compie un paio di capriole in aria prima di infrangersi sul linoleum, la sua faccia fa la sgradita conoscenza del pavimento. I tre amici ridono, suscitando in lui istinti omicidi.
“Gilbert!”
“È stato un incidente!”
“Stai bene?”
Arthur borbotta una risposta indistinta con viso nascosto fra le braccia incrociate, ancora sdraiato a terra, dove ha intenzione di rimanere finché la sua umiliazione non sarà scemata. O finché ci sarà qualcuno in mensa, il concetto è il medesimo. Non ricorda di aver acquistato un biglietto per il regno di Imbarazzopoli.
“Secondo me è morto.”
“Meglio così, no?”
“Non ascoltarli.”
Arthur sente Francis affibbiare un paio di compiti ai propri amici per mandarli via, poi non gli tende la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma fa una cosa che Arthur apprezza maggiormente. Si siede di fianco a lui. Senza accennare a volerlo tirare su dal pavimento, si limita ad aspettare, parlando come se non ci fosse nulla di strano.
“Dopotutto è un giorno da festeggiare” conclude la propria filippica appassionata sulle anime gemelle, l’amore, e altre simili smancerie che Arthur ha finora trovato solo nei libri rosa che legge di nascosto da tutti, perché l’immagine di cinico costruita con cura non sia distrutta.
“Già, due estranei si incontrano e magicamente vivono per sempre felici e contenti. Non ricordavo di essere capitato in una fiaba” ribatte, ora seduto a sua volta. Il sarcasmo è palpabile.
Francis scoppia di nuovo a ridere, ma questa volta la sua è una risata sincera, diversa da quella di poco prima. 
"I tuoi gesti contraddicono le tue parole. Non c'è motivo di bruciare le tappe, personalmente ho sempre trovato affascinante l'amore che si sviluppa lentamente. Francis Bonnefoy, stagista ufficio marketing." 
Allunga la mano libera, che Arthur stringe con fare dubbioso. La stretta di Francis, invece, è decisa. 
"Arthur Kirkland, risorse umane."
Si volta in fretta per nascondere un mezzo sorriso. 
 
* * *
 
L'aver trovato la propria presunta anima gemella non è qualcosa da poter tenere a lungo nascosto e, nonostante gli sforzi per fingere che nulla sia cambiato, nemmeno Arthur riesce a celarlo. Secondo sua madre, cui è bastato un giorno per scoprirlo, Arthur ha una nuova scintilla nelle pupille.
Anche in ufficio i colleghi non mancano di fare i propri commenti. È la rosa posta di sbieco sulla tastiera del computer a suscitare le chiacchiere maggiori, soprattutto se il medesimo gesto si ripete dal lunedì. Arthur si stringe nelle spalle, mentre fa scorrere il gambo del fiore tra le dita, incurante delle poche spine rimaste. Affonda il naso nella corolla rosea, con le orecchie tese a cogliere l’arrivo di qualcuno che potrebbe sorprenderlo in un simile momento di vulnerabilità.
Quando cresci con quattro fratelli maggiori (e un fratello minore) tutti intenzionati a fartene vedere di ogni, impari in fretta a difenderti dal mondo.
 
Sarebbe un errore credere che Arthur non abbia abbandonato ancora la propria innata antipatia per Francis, per il suo strano accento, le compagnie che frequenta, l’eccessiva espansività, l’erotismo che lo accompagna ovunque vada, e una serie di altri piccoli, insignificanti, dettagli. Anzi, non perde occasione per insultarlo, con la sua sottile ironia.
Ciò non gli impedisce di accettare infine un invito a cena. Al massimo può sfruttare la scusa del cibo gratis, ripete in cuor suo, nel passare in rassegna i propri abiti con un'attenzione eccessiva per quel disinteresse tanto sbandierato. Dopo quasi un'ora, finisce con l'optare per qualcosa di formale, con un abbinamento di colori molto azzardato, sufficiente per suscitare in Francis l'espressione di chi vorrebbe schiaffarsi una mano in faccia. Stringendo il nodo della cravatta, Arthur ghigna verso il proprio riflesso: Francis adora criticare le sue scelte in fatto di vestiti.
In realtà la loro prima uscita fuori dal contesto di lavoro non è una vera e propria cena; piuttosto una serata di bevute al pub. Per essere un pub, il posto è stranamente accogliente e pulito.
Si siedono al bancone, fianco a fianco, con i bicchieri che si accumulano davanti al loro, soprattutto dal lato di Arthur. Messi così parlano senza guardarsi in faccia, ma come inizio è sufficiente.
Il problema è che Arthur non riesce proprio a reggere l'alcool e bastano un paio di bicchierini di whisky perché la lingua si dichiari indipendente dal cervello e inizi a diffondere informazioni compromettenti. 
"Aspetta, aspetta, mi stai dicendo che non hai mai avuto una ragazza? O un ragazzo?" lo interrompe Francis, che invece sembra del tutto lucido. Arthur non riesce a decidere se l’altro sia più sorpreso o scandalizzato.
“Mi sembra evidente” ribatte, a fatica, con la voce impastata, e un pizzico di insofferenza per il dover spiegare una cosa tanto ovvia. Gli occorre poco per capire che Francis non ha condiviso la sua filosofia del rimanere celibe fino alla comparsa della propria anima gemella; semmai il contrario. La scoperta di quella che Arthur chiama “infedeltà retroattiva” riaccende l’antipatia viscerale per l’altro, espressa in biascichi sempre meno coerenti, perché è arrabbiato per quello che considera un tradimento e perché Francis non sembra cogliere la gravità della situazione. Arthur trascorre l’intera settimana successiva a evitarlo. Ciò non impedisce comunque a Francis di corteggiarlo con la rosa quotidiana, che – Arthur non sa come – riesce a fargli trovare infilata nel portamatite che tiene sulla scrivania. È una rosa bianca, per la prima volta accompagnata da un biglietto vergato nella calligrafia minuta e piena di riccioli di Francis.
“Questo sei tu.”
Una rosa bianca, un cuore che non conosce l’amore.
 
***
 
La seconda volta che escono a mangiare insieme le cose vanno meglio.
Francis ha la capacità di attirare gli sguardi come una calamita col ferro e Arthur non fa eccezione, sebbene abbia sempre una scusa pronta per giustificarsi quando viene colto in fallo. Anche questa volta finge di perdersi nei propri pensieri, seguendo il movimento di una mosca che ronzando continua a sbattere contro il lampadario, incapace di sottrarsi al fascino mortale della luce al neon, nonostante sia in realtà impegnato a studiare l’altro. Sono numerose le cose di Francis che ancora gli sono sconosciute e si trova a desiderare di volerne sapere di più, con una forchettata di insalata sospesa a pochi centimetri dalla bocca, che per il momento non sembra intenzionata a ingerire il boccone.
“Hai perso l’appetito?” domanda Francis, completamente a proprio agio. Non ha scelto a caso il ristorante, Arthur lo ha compreso dal modo amichevole con cui interagisce con i camerieri, anche se ha la sensazione che la situazione non sarebbe mutata molto se anche si fossero recati in un locale sconosciuto a entrambi. Tiene le braccia posate sullo schienale della sedia, il corpo appena rilassato senza scadere nella scompostezza, la testa un poco inclinata all’indietro, abbastanza da mostrare la linea del collo interrotta dal pomo d’Adamo, che sale su e giù per ogni pezzo di cibo ingerito, fino al mento coperto da una leggera barba bionda.
Quando ordina il dolce e flirta con la cameriera di turno, con una sicurezza e leggerezza tali che diventa difficile capire se sia scherzando o meno, Arthur conosce il morso della gelosia.
“Non fare quella faccia.”
Francis spinge verso di lui un piattino con una mezza porzione di torta millefoglie alle fragole, troppo invitante perché Arthur possa sostenere a lungo la commedia dell’offeso. O, meglio, è abbastanza offeso da tenere il broncio, ma non per rinunciare al dessert.
“Non fissarmi! Non ti hanno insegnato che è maleducazione?” si lamenta, fingendo di non essere stato egli il primo a comportarsi in tal modo. In risposta Francis posa la guancia sulle nocche e sorride, con un’espressione che Arthur non esita a definire idiota.
“Sei bello” risponde con semplicità ed è chiaro che lo pensa davvero, che non sta fingendo un complimento per amore d’educazione. Non è un complimento usato come maschera per secondi fini, ma una semplice constatazione della realtà: per lui Arthur è bello, nonostante quei bruchi scuri che si ritrova come sopracciglia. Questo, però, non lo aggiunge. “Anche se sei tutto sporco di briciole!”
Arthur si affretta a pulirsi le labbra con il tovagliolo spiegato sulle ginocchia. “Meglio?”
“Quasi.”
Lo coglie di sorpresa, quando Francis si alza e, sporgendosi sopra il tavolo, pericolosamente vicino ai bicchieri ancora contenenti l’ultimo dito di vino, si china verso di lui. Lo bacia sull’angolo della bocca.
“Era rimasta una briciola.”
 È un bacio casto, faceto, eppure Arthur arrossisce e un fremito percorre il suo corpo, rimanendo con lui per tutto il tragitto verso casa.
 
***
Passano altri due mesi prima del loro vero primo bacio. Primo di certo per Arthur. Il più importante di una lunga fila per Francis.
C’è un sole che spacca le pietre, in un pomeriggio di metà luglio, quando rimanere chiusi in ufficio diventa una lenta tortura. I ventilatori vanno a pieno ritmo, giacca e cravatta sono stati abbandonate da giorni a favore di abiti più casual, in un tacito accordo tra i pochi impiegati rimasti e i superiori, ma tali misure sono appena sufficienti per non continuare a grondare di sudore.
“Credo che impazzirò” si lamenta Francis, scostando un ciuffo di capelli dalla fronte appiccicosa. “Hai un elastico?” aggiunge. Arthur gli passa quello consunto che usa per tenere chiusa la cartella dei documenti in plastica gialla.
“Perché non li tagli?”       
“Stai scherzando?”
Francis finge di aver udito un’ingiuria, mentre con le mani dietro la nuca finisce di legarsi i capelli in un codino. “Non dirlo nemmeno! Non voglio sembrare un porcospino come te!”
Una ciocca ondulata però continua a sfuggire dalla costrizione, troppo corta per essere trattenuta; scivola lunga la linea della mascella. Ondeggia seguendo i movimenti della sua testa, in maniera ipnotica, quasi invitante, finché Arthur non allunga una mano per stringerla nel pugno, a metà tra il gioco e la minaccia. Dopotutto, si è più volte trovato a immaginare di strappare quei capelli quasi femminei.
Per Francis è un’occasione servita su un proverbiale piatto d’argento. Non esita a bloccare Arthur con una mano a coppa dietro la nuca, costringendolo a inclinare il capo perché i nasi non si scontrino quando forza le sue labbra in un bacio inaspettato, ma infine non rifiutato. Passato il primo istante di sorpresa, Arthur risponde con intensità, schiudendo la bocca in un gesto languido e tremendamente eccitante nella sua inesperienza. È un bacio che ha il sapore salato del sudore che scivola sui loro volti, mentre lo spazio tra i corpi diventa inesistente e la barriera dei vestiti, di colpo, appare troppo fastidiosa.
Il sabato seguente fanno l’amore, e di nuovo il successivo, per tutto il giorno, dimentichi di ogni altro stimolo, con un legame impossibile da incasellare in un unico sentimento. Non sono solo amanti, sono anime gemelle ed è qualcosa di inspiegabile.
Tre mesi dopo si considerano una coppia. A distanza di un anno iniziano a convivere, poi si sposano, e le cose vanno bene, troppo bene.
 
***
“Cosa ha detto l’oculista?” indaga Francis, col giornale del mattino aperto sulle ginocchia.
La voce sinceramente preoccupata fa sentire Arthur in colpa; la sottile fascetta d’oro all’anulare indica quante cose siano cambiate negli ultimi anni.
“Che devo far riposare la vista.”
Conta sulle dita due mesi. In appena due mesi la sua vista è peggiorata a una velocità preoccupante, con le diottrie che scompaiono come popcorn al cinema. Non è solo il presbitismo precoce, che lo costringe ormai a tenere un libro a mezzo metro dalla faccia se vuole vedere le lettere, o i primi accenni di astigmatismo, ma le macchie di nebbia che con sempre maggiore frequenza danzano davanti alle sue pupille, impossibili da prevedere. Altre volte si tratta di una striscia scura che per interi, angosciosi minuti, taglia il panorama.
 
La verità è che Arthur è terrorizzato da quanto gli sta succedendo. I medici, non riuscendo a comprendere la causa, si limitano a menzionare probabili, quanto inspiegabili, danni al nervo ottico, incolpando la sfortuna dove non è possibile trovare un altro colpevole. Francis cerca di consolarlo, ma il numero di specialisti visitati aumenta, il conto in banca si svuota, e non una singola risposta chiara è ancora stata data.
Non ha solo – o tanto – paura della cecità in sé, quanto delle limitazioni cui essa lo costringerà. Come la patente che gli viene ritirata dopo che per poco non investe un gruppo di bambini che attraversano la strada.
“Non ho visto il semaforo” si giustifica attraverso la porta del bagno, con l’orrore per la sfiorata tragedia ancora dipinto sul volto. Ha una bottiglia di gin scadente stretta tra le ginocchia, dalla quale beve direttamente, indifferente al fatto che lo farà stare ancora peggio, con le lacrime che inzuppano il colletto della camicia.
Quando Francis gli consiglia di rivolgersi a un gruppo di supporto che lo aiuti a non considerare l’intera situazione una completa sciagura, Arthur esplode, urla, lo accusa di superficialità, riversa su di lui tutti gli errori commessi durante, e prima, la loro convivenza, usando vecchi episodi ormai risolti per dare nuova linfa alla frustrazione che gli infetta l’animo, fino a non sapere più nemmeno il motivo delle cattiverie pronunciate. Sbraita finché non costringe Francis ad andarsene dalla stanza, quindi nel vialetto, dove Arthur sa che passeggerà avanti e indietro in attesa che sbollisca o che si addormenti. Poi grida proprio perché se ne è andato.
“Ecco, avevo ragione!”
 
Si crogiola nel proprio vittimismo, cogliendo ogni occasione per nutrirlo. Di certo il fantasma dell’imminente cecità lo ha portato a mutare numerose delle sue abitudini. Il caffè, per esempio. Arthur odia con ardore genuino quella bevanda, quasi da non poterne nemmeno sentire l’odore senza provare un senso di nausea, eppure ne ingolla un numero sempre maggiore di tazze, come se fosse una medicina. I dottori non hanno saputo dargli una data precisa riguardo il giorno in cui perderà del tutto la vista, ondeggiando tra l’anno e il mai, spingendo Arthur a sviluppare la paura della notte, del sonno, del risvegliarsi una mattina nel buio. Le profonde occhiaie tendenti al blu che segnano gli zigomi lo fanno sembrare ben più vecchio dei suoi venticinque anni. Arriva al punto da dormire solo un paio d’ore per notte e nemmeno tutte le notti.
All’inizio Francis scherza sulla situazione, gli prepara personalmente il caffè con i soliti cinque cucchiai di zucchero, si impegna egli stesso a tenerlo sveglio, per sfruttare la notte per il suo tipo di ginnastica preferito. Peccato che Arthur sia un tale fascio di nervi, con la caffeina che non fa altro che peggiorare il problema, che si concede sempre più raramente, raggomitolandosi nel suo lato del letto, quasi sul bordo, in una palla di spine, con le ginocchia strette al petto e le braccia a chiudere il nodo, infagottato nella T-shirt di un paio di taglie più grande che usa come pigiama. Sono i momenti in cui emerge il suo lato infantile e capriccioso.
Le rare volte in cui accetta di fare l’amore, l’atto si trasforma inevitabilmente in sesso puro, spiccio e violento. A voler essere precisi, è Arthur ormai a stabilire il quando e il come, in maniera assolutamente arbitraria, spogliata di ogni dolcezza. Francis, che ama anche sperimentare, giocare, e per il quale il sesso non è mai fine a se stesso, mentirebbe se dicesse che si diverte, indeciso nello stabilire quale delle due versioni del compagno sia peggiore, se l’isterica o l’assatanata. Soprattutto, non è bello scopare un corpo senz’anima. Non è Arthur quello che ringhia sotto – a volte anche sopra – di lui, non è l’uomo che conosce. Non è nemmeno presente.
Non è solo la vista che Arthur perde. Dalle sue iridi verdi, offuscate, non scompare solo la luce, ma anche la gioia di vivere, o anche il semplice desiderio di esistere. Arriva a minacciare di fare qualche pazzia se lasciato solo. Si licenzia, impara il braille di malavoglia.
 
***
“Vedi cosa succede?”
Da qualche settimana Arthur non può più vedere la faccia di Francis, ma il tono della voce è sufficiente per indovinare il suo umore.  Seduto sul bordo freddo della vasca da bagno, sente la sua preoccupazione, la sua esasperazione. Si sente commiserato e lo odia per questo, poi si odia a sua volta per la propria ingratitudine, in un circolo vizioso da cui non riesce a uscire.
Si stringe nelle spalle, borbottando qualcosa a proposito del non voler dipendere dagli altri, poi allunga le mani con i palmi rivolti verso alto, sui quali si vede una brutta scottatura rossastra. Se già agli inizi Francis lo ha semi-bandito dalla cucina, dopo che Arthur è riuscito nel non facile intento di far saltare in aria il forno a microonde al primo utilizzo, ora la stanza è per lui area proibita. Arthur non perde occasione per ignorare il divieto.
“Cosa volevi preparare, comunque?” domanda, prima di avvisarlo che, dopo aver bucato le vesciche, sta per usare l’acqua ossigenata e diamine se brucia. “Non quelle specie di focaccine che ti piacciono tanto, spero.”
Più che focaccine sono pezzi di carbone cancerogeno.
“Tè.”
Tè, la sua bevanda preferita, che solo lui riesce a preparare secondo il suo gusto, con i giusti tempi di infusione, la giusta temperatura, la giusta dose di latte per aromatizzare il tutto. Francis sbaglia sempre qualcosa – o forse è solo Arthur che ha deciso così per una questione di principio – e sono giorni che Arthur non beve una tazza di tè decente. Rischia di andare in astinenza da teina, se fosse possibile. Francis finisce di disinfettargli le mani.
“Non credo che serva fasciarle.”
“Promettimi che non morirai prima di me” sussurra allora Arthur, all’improvviso, incurante che la situazione potrebbe non essere la migliore o dell’assurdità della propria richiesta. Lo ripete, una, due, tre volte, mostrando quel lato fragile che solo Francis conosce. La risposta, incerta, impiega troppo tempo per arrivare.
“Non è qualcosa che posso controllare, Arthur.”
“Promettilo.”
Nel loro mondo i colori scompaiono alla morte della propria anima gemella, così che la dolorosa notizia arrivi subito, senza intermediari; ma Arthur ha perso anche questo privilegio e non riesce a sopportarlo.
Francis sospira, quindi gli prende con gentilezza il volto fra le mani, non mancando di pensare che Arthur pare essersi rimpicciolito. L’altro non solo non si sottrae al tocco, occasione rara, ma arriva di sua spontanea iniziativa a colmare la distanza fra le loro bocche, in un bacio che per la prima volta dopo troppo tempo non è né violento né disperato. È lungo, appassionato, immerso in un’assoluta lentezza, preludio di qualcosa di più profondo. Le mani di Arthur si allungano ad afferrare le spalle di Francis, per attirarlo a sé, fino a mormorare nel suo orecchio sinistro la propria richiesta. La voce trema sull’orlo del pianto.
Fare l’amore con Arthur, nel vero senso della parola, è qualcosa di troppo speciale per consumare l’atto contro la parete o, peggio, sul pavimento del bagno. Allora, nonostante sappia che Arthur protesterà e si agiterà, Francis lo prende il braccio a mo’ di principessa per portarlo in camera e posarlo con delicatezza sul letto, che cigola appena per il nuovo peso. Arthur è stranamente docile – aiuta che abbia infine smesso di drogarsi di caffè – quando si lascia spogliare e, a sua volta, cerca di spogliarlo, in modo goffo e altrettanto adorabile; ma Francis non ha fretta, né gli importa dei bottoni della camicia strappati e gettati sul pavimento, o della zip dei jeans che Arthur tira giù con foga eccessiva.
 
Per Arthur il sesso unito alla cecità è un cocktail di emozioni inafferrabili, nuove e limpide come se si trattasse della prima volta. E, in un certo senso, lo è. È qualcosa di quieto, ma che lo scuote nel profondo, mentre con un braccio sopra gli occhi, per semplice abitudine, avverte la bocca di Francis sul proprio inguine. Nello stomaco si attorciglia un grumo, inspiegabile con il solo calore dell’erezione che pulsa tra le gambe.
È un dare e un ricevere, calmo senza per questo indugiare, in un continuo cambio di ruoli. È un prendere ed essere preso.
Con la faccia premuta contro la schiena del compagno, con l’odore familiare della sua pelle nelle narici, e le mani strette sulle ossa dei fianchi, a tenerli fermi, nello sfogarsi in lui, Arthur osa dare un nome a quella sensazione al basso ventre: beautitudine.
Appagato, poggia la testa sul petto di Francis, muovendosi appena finché non trova la posizione ideale, col braccio dell’altro attorno al suo addome, crogiolandosi in quella tranquillità. Non arriva a mutare la propria cinica visione del futuro, perché il sesso, per quanto buono, non è sufficiente ad annullare i suoi demoni. Lo è però per calmarlo, nel dormiveglia, col pensiero che Francis non se è andato, né pare intenzionato a farlo.
E per il momento gli basta.
 
Note
Qualche precisazione, varie ed eventuali.
L’idea per l’AU non è mia, ma deriva da un post trovato su Tumblr. Poi, nella storia non è specificato perché non era fondamentale ai fini del racconto, ma i personaggi si muovono in un mondo che non si discosta dal nostro solo per la faccenda dei colori, ma anche per uno sviluppo storico-politico del tutto diverso. Un po’ come la Terra di Lyra in “Queste oscure materie”. Per questo ho evitato riferimenti specifici a nazioni, cultura, e altri simili riferimenti.
Per gli accenni al linguaggio dei fiori mi sono rifatta soprattutto al dizionario del libro “Il linguaggio segreto dei fiori” di Vanessa Diffenbaugh.
I personaggi sono dannatamente OOC, ma che volete farci: sono arrugginita. 
   
 
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