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Autore: Sethmentecontorta    14/03/2016    3 recensioni
Camminava muta, come chiusa in una bolla che la separava dal resto del mondo: i suoni e le immagini la toccavano solo a metà, qualunque gioia, volontà, felicità era scivolata via da tempo. Era solo una dodicenne, quanto tempo avrebbe resistito sola a quel modo? Che motivo aveva per andare avanti? Ah, lei lo sapeva eccome quale motivo la convinceva a continuare, seppur così.
Nonostante la sua mente fosse così offuscata da oscuri pensieri, l’animo appesantito, il suo passo incedeva leggero, invariato; attraversava strade, superava semafori, negozi, parchi, case, persone. Quel mondo che le appariva così distante, in cui i bambini ridevano giocando insieme, le ragazze come lei chiacchieravano dei loro amori adolescenziali o di qualunque cosa interessasse loro, gli adulti affannavano dietro al lavoro, ai figli, a mogli e mariti. Mentre la vita scorreva frenetica, lei camminava lentamente per la sua via; lo sguardo nel vuoto, la treccia ondeggiante lungo la schiena con un ritmo quasi ipnotico. Era così estranea.
~
|Remake di "The dreamer girl|OC, Kidou Yuuto, Goenji Shuuya, Fubuki Shirou, Fudou Akio|triste|
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axel/Shuuya, Caleb/Akio, Jude/Yuuto, Nuovo personaggio, Shawn/Shirou
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seth's corner: SONO RIUSCITA NEL MIO INTENTO DI PORTARVI IL PRIMO CAPITOLO IN UNA SETTIMANA, MA DAVVERO? NON CI CREDO MAI NELLA VITA
In ogni caso, non ho granché da dirvi riguardo questo capitolo, ho voluto iniziare a mostrarvi un po' la psicologia della nostra piccola Tenshi, i suoi rapporti con i primi due fra i personaggi dell'anime. Nel prossimo vedremo più in dettaglio ancora i suoi pensieri, il suo modo di ragionare, ma lo vedrete a tempo debito. So che già da ora il grande quesito di tutti voi sarà sul perché nel prologo compare anche Shirou... Beh, lo scoprirete a tempo debito, temo ci vorrà un po', ma portate pazienza. Nel frattempo, sarei più che lieta di sentire le vostre congetture, anche su Kidou o su qualunque altro personaggio, se il vostro cervellino da fagirl e fanboy ne elaborerà. Questo varrà anche per i capitoli futuri, ovviamente. L'immagine questa volta l'ho presa da una gif di tumblr trovata su google immagini e non ho sinceramente voglia di andare a cercarne la fonte. Se volete nuovamente accompagnare la lettura con della musica, questa volta vi consiglio questa canzone, sempre dal mio amato RWBY. 
Spero di poterci rileggere in una recensione o anche solo in un capitolo futuro!
~Seth
 
Chapter one ❧ The beginning of a nightmare

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L’aria, fino a poco prima azzurra e calma, si riempì di nebbia color bianco sporco e di aloni di palpabile tensione che gravavano su ciascuno degli studenti della Raimon junior high, radunati in cortile come in attesa di qualcosa di davvero importante. Ciascuna testa si protendeva verso il grande cancello d’ingresso in ferro, allora spalancato; le espressioni su quei visi sembravano quelle tipiche di coloro che stanno per incorrere in una disfatta, un’amara mortificazione. Quando la polvere ed i vapori, che avevano impedito la visuale oltre l’entrata della scuola, si diradarono, ciò che si materializzò di fronte ai loro occhi fu un gigantesco pullman dalle fattezze tetre. Il pullman della Teikoku gakuen. Le porte di esso si spalancarono, ed iniziò una sottospecie di rito che lasciò i presenti basiti. Prima scesero due file di ragazzi in uniforme scolastica - che pure ricordava tanto quella di un esercito -, che andarono a formare un corridoio che si protendeva oltre la soglia della vettura. Seguirono i membri della squadra, terrificanti coi loro ghigni dipinti sui lineamenti come su volti mostruosi di un disegno infantile. Si diressero senz’alcuna esitazione al campo da calcio, dove la squadra di casa li attendeva, il cuore in gola. Un’ultima figura emerse dalle viscere del pullman, un’esile ragazzina, cui nessuno però prestò attenzione, gli sguardi di tutti catturati dall’aura intimidatoria dei giocatori.
Fu evidente fin dai primi istanti di gioco quale delle due parti avrebbe totalmente surclassato l’altra. I giocatori ospiti stavano attaccando gli altri con una forza terrificante, puntando non tanto a vincere, quanto a devastare fisicamente gli avversari. Li stavano riducendo allo stremo delle forze, come un gatto che gioca alla legge della giungla con un topolino, che lo fa correre via per poi riacciuffarlo, lasciando che si sfinisca prima di ucciderlo. In non molto tempo, difatti, coloro che giocavano in casa vennero tutti messi in ginocchio di fronte alla loro superiorità fisica, stremati dalle pallonate in pieno corpo a cui venivano sottoposti senza riuscire ad evitarlo.  
La ragazza seduta alla panchina riservata alla Teikoku lasciava lo sguardo scorrere sulla folla intorno al campo, senza quasi degnare di un’occhiata il gioco. Dopo un po’ i suoi grandi occhi indugiarono per un istante su un punto preciso, poi si chiusero ed ella, sospirando, con una mano si spostò la sua lunga treccia da dietro la schiena sulla spalla destra, lasciandola ricadere placidamente lungo il lato del suo busto minuto. Le sue palpebre si sollevarono e le pupille saettarono sul capitano della squadra, il ragazzo che sulle spalle portava legato un mantello di un profondo rosso che svolazzava in aria ad ogni sua mossa. Egli, sentendo il peso di quello sguardo su di sé, voltò la testa fino ad agganciare i propri occhi vermigli, nascosti da un paio di occhialetti che sembravano quelli di un aviatore, con quelli grigi della ragazza, circondati invece solo da due corone di lunghe ciglia nere.
 – Si ostina a rimanere nascosto. Proseguiamo. – disse lei con sguardo serio e distaccato. – Il comandante dice che arriverà.
Il ragazzo annuì e tornò a rivolgere tutta la sua attenzione sulla partita, con un ghigno sadico. Avrebbe fatto piegare quei pivelli ai loro piedi finché la loro preda non si fosse fatta vedere.
Continuò, così, quel gioco sadico dei ragazzi in maglia verde scuro, gli altri atleti a terra sfiniti. Ne avevano risparmiato solo uno, quello che fin da subito si era dimostrato il più codardo, il più terrorizzato da loro. Avevano deciso in un tacito accordo di lasciargli vedere come avrebbero ridotto i suoi compagni e poi lui; ora egli riusciva a malapena a reggersi in piedi per via del tremore delle sue gambe. Quando anche l’ultimo dei giocatori ad eccezione di lui stramazzò al suolo, la consapevolezza che sarebbe stato il prossimo gli piombò addosso d’un colpo e, colto da un attacco di panico, corse via dal campo di gioco, arrancando su per la piccola salita che l’avrebbe portato al sicuro fra le mura della scuola. Mentre fuggiva, si sfilò la maglia, a fatica, e l’abbandonò sul verde e lucido prato.
La ragazza si spostò una ciocca di capelli dagli occhi, e senza cambiare minimamente la sua espressione fredda fissò quella maglia abbandonata a terra, e poi un ragazzo che cercava di non farsi vedere, poggiato al tronco di un albero poco distante. Egli aveva capelli di un biondo molto chiaro pettinati verso l’alto in varie punte, che spiccavano sulla sua carnagione piacevolmente dorata. I suoi occhi neri come l’onice indugiavano sui ventuno ragazzi in campo con un tremore di indecisione e frustrazione.
Cosa aspetti? È l’occasione perfetta. Per cosa credi che siamo qui? Molte immagini le baluginavano in mente alla vista di quel ragazzo, e sospirò abbassando lo sguardo. Che seccatura…
Prima ancora che rialzasse gli occhi, udì molti mormorii di meraviglia tutti intorno al campo. Le sue labbra rosee si piegarono in un piccolo sorriso. Quando tornò a guardare la partita, la Raimon era tornata ad avere undici giocatori. In campo era comparso il ragazzo che stava precedentemente osservando, che si era infilato la maglia col numero dieci che era stata lasciata sul prato. Il suo viso freddo era acceso di determinazione, cosa che le fece sollevare ancora un po’ gli angoli della bocca. Grazie al cielo. Il suo sorriso si fece malinconico, sposandosi alla perfezione col luccichio dei suoi occhi dalla forma triste, fissando la loro “preda”. Aveva lo sguardo di una persona che guarda un parente od un caro partire per la guerra.
– Alla fine, Goenji, non sei cambiato di una virgola. – sussurrò lei, mentre il ragazzo biondo si preparava a calciare il pallone, la sua forza era già visibile dalla vigorosità della sua gamba slanciata all’indietro, pronta a colpire quella sfera bianca e nera.
Quando calciò, sembrò che delle lingue di fuoco si sprigionassero dal nulla, andando ad avvolgere il pallone e schizzando insieme a lui in direzione della porta avversaria. Il portiere, colto di sorpresa, non fu in grado di fermare il colpo, che entrò in rete. Il tabellone segnava ora un punteggio di venti ad uno per gli ospiti.
 
Su quell’autobus dall’aspetto spaventoso, tutti i ragazzi della Teikoku Gakuen erano seduti senza dire una parola, un’aria grave e tetra era sospesa sulle loro teste come una bestia inquietante. Chi aveva spezzato quel silenzio mediante un paio di auricolari e musica da cellulari o iPod, chi era perso nei propri pensieri, alcuni avevano tirato fuori libri di scuola e ripassavano gli argomenti della lezione del giorno seguente. Solo il rumore della strada si udiva.
Un ragazzo dalla seconda fila di poltroncine rosse si spostò a sedere alla prima, accanto alla ragazza che era precedentemente seduta sulla panchina della squadra. Egli era il capitano, Kidou Yuuto.
– Forse dovresti fare un discorso esortativo. – disse ad ella, osservandola da dietro le lenti dei propri occhialini da aviatore.
– Perché io? – rispose lei, ma senza alcuna sfumatura sarcastica, irritata o annoiata nella voce, solo pura neutralità. Non staccò gli occhi dal finestrino o dal paesaggio che cambiava dietro di esso, non li spostò sul ragazzo.
– Perché sei la nostra manager. – rispose con ovvietà il ragazzo.
– E tu il capitano. – le iridi della ragazza saettarono sul suo volto, ma durò solo per un istante, quasi immediatamente, infatti, tornarono al vetro e allo scenario retrostante.
 ̶ Touché.
– Sai che non sono brava con questo genere di cose. – una mano candida si sollevò a spostare una ciocca di capelli argentei dietro l’orecchio. Kidou adorava il modo in cui ogni sua singola mossa sembrasse sempre elegante ed affascinante.
No, effettivamente non poteva certamente venir definita una persona eloquente. – Sempre schiva, perfino con me, eh? – commentò.
Ella finalmente si voltò. Il suo sguardo, diretto ai suoi occhi celati alle altre persone, racchiudeva una tristezza ed una solitudine appena visibile, ma che egli, che aveva visto quegli stessi cerchi grigi in tutt’altre espressioni, riuscì a cogliere. Quello del ragazzo, per quanto non fosse dato agli altri saperlo, era invece oscurato da un pesante velo grave di tristezza.
– Cosa dovrei dirvi? Che dovete impegnarvi al massimo? Che poniamo tutta la nostra fiducia in voi? Che ci aspettiamo tutto il possibile ed anche di più? Credi che ci sia qualcuno qui che non lo sappia? Ciascuno di questi ragazzi sa esattamente cosa gli spetta, cosa deve fare, cosa si aspettano da lui. – sentenziò ella, osservando con distacco un cartoncino lucido della lunghezza di un dito che si stava rigirando fra le mani. A vederlo così, Yuuto l’avrebbe detto essere un biglietto da visita. Sapeva come era solita comportarsi, per cui sapeva bene che nonostante il suo sguardo divagasse in ogni dove perfino mentre parlava con qualcuno, tale azione non era dettata da disagio, rabbia, paura, o qualunque emozione che usualmente potrebbe venirvi connessa. Per lei, si trattava di un’azione dovuta unicamente alla sua natura, al suo modo di fare.
 – Già, hai perfettamente ragione. – assentì egli, lasciando scendere gli occhi sulle sue gambe, dove era poggiato il bigliettino. Purtroppo, ella se lo strinse addosso, impedendogli la visuale su qualunque cosa vi fosse scritta sopra. Mentre tornava a rivolgersi al suo volto, gli sfuggì un sospiro. Era incredibile come quella ragazza sembrasse nascondere sempre più segreti, al punto che non avrebbe potuto neppure immaginarne il numero. Da quando perse i contatti con lei, all’età di otto anni a quando la ritrovò quattro anni dopo, la bambina che conosceva era stata corrotta, plagiata, plasmata per contenere più verità nascoste di un antico oracolo, più male del vaso di Pandora. Nei suoi occhi non aveva più trovato la triste innocenza di una volta, ma solo la cupa consapevolezza di quanta malvagità s’annidasse intorno a loro, nonostante i suoi soli undici anni. In quella figura smilza vi era ormai solo la parvenza della timida bambina gentile che era stata una volta, ora vi era solo un fantasma, un manichino d’ombra, mosso da adulti, evanescente, oscuro, corrotto. Nulla più di puro ed intoccato vi era in lei. Quell’anima che solo per poco tempo aveva conosciuto affetto, era stata completamente rinchiusa dal nero catrame della cupidigia umana, abbandonata sola a marcire su un letto di rovi.
– Quindi vorresti appiopparmi questo compito gravoso? – chiese scherzosamente il ragazzo, per allentare la tensione e per tentare di far spuntare per lo meno la parvenza di un sorriso sulle labbra rosee della fanciulla. Purtroppo per lui, nulla cambiò nella sua espressione, mentre ella rivolgeva lo sguardo all’incombente sagoma della loro scuola che si avvicinava, fuori dal finestrino, col cuore che si sentiva pesante.
– Sta iniziando l’incubo, Kidou… Dobbiamo prepararci, nulla sarà più semplice… Nulla
 
Campionato di calcio Football Frontier, l’occasione per le squadre di calcio scolastiche di mostrare la loro abilità al livello nazionale. La ragazza, da sola nella sua stanza, guardava il volantino di quell’evento appeso alla porta. Era sdraiata sul letto a pancia sotto, il mento appoggiato sulle braccia, adagiate a loro volta sul cuscino. Sospirò. Quante grane avrebbe potuto portare un’occasione all’apparenza così spensierata ed innocente? Si passò una mano tra i capelli, che ora erano sciolti e le ricadevano in morbide onde sulle spalle e sulla schiena, come un velo argenteo che la avvolgeva fino ai punti in cui la cresta iliaca sporgeva dalla sua pelle cerulea.
– Tenshi. – sentì una voce chiamarla dall’atrio di quella grande casa.
Si lasciò sfuggire un nuovo sospiro, mentre si tirava a sedere facendo leva sulle braccia; accavallò le gambe e fissò la porta in attesa. Indossava solo una canottiera ed un paio di pantaloncini, ma non le importava granché, non che quell’uomo non l’avesse mai vista con così tanta pelle scoperta. Oh, avrebbe tanto desiderato una vita più normale, che da quella porta sarebbe di lì a poco entrata una madre, e non lui. Non aveva mai provato il calore di una famiglia, non sapeva come sarebbe stato averne una, cosa avrebbe provato, come sarebbe stata. Avrebbe voluto dei fratelli? Certo, sarebbe stato bello avere un fratello o sorella maggiore, qualcuno a proteggerla e rincuorarla. Oppure anche uno od una minore, così da essere lei quella con la responsabilità di occuparsi di lui o lei, l’avrebbe fatto col sorriso. Aveva sempre ingerito bocconi amari da sola, mentito, allontanato gran parte delle persone.
Sentì il cigolio dei cardini e si riscosse dai suoi pensieri, mentre una figura allampanata entrava nella stanza. Portava occhiali scuri su quel suo naso aquilino, li portava sempre, raramente lo aveva visto senta, pur vivendo con lui.
– Allora, che ne dici di Goenji Shuuya? – ghignò, incrociando le braccia al petto.
Tenshi inclinò di poco la testa di lato, guardando un punto ignoto sul muro di un tenue color panna. – È un giocatore eccellente, su di questo non ci sono mai stati dubbi. Indubbiamente è uno degli attaccanti della sua età più talentuosi che abbia mai visto, ci sono pochi ragazzi abili come lui, sulla piazza. Stai pensando di farne il nuovo acquisto della squadra, vero? – lo guardò, come in attesa di una risposta, che però non arrivò: egli continuava a guardarla da dietro quelle lenti, rivolgendole un sorriso inquietante. Lei sospirò chiudendo gli occhi. – Lo sapevo. Cominci ad essere troppo prevedibile.
Si fermò di nuovo, guardando un fiore che tempo prima aveva lasciato seccare compresso in un libro ed incorniciato su un foglio di carta di riso stropicciata e dall’aria antica, colorata di mille colori, e che da allora era appeso sul muro. Rappresentava la principale nota di colore, in quella stanza abbastanza neutra.
– Lascia perdere. – disse con tanta calma da sembrare incurante, osservando i petali che una volta erano stati di un bel color arancio sgargiante, lo ricordava bene.
– Come dici?
– Lascia perdere. Non ti seguirà. Si ostina a non voler ricominciare a giocare, e se anche cambiasse idea, mai e poi mai si unirebbe alla Teikoku. – tornò a rivolgere lo sguardo color cenere verso quell’uomo, il suo volto non tradiva la benché minima espressione, era come guardare il muro bianco di una stanza completamente vuota. – E puoi forse biasimarlo? Dimentichi cosa gli hai fatto? Hai dimenticato Goenji Yuuka? – la sua voce era talmente neutra da dare l’impressione che gli stesse chiedendo cosa avrebbe mangiato a pranzo, nella più noiosa delle conversazioni.
In tutta risposta, il suo ghigno si allargò ancora di più. – Non è mai detta l’ultima parola. Lui crede che sia stato un incidente.
– Tu non capisci le persone, Kageyama. Non le hai mai capite e mai le capirai. Per te ha sempre contato solo e soltanto te stesso. Non puoi comprendere le idee e gli ideali di nessun’altro. – sputò queste parole in tono piatto, continuando ad osservarlo con quel viso bianco.
– Posso comprendere te.
– No, non puoi. – ella si alzò e gli si avvicinò, guardando fisso gli occhiali da sole dietro i quali erano celati i suoi occhi. – E te lo dimostro ora. Tu credi che ti odi?
 – Sì, penso che tu mi odi. Un po’ per via delle mie azioni, ma principalmente perché non ti ho mai detto nulla del tuo passato. – disse l’uomo. – Sei famelica di conoscere chi sei, Tenshi, non desideri altro.
Lei sorrise ed abbassò di poco la testa, scuotendola e chiudendo gli occhi. – Oh, come ti sbagli. Non conosci neanche la tua figlia adottiva, dopo cinque lunghi anni.
Detto ciò, la ragazza uscì dalla stanza, lasciando Kageyama Reiji da solo, a ridacchiare. Scosse la testa, come divertito. Tenshi, Tenshi…
 
   
 
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