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Autore: Beauty    11/03/2016    3 recensioni
Nel mondo delle favole, tutto ha sempre seguito un preciso ordine. I buoni vincono, i cattivi perdono, e tutti, alla fine, hanno il loro lieto fine. Ma le cose stanno per cambiare.
Quando un brutale omicidio sconvolge l'ordine del Regno delle Favole, governato dalla perfida Regina Cattiva, ad indagare viene chiamato, dalla vita reale, il capitano Hadleigh, e con lui giungono le sue figlie, Anya ed Elizabeth. Attraverso le fiabe che noi tutti conosciamo, "Cenerentola", "Biancaneve", "La Bella e la Bestia"..., le due ragazze si ritroveranno ad affrontare una realtà senza più regole e ordine, in cui niente è come sembra e anche le favole più belle possono trasformarsi nel peggiore degli incubi...
Inizia così un viaggio che le porterà a scoprire loro stesse e il Vero Amore, sulle tracce della leggendaria "Pietra del Male" che, se nelle mani sbagliate, può avere conseguenze devastanti...
Il lieto fine sarà ancora possibile? Riusciranno Anya ed Elizabeth, e gli altri personaggi delle favole, ad avere il loro "e vissero per sempre felici e contenti"?
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I
 
The Fairytale Department
 
 
Le due bambine si volevano molto bene
e si tenevano per la mano quando andavano fuori insieme: dicevano
che non si sarebbero mai separate e che
avrebbero sempre diviso fraternamente ogni cosa”
 
Grimm, Rosabianca e Rosarossa
 
 
New York, 2015. Ore 4.55 p.m.
 
 
L'OROLOGIO all'interno degli spogliatoi segnava meno cinque minuti al suono della campanella.
Elizabeth Hadleigh girò il rubinetto della doccia, e l'acqua smise immediatamente di scorrere. Alcune ciocche bagnate le si erano appiccicate alle guance e un'altra le stava ricadendo sugli occhi, ma sebbene la voce stridula della professoressa Antsey continuasse ad ammonirla rimbombandole nelle orecchie – Hadleigh! Quante volte te lo devo ripetere?! Sei fradicia, asciugati o inzupperai il pavimento! – si sporse comunque per vedere oltre gli armadietti allineati alla destra delle docce: beh, a dire il vero “vedere” in quel momento era impossibile, tutta gocciolante e per di più senza occhiali, ma non sentiva più nessun rumore e lo spogliatoio della palestra era impregnato del suo classico odore di sudore misto a borotalco e deodorante. Afferrò a tentoni l'asciugamano appeso alla doccia e si tamponò il volto, se lo avvolse intorno al busto e si rimise gli occhiali. Riprese subito a vedere normalmente, sebbene qualche goccia d'acqua stesse già appannando le lenti. Sbirciò ancora una volta oltre gli armadietti: stavolta no, era sicura che non ci fosse nessuno.
Zampettò fuori dalla doccia, augurandosi nell'ordine: di non scivolare sulle piastrelle bagnate come l'ultima volta, di fare abbastanza in fretta per essere fuori da lì al suono della campanella e che Jessica King non le avesse di nuovo buttato i vestiti dalla finestra. Avvampò ricordando quel che era successo un mese prima: aveva vagato per gli spogliatoi per venti minuti con solo l'accappatoio addosso cercando i vestiti che, ne era sicura, aveva lasciato piegati nello zaino, con le altre ragazze che o ridevano o facevano finta di nulla o strillavano come galline a cui era stato tirato il collo se per caso si azzardava a spostare una delle loro borse, e la professoressa Antsey che le dava della stordita, e che diavolo Hadleigh, ma possibile che non ti ricordi dove hai messo la tua roba?. Alla fine una studentessa della sezione B aveva avuto l'idea di sbirciare fuori dalla finestrella posta sopra il lavandino e ehi, Quattrocchi, sono quelli i tuoi vestiti?.
Era subito stato chiaro che fossero state Jessica King e Anne Hammonds a giocarle quel brutto tiro, e peraltro loro non avevano fatto niente per discolparsi. La professoressa Antsey aveva dato loro una nota di demerito, Elizabeth sospettava più per prassi o per salvare la faccia che per vero senso di giustizia, dal momento che non le aveva neanche rimproverate. Anzi, se l'era presa con lei, dicendo che Hadleigh, santo cielo, non è che ogni volta dobbiamo perdere mezz'ora di lezione solo per colpa tua!.
Elizabeth era sicura che la professoressa Antsey la detestasse. Non per cattiveria, ma per il semplice fatto che detestava chiunque non avesse ottimi voti in ginnastica, e non sopportava che una schiacciata mal riuscita o una presa maldestra facessero perdere la squadra della scuola ai campionati di pallavolo del quartiere. E lei, che non era capace di fare un salto in lungo senza slogarsi una caviglia, correva troppo lenta e giusto quella mattina si era presa una pallonata in faccia perché aveva sbagliato un bagher, rientrava a tutti gli effetti nella lista nera.
I vestiti erano ancora la loro posto e lei era riuscita a raggiungere lo zaino senza rompersi l'osso del collo, ma in compenso la campanella stava per suonare. Si asciugò al meglio che poté e s'infilò i jeans senza smettere di tamponarsi i capelli. Pensò che la professoressa Antsey aveva ragione quando le diceva che era lenta come una lumaca, visto che era sempre l'ultima a uscire dalla palestra e anche a finire di cambiarsi, ma quello che non aveva capito era che lo faceva apposta. All'inizio, il primo anno di liceo, pensava che uscendo nei corridoi sarebbe stata più protetta, in mezzo agli altri studenti e magari sotto l'occhio vigile di qualche insegnante, ma alla terza o quarta volta che era stata presa per il bavero della camicia e sbattuta contro il muro aveva imparato la lezione. Difficilmente gli insegnanti parcheggiavano nei corridoi durante i cambi delle aule, e se anche si accorgevano di qualcosa si limitavano a un richiamo. Quanto agli altri studenti...beh, o se ne fregavano oppure seguivano il gregge con incitamenti, schiamazzi e risa, radunandosi intorno a lei per gustarsi lo spettacolo.
Il segno che Liz-Hadleigh-Mangiamerda aveva davvero fatto centro.
Mancavano tre minuti alle cinque del pomeriggio. Rinunciò definitivamente ad asciugarsi i capelli, pensando che tanto sarebbe stato inutile – aveva sentito uno scroscio provenire dall'esterno della scuola, con ogni probabilità stava piovendo – e ficcò l'asciugamano bagnato nello zaino. Sua sorella veniva sempre a prenderla alle cinque spaccate, e Dio solo sapeva quanto poco conveniente fosse fare aspettare Anya quando era di cattivo umore. E sua sorella era sempre di cattivo umore.
Prese a guardarsi intorno alla ricerca delle proprie scarpe. Ne trovò una sotto la panchina dove le studentesse posavano le giacche e gli indumenti, ma era così lontana che dovette inginocchiarsi per recuperarla. Gli occhiali le scivolarono via dal naso, e di nuovo la vista tornò ad appannarsi. Elizabeth sbuffò, lasciandosi sfuggire un'imprecazione fra i denti. Recuperò gli occhiali e se li piantò di nuovo sul naso, poi allungò ancora il braccio per recuperare la scarpa da tennis. Avrebbe potuto giurare che qualcuno ce l'avesse spinta fin là sotto apposta, e non voleva nemmeno pensare al fatto che non sapeva dove fosse l'altra. Allungò il braccio all'inverosimile e riuscì ad afferrare le stringhe della scarpa e a tirarla verso di sé. Non appena l'ebbe afferrata saldamente e stretta fra le dita, sollevò il busto di scatto.
La testata che picchiò contro il bordo della panca fu così forte che il suono secco del legno rimbombò contro le pareti degli spogliatoi.
- Merda...!- Elizabeth digrignò i denti, prendendosi il capo fra le mani e piegando il busto in avanti. Mugolò di dolore, massaggiandosi la nuca. Aveva colpito il suo zaino facendolo inclinare in avanti, e parte del suo contenuto si era rovesciato sul pavimento. Elizabeth cominciò a raccattare penne, matite e quaderni, senza smettere di massaggiarsi il capo.
La campanella dell'ultima ora trillò. Fuori, nel corridoio, iniziarono a risuonare i rumori di porte che si aprivano, di chiacchiere e di passi. Elizabeth si affrettò a rimettersi le scarpe e a raccogliere gli ultimi oggetti che le erano sfuggiti dallo zaino. Imprecò a mezza voce quando si accorse che la relazione su Anna Karenina era finita in una pozza d'acqua sotto al lavandino; quando si rialzò dal pavimento per recuperare lo zaino, si accorse che non era completamente vuoto come invece aveva sospettato: si era ribaltato in orizzontale sulla panca, e le cinghie allentate avevano fatto in modo che dall'interno sbucasse qualcosa di rettangolare e marroncino che Elizabeth riconobbe subito come un libro. Sulle prime credette che si trattasse del volume di biologia, ma poi guardando meglio si accorse che la copertina era troppo rigida per essere di un libro di scuola. Ripose velocemente gli oggetti che aveva in mano ed estrasse il volume dallo zaino.
Si accigliò. Quel libro non era suo, e non si ricordava nemmeno di averlo preso in prestito alla biblioteca scolastica. Se lo rigirò fra le mani per esaminarlo meglio: la copertina era effettivamente rigida e spessa, di pelle marroncina. Le pagine erano ingiallite e fra di esse spuntava un segnalibro di stoffa viola sbiadito; i bordi erano delimitati da una sottile striscia dorata che tracciata un rettangolo, al centro del quale vi era quello che – osava presumere – era il titolo del libro.
 
Fiabe del focolare
 
La prima cosa che le venne in mente fu che era veramente, veramente strano che non ci fossero segnati autore e casa editrice. Elizabeth fece vagare lo sguardo sulla copertina alla ricerca del nome dello scrittore, ma non lo trovò. Anche il retro del libro era intonso, e non c'era nemmeno traccia di eventuali timbri o etichette che rimandassero a qualche libreria o biblioteca.
Pensò che doveva trattarsi di qualche altro scherzo. Magari Jessica aveva detto a Anne o a Julia di metterle il libro di qualcun altro nello zaino per farla finire nei guai. Non era mai successo, a dire il vero – in genere Jessica e le sue amiche si limitavano a scherzi diretti oppure alla forza bruta, non erano così argute da ordire un piano elaborato o i cui risultati si fossero avuti a lungo termine –, ma decise comunque di non rischiare. Quel libro non era suo, né l'aveva preso in prestito, di questo ne era assolutamente certa: lei faceva parte dell'arredamento fisso della New York Public Library, questo nessuno poteva negarlo, si poteva dire che passasse più tempo chiusa fra gli scaffali di quelle quattro mura che a casa, e non era insolito che prendesse dei libri facendosi trasportare dall'entusiasmo del momento o semplicemente perché una trama o un titolo l'avevano incuriosita...ma lei quel libro non lo aveva mai visto prima, e non aveva neppure nessun marchio della biblioteca.
Lo infilò nuovamente nello zaino, ben decisa a fare un salto in segreteria e consegnarlo come oggetto smarrito, prima che il legittimo proprietario l'accusasse veramente di furto. Indossò la felpa e sorpassò velocemente gli armadietti, diretta verso la porta, ma un rumore di colpi contro il legno la inchiodò sul posto.
- Ehi, Quattrocchi! Sei qui dentro?
Elizabeth sbiancò, e mosse un passo indietro. Alcune risatine seguirono, e qualcuno fece sferragliare alcuni portachiavi. Erano sicuramente le catenine e i ciondoli che Anne portava sempre allacciati alla cintura.
- Quattrocchi!- la voce di Jessica rimbombò contro le pareti dello spogliatoio. Elizabeth strinse le dita intorno alla tracolla dello zaino e indietreggiò ancora di più, appiattendosi contro gli armadietti. Trattenne il fiato, sperando solo che se ne andassero. Udì la voce di Ursula Harper che sussurrava qualcosa probabilmente a Julia – erano inseparabili, quelle due – e poi scoppiava in una risata grassa almeno quanto lei. Ursula era un vero e proprio colosso, parecchio alta per essere una ragazza e decisamente sovrappeso – molto più di quanto lo fosse Elizabeth stessa – e con braccia grosse e muscolose. Era la picchiatrice del gruppo. Tutte le volte che c'era da punire qualcuno per quelle che venivano considerate “mancanze”, Jessica sguinzagliava Ursula, e a quel punto dovevi solo sperare di trovarti un nascondiglio sicuro e restarci fino a che il pericolo non fosse passato.
Tutti avevano paura di Ursula, fra gli studenti, ed Elizabeth sospettava che anche i professori ne fossero intimoriti. L'unica persona di sua conoscenza che avesse avuto il coraggio di sollevare – metaforicamente, ovvio –, la picchiatrice per la maglietta senza ritrovarsi poi con un paio di costole rotte era stata sua sorella. Ma d'altra parte Anya non andava più a scuola da un anno e non aveva niente da perdere. Era facile essere coraggiosi, nella sua posizione.
Elizabeth si appiattì ancora di più contro gli armadietti, scivolando lentamente contro il metallo freddo alla ricerca di...boh, non sapeva nemmeno lei cosa. Una via di fuga, forse. Ma l'unico modo per uscire da lì era passare dalla porta principale, ostruita da Jessica e dalle altre. Una risatina acuta le confermò che anche Samantha Crawley era presente, e quindi erano tutte e cinque al completo.
Elizabeth chiuse gli occhi, sperando che non la trovassero.
- Ma sei sicura che la psicolabile sia qui dentro?
- Non hai visto che non era con le altre, quando sono uscite?
- Magari si sta masturbando.
Altre risate, e di nuovo Anne Hammonds fece sferragliare le sue catenine e i suoi portachiavi. Elizabeth sentì che avevano tutte abbandonato la soglia della porta e si stavano sparpagliando nell'ingresso dello spogliatoio. Strisciò contro gli armadietti, infilandosi fra un cappotto e un asciugamano rimasti dimenticati appesi ai ganci di ferro. Raggiungere l'uscita senza venire scoperta era impensabile, mancavano troppi metri. Non le restava che sperare che se ne andassero.
L'orologio segnò le cinque del pomeriggio.
- Probabile. Chi se la scoperebbe, quella?
- Io invece scommetto che fuori di qui la da via a tutti, come sua sorella.
Le catenine di Anne continuavano a sferragliare a ogni passo, ed erano l'unico indizio che le facesse capire all'incirca dove si trovasse il gruppo di Jessica. Udì il rumore di un rubinetto che veniva aperto e poco dopo lo scroscio dell'acqua.
- Riempilo tutto.
Merda, no! Non di nuovo!. Elizabeth strinse le dita intorno alla tracolla così forte che i polpastrelli sbiancarono. Abbandonò ogni cautela e riemerse dal rifugio sicuro fra l'asciugamano e il cappotto e provò ad avviarsi in punta di piedi fino alla porta. Forse era la forza della disperazione, ma in quel momento le sembrò davvero possibile riuscire a farla franca. Svoltò a destra, costeggiando un'altra fila di armadietti; là dietro sicuramente quelle cinque non avrebbero potuto vederla, era completamente coperta. Cercò di camminare lentamente per non fare rumore. Guardò l'uscita di fronte a sé...non era più così lontana...
Mosse un altro passo in avanti, ma una voce alle sue spalle la gelò.
- Ah, sei qui, Mangiamerda.
Era stata Ursula a parlare, nessun dubbio. Elizabeth avrebbe conosciuto quella voce grassa e rantolante anche al buio. Non ebbe il coraggio di voltarsi subito, e questo non giocò certo a suo favore.
- Allora, Quattrocchi?
Si accorse che una ciocca ancora umida di capelli le era finita sul volto, e ora penzolava su e giù proprio di fronte agli occhiali. Gli occhiali...! Signore, Ti supplico, fa' che non me li rompano...!
I passi si affrettarono nell'angolo in cui lei e Ursula si trovavano faccia a faccia. Elizabeth sentì che le altre quattro si erano disposte in modo da formare un semicerchio intorno a loro, ma lei continuava a tenere lo sguardo fisso sulla picchiatrice. Ursula ghignò, scoprendo l'apparecchio per i denti. Le attraversò la mente la malsana idea di girare i tacchi, aprirsi un varco fra Samantha e Julia e sgusciare via di corsa in direzione della porta, ma la possibilità che Ursula la potesse acchiappare per il cappuccio della felpa e sbatterla contro gli armadietti la fece desistere. Un tentativo disperato come quello non sarebbe servito ad altro se non a farsi picchiare di più e più forte che se se ne fosse stata zitta e buona.
- E' da un quarto d'ora che ti aspettiamo, stronza - Jessica parlò alla sua destra; Elizabeth la vide avvicinarsi a lei fino ad arrivarle a pochi centimetri di distanza – la distanza necessaria per un cazzotto ben piantato – e piegare la testa di lato per squadrarla. Aveva la lunga chioma bionda ricoperta di gel e il piercing al naso, e teneva una sigaretta fra le dita. Era vietato fumare all'interno della scuola, ma Jessica non si era mai fatta problemi, a quanto ne sapeva, perché la si vedeva sempre con la sigaretta fra le labbra, anche durante le ore di lezione. Ovviamente i professori la sgridavano, la sbattevano fuori dalla classe e non era nuova in presidenza, ma Elizabeth sapeva che lei semplicemente se ne fregava. Così come se ne fregava dei compiti a casa e dei test, altrimenti non sarebbe già stata bocciata due volte. Sia lei che Anne erano state nella stessa classe di sua sorella, solo che Anya si era diplomata nei tempi giusti, e loro invece stavano ancora lì, fra i banchi di scuola. Samantha e Julia invece avevano la sua stessa età ed erano in una sezione differente, ma quella che deteneva il record era Ursula: ventidue anni e nessuna intenzione di prendere il diploma in tempi ragionevoli.
- Dove cazzo eri?
Elizabeth la guardò negli occhi, e per tutta risposta Jessica soffiò fuori il fumo della sigaretta contro la sua faccia. Gli occhiali le si appannarono.
- Mi stavo vestendo...
- Io dico che ti stavi masturbando.
Non replicò. In tre anni di liceo aveva imparato che starsene zitta era la cosa migliore, se non volevi ritrovarti con il labbro sanguinante. Aspettò che Jessica continuasse.
- Allora?- Jessica tirò un'altra boccata.- Ce l'hai?
- Che cosa?
- Mi prendi per il culo?!
La solita sensazione di panico tipica di quelle situazioni cominciò a farsi strada dentro di lei partendo dalle dita delle mani fino ad arrivare al torace e a farle pulsare le tempie. Il suo cervello prese a lavorare a tutta velocità: cos'aveva dimenticato, stavolta? Sicuramente doveva essere qualcosa che riguardava la scuola, ma...
- La relazione, cazzo!- abbaiò Anne alle sue spalle, facendo sferragliare le catenine; una volta le aveva colpito un braccio, con quelle, e le aveva fatto un livido che ci aveva impiegato due settimane a sparire del tutto.- La relazione, pezzente che non sei altro. Ce l'hai, sì o no?!
Elizabeth trasalì, ricordandosi improvvisamente, e aprì in fretta lo zaino. Tirò fuori la relazione su Anna Karenina che la professoressa d'inglese aveva chiesto per il giorno seguente: era stato un lavoro non da poco, con riassunto, commento, esercizi e un confronto con Madame Bovary e Orgoglio e Pregiudizio. In tutto aveva scritto ventisette pagine. Cinquantaquattro, considerando che aveva dovuto farne due copie, una per sé e una per Jessica.
Era una storia che andava avanti da circa metà del primo anno di liceo, quella: Jessica le chiedeva di svolgere anche i suoi, di compiti a casa, e lei ubbidiva, o erano dolori. Elizabeth era abbastanza brava a scuola, le uniche materie in cui era un po' carente erano ginnastica ed economia domestica, ma per il resto aveva ottimi voti. Lo stereotipo della secchiona, in pratica. Era stato questo, a fregarla: sua sorella le aveva detto e ripetuto fino alla nausea che offrirsi di far copiare nei compiti in classe e passare gli esercizi svolti sottobanco era una pessima tattica per farsi degli amici, ma lei non aveva voluto ascoltarla e lo aveva fatto lo stesso. Non era mai stata brava a stringere amicizia, e dopo anni passati a essere etichettata come quella strana o la figlia di Christine Mason non vedeva l'ora di ricominciare daccapo una volta arrivata alla tanto ambita soglia del liceo.
Se poi si considerava il fatto che neanche sua sorella aveva amici da quando aveva finalmente deciso di mettere la testa a posto e mollare quello scalzacani di Bobby Joe Armstrong...beh, tanto valeva fare di testa sua.
E invece, ancora una volta la verve secca e perentoria di Anya aveva avuto ragione, e lei si era presto ritrovata vittima di stormi di fannulloni che la cercavano solo la sera prima del compito in classe di matematica e dalle cinque bulle del liceo, che a ogni occasione le sferravano un pugno nell'addome per convincerla a svolgere anche i loro, di compiti.
Lo scopo di tutto questo non lo comprendeva, dal momento che a fine anno restavano comunque bocciate, ma nella sua posizione non era il caso di indagare.
Porse la relazione a Jessica, che gliela strappò di mano e cominciò a sfogliarla.
- Perché le pagine sono bagnate? E' piscio, questo?
- Mi è scivolata nell'acqua...- mormorò Elizabeth, sentendosi una schifosa codarda.
Jessica la guardò, quindi passò la relazione a Anne.
- E che me ne faccio di uno schifo bagnato, eh?
Le strappò di mano lo zaino. Elizabeth provò a opporre una debolissima resistenza, ma alla fine la lasciò fare. Jessica lo aprì e lo capovolse, in modo che tutto il suo contenuto si riversasse sul pavimento. Elizabeth rimase a guardare fogli, penne, quaderni, libri di testo che si sparpagliavano disordinatamente sulle piastrelle; il libro di fiabe fu uno dei primi a cadere fuori dallo zaino, aprendosi su una delle prime pagine.
- Non c'è la copia!- Jessica la guardò come se avesse compiuto un delitto degno della sedia elettrica.- Dove cazzo è la tua copia?
- L'ho lasciata a casa, Jessica.
Sarà anche stata una schifosa codarda, questo non poteva negarlo neanche a se stessa, ma ormai aveva abbandonato qualsiasi possibilità di uscirne illesa, almeno per quella volta. Non le restava altro che quel briciolo di dignità da conservare.
Se Jessica non era soddisfatta della copia dei compiti che le aveva portato – i motivi potevano essere dei più disparati: era bagnata, non aveva imitato bene la sua calligrafia, puzzava di vomito...raramente un lavoro le andava bene qualcosa –, allora si prendeva la sua. Poco importava se si contraddicesse oppure che il giorno dopo fosse stato palese che non aveva svolto di persona i compiti, Jessica pretendeva la sua copia. E anche quando ciò non accadeva, provava comunque un immenso gusto nello stracciarla.
Il risultato era che lei doveva correre a casa in tutta fretta e trascorrere la nottata in bianco per rifare tutto dall'inizio.
Le prime volte, quando aveva quattordici anni e ancora s'illudeva che quelle prepotenze sarebbero cessate se lei avesse fatto finta di nulla, ci cascava sempre. Poi, aveva imparato la lezione, e da allora non portava più i propri compiti a scuola, se sapeva che Jessica le aveva commissionato qualcosa.
- Che cosa hai detto, Mangiamerda?!- ringhiò Jessica, avanzando di un passo nella sua direzione. Elizabeth deglutì, ma trovò la forza di rispondere.
- L'ho lasciata a casa - ripeté.- E' per me.
Uno schiaffo secco le colpì in pieno il labbro superiore, così veloce che non fece neppure in tempo a scansarsi. Elizabeth soffocò un gemito, portandosi una mano all'altezza della bocca. Provò a controllare se stesse perdendo sangue o meno, ma un attimo dopo una mano molto più grande e più forte di quella di Jessica – doveva trattarsi di Ursula, nessun dubbio – le colpì violentemente una tempia.
Gli occhiali le schizzarono via dal viso, finendo chissà dove sul pavimento.
 
Le previsioni del tempo, quella mattina, avevano annunciato una schiarita in giornata, ma erano quasi le cinque del pomeriggio e il tempo non accennava a migliorare. Anya Hadleigh gettò un'occhiata a una delle ampie vetrate dell'Once Upon a Time Café: le gocce d'acqua continuavano a cadere grosse e incessanti sulla strada di fronte al locale e sul marciapiede, e le auto procedevano arrancando una dietro l'altra. Al novanta per cento fra meno di un'ora ci sarebbe stato un ingorgo, ed era l'ultima cosa che le serviva, in quel momento.
Proprio in quel momento, con un tempismo impeccabile che sembrava fatto apposta per ricordarle il motivo per cui era nervosa, l'orologio del locale segnò le cinque. Anya si fece passare la caffettiera bollente da Doris, e lanciò un'occhiata di soppiatto a Bowen. Il suo capo, i bottoni della camicia che stavano per scoppiare sul ventre prominente e la pelata lucida, continuava a saltellare da un tavolo all'altro chiedendo ai clienti se avevano mangiato bene, se si trovavano a loro agio e sottolineando tre volte su due che lui era il proprietario di quel misero locale dimenticato in tutta New York. Anya guardò ancora l'orologio e iniziò a battere nervosamente un tacco dello stivaletto contro il pavimento.
- Ehi, occhio! E' bollente, rischi di scottarti come l'ultima volta...- borbottò Doris, senza alzare lo sguardo dal panino imbottito che stava preparando.
- Quando si decide a lasciarmi andare?!- sibilò Anya, nervosamente.- Devo passare a prendere mia sorella...!
- Ci tieni al tuo lavoro, o no? Fai la brava e resisti, c'è gente, oggi. Finisci di servire quei tavoli là in fondo e poi chiedi se puoi andartene. Tua sorella non è una bambina, può aspettare dieci minuti...
Anya ingoiò il boccone e sospirò rassegnata. Versò il caffè nel bicchiere di plastica e lo posò sul vassoio accanto alla fetta di torta di carota e al panino al tacchino e maionese. Lo prese fra le mani e si fece strada fra le sue colleghe fino al tavolo numero 5. Il cliente, un uomo sui cinquant'anni con un doppio mento da fare invidia a un suino all'ingrasso, le rivolse un'occhiata voluttuosa, ma lei finse di non accorgersene. Si limitò a scribacchiare il conto sul taccuino e ad augurare buon appetito, e se ne tornò in fretta dietro al bancone.
- Hai fatto colpo, vedo...- ghignò Juliet, un'altra cameriera, passandole accanto.
- Quando vorrò essere incoronata regina dei suini, saprò con chi convolare a nozze...- sbuffò Anya di rimando, per nulla intenzionata a stare allo scherzo, non quel pomeriggio. Aveva fatto il grave errore di fare la spesa nella pausa pranzo, e adesso era sicura che metà della roba si fosse sciolta sui sedili posteriori dell'auto. Aveva mal di testa ed era in ritardo, aveva litigato con Bowen per via di alcune tazze che giacevano nel lavandino da mezz'ora più del dovuto e quello era uno dei giorni in cui pensava seriamente di mandare al diavolo tutti e licenziarsi.
Non lo aveva ancora fatto solo perché sapeva che suo padre ne sarebbe stato felice, e stavolta l'avrebbe avuta vinta e preteso che lei si trovasse un buon posto da impiegata da qualche parte.
Aveva cominciato a lavorare come cameriera all'Once Upon a Time Café appena dopo essersi diplomata. Era stata fortunata, nessun dubbio: con diciotto anni e nessuna esperienza, dopo una settimana trascorsa a girare per mezza New York con una pila di curricula intonsi sottobraccio, era entrata in quella tavola calda con l'intenzione di bere un caffè e rimettersi subito in pista, e invece era venuta a sapere che cercavano una cameriera.
Aveva cominciato il giorno seguente, ma ne aveva impiegati altri quattro per dare la notizia in famiglia. Fosse dipeso da lei, a dire il vero, avrebbe continuato a lavorare e a lasciare che suo padre e sua sorella vivessero nella beata ignoranza, almeno fino al primo stipendio; ma papà sfortunatamente si risvegliava dal suo torpore di tanto in tanto e le aveva chiesto perché ultimamente uscisse di casa sempre con addosso quei pantaloni neri e quella camicia bianca – la divisa ufficiale del locale.
Avevano litigato furiosamente, quasi al pari di quando lei aveva quindici anni e tornava a casa ubriaca all'una di notte. Richard Hadleigh, il braccio destro della legge, il terrore di tutti i criminali, aveva un'inspiegabile avversione per il lavoro delle cameriere. Non importava quanto negasse, anche Liz se n'era accorta. Aveva cercato di giustificare la sua incazzatura con il fatto che non gli aveva detto niente, ma la verità stava solo nel suo odio profondo verso quel tipo di lavoro e che questo avesse mandato in frantumi tutte le sue – peraltro vane – speranze. Anya s'immaginava suo padre che pregava giorno e notte e faceva voto a tutti i santi del calendario perché lei non trovasse lavoro e fosse così costretta a iscriversi al college come lui aveva sperato.
Lei del college non ne aveva voluto sapere e glielo aveva anche detto in faccia, ma il grande poliziotto aveva continuato a farsi illusioni. Peggio per lui, perché lei invece non sarebbe potuta essere più fortunata. Malumori a parte, in genere il suo lavoro le piaceva. L'orario era buono, cominciava la mattina alle nove e terminava alle cinque del pomeriggio, a parte due giorni a settimana in cui le toccava fare il turno serale, guadagnava quattro dollari e mezzo l'ora più le mance, due domeniche al mese erano libere e aveva modo di conoscere parecchia gente e soprattutto se ne stava fuori casa la maggior parte del tempo.
Le cinque e sette minuti. Anya prese un altro bicchiere di plastica, l'ultimo del suo turno di quel pomeriggio, sperava, e si stava preparando a riempirlo, quando un colpo secco di fronte a lei fece tremare il bancone e schizzare alcune gocce di caffè sul vassoio.
Bowen diresse il suo occhio di falco proprio in quella direzione.
- Ehi, Greg...!- salutò Juliet, ammiccando.
Anya alzò lo sguardo dal macello che aveva fatto sul vassoio giusto in tempo per vedere il ragazzo risponderle con un cenno della mano. Era stato lui a causare quel terremoto di legno piantando i palmi aperti sul bancone. Non si aspettava che si scusasse, e infatti non lo fece.
- Ciao, ragazze. Ehi, Anya...!- di fronte a lei si aprì un sorrisone a quattromila denti. Non lo vedeva, ma era sicura che Bowen la stesse fissando come si fissa un punching-ball quando si è straincazzati. Forzò al massimo i muscoli delle guance per sfoderare un sorriso tirato.
- Ciao, Greg...- la sua voce non avrebbe potuto suonare più falsa, ma d'altronde stava solo cercando di fare buon viso a cattivo gioco per non far arrabbiare ancora di più il suo capo. Greg ghignò e inarcò il sopracciglio in quella maniera che le faceva venire voglia di prenderlo a schiaffi finché non implorava pietà. Era un vizio che aveva fin dal liceo: forse facendo così credeva di risultare irresistibile, ma a lei era sempre sembrato solo un cretino.
I primi tempi aveva anche provato a farselo piacere – se l'era ritrovato come compagno di banco ad economia domestica a quattordici anni, almeno il beneficio del dubbio aveva dovuto concederglielo...! –, ma presto aveva stabilito che l'unico tipo di rapporto che avrebbe mai potuto esserci fra lei e Greg Nedry era una cordiale, silenziosa e reciproca sopportazione fino a che un deus ex machina – meglio noto come campanella di fine ora – non avesse posto fine alla tortura.
Tutto perfetto, insomma. L'unico problema era che lui sembrava non condividere la sua idea.
A onor del vero, non si era accorta subito di piacergli. Ci erano voluti due inviti al ballo di fine anno rifiutati e circa una decina di dichiarazioni contro gli armadietti dei corridoi prima che Talisa – quella che all'epoca considerava la sua migliore amica, ma che di fatto l'aveva mollata quando aveva trovato di meglio – le facesse notare che forse Greg non stava solo cercando di fare lo spaccone come invece aveva pensato. Perché a lei questo sempre era sembrato: uno spaccone.
Greg Nedry era un colosso di un metro e novanta per cento chili, pieno di muscoli e di steroidi accumulati in quattro anni nella squadra di football del liceo. Ad Anya non era mai interessato troppo lo sport, ma Talisa spesso l'aveva trascinata a vedere qualche partita: Greg non giocava male, anzi, per quel che ne capiva lei di football era anche bravo, ma era spesso in panchina per qualche fallo in campo o rissa con gli avversari. Aveva anche fatto un provino per entrare a far parte dei New York Jets, ma non era andato a buon fine.
La sua idea che non fosse altro che uno spaccone derivava dal suo comportamento in campo, dal suo continuo mettersi in mostra, e dalla sua apparente incapacità di incassare un rifiuto o un insuccesso. Era abbastanza ambito dalle ragazze della scuola, ma dalla prima liceo Greg sembrava aver messo gli occhi su di lei, senza un motivo chiaro.
La sua corte non era stata serrata fin da subito. Per diverso tempo lei era stata insieme a Bobby Joe Armstrong, che non si faceva scrupolo a romperti l'osso del collo se per caso t'interessavi a qualcosa che lui considerava una sua proprietà. Quando finalmente a quindici anni aveva mollato Bobby Joe, tutti i suoi ragazzi successivi erano sempre stati troppo assorbiti da se stessi per avere il tempo di ingelosirsi, e quindi lei era stata preda facile delle poco desiderate avance di Greg Nedry. Infine, dopo aver rotto definitivamente con Ross, il suo ultimo surrogato di fidanzato, la sera del suo ultimo ballo scolastico, a Greg lei era sembrata finalmente libera e, di conseguenza, territorio di caccia autorizzato.
Era anche un bel ragazzo, alto, con la mascella squadrata, gli occhi grigi e i capelli corti di un biondo cenere, ma c'era qualcosa in lui – forse la sua insistenza, forse il fatto che somigliasse fin troppo a tutti i tipi che aveva frequentato negli anni del liceo – che la spingeva a non accettare i suoi inviti a uscire. Gli aveva rifilato un no dietro l'altro, gli aveva fatto capire in ogni modo che non era interessata, aveva cercato fino alla nausea di mettere in chiaro che non aveva alcuna intenzione di collezionare l'ennesimo fallimento sentimentale proprio insieme a lui, ma niente. Anche l'illusione di essersene liberata dopo aver preso il diploma era svanita subito.
Da quel che ne sapeva, Greg non era iscritto al college e non aveva nemmeno trovato un lavoro. Questo ovviamente ampliava di molto il suo spazio giornaliero dedicato al rovinare l'esistenza altrui. In qualche modo – non sapeva chi glielo avesse detto, ma se mai l'avesse scoperto allora la sua morte sarebbe stata lenta e dolorosa – aveva scoperto dove lavorava, era comparso lì un bel giorno e né lei né le altre cameriere se n'erano più liberate, dal momento che piantonava alla tavola calda un pomeriggio sì e l'altro no.
- Che fai di bello?- chiese Greg, sporgendosi ancora di più verso il bancone. Qualche cliente aveva cominciato a voltarsi nella loro direzione, e Bowen doveva essere sul punto di esplodere.
- Sto lavorando...- rispose Anya con ovvietà.
- Ah...e che fai, dopo?
Lei fece spallucce, quindi prese uno straccio e pulì il bancone dal caffè. L'arma del silenzio funzionava, qualche volta. Dava l'idea di essere tremendamente oberata di lavoro da non poter nemmeno prestare attenzione alla sua magnifica persona, e allora Greg annunciava che sarebbe passato la prossima volta e si toglieva di torno. Questo nei giorni in cui era fortunata. Ovvero, non quel pomeriggio.
- Intendevo dopo il lavoro...- insistette Greg.
- Niente di particolare.
- Ah! Quindi stasera sei libera?
Anya posò il caffè sul vassoio e alzò gli occhi al cielo.
- Non ho detto questo.
Sollevò il vassoio dal bancone e abbandonò la visuale del muso di Greg Nedry per avviarsi verso il tavolo 10. Contro ogni previsione, il ragazzo la seguì a ruota. Ora tutti li stavano guardando, e Anya dovette ricorrere a tutto il fiato che possedeva per fare respiri profondi e mantenere la calma. Bowen adesso stava scalpitando come un cavallo imbizzarrito. Gliel'aveva detto, il primo giorno di lavoro: “Qui da noi ci sono poche regole: non perdere tempo, ubbidire a quello che dico di fare e tenere la vita professionale separata da quella personale. Se hai litigato con il tuo ragazzo, sono problemi tuoi: non voglio piazzate, scenate di gelosia o corteggiamenti nel mio locale. Qualsiasi guaio tu abbia, lo devi risolvere fuori da qui”.
Era un miracolo che non l'avesse ancora licenziata.
- Io e i miei amici stasera andiamo in quella nuova discoteca...- tornò all'attacco Greg.- Ho pensato che...
- Stasera proprio non posso, Greg, scusami - lo liquidò, sbrigativa, servendo i piatti al tavolo.
- Allora, forse domani potremmo...
- No, neanche domani, mi spiace.
- Sabato?
- Sono occupata - guardò l'orologio: le cinque e dieci del pomeriggio.- Ehi, Bowen!- gridò.- Il mio turno è finito. Posso andare?
Non si poteva dire che Bowen fosse un tipo magnanimo o che si preoccupasse di venire incontro alle esigenze delle sue cameriere, ma pur di far cessare quell'imbarazzante teatrino che Greg aveva messo su sarebbe stato capace di cacciarla fuori dal locale a calci, senza che lei avesse bisogno di chiederglielo due volte. Le concesse il suo permesso con un gesto stizzito della mano.
Anya si liberò del grembiule e lo passò a Juliet, afferrò il cappotto e la borsa e si avviò in direzione della porta. Bowen la bloccò per un braccio appena prima che uscisse.
- Sappi che se si verifica ancora una scena del genere, ti sbatto fuori...- ringhiò a bassa voce. Anya venne colpita in pieno dalla zaffata del suo alito che sapeva di tabacco.
- Ha fatto tutto lui, non è stata colpa mia - sibilò lei di rimando. Bowen le lasciò andare il braccio malamente. Anya non si degnò di salutare nessuno; mise la borsa a tracolla e uscì dalla tavola calda.
Il tempo era peggiorato ancora, e la pioggia cadeva impietosa in grosse gocce su New York. Anya si appiattì contro la parete di un grattacielo, cercando di ripararsi sotto la sporgenza creata da un davanzale. Iniziò a frugare nella borsa alla ricerca dell'ombrello che ne era sicura, cavolo!, doveva avere preso con sé quella mattina, ma non trovò nulla. Si sfilò la borsa da tracolla, e fu allora che vide che, proprio all'altezza della sua testa, qualcuno aveva affisso un volantino che ora ballonzolava sotto i colpi impietosi del vento e della pioggia.
Anya gli dedicò solo qualche secondo di attenzione: al centro vi era la foto di una bambina dai capelli ricci color cioccolato e gli occhi azzurri, al cui sorriso mancavano due dentini da latte, sopra la quale vi era stampata a caratteri cubitali la scritta SCOMPARSA.
Anya lesse velocemente le informazioni sotto la fotografia.
 
SALLY CRANE, 4 ANNI.
SCOMPARSA IL GIORNO 3 SETTEMBRE 2015 DA...
 
Una folata di vento più forte della altre strappò il volantino dalla parete e la faccia di Sally Crane volò via prima che Anya potesse terminare di leggere. Un tuono rimbombò sopra la sua testa. La ragazza afferrò la borsa con entrambe le mani e la sollevò sul capo, ma prima che potesse compiere il passo decisivo che l'avrebbe infradiciata da capo a piedi, lo scampanellio della porta dell'Once Upon a Time Café la fece voltare in direzione dell'entrata del locale: Greg Nedry si era appena scapicollato fuori e ora stava scrutando la strada come un bambino smarrito cerca la madre.
- Ah, sei ancora qui!- esclamò quando la vide.- Credevo che te ne fossi già andata...il tuo capo ha un caratteraccio, sai...
- Hai un ombrello?- gli gridò Anya, cercando di sovrastare i rumori della pioggia e della metropoli.
- Che? No, io...
- Ci vediamo!- lo salutò, prima di lasciare il rifugio che si era trovata e cominciare a correre sotto la pioggia. Greg rimase un attimo interdetto, ma subito si riprese e cominciò a seguirla.
- Ma che, sei arrabbiata?- urlò.
- No, ho fretta!- sbuffò Anya. Finì con gli stivaletti leggeri in una pozzanghera, infradiciandosi tutta. Cercò di scorgere la sua macchina parcheggiata in mezzo alle altre, e si affrettò verso di essa.
- Il tuo capo è un vero stronzo!- commentò Greg, incurante del fatto che lei stesse letteralmente scappando da lui.- Dovresti lasciare quel lavoro, lo sai?
Non si degnò di rispondergli. Attraversò la strada a passo svelto, ringraziando che in giro non ci fossero abbastanza auto da far avverare la sua ipotesi di un ingorgo.
- Ehi, senti, ti posso parlare un momento?
- Mi spiace, ho fretta!- ripeté.
Finalmente, raggiunse il suo vecchio pick-up blu scuro parcheggiato dall'altro lato della strada. Spalancò la portiera ed entrò con una tale furia che quasi si ritrovò distesa sul sedile. Richiuse in fretta lo sportello e iniziò ad armeggiare con le chiavi. Le girò un paio di volte, e il motore diede un gemito soffocato, senza accendersi. Anya si lasciò sfuggire un'imprecazione che solo tre anni prima le avrebbe fruttato una sonora sberla da parte di suo padre, e girò un'altra volta le chiavi. Avrebbe dovuto prevederlo: ogni volta che pioveva o c'era umidità nell'aria, puntualmente il motore faceva i capricci. Anya girò più e più volte le chiavi, ma ogni volta la macchina emetteva solo dei rumori striduli che morivano sul nascere. Cacciò violentemente dalla sua testa la voce di suo padre che le ripeteva che era venuto il momento di trovarsi un'auto decente.
Era un vecchio pick-up, il suo; l'aveva comprato a sedici anni per trecentocinquanta dollari, usato e mezzo scassato, e già allora ci metteva dieci minuti solo per partire. Un bel guaio...soprattutto se avevi uno stalker alle calcagna!
Greg Nedry bussò contro il finestrino chiuso. Anya roteò gli occhi, abbassandolo.
- Ehi...- ansimò il ragazzo.- Senti, se la sera non puoi ci possiamo vedere dopo il lavoro. Che dici, ti offro una birra?
- Davvero, Greg, scusami, ma proprio non posso. Devo andare a prendere mia sorella...
Girò ancora la chiave. Con sua immensa felicità, il motore si avviò.
- Ciao!- salutò con noncuranza, prima di rialzare il finestrino. Spinse la frizione e premette l'acceleratore, immettendosi nel traffico. Sbirciando lo specchietto retrovisore, scorse il ragazzo in piedi sotto la pioggia che guardava la macchina allontanarsi con aria corrucciata.
Anya sospirò, abbandonandosi contro lo schienale e concentrandosi sulla strada.
Guidò in mezzo al traffico per dieci minuti buoni. Il tragitto che separava l'Once Upon a Time Café dal liceo non era troppo lungo, e non rimase nemmeno imbottigliata fra le altre auto come aveva temuto, ma la pioggia battente aumentò ancora di più il suo ritardo.
Non fece altro che pensare a Greg Nedry per tutto il tempo. Juliet sosteneva che avrebbe almeno dovuto dargli una possibilità, ma Anya aveva già incassato troppi colpi allo stomaco per volersene cercare degli altri. Conosceva i tipi come lui, e conosceva anche tutti gli altri: o erano una scopata e via oppure finivano con lo sposarti e metterti incinta, e prima che te ne accorgessi ti ritrovavi quarantenne, casalinga, depressa e isterica, stipata in un appartamento umido a occuparti di quattro marmocchi con un marito con un ventre dieci volte più tondo del normale, la cui occupazione principale era stazionare sul divano di fronte a una partita di football con un boccale di birra in mano.
E io non voglio fare la fine della mamma, si appuntò mentalmente, continuando a guidare. Avrebbe voluto fare marcia indietro e investire Greg: uno di quei giorni l'avrebbe davvero fatta licenziare, con il suo comportamento. E quel che era peggio, era che sembrava non capire l'ovvio: lui non le interessava. Avrebbe anche evitato di trattarlo così male, ma non poteva farne a meno. Gli aveva già detto più volte che no, non era né fidanzata, né impegnata, né lesbica, solo non interessata. Ma Greg doveva avere un porcellino d'India in prognosi riservata, nel cervello, per continuare a non capire.
Beh, peggio per lui.
Lei aveva ben altro a cui pensare, per potersi permettere di preoccuparsi anche delle tare mentali di uno scimmione scappato da un circo.
Arrivò alla scuola di Elizabeth che erano le cinque e trentacinque minuti. Si sarebbe aspettata di trovare sua sorella seduta sui gradini dell'istituto, con il cappuccio della felpa tirato sul capo, gocciolante d'acqua e intirizzita, e invece quando parcheggiò non vide nessuno. Certamente tutti gli altri studenti dovevano essersene già andati; pensò che per una volta Liz s'era fatta furba e stava aspettando all'interno della scuola. Le inviò un messaggio al cellulare dicendole che l'attendeva in auto, quindi prese a tamburellare con le dita contro al volante nella speranza che la stizza per la figuraccia che le aveva fatto fare Greg Nedry passasse.
Controllò il cellulare per ingannare l'attesa e trovò un messaggio di suo padre in cui le chiedeva se andava tutto bene. Anya fece una smorfia e lo ignorò. Compose il numero di sua sorella e attese che rispondesse.
 
Aveva mandato un SMS ad Anya da un quarto d'ora e lei non gli aveva ancora risposto. E lui sapeva che alle cinque e quaranta del pomeriggio aveva già finito di lavorare da un pezzo.
Prese il proprio cellulare e si preparò a rispedire lo stesso messaggio con lo stesso testo, ma un commento del suo collega lo fece desistere.
- Magari non l'ha ancora letto. Dalle il tempo di guardare il cellulare.
Richard Hadleigh non si degnò nemmeno di guardarlo in faccia. Si limitò a posare il cellulare sulla scrivania e ad abbandonare il dorso contro lo schienale della sedia. Gli aveva sempre dato fastidio che Jones gli desse consigli su come comportarsi con Anya e Liz, un po' per l'intenzione in sé e un po' perché il suo collega non aveva figli – e mai ne avrebbe avuti, sospettava, visto il soggetto. L'orologio appeso alla parete alle sue spalle, sopra le loro teste, indicava le cinque e quarantacinque del pomeriggio: mancavano più di due ore alla chiusura degli uffici, e un'altra mezz'ora di auto da lì fino a casa.
E lui non ne poteva più.
- Piove di nuovo - commentò Jones, con un'allegria del tutto inopportuna. Il suo collega faceva ancora parte di quella fascia d'età che riusciva a provare ancora un briciolo di entusiasmo per quel lavoro. Era stato assegnato al suo stesso dipartimento due anni prima, e già da subito il suo entusiasmo gli aveva dato sui nervi. In tutta sincerità, non aspettava altro che ricevesse una botta dalla vita così forte da capire finalmente che cosa significasse avere dei problemi.
E che lavorare in quella sezione speciale del distretto era tutto tranne che eccitante o...fiabesco.
Più del Dipartimento Favole, l'unica cosa che Richard Hadleigh aveva sempre detestato era il suo ufficio. Sin dalla prima mattina impestava un nauseabondo puzzo di sigaro e caffè, senza contare che il Dipartimento Favole era proprio a due passi dalla mensa, sicché anche l'odore di cavoli bolliti e detersivo per i piatti voleva la sua parte. I muri erano scrostati e pioveva dal soffitto – a proposito, doveva trovare la forza di alzarsi dalla sedia e svuotare quella pentola stracolma di acqua piovana nell'angolo, prima che strabordasse – e come se non bastasse le due addette alle pulizie che si occupavano di rassettare la centrale di polizia sembravano essere colte da un inspiegabile attacco di panico ogni volta che giungevano in prossimità del Dipartimento Favole, e fuggivano prima di essere contaminate dalla sporcizia che regnava incontrastata sul pavimento.
Non che fosse una novità. Aveva cominciato a lavorare in quel reparto speciale della polizia a diciannove anni, fresco fresco di diploma e pronto a tutto pur di entrare a far parte delle forze dell'ordine come suo padre, e da allora aveva visto solo il procuratore del distretto e Nathan Jones entrare in quell'ufficio. Hadleigh sospettava che si trattasse di una qualche diavoleria magica che impediva a tutti coloro che non erano a conoscenza dell'esistenza del Dipartimento di avvicinarsi.
Oppure, semplicemente tutti se ne fregavano. Lo stesso procuratore aveva sempre squadrato gli sfigati del Dipartimento senza curarsi di celare l'indifferenza che suscitava in lui il loro lavoro.
Non occorreva essere Nostradamus per indovinare che, in tutta la centrale di polizia, il Dipartimento Favole era considerato come la ruota bucata del carro. Hadleigh si chiedeva spesso a cosa fosse servito un diploma d'accademia di polizia e anni e anni passati a mangiare la polvere, se poi il suo destino era stato quello ammuffire per anni su una sedia con l'unico compito di...ricostruire la casa ai tre porcellini!
Come ogni volta, il pensiero gli fece venir voglia di vomitare. L'ispettore Hadleigh incrociò il proprio riflesso specchiandosi nel vetro della finestra rigato dalle gocce di pioggia: aveva quarantadue anni, i suoi capelli color castano scuro erano striati qua e là da fili grigi, e nelle giornate peggiori non riusciva neanche a camminare tenendo le spalle dritte. Stava invecchiando. Ma questo era anche disposto a sopportarlo. Quello che non riusciva a spiegarsi era perché il suo viso apparisse perennemente come ricoperto da un velo grigio, perché quelle lievi rughe intorno agli occhi fossero un segno evidente della stanchezza che si portava dietro da dodici anni, giorno dopo giorno...
La verità era che, a quarantadue anni, si sentiva un fallito. E un buon quarto della colpa era di quel fottuto Dipartimento.
Anche suo padre era stato un poliziotto, e lui era cresciuto nel grande sogno di poterlo diventare a sua volta, soprattutto dopo che lui e sua madre erano morti, e fino a diciannove anni aveva sentito parlare di CIA, DEA, FBI e tutte le sigle possibili e immaginabili, ma mai si era imbattuto in una cosa del genere. Aveva scoperto dell'esistenza del Dipartimento Favole poco tempo dopo aver cominciato a lavorare alla centrale. Erano stati i suoi superiori a spiegargli tutto, quando era stato collocato lì. Si trattava di una sezione molto particolare, gli aveva spiegato l'ex ispettore Fraser. Al suo sguardo incredulo il suo mentore aveva risposto dicendogli che tutte le fiabe e le favole, sì, quelle stesse fiabe che i genitori raccontano ai figli quando sono piccoli, e che lui leggeva alle sue figlie prima di andare a letto, erano vere. Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata...erano tutti personaggi reali, proprio come lo erano loro due. Ma non vivevano lì, nel loro mondo. Era una terra lontana, completamente separata da quella umana, un regno dove tutto doveva, rigorosamente, procedere secondo determinate regole, e l'ago della bilancia non poteva assolutamente pendere da una parte opposta a quella stabilita. Ed era per questo che loro del Dipartimento Favole erano così importanti, aveva concluso bonariamente Fraser dandogli una pacca su una spalla. Il loro compito era proprio mantenere l'ordine nel mondo delle favole.
Lo shock era stato non indifferente, e per due mesi di fila Hadleigh non aveva fatto altro che attendere il momento in cui tutti avrebbero gettato la maschera dicendogli che era tutto uno scherzo. Comunque, superati il trauma e la delusione per non essere stato assegnato al reparto omicidi, aveva scoperto che era anche piacevole lavorare in quella sezione. O almeno, lo era stato, finché anche lui era stato giovane e la vita non gli aveva sferrato colpi troppo duri perché potesse ritrovare la propria spensieratezza. Si era presto reso conto che il suo lavoro non era come quello degli altri poliziotti; i suoi colleghi, loro sì, si prodigavano per mantenere l'ordine nella società, per portare giustizia là dove non c'era. Mentre lui – lui e l'altro suo collega, Nathan Jones, un ciccione di trent'anni buono solo a ingozzarsi di ciambelle – se ne stava a marcire in uno squallido ufficio di New York per uno stipendio da fame, trascorrendo giornate tutte uguali che prendevano una breve piega colorita nelle pause caffè o nelle futili chiacchierate con i colleghi degli altri reparti. Era ben raro che gli capitasse di trovarsi a risolvere qualche caso: la bilancia pendeva sempre dalla parte giusta.
D'altronde, che ci si poteva aspettare da un mondo in cui i personaggi delle favole regnavano sovrani? Non c'erano reali problemi, solo piccoli e stupidi guai che, comunque, prima o poi davano a tutti il loro solito, melenso lieto fine.
Ma il suo lavoro non era ciò che lo preoccupava di più. Sapeva che ormai era tardi per rimediare, non si aspettava più niente dalla vita e trascinava le sue giornate con l'unico obiettivo di arrivare alla pensione con il minor numero di incidenti possibili.
Il vero problema erano le sue figlie.
Si vergognava di quel che era diventato per loro, perché tutt'e due, invece di avere un padre di cui andare fiere, ne dovevano sopportare uno sempre assente e di cui non sapevano praticamente nulla. Il Dipartimento Favole era un reparto segreto della polizia – una specie di CIA dei sette nani! –, fatto che lo obbligava a mentire anche alle uniche due persone che gli erano rimaste dopo la scomparsa di sua moglie. Aveva letto abbastanza temi e pensierini della scuola elementare e parlato con abbastanza maestre e professori per capire che, se qualcuno glielo domandava, Anya e Liz rispondevano che il padre era un poliziotto, ma non avevano idea se si occupasse di multe piuttosto che di omicidi. Lui non si era mai esposto troppo su questo punto e loro, peraltro, non si erano mai prese la briga di approfondire la questione: tutti e tre passavano l'intera giornata fuori casa, chi in un posto chi in un altro, e si vedevano a malapena la mattina a colazione e la sera all'ora di cena. Le due ragazze non parlavano molto con lui, né Hadleigh sapeva mai bene che cosa dire a quelle due giovani donne che, anni prima, erano state le sue bambine.
Non era sempre stato così: quando erano piccole, stavano sempre con lui, si divertivano a giocare insieme e ad ascoltare le fiabe che mamma e papà leggevano loro prima di andare a letto.
Ora, però, le cose erano cambiate.
Complice anche quello che la loro madre aveva fatto, prima di sparire, entrambe avevano smesso di avere un rapporto con lui, perlomeno un rapporto che non si esaurisse a una conversazione a monosillabi stanca e annoiata di fronte a un piatto di pasta. Non erano più bambine piccole, si disse il capitano, con una morsa di tristezza nel cuore. Ora Anya aveva diciotto anni e Liz sedici, e neanche si degnavano di rispondere al cellulare.
Era passato il tempo delle favole.
- Ehi, che muso lungo!- biascicò Jones con un sorrisone sul volto grasso.
Hadleigh sollevò un angolo della bocca abbozzando un sorriso tirato.
- Che c'è? Sei uno di quelli che la pioggia li butta giù neanche gli fosse morto il gatto?
- Sono un po' meteoropatico, lo ammetto - mormorò il capitano, sperando che questo bastasse a zittirlo.
Speranza vana.
- Pensa che anche mia madre è così...scemenze, a mio parere; se le cose vanno male, non è certo colpa del tempo...
- Già.
Jones tirò fuori dal cassetto della scrivania un mazzo di carte.
- Partitella? Si gioca a caffè, naturalmente...
- No, grazie. Scusa, ma non sono molto in vena...
- Pffft! Tu e la tua meteoropatia!
Hadleigh non disse nulla; stava per sprofondare di nuovo nei suoi pensieri, quando alcuni colpi risuonarono contro la porta dell'ufficio. Jones, che si stava ficcando in bocca una ciambella ricoperta di glassa, rimase con la mano sospesa a mezz'aria. L'ispettore fece schioccare le nocche.
- Avanti...- bofonchiò, sentendosi troppo indolenzito per domandarsi chi fosse. Si riscosse parzialmente dal suo torpore quando fece il suo ingresso nella stanza il procuratore Crawford.
Jones tirò una ginocchiata contro il ripiano della scrivania nello scattare in piedi. Hadleigh si alzò a sua volta in segno di rispetto.
- Signor procuratore - salutò, con un cenno del capo.
- Buona sera, ispettore...- gracchiò Crawford, sempre con quell'aria stanca e annoiata che lo caratterizzava in ogni momento della giornata. Il procuratore era una di quelle persone di cui non riuscivi mai a indovinare l'età. Alto e allampanato, con i capelli bianchi e corti e lievemente stempiato, ad Hadleigh dava l'impressione di non avere più di cinquantotto o cinquantanove anni, ma a volte somigliava più a un settantenne invecchiato male e in fretta.
Allungò un braccio facendogli cenno di sedersi, e lo imitò subito dopo. Crawford sembrava stare ignorando completamente Jones e il suo faccione grasso.
- Perdoni l'ora. So che fra poco il suo turno sarà finito, ma mi è giunta poco fa una notizia che rientra nelle competenze di questo Dipartimento. Ho pensato di venire subito per discutere con lei la faccenda, è abbastanza grave...
- Di che si tratta?- Hadleigh non sapeva se essere sorpreso o scettico. Possibile che nel Regno delle Favole fosse accaduto qualcosa di così grave da scomodare addirittura il procuratore? Ricordò che Fraser si era sempre lamentato del menefreghismo di Crawford nei confronti delle questioni che concernevano il Dipartimento; e, per quel che lo riguardava, non aveva mai più messo mano a un caso riguardante il Regno delle Favole dalla sparizione dell'ex capitano, dodici anni prima.
- Arriverò subito al punto. C'è stato un omicidio, due persone.
Jones sgranò gli occhi, evidentemente per lui la notizia era arrivata come una doccia fredda; quanto a lui, il suo già scarso entusiasmo si smorzò ancora di più. Trattenne un sospiro annoiato.
- Signor procuratore, anche nel Regno delle Favole avvengono queste cose - gli spiegò, pacato; pensò che forse Crawford fosse troppo abituato agli omicidi della vita reale e non considerasse le regole del mondo alternativo.- E' quasi la norma che un cattivo muoia, al termine di una favola, anche in modo cruento. Basti pensare ad Hansel e Gretel...sono dei bambini, eppure hanno spinto una strega nel fuoco. Oppure a...
- Non si tratta di un cattivo, stavolta.
Quella sì, che era una bella doccia gelida. Hadleigh vide con la coda dell'occhio che Jones continuava a fissarli con occhi da triglia. Deglutì; come, non si trattava di un cattivo? Era normale che un malvagio morisse, anche di morte violenta...ma che fosse un buono...
- Di chi...di chi si tratta?- domandò, sentendosi la gola secca.
- Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Il tono calmo del procuratore lo spaventava. Erano anni ormai che sapeva che i personaggi delle favole erano reali, e il pensiero che una bambina e una donna anziana fossero state assassinate gli fece perdere un battito.
Gli tornò alla mente il tempo in cui raccontava la fiaba di Cappuccetto Rosso alle sue figlie, e provò a immaginare come sarebbe stato se avesse letto loro questa macabra versione alternativa...
- E' certo che si tratti di un omicidio?
- Ho già provveduto a inviare alcuni uomini sul posto. Le fotografie dei corpi che hanno scattato lasciano pochi dubbi...
- Si sa chi le ha uccise?
- No, ma abbiamo una pista. Abbiamo bisogno della sua presenza sul posto e...anche di quella dell'agente Jones - Crawford lanciò solo una breve occhiata al suo collega, non occorreva un genio per capire che lo stava chiamando all'azione solo per cortesia e per la sua illustre parentela: il fratello maggiore di Nathan era un agente che si era distinto qualche anno fa in una non meglio specificata missione, anche se da allora non si era più sentito parlare di lui, né in centrale né altrove.
- D'accordo. Saranno presenti anche gli agenti di L.A.?
- Non so dirglielo con certezza. Ho cercato di contattare il distaccamento di Los Angeles, ma non ho ancora avuto risposta - il procuratore trattenne una smorfia, e Hadleigh non poteva dargli torto: quello di Los Angeles era l'unico altro Dipartimento Favole esistente insieme quello di New York, cinquanta volte più attrezzato del loro e pieno di imbecilli che passavano la giornata con le mani in mano. In cuor suo, sperava che non venisse nessuno di L.A. a ficcare il naso.
Crawford diede segni d'impazienza.
- Allora? Posso contare sulla sua presenza, ispettore? A occhio e croce ci vorranno almeno tre o quattro giorni per raccogliere tutti i dati e avviare le indagini come si deve.
- Così tanto?
- I corpi sono conciati male. Venga stasera alla centrale alle dieci e mezza, intesi?
- Sì...- balbettò Hadleigh.- Sì, certo...mi dia solo il tempo di avvisare le mie figlie...
 
...quattro...cinque...sei...
Elizabeth s'impose di resistere. Strizzò gli occhi e trattenne ancora di più il respiro.
...sette...otto...nove...
Presto l'avrebbero tirata fuori. Era ogni volta la stessa cosa: Jessica e le sue compari la facevano sempre stare con la testa sott'acqua per dieci secondi di fila, mai di meno e mai di più. Forse avevano paura che affogasse e le accusassero di omicidio volontario, riuscì a pensare.
...dieci!
La stretta intorno ai suoi capelli si fece più intensa, ed Elizabeth estrasse la testa dal lavandino colmo d'acqua. Tossì, boccheggiando alla ricerca di un po' d'aria.
- Allora, Quattrocchi...- vedeva tutto appannato, ma riconobbe la voce di Jessica King.- Ne hai abbastanza? Sì? Allora ripeti con me: non devo più prenderti per il culo, Jessica.
Elizabeth tentò di ingoiare più ossigeno possibile, prima che Jessica, digrignando i denti, facesse un cenno a Ursula. Questa aumentò la stretta intorno ai suoi capelli e le spinse ancora la testa nell'acqua. Elizabeth chiuse gli occhi e trattenne il fiato, aspettando che finisse.
Uno...due...tre...quattro...
Contare la calmava, e l'aiutava ad avere un'idea di quanto mancasse prima di poter tornare a respirare ancora. Non fece nemmeno un tentativo per tirare fuori la testa, o provare almeno a ribellarsi. Ci aveva provato altre volte, e non era servito a niente.
...cinque...sei...sette...otto...
Paradossalmente, in quel momento riusciva solo a pensare che sua sorella era là fuori ad aspettarla in auto da minimo mezz'ora. Aveva sentito il suo cellulare vibrare in qualche angolo dello spogliatoio, e per tre volte la colonna sonora di Pirati dei Caraibi aveva suonato a vuoto. Era Anya che la stava chiamando, incazzata come una iena, di sicuro.
...nove...dieci!
Ursula le tirò la testa fuori dall'acqua. Elizabeth tossì, senza fiato.
- Allora, troia, vediamo se hai capito - ringhiò Jessica.- Dillo: non ti prenderò più per il culo, Jessica.
Elizabeth inspirò a fondo, fissando l'acqua nel lavandino. Non rispose, si limitò solo ad attendere la mossa successiva. Non potevano tenerla con la testa dentro e fuori dall'acqua per sempre, prima o poi sarebbe passato qualche bidello a controllare.
Jessica si lasciò sfuggire un ringhio rabbioso. Sostituì la presa di Ursula ai suoi capelli e nel contempo le sferrò un violento calcio nello stomaco di Elizabeth. La ragazza finì accasciata sul pavimento dello spogliatoio. Le altre cinque risero sguaiatamente, mentre la guardavano strisciare al suolo. Poco dopo, si allontanarono. Sebbene avesse ancora la vista appannata, Elizabeth sentì chiaramente la porta dello spogliatoio chiudersi. Inspirò cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Quando il dolore allo stomaco fu passato, iniziò a tastare il pavimento alla ricerca dei propri occhiali. Glieli avevano fatti volare via dal viso un attimo prima di ficcarle la testa nell'acqua, e ora chissà dov'erano finiti. Si mosse nella nebbia per cinque minuti buoni, sentendo penne, matite e fogli sparsi sotto i polpastrelli, fino a che non arrivò a sfiorare la montatura con la punta delle dita, che repentinamente afferrò e si rimise sul naso. Un attimo dopo, la vista tornò nitida. Portava gli occhiali da quando aveva tre anni, e senza era praticamente cieca.
Con una rapida occhiata decise che tutti i suoi libri di scuola sparsi sul pavimento non sembravano presentare danni. Iniziò a raccattarli da terra. Un tempo avrebbe pianto, ma ormai si era abituata alle prepotenze di Jessica e della sua gang. Aveva anche smesso di difendersi; ci aveva provato i primi tempi, ovvio, ma non era mai arrivata alle mani. E comunque, sarebbe stato inutile: quelle cinque erano grandi, grosse e forti, e lei un topolino con gli occhiali grassottello senza nessuna speranza. Ne aveva parlato con sua sorella, e Anya era andata dritta dalla preside, ma a poco era servito – se si escludeva l'occhio nero che le era costato il giorno seguente.
Le era anche balenato per la mente di rivolgersi a suo padre, ma aveva subito scartato quell'idea. Papà era sì e no a conoscenza del fatto che lei andasse a scuola, figurarsi se avrebbe potuto fare qualcosa per risolvere i suoi problemi sociali. Sarebbe cascato dalle nuvole e avrebbe liquidato la faccenda con un paio di frasi annoiate, come faceva sempre per ogni cosa. Gli voleva bene, questo sì, e avrebbe fatto di tutto per lui – e anche Anya, ne era certa, anche se ripeteva sempre che di lui non gliene fregava nulla –, ma non poteva dire di sentirlo molto presente nelle vita sua e di sua sorella. E dire che da piccola lo considerava il suo Principe Azzurro...
Sì, Principe Azzurro mancato!
Elizabeth fece una smorfia: la voce della sua coscienza somigliava molto a quella di sua sorella, il che era preoccupante. In ogni caso, non c'era pericolo: ormai aveva smesso di credere al Principe Azzurro o a chi per esso; certo, in segreto lo aspettava ancora, ma disperava di poter mai trovare qualcuno che arrivasse sul suo cavallo bianco e risolvesse tutti i problemi della sua vita di merda. Perché la sua vita era veramente una merda, sia a scuola che a casa, e suo padre non faceva niente per migliorare la situazione. Chi si occupava di tutto era sua sorella. Da quando la mamma era sparita e papà era sprofondato in un'apatia molto simile a un letargo, era sempre stata Anya a occuparsi della casa e di loro due. Elizabeth non riusciva a capire come facesse sua sorella, dopo ore a sbattersi di lavoro in quel locale per guadagnare quattro soldi, a cucinare, lavare i pavimenti, tenere in ordine, fare la spesa...
Doveva solo evitare di giocare a fare la mamma, e per il resto era tutto perfetto.
Elizabeth si riscosse all'improvviso, battendosi una mano sulla fronte. E che cavolo, aveva passato dieci minuti seduta sul pavimento a pensare a sua sorella, ed era riuscita a dimenticarsi che sua sorella la stava aspettando là fuori da almeno mezz'ora!
Si alzò in piedi; controllò di non essersi macchiata la camicia bianca di sangue, ma lo fece più per abitudine che per altro, dal momento che il pestaggio era stato meno violento del solito. Toccò con la punta del piede qualcosa: era il libro di favole che aveva trovato nel suo zaino. Elizabeth si chinò a raccoglierlo; ormai era tardi per portarlo in segreteria, realizzò. Ci avrebbe pensato domani.
Lo rimise nello zaino, quindi uscì.
Era l'ultima studentessa rimasta all'interno della scuola. Si tirò il cappuccio della felpa sul capo e corse fuori dall'edificio sotto la pioggia battente, verso il pick-up di sua sorella.
- Ma che fine avevi fatto?- fece Anya, non appena fu saltata a bordo ed ebbe richiuso la portiera.- Ti ho chiamato tre volte! E' da venti minuti che...
- Scusa, ero...ero occupata...- rispose Elizabeth, evasiva. Non le andava di intavolare una discussione con sua sorella in merito a quel che era successo, e sperò accettasse le scuse senza porle altre domande. Anya la squadrò per un attimo, quindi mise in moto e partì.
Non parlarono per buona parte del tragitto, concentrandosi l'una sulla guida, l'altra sulle gocce di pioggia che cadevano sul parabrezza e venivano spazzate via dai tergicristalli.
- Che è successo? Ancora quelle stronze di Jessica e delle sue lecchine?- chiese Anya a un certo punto, secca, senza guardarla.
- No...- pigolò Elizabeth.- Non è successo nulla...
- Uhm...- Anya rallentò.- E allora da dove salta fuori quello?
Elizabeth abbassò lo sguardo: sul suo avambraccio destro c'era, in bella mostra, un livido grande quanto una moneta. Tirò la manica della felpa verso il basso, evitando di incrociare lo sguardo della sorella. Anya sospirò, ma Elizabeth sapeva che non aveva finito. Una volta arrivate a casa sarebbe scoppiato il vero ciclone. Tirò un sospiro a sua volta, rassegnandosi al suo destino, mentre Anya svoltava a destra per entrare nella via dove sorgeva il loro appartamento. 
  
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