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Autore: Emmastory    15/03/2016    4 recensioni
Eleanor, privata della vista, porta sulle spalle il peso del mondo. L'amicizia si fa lentamente spazio nella sua vita, e le anime che incontra trovano con lei la felicità perduta. Adolescente di indole curiosa, prova simpatia per il lavoro del padre, stimato poliziotto, ma emozioni differenti nei confronti dell'arrogante e presuntuosa Fiona Layton, principale fonte dell'odio che prova verso l'indolenza e la cattiveria presenti nel mondo odierno. Fortuna, amici, e un mistero da risolvere. Una storia in cui l'essere risulta più importante dell'apparire.
Genere: Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nei-miei-occhi-mod
Capitolo I

Venuta al mondo

Mi ricordo tutto. Era una notte buia e tempestosa, mancava poco alla mezzanotte. La pioggia cadeva con velocità inaudita continuando a bagnare il freddo e duro asfalto, e il vento spirava scuotendo le foglie degli alberi. Mio padre dubitava che la tempesta che infuriava fosse una coincidenza. Lui sapeva che era un segno. Un urlo improvviso risuonò in tutta la casa, perforandogli i timpani. Julian, questo il suo nome, si voltò non appena quel suono raggiunse le sue orecchie, in una mera frazione di secondo. “Sto arrivando, resisti!” Il suo grido in risposta, pieno di paura e incertezza mentre rimaneva immobile ai piedi delle scale. Le salì correndo più veloce che poteva, aprendo subito la porta che si ritrovò davanti. Il suo sguardo si posò su quella che era sua moglie, mia madre Ezra. Gli occhi marroni come foglie autunnali, dello stesso colore dei capelli. Nel tentativo di parlare aprì la bocca, ma solo il suono del suo pesante respiro riuscì a fuggire dalle sue labbra. Mio padre nascondeva il terrore serrando le labbra, ed evitando accuratamente di spostare il suo sguardo dall’amata moglie. Aprì a sua volta la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Mia madre Ezra sollevò il capo fissando lo sguardo sul marito, gli occhi appena aperti. “Io…” la sua voce tremava, e lei tentava con tutte le forze di permettere alle parole di lasciare la sua bocca. “Starò bene… non preoccuparti.” Continuò, per poi spendere il resto delle sue esigue energie nel respirare. Guardandola, mio padre la strinse in un delicato abbraccio, e le loro guance si toccarono lievemente.” Andrà tutto per il meglio.” Le disse, sussurrando e tentando in ogni modo di nascondere la paura realmente provata. “Te lo prometto.” Aggiunse, con la voce addolcita dai sentimenti. In quel momento, le labbra della giovane Ezra si piegarono in un debole sorriso. Improvvisamente, un incredibile dolore le attraversò il corpo. Il marito la prese per mano, scegliendo poi di chiudere gli occhi. Il suono del silenzio fu ciò che si sentì nella stanza. L’elettricità tornò lentamente a funzionare, e una piccola lampada la illuminò. Subito dopo, un flebile vagito fece la sua comparsa, rompendo il perfetto e religioso silenzio presente nella stessa. Julian aprì lentamente gli occhi, voltando il capo in direzione di quel suono, per poi notare due adorabili bambini. Intanto, il respiro di Ezra sembrò regolarizzarsi, mentre si abbandonava ad un sospiro di sollievo. Lentamente sollevò la testa, lasciando che il suo sguardo si posasse sui neonati. “Sei diventato padre.” Disse, parlando con estrema lentezza. Un singolo attimo scomparve come fumo o umida nebbia, e lei si lasciò ricadere sul letto. Stando a quanto avevo appreso da mio padre, tutto era accaduto nel giorno in cui io, Eleanor Channing, ero venuta al mondo. Passarono quindi quattro lunghi anni, e contrariamente a mio fratello, che aprendo gli occhi si guardava attorno, curioso riguardo al mondo che lo circondava, io ero diversa, e non riuscivo a vedere nulla. La mia vista mi aveva abbandonata in quell’intricato mosaico di emozioni che rappresentava e caratterizzava la mia vita, potevo ad ogni modo carpire l’incertezza e il dolore nel mutismo di mia madre, che scambiava con il marito occhiate colme d’insicurezza. Alzando lo sguardo, lo fissai in direzione della sua indistinta figura. Facendo uso della mia innocenza, le posi una domanda. “Cosa c’è, mamma?” chiesi, sorridendo ingenuamente e tacendo nell’attesa di una risposta. “Niente, piccola.” Rispose, pur senza guardarmi e limitandosi a serrare la mascella. Nella sua voce giaceva un tono di completa resa unita ad una sottile vena di rassegnazione. “Sarebbe meglio farla controllare da un medico in ospedale.” Disse mio padre, rivolgendosi alla moglie e guardandola dritto negli occhi. “Ospedale? Che cos’è? Sembra pericoloso.” Osservai, con l’arguzia e l’ingegno che la mia tenera età comportavano. “Non aver paura principessa, non è un brutto posto.” Rispose, posando il suo sguardo colmo di apprensione su di me e procedendo a rassicurarmi. In quel preciso istante, sentii mia madre sospirare mestamente, e alcuni attimi più tardi, assistetti al risveglio di mio fratello Kale, il cui sonno era forse stato disturbato dai discorsi miei e dei nostri genitori. Alla mia vista, sorrise debolmente, per poi decidere di alzarsi in piedi e abbracciarmi. “Ti voglio bene.” Mi disse, regalandomi un secondo e luminoso sorriso. Istintivamente, ricambiai quel gesto d’affetto, per poi scoprire che le parole di mio padre corrispondevano alla realtà. Difatti, passarono solo poche ore prima che Kale ed io ci ritrovassimo in ospedale. “Cos’ha Eleanor?” chiese lui, spostando lo sguardo su nostro padre. Rimanendo perfettamente immobile, non rispose, intimandogli unicamente di fare silenzio. Le suppliche di mio fratello non ebbero poi alcun effetto su di lui, e non passò molto tempo prima che una dottoressa riversasse tutta la sua attenzione su di me. Ad un primo impatto, mi sembrava simpatica, e dopo avermi salutato, iniziò a farmi alcune domande. “Che cosa vedi qui?” chiese, indicando una serie di immagini. che diventavano progressivamente più piccole. In quel momento, non vedevo altro che figure indistinte, e ognuna di queste appariva coperta di nebbia. Ad ogni modo, mi feci coraggio, e deglutendo, risposi. “È per caso un coniglio?” dissi, con la voce corrotta dall’incertezza. “Esattamente.” Rispose la dottoressa, regalandomi un sorriso. “Cosa c’è accanto al coniglio?” chiese poi, tornando ad indicare con il dito il disegno adiacente. Mantenendo il silenzio, mi sforzai per mettere a fuoco quell’immagine, ma purtroppo senza successo. “Mi dispiace, non lo so. Perché sono diversa?” Ebbi la sola forza di chiedere, incrociando lo sguardo dell’attenta e paziente dottoressa, che intanto continuava a sorridere per darmi sicurezza. “Fa niente. È solo un test.” Rispose, per poi tacere al solo scopo di prendere fiato e riuscire a respirare. “Non sei diversa, sei come gli altri bambini. I tuoi occhi sono più deboli, nient’altro.” Aggiunse, avendo cura di dissipare ogni mio dubbio e pormi la questione in termini semplici e comprensibili ad una bambina. Poco dopo, vidi la donna voltarsi verso i miei genitori, pronunciando parole che mi ferirono nel profondo. “È tutto chiaro. Vostra figlia è nata con un difetto della vista, e peggiorerà con la crescita.” Disse, per poi scivolare nel silenzio e limitarsi a guardare i suoi interlocutori negli occhi. Mio padre li teneva chiusi, nella segreta e vana speranza che nulla di quanto aveva sentito fosse vero, e così mia madre. Di lì a poco, le loro mani si unirono, e le fredde lacrime caddero. Io ero lì, lontana da loro e solo parzialmente capace di vederli. “Li rendo tristi? Perché?” queste le uniche due domande presenti nella mia ora confusa mente, che sembravano ripetersi all’infinito. La mia vista non mi permetteva di distinguerli chiaramente, ma nonostante tutto potevo sentire il dolore spezzare i loro fragili cuori. Quei due quesiti mi perseguitarono fino a notte fonda, perfino nei miei sogni. Ero solo una bambina, creatura che aveva da poco avuto l’occasione di vedere la luce del sole. Data la mia giovane età, non potevo certo incolparmi di non essere in grado di comprendere quella così intricata situazione. Soffrendo in silenzio, mi interrogavo. “Avrò un domani migliore?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo II

Nuovo giorno

Il sole splendeva in cielo, ed io e mio fratello Kale eravamo impegnati a giocare nel giardino di casa. Correvamo fra l’erba, tentando di raggiungerci a vicenda. Ero più veloce di lui, e per la prima volta, sperimentavo la magnifica sensazione della libertà. L’aria mi accarezzava il viso facendo ondeggiare i miei capelli, e respirando a pieni polmoni, mi divertivo. Il tempo aveva continuato a scorrere, e per pura fortuna il mio problema alla vista non era peggiorato. Al solo pensiero, sorridevo, sapendo di essere ancora in grado di giocare, correre e impegnarmi in ogni attività concessa ad una bimba di soli cinque anni d’età. Ad ogni modo, essendo perfettamente cosciente di non riuscire ad osservare il mondo attorno a me, avevo giocato d’astuzia, imparando ad usare gli altri sensi donatimi assieme alla vita, affinandoli tanto da renderli perfetti. Ora come ora, il soffio del vento giunge alle mie orecchie, così come le parole delle persone in lontananza. Le mie mani hanno poi sostituito gli occhi, e soltanto grazie al tatto, ai suoni e alla memoria, riesco a capire cosa stia accadendo o dove mi trovi. Attorno a me solo il sibilo del vento, unito al fruscio delle foglie della quercia nel giardino e alle risate di mio fratello Kale, che ora rideva beffandosi di me poiché non riuscivo a raggiungerlo. “Non mi prendi.” Ripeteva, ridendo e voltandosi a guardarmi con quelle sue splendide iridi azzurre e uguali a quelle di nostro padre. Sorridendo debolmente, mi concentravo, per poi incanalare tutte le mie energie nella corsa e riuscire finalmente ad avvicinarmi a lui tanto da toccarlo e dichiarare la fine del gioco. In breve, le mie risate si spengono, e il mio sorriso scompare. Nella mia mente, un singolo pensiero, ovvero il giudizio della gente. Avevo cinque anni, e presto avrei dovuto frequentare l’asilo. Mia madre me ne aveva parlato, descrivendolo come un luogo pieno di bambini con cui fare amicizia e di giochi con cui divertirmi, ma io le credevo solo parzialmente. Poteva sembrare infantile, ma io avevo paura. Sapevo bene che ogni persona era diversa, e che nessuna sarebbe mai stata uguale ai membri della mia famiglia, sempre pronta a proteggermi e aiutarmi nel momento del bisogno. In altre parole, temevo di essere giudicata. Alcuni minuti passarono in fretta, ed io non sentii altro che la porta di casa aprirsi con un leggero scatto, seguito da un suono metallico. “Siete pronti? Domani sarà il vostro primo giorno di scuola.” Ci informò nostra madre, sorridendo e attendendo una nostra qualsiasi risposta. “Sì.” Disse Kale, apparendo felice ed eccitato al solo pensiero. Contrariamente a lui, io non lo ero. Mostrandomi silenziosa, tenevo la testa china, non esprimendo desiderio dissimile dal non guardare in faccia la donna grazie alla quale avevo il privilegio di esistere. Ero spaventata e confusa, ma ad ogni modo non volevo che lo sapesse. “Cos’hai?” mi chiese Kale, avvicinandosi e guardando dritto nei miei occhi spenti e color del piombo. “Sto bene.” Mugolai, continuando a fissare il terreno e sperando di convincerlo a lasciar cadere l’argomento. Fortunatamente, le mie speranze furono esaudite, tramutandosi in realtà. Prendendo la mano di mia madre, rientrai lentamente in casa, per poi raggiungere il salotto e sedermi di fronte alla finestra al solo scopo di contemplare le bianche nuvole. Per qualche strana ragione, erano l’unica cosa che riuscivo a vedere chiaramente, senza bisogno di concentrazione o sforzi, due prerogative delle quali dovevo avvalermi per scoprire il mondo attorno a me. La notte scese lenta, e poco prima di dormire, scivolai nel silenzio, per poi iniziare a pensare. Avvolta dalle mie calde coperte, riflettevo, convincendomi sempre più intensamente di quella che era la verità. Mia madre aveva ragione, e quello che sarebbe giunto con il sole, non sarebbe stato altro che un nuovo giorno. Ero impaurita, ma allo stesso tempo curiosa riguardo alle novità che il vento mi avrebbe portato.
 
 
 
Capitolo III

Mutar climi e ambienti

Lentamente, la notte si trasformava in giorno, e la luce e le ombre si dibattevano davanti ai miei occhi. Scuotendo leggermente la testa, provai ad aprirli, riuscendoci con non poca fatica. Era mattina presto, ed io ero ancora stanca. Guardandomi attorno, mi accorsi che il letto di mio fratello Kale era vuoto. Evidentemente si era svegliato perfino prima di me. Con estrema lentezza, mi stropicciai gli occhi, per poi scegliere di mettermi in piedi e andare alla ricerca di mio fratello. Lo trovai seduto in cucina e intento a far colazione. Salutandolo, mi sedetti a tavola accanto a lui, mangiando qualcosa e preparandomi alla giornata che aveva appena avuto il suo lento e magnifico inizio. Quello odierno, non era che il nostro primo giorno d’asilo. Ancora una volta, mia madre aveva cercato di rassicurarmi, ma aveva pesantemente fallito nel suo misero intento. In poco tempo, mi ritrovai fuori di casa. Stringevo forte la mano di mia madre, che intanto mi accompagnava in quella che sarebbe stata la mia nuova scuola. Istintivamente, la lasciai andare, e fermandosi, lei mi guardò negli occhi. Voltandomi, tentai di sfuggire dai suoi sguardi, ben sapendo che non potevano inseguirmi. Le diedi quindi le spalle, per poi notare l’indistinta figura di Kale avvicinarsi. “Non aver paura. Ci sono io con te.” Mi disse, posandomi una mano sulla spalla. In quel momento, il mio primo vero sorriso, spontaneo e luminoso. Volevo bene a mio fratello. Era la mia roccia, il sole che brillava squarciando anche la più tetra oscurità. “Grazie.” Risposi, sempre sfoggiando quel naturale sorriso pieno di luce. “Questo è lo spirito! Ora andiamo.” Continuò, prendendomi per mano e inducendomi a seguirlo. Da quel momento in poi, il nostro viaggio verso la scuola riprese senza altre interruzioni, con ogni passo che ci avvicinava alla nostra meta. Camminando al fianco di mio fratello, guardavo la strada scivolare via, concentrandomi sulle parole di mia madre. Secondo il suo pensiero, non avrei avuto problemi, poiché l’asilo che aveva scelto di farmi frequentare era forse il migliore in tutta la città. La mia famiglia vive in aperta campagna, e malgrado la lunghezza del viaggio, ora avevo cambiato idea, e non vedevo l’ora di arrivare a scuola. Una volta raggiunta la nostra destinazione, mio fratello ed io salutammo nostra madre, vedendola voltarsi e iniziare a camminare per tornare a casa. Subito dopo, presi la mano di mio fratello, che mi guidò sapientemente fino a quella che sarebbe stata la nostra aula. Con una sottile vena di riluttanza nei movimenti, afferrai la maniglia della porta, per poi abbassarla ed entrare. Appena un attimo più tardi, mossi qualche indeciso passo in avanti, per poi ricevere un’accoglienza calda e calorosa. Stando a quanto riuscivo a vedere, Kale ed io eravamo in una classe formata da circa dieci bambini, e cui noi due ci aggiungevamo, portando il totale a dodici piccole e gioiose anime. Notando la presenza dei compagni, mio fratello si avvicinò per giocare con loro, e afferrandomi un polso, mi invitò a seguirlo. Sorridendo debolmente, mi lasciai convincere, scegliendo di camminare al suo fianco fino al centro dell’aula. Sorprendentemente, mi divertii come mai prima, riuscendo a stringere alcune nuove amicizie. I minuti passavano in fretta, e improvvisamente, una voce femminile attirò la mia attenzione. “Venite qui, bambini.” Ci chiamò, fissando il suo sguardo su ognuno di noi e attendendo che ci avvicinassimo. Obbedendo a quella sorta di ordine, le fummo accanto in poco tempo, avendo poi il piacere di scoprire che quella donna sarebbe stata la nostra insegnante. Mostrando un debole ma convincente sorriso, si presento a noi come signora Larson, chiedendo quindi ad ognuno di noi di fare lo stesso. Annuendo, accettammo quella sorta di proposta, la guardammo negli occhi con grande interesse, per poi dare inizio alle presentazioni. Ad essere sincera, ero distratta dai miei pensieri e dalle mie emozioni, ragion per non riuscii a concentrarmi adeguatamente. Per pura casualità, tre nomi ben distinti mi risvegliarono dallo stato di trance in cui ero apparentemente caduta. Harriet, Silvia e Oliver. Questi i nomi dei tre bambini con cui avevo giocato seguendo il consiglio di mio fratello, e che a dirla tutta mi piacevano davvero. A prima vista, apparivano come buoni e simpatici, e fortunatamente, la mia semplice impressione si era presto tramutata in verità. Il tempo continuò a scorrere, e inaspettatamente, tutti i miei compagni concentrarono la loro attenzione su di me. “Come ti chiami?” mi chiese la signora Larson, lasciandomi intuire che era arrivato il mio turno. “Io sono Eleanor.” Dissi, presentandomi e mostrando un sorriso all’intera classe. In quel preciso istante, una domanda mi spiazzò. “Perché porti gli occhiali?” indagò la mia amica Harriet, mostrandosi evidentemente curiosa. “Lei non vede bene.” Rispose Kale, comprendendo la curiosità della bambina e facendo le mie veci. A quelle parole, non risposi, mantenendo il silenzio e limitandomi a spostare il mio sguardo su mio fratello. Anche stavolta, mi aveva protetta, scegliendo di rivelare quella che era la triste verità. Difatti, avevo un serio difetto della vista, e il grosso paio d’occhiali che portavo sembrava essere l’unica soluzione per il mio problema. Mi erano stati regalati da mio padre il mese prima, e ad essere sincera, non potevo che essere felice. Finalmente, scrutavo il mondo attorno a me come gli altri bambini, e non dovevo più preoccuparmi di essere giudicata come diversa. La novità appena appresa dai miei compagni fu accolta come positiva, tanto che la stessa Harriet si complimentò con me per quanto fossero alla moda. Sorridendo, la ringraziai, e durante una delle numerose pause che ci erano concesse, trascorsi il mio tempo giocando con lei e Oliver. Con il permesso dell’insegnante, avevamo raggiunto il grande giardino che circondava la scuola, per poi iniziare a giocare fra di noi. In quel mentre, un particolare destò il mio interesse, così come quello della signora Larson. “Che succede?” chiese, avvicinandosi alla mia amica Harriet e mostrando la sua preoccupazione. “Niente.” Biascicò lei, mentre faticava a rialzarsi dopo una piccola caduta. Spinta dalla curiosità, la guardai, per poi iniziare a nutrire alcuni dubbi. Per qualche strana ragione, la mia amica Harriet non riusciva a camminare con la stessa velocità dei nostri compagni, e sapere che in qualche modo eravamo simili, non faceva altro che incupirmi l’umore. Ad ogni modo, lei era ancora a terra, e nessuno sembrava degnarsi di aiutarla. Provando istintivamente pena per lei, le tesi una mano, che lei afferrò al solo scopo di rimettersi in piedi. “Grazie.” Soffiò subito dopo, rivolgendomi un debole ma convincente sorriso.Imitandola, mi lasciai sfuggire una piccola risata, scoprendo di aver trovato in lei una vera amica. Ero davvero felice, ma nonostante tutto, non riuscivo a smettere di pensare a ciò che sarebbe potuto succedere nel tempo a venire. Ora avevo degli amici, ma sapevo che presto un cambiamento mi avrebbe sconvolta.
 
Capitolo IV

Paura per nulla

Tre anni. Un lasso di tempo relativamente lungo, che era trascorso scomparendo dalla mia vita senza la possibilità di tornare indietro. Come ogni giorno, portavo i miei occhiali, ma per qualche strana ragione, mi sembrava che la mia vista non fosse più la stessa. Mi ero appena svegliata, e i miei occhi, assonati e cisposi, mi dolevano come mai prima. Allarmata, mi liberai subito delle coperte, alzandomi dal letto e mettendomi alla ricerca di mia madre. addentrandomi nei corridoi di casa, la chiamai più volte, pur senza ottenere risposta. Sentendomi gridare, Kale mi raggiunse attraversando il corridoio. “Stai bene?” Mi chiese, con la voce rotta dalla preoccupazione. “Non ci vedo.” Risposi, iniziando inconsapevolmente a tremare a causa della paura che sapevo di provare. “Vado a chiamare la mamma.” Disse, guardandomi con aria fiduciosa e chiedendomi con un cenno della mano di aspettarlo. Annuendo lentamente, obbedii, rimanendo completamente immobile. Mio fratello tornò solo pochi minuti dopo, seguito da entrambi i nostri genitori, che alla mia vista, apparirono sconvolti. Intanto, avevo iniziato a piangere, e le lacrime abbandonavano lentamente i miei occhi, rigandomi quindi il viso e la candida pelle. “Non ci vedo, e gli occhi mi bruciano.” Piagnucolai, avvicinandomi a mia madre e sperando nel suo aiuto. Quasi istintivamente, mi prese in braccio, e uscendo subito fuori di casa, raggiunse in tutta fretta la sua auto. “Non piangere, andrà tutto bene.” Mi diceva, nel mero tentativo di consolarmi mentre era impegnata a guidare e portarmi di nuovo in ospedale. Spaventata, obbedivo senza proteste, ma ad ogni modo, non riuscivo a smettere di tremare. Non potevo assolutamente dirlo con certezza, ma per qualche strana ragione, era come se i miei occhi stessero letteralmente bruciando. Il tempo scorreva, e perfino le mie lacrime sembravano essere diventate bollenti. Mantenendo il silenzio continuavo a piangere e a soffrire per il dolore che provavo, e una volta raggiunta la mia destinazione, scesi dall’auto con gran fatica. Data la mia condizione, mia madre decise che non ero più in grado di camminare, per poi scegliere di prendermi in braccio e affidarmi subito alle cure di un dottore. Non appena mi visitarono, i medici dissero che ero stata fortunata, perché se fossimo arrivate anche solo un minuto più tardi, non sarebbe stato possibile aiutarmi. Ad essere sincera, avevo la folle paura di finire sotto i ferri, ma per pura fortuna, ciò non accadde. Difatti, un paio di lenti a contatto e un collirio furono le uniche cose di cui ebbi bisogno. Mi ripresi nel giro di alcuni giorni, rimanendo in ospedale sotto la stretta osservazione di alcune infermiere, che svolgendo il loro lavoro con passione e competenza, monitoravano quelli che erano i miei progressi. Secondo il loro pensiero, ero molto migliorata, tanto da poter tornare a casa soltanto tre giorni dopo. Quando finalmente fui dimessa, ebbi l’occasione di abbracciare mio padre e mio fratello, per poi mostrar loro la novità. Non dovevo più portare gli occhiali, e ancora una volta, tutto era tornato alla normalità. Le mie condizioni sembravano essersi stabilizzate, e solo dopo alcuni momenti di puro e forse infantile terrore, potevo dirmi nuovamente calma e felice. L’intera faccenda aveva una precisa morale, secondo la quale, sotto l’ala protettiva dei miei genitori e della mia intera famiglia, avrei trovato un rifugio sicuro, non avendo quindi alcuna ragione di temere.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo V

Speranze e promesse

Dormivo. Ferma e immobile nel mio caldo letto, e completamente persa in una profonda dimensione onirica. Non ero che una bambina, e nonostante l’innocenza che mi caratterizzava, non potevo certo dire di essere calma. Nel mio sonno, non vedevo che figure indistinte, e mi ritrovavo a camminare in una sorta di immaginario labirinto, sola e completamente priva di difese. Abbandonata e incapace di comprendere. D’improvviso, le tenebre mi avvolsero, e svegliandomi ebbi l’impulso di gridare. Il cuore mi batteva forte, e il mio respiro era accelerato. Confusa, mi guardai attorno, scoprendomi all’interno della mia stanza. Ogni oggetto era al suo posto, e la fioca luce della lampada presente sul comodino lo illuminava assieme ad alcuni fogli. Inspirando a pieni polmoni, lasciai che l’aria uscisse poi attraverso la mia bocca, e ritrovando la calma, affondai il viso nel mio bianco cuscino. “Era solo un sogno.” Mi dissi, parlando con me stessa e mantenendo il silenzio al solo fine di non svegliare Kale. Ignaro di tutto, era placidamente addormentato nel letto accanto al mio, per qualche arcano motivo, le mani giunte. Il dorato mattino arrivò solo alcune ore dopo, e il sole, con la cordialità di un uomo d’altri tempi, salutava la nostra ridente e amena cittadina. I fiori facevano la loro comparsa fra la verde erba del giardino di casa, e ogni più piccola forma di vita, dava inizio alla sua giornata. La prima cosa che sentii fu un suono. La mia sveglia mi aveva aiutata a ridestarmi dal torpore in cui ero caduta durante la notte, e sbadigliando, la spensi. Lentamente, scesi dal letto per dirigermi in cucina, e una volta arrivata, vidi mia madre. “Buon compleanno, Eleanor.” Disse, scegliendo di abbracciarmi e regalandomi un sorriso. Quella odierna era infatti una giornata completamente nuova e speciale. Difatti, io e mio fratello Kale compivamo nove anni. Un’età cruciale per la nostra formazione, e un giorno che avremmo sfruttato al meglio. Ringraziando mia madre per gli auguri, sorrisi a mia volta, e consumando la mia colazione, raggiunsi nuovamente la mia stanza. Una volta entrata, decisi di iniziare a prepararmi per la scuola. I vestiti che avrei indossato giacevano sul mio letto, e il mio zaino era accanto alla porta. Non appena fui pronta, tornai da mia madre, lasciando come di consueto che fosse lei ad accompagnarmi. Aprendo lentamente la porta di casa, scoprii la totale assenza di Kale. “Lui non verrà. “Non si sente bene.” Mi disse mia madre, non appena le posi una domanda riguardo a ciò che poteva essergli accaduto. A quelle parole, non risposi, e mantenendo il silenzio, iniziai a camminare fino alla sua auto, per poi salirvi solo grazie al suo aiuto. “Oggi sarai da sola, ma non devi preoccuparti.” Esordì lei, rompendo il silenzio che aveva a sua volta scelto di mantenere. Guardandola negli occhi, non proferii parola, limitandomi a sorridere debolmente e perdermi nei miei pensieri. Ogni minuto scorreva, ed io ingannavo il tempo guardando fuori dal finestrino dell’auto. Il sole sembrava inseguirmi, e la strada scivolava via, liscia come l’olio e nera come la notte. Istintivamente, mi guardai poi indietro, concentrando nuovamente il mio pensiero su Kale. “Febbre.” Pensai.Chiudendo quindi gli occhi per un singolo attimo, ripensai alle sue parole. “Ci sono io con te.” Cinque semplici lemmi che aveva pronunciato al solo scopo di infondermi coraggio, e che ora fungevano per me da sana iniezione di autostima. Il viaggio verso la mia destinazione continuava, e con la sua fine scesi dall’auto, e salutando mia madre, mi unii ai miei amici, che ancora attendevano il suono della campanella. Il tiepido sole scaldava la mia pelle, e un debole vento non faceva che spirare, calmandomi i nervi. Trascorsi alcuni minuti parlando con Harriet, e quando finalmente fu ora di entrare, iniziai a camminare al suo fianco fino alla nostra aula. Sorridendomi, decise di occupare il posto accanto al mio. Stringendomi nelle spalle, la lasciai fare, notando che la mia amica Silvia aveva la ferma e precisa intenzione di sedersi nel banco dietro al mio. L’ultimo rimasto senza un posto era Oliver, che si ritrovò letteralmente costretto a sedersi nel fondo dell’aula. I minuti scorrevano, e il suono della campanella scolastica decretò l’inizio delle lezioni. Mio fratello Kale era assente, ma la cosa non mi toccava. Ricordare le parole che mi aveva rivolto alcuni anni prima, mi bastava ad essere felice. Sapevo che mi voleva bene, ed ero sicura che avrebbero letteralmente sacrificato la sua stessa vita per me, la sua sorellina. Tenendo lo sguardo fisso sui miei quaderni, mi concentrai sulla lezione corrente, un’interessante ora di italiano. Ad essere sincera, amavo leggere, e nonostante tale attività mi fosse sconsigliata al fine di non peggiorare ulteriormente i miei problemi alla vista, io ero comunque curiosa riguardo alla lettura, che lentamente era divenuta uno dei miei hobby. Come prima attività scolastica, ci venne proposto di scrivere un tema incentrato su un argomento come l’amicizia. Rispettando il volere dell’insegnante, una donna giovane e paziente, ognuno di noi tirò fuori carta e penna, iniziando quindi a scrivere. Voltandomi verso Harriet, notai il suo sguardo perso, accompagnato da un’espressione confusa. “Devi solo spiegare cos’è per te.” Le dissi, fornendole un valido e utile consiglio al solo scopo di aiutarla. Alle mie parole, Harriet mantenne il silenzio, non proferendo parola e limitandosi a ringraziarmi con un sorriso. Spostando quindi il mio sguardo dal suo viso al bianco foglio, presi in mano la penna, e dopo alcuni attimi di riflessione, scrissi. Le pause che mi concessi fra una riga e l’altra non furono poche, ma alla fine dell’ora, smisi di farlo, leggendo quanto avevo scritto con la semplice intenzione di correggere alcuni eventuali errori. Subito dopo averlo fatto, mi abbandonai ad un sospiro di sollievo, potendo finalmente dirmi soddisfatta del risultato. L’insegante rimase con noi fino all’intervallo, e poco prima di concederci la tanto attesa pausa, decise di leggere ad alta voce il migliore dei temi che le avevamo precedentemente consegnato. Incrociando le braccia, mi misi in ascolto, evitando di disturbare la concentrazione dei miei compagni. Sorprendentemente, il tema che aveva scelto non era che il mio. Brillante e scritto con la superbia di un’autrice. Così lo aveva definito, sorridendo e riempiendomi di complimenti. Gli stessi, avevano anche attirato l’attenzione dei miei amici, e sia Harriet che Oliver non poterono fare altro che sorridere. Quando finalmente l’intervallo ebbe per noi inizio, lasciai l’aula, seguendo Harriet nel corridoio. Come ormai avevo capito, faticava a camminare normalmente, e mentre era nell’atto di voltarsi verso di me per salutarmi, cadde. “Stai bene?” le chiesi, tendendole una mano e aiutandola a rialzarsi. “Sì.” Si limito a rispondere, sfuggendo dai miei sguardi e tenendo gli occhi bassi in segno di vergogna. “Qual è il tuo problema?” indagai, mostrando la mia preoccupazione e conservando la speranza di non risultare invadente. “Ho i muscoli rigidi, e il freddo non aiuta.” Rispose, riferendosi con quell’ultima frase alla gelida aria che spirava nei corridoi scolastici, capace di penetrarti fin dentro le ossa e impedirti qualunque movimento. Istintivamente, la presi per mano. L’avevo vista cadere già troppe volte, e anche se non potevo vederlo, sapevo che le sue ginocchia erano ricoperte di graffi e lividi. Rimasi quindi al suo fianco fino alla finedelle lezioni, avendo comunque cura di non trascurare Oliver. Ci conoscevamo da ormai lungo tempo, ed io volevo bene ad entrambi. Ad essere sincera, fra i due Harriet era quella che più mi incuriosiva. Sin da quando l’avevo conosciuta, era apparsa a me come una bambina dolce e sensibile, e praticamente priva di difetti. Lo stesso discorso era poi applicabile ad Oliver, sempre pronto a sostenerci entrambe a causa dei nostri rispettivi problemi. Non avevo modo di dirlo con certezza, ma esisteva comunque una possibilità che la mia non fosse che fortuna. Difatti, e nonostante la mia giovane età caratterizzata dalla spensieratezza, mi ero in qualche modo convinta dell’esistenza della cattiveria umana, secondo la quale, la mia felicità si sarebbe presto spenta, così come il mio luminoso sorriso. Ad ogni modo, arrivai a casa dopo un viaggio di circa mezz’ora, e al mio arrivo, Kale ne approfittò per salutarmi. Abbracciandoci, ci scambiammo gli auguri di compleanno, e al pomeriggio i nostri genitori ci organizzarono una festa. Felici all’idea di celebrare tale ricorrenza in compagnia, invitammo a casa alcuni dei nostri compagni di scuola, fra cui si annoveravano sia Harriet che Oliver. La mia amica Silvia avrebbe voluto, ma a causa di alcuni problemi familiari, aveva dovuto forzatamente astenersi. La festa ebbe inizio in quello stesso pomeriggio, e dopo aver trascorso gran parte del nostro tempo a giocare con i nostri amici, Kale ed io ritornammo in casa. Il freddo iniziava a farsi sentire, ed era ormai arrivata l’ora di aprire i regali. Data la mia impazienza, fui la prima a farlo, scoprendo di aver ricevuto dei regali a dir poco fantastici. Un bracciale da parte di Harriet, un biglietto da parte di Oliver e un libro da parte dei miei genitori. Contrariamente a me, Kale ricevette un nuovo zainetto e un pallone da calcio. La sera arrivò quindi senza farsi attendere, e salutando i nostri amici, Kale ed io andammo subito a letto. Poco prima di dormire, mi fermai a pensare, comprendendo una ferrea verità, secondo la quale la mia vita era ora costellata di sogni, speranze e promesse.
 
 
 
 
 
Capitolo VI

Regali misteriosi

Il sole, il silenzio, l’alba dopo il mio compleanno. La mia amena città si sveglia lentamente, mentre l’astro re del cielo illumina l’aperta campagna. La verde erba del giardino della mia casa riluce a causa della rugiada, e il canto di uno sporadico uccello dalle piume color cenere mi risveglia dal sonno notturno. Stiracchiandomi, mi alzo dal letto, e barcollando per colpa del mio ormai noto problema, raggiungo la porta della stanza, aprendola e dirigendomi subito verso la cucina. Era ormai ora di colazione, e la fame iniziava a farsi sentire. Sul ligneo tavolo una tazza di latte e cereali, che mangiai senza proferire parola, ingannando il tempo ascoltando quello che sapevo essere il notiziario. Novità fresche di giornata che mi venivano comunicate al mio risveglio, e che mi fornivano speranza nel tempo a venire. Finii la colazione in tutta calma, per poi scegliere di entrare in bagno. Una volta lì, mi sciacquai il viso, osservando la limpida acqua scorrere timidamente. La stessa, era fredda come la bianca neve, ma la cosa non mi toccava. Stando a quel che aveva detto mia madre, io ero una bambina speciale, e per qualche strana ragione, il mio corpo non sembrava patire temperature eccessivamente calde o fredde. Tale e semplice particolarità riportava alla mia mente un pensiero legato alla mia amica Harriet. Avevo avuto sue notizie solo grazie ad alcune telefonate, durante le quali mi aveva confessato una sorta di piccolo segreto. Difatti, e semplicemente a causa della sua disabilità, il dolore alle gambe diveniva a volte insopportabile, ma contro ogni previsione, riusciva sempre a rialzarsi e andare avanti, avendo quindi la possibilità di dimostrare la sua forza d’animo, nettamente superiore a quella fisica. In altre parole, Harriet ed io eravamo simili, ed io le volevo bene. Scuotendo leggermente la testa, tornai a concentrarmi sull’evoluzione della mia giornata, scoprendo di avere pochissimo tempo per prepararmi e arrivare a scuola in tempo per l’inizio delle lezioni. Kale era già pronto, ed io mi ero attardata trovando non poche difficoltà nel vestirmi. Ad ogni modo, arrivai a scuola in orario, ma a causa della corsa che mi aveva condotto alla mia aula, dovetti sforzarmi per mantenere un respiro regolare. Alcuni minuti passarono, ed io riuscii a tornare alla normalità. La giornata scolastica sembrava proseguire a rilento, e Silvia non faceva che guardarmi. Non sapevo esattamente cosa lei volesse da me, così mi avvalsi dei gesti e della mimica facciale per porle tale domanda. “Cosa c’è?” sussurrai infine, voltandomi e notando che non capiva il mio muto linguaggio. “Niente.” Sembrò rispondermi, mantenendo il silenzio e guardandomi con aria seria e allo stesso tempo preoccupata. Con l’arrivo dell’intervallo, avrei davvero voluto indagare, ma sotto consiglio di Harriet e Kale cambiai velocemente idea. L’ultima campanella della giornata suonò solo tre ore più tardi, e tornando a casa, mi accorsi che Silvia mi stava seguendo. Voltandomi, le chiesi il perché di tale azione, ma lei non rispose, limitandosi ad ignorarmi e continuare a camminare. In quel preciso istante, mi scambiai occhiata d’intesa con Kale, che riducendo la nostra comunicazione ad un gioco di sguardi, mi consigliò di lasciar cadere l’argomento. Fingendo quindi indifferenza realmente non provata, raggiunsi la mia destinazione, per poi salutare mia madre e consumare il mio pranzo in completo e perfetto silenzio. Nel pomeriggio, non sentii altro che il suono del campanello. Uscendo subito dalla mia stanza, mi precipitai ad aprire la porta, scoprendo che di fronte all’uscio non c’era anima viva. Confusa, mi guardai attentamente intorno, per poi avere la fortuna e il piacere di notare la presenza di un pacco ai miei piedi. Spinta dalla curiosità, lo raccolsi da terra, e afferrandolo saldamente, lo portai nella mia stanza. Una volta lì, decisi di aprirlo, ritrovandomi davanti ad una più che gradita sorpresa. All’interno di quel pacco giaceva infatti una piccola scatola, che a sua volta conteneva un bellissimo e scintillante ciondolo in argento. Quest’ultimo, recava la mia iniziale, e indossandolo, mi guardai allo specchio. La prima cosa che vidi furono i miei occhi. Due iridi color del piombo, che data la mia condizione, faticavano a splendere. Subito dopo, indietreggiai lentamente, avendo come la sensazione di aver calpestato qualcosa. Istintivamente, posai il mio sguardo sul pavimento della stanza, notando solo in quell’istante un piccolo foglio di carta. Anche stavolta, ero incuriosita, e stringendolo in mano, lo dispiegai lentamente, per poi iniziare a leggerne mentalmente il contenuto. “Sei te stessa, e sei tutti noi.”Quelle le semplici parole scritte su quel biglietto, così belle da riempire di lacrime i miei occhi  per una frazione di secondo. Ricacciandole indietro, ripiegai quel foglio, scegliendo quindi di sistemarlo in un cassetto della mia scrivania. Parlando con me stessa, promisi di tenerlo sempre con me, così da poterlo rileggere nei momenti di sconforto. Ancora una volta, la felicità mi pervadeva, e poco prima di chiudere il cassetto, sorrisi.
 
 
 
 
 
 
Capitolo VII

Brutta aria

L’inverno è iniziato, e il freddo si fa sentire. Stamattina il cielo appariva scuro, e dopo circa un’ora dal mio arrivo a scuola, la temperatura aveva continuato a scendere. L’unico risultato, era un colore che personalmente amavo, il bianco. Immacolati fiocchi formati da acqua gelata, si posavano lentamente sul terreno, formando poi uno splendido tappeto. Il tempo scorreva, e ognuno di noi non aveva desiderio dissimile dall’andare a giocare fuori, divertendosi a correre nella neve. Eravamo tutti impegnati ad ammirare quel magnifico spettacolo fuori dalla finestra, ma per qualche strana ragione, Silvia era l’unica a non provare interesse. Difatti, aveva dipinta in volto un’espressione colma di tristezza, e avrei letteralmente potuto giurare che avesse anche pianto. “Sta nevicando, vuoi venire?” le dissi, terminando il mio discorso con quella domanda. “Non mi va di giocare.” Rispose lei tristemente, evitando di guardarmi e fissando il suo sguardo sulla bianca coltre di neve. Prendendola lievemente per mano, tentai di convincerla a seguirmi, ma con scarsi risultati. “Lasciami stare.” Mi disse infatti, dimenandosi e liberando la mano dalla mia presa. A quelle parole, non risposi, e indietreggiando lentamente, le diedi le spalle, per poi decidere di lasciarla da sola.Raggiungendo quindi il cortile della scuola, iniziai a giocare con Harriet e Oliver, lanciando palle di neve ad entrambi. Ridendo divertiti, entrambi mi imitavano, e alla fine di quella che poteva essere considerata una battaglia, mi ritrovai con il giubbotto fradicio e il corpo infreddolito. L’intervallo ebbe quindi fine, e una volta arrivata in classe, tentai nuovamente di parlare con Silvia. Lei stessa, non fece che ignorarmi, e cogliendo alla perfezione il messaggio, decisi che aveva senz’altro bisogno dei suoi spazi. Non appena arrivai a casa, compresi che mi servivano delle risposte. Così, senza esitare, chiesi a mia madre. “Com’è andata oggi?” mi chiese lei, con un luminoso sorriso stampato in volto. “Silvia non ha voluto parlarmi.” Piagnucolai avvicinandomi lentamente. “Sai perché?” indagò mia madre, accogliendomi fra le sue braccia e mostrandosi preoccupata per me. “No, ed è anche peggio.” Risposi, sentendo che la voce mi si stava letteralmente spezzando a causa del freddo e del turbine di emozioni presente nel mio animo. Alle mie parole, mia madre non rispose, ma il suo silenzio fu ad ogni modo eloquente, e guardandola, notai un repentino cambio nella sua espressione. Da felice e gioiosa, era infatti divenuta triste e malinconica. Sedevamo entrambe sul divano di casa, e stringendomi a sé, mia madre mi rivelò una verità che in precedenza ignoravo. “I suoi genitori stanno avendo un periodo difficile.” Mi disse, guardandomi negli occhi e facendosi improvvisamente seria. A quelle parole, tacqui istintivamente. Sapevo bene che qualcosa in Silvia non andava. Ad essere sincera, ricordo ancora il giorno in cui l’ho conosciuta quattro anni or sono. Era una bambina dolce, felice e solare, il cui carattere stava lentamente cambiando a causa della fredda aria che spirava fuori dalla mia finestra, capace di raggiungere il suo cuore e corroderlo come acido. Quella sera, mi guardai nuovamente allo specchio, e parlando con me stessa, presi una decisione. Per quanto avrei potuto, io l’avrei aiutata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VIII

Il peso della realtà

Il dorato mattino rivelava la presenza del sole nel cielo, e quest’ultimo giocava nascondendosi fra le nuvole, bianche come il latte e soffici come coperte. Come di consueto, aprivo gli occhi, e alzandomi dal letto, sceglievo di dare inizio alla mia giornata. I miei occhi avevano il loro solito colore, un grigio tendente al piombo, ma per qualche strana ragione, ogni immagine su cui posassi lo sguardo mi appariva e giungeva distorta. Affidandomi alla ragione, decisi di raggiungere velocemente il bagno. Una volta entrata, frugai nell’armadietto delle medicine fino a trovare la bottiglietta contenente il mio collirio, per poi scegliere di farne cadere alcune gocce nei miei bulbi oculari. Subito dopo, sbattei velocemente le palpebre, avendo quindi il piacere di scoprire il miglioramento della mia condizione. Il collirio. Una medicina dalla quale avevo finito per dipendere, la cui mancata assunzione avrebbe permesso alla mia malattia di peggiorare fino a diventare incurabile. Lentamente, inforcai i miei occhiali, e tornando nella mia stanza, afferrai il mio zaino. Era ormai ora di andare a scuola, e con lo sciogliersi della neve, le strade erano nuovamente percorribili. Ammirando il panorama visibile fuori dalla mia finestra, sorrisi. Kale era pronto, e aveva la ferma e precisa intenzione di aiutarmi. Senza proferire parola, lasciai che mi prendesse per mano, e uscendo di casa, raggiungemmo assieme l’auto di nostra madre. Salendoci, attendemmo che il nostro viaggio verso la scuola avesse inizio. Una decina di minuti svanì quindi dalle nostre vite, e una volta scesi dall’auto, Kale ed io ci avviamo verso il cancello scolastico ancora chiuso. Camminavamo l’uno al fianco dell’altra, attendendo pazientemente l’arrivo dei nostri amici. Faceva freddo, e un gelido vento spirava. “Hai freddo?” chiese Kale, posando il suo sguardo colmo di preoccupazione su di me. “No.” Biascicai, mentendo e sperando di riuscire a mantenere il mio purtroppo esiguo calore corporeo. Il tempo scorreva, e improvvisamente sentii un insolito rumore metallico. Il cancello si stava aprendo, e lentamente, entrai a scuola.  L’ambiente scolastico era decisamente più caldo, e pura fortuna, riuscii ad evitare il congelamento. Come ogni mattina, occupavo il mio posto, e in piedi davanti al piccolo termosifone, c’era Silvia. “Stai bene?” Le chiesi, tacendo nell’attesa di una sua risposta. Mantenendo il silenzio, la mia amica sfuggì dai miei sguardi, e in un mero attimo, la vidi piangere. Delle piccole e fredde lacrime stavano lentamente abbandonando i suoi occhi, e il suo viso ne risultava sfigurato. “Sono i miei genitori.” Esordì, fissando il suo sguardo sul pavimento dell’aula. “Che succede?” continuai, sperando di non risultare noiosa o invadente. Inizialmente, Silvia evitò di rispondere, ma trovandosi di fronte alla mia insistenza, non potè fare a meno di farlo. Sul suo viso era dipinta un’espressione mesta, e attorno a lei si era radunata l’intera classe. Tutti le facevano domande, ed alcuni non esitavano a prenderla in giro. “Dove sono i tuoi genitori?” Le chiedevano ridendole in faccia e non curandosi del tono che utilizzavano nel parlarle. A quel punto, Silvia si arrese, e un urlo uscì dalla sua bocca. “Stanno divorziando, ora lasciatemi in pace!” Gridò, utilizzando quanto fiato avesse in gola per farlo e non esprimendo desiderio dissimile dallo scomparire per sempre. In quel preciso istante, fiumi di lacrime le scesero dagli occhi, ed io sentii il cuore stretto in una morsa. Soffrendo per lei, la guardai, e dopo un singolo attimo di riflessione, mi decisi. Era tutta colpa mia, e dovevo assolutamente fare qualcosa. “Basta!” urlai, frapponendomi fra la mia amica e le persone che ora consideravo sue aguzzine. Di lì a poco, una pausa di silenzio. Non osando proferire parola, Kale mi guardava esterrefatto. “Silvia è mia amica, e non vi permetterò di farle del male. Credete di conoscerla, ma non bene quanto me. La vita la sta scioccando, e lei non ha bisogno di voi.” Continuai, avvicinandomi a lei e cingendole un braccio attorno alle spalle. Le parlavo nel tentativo di consolarla, e per quella che identificai come fortuna, il mio espediente funzionò alla perfezione. Alcuni minuti passarono, e la signorina Larson fece il suo ingresso in classe. “Che sta succedendo?” chiese, notando la confusione che intanto si era generata nell’ aula. Il silenzio calò nuovamente, e nessuno rispose a quella domanda. Guardandosi intorno, l’insegnante notò il viso di Silvia, ora arrossato e ricoperto di lacrime. “Chi è stato?” continuò, indicandola e attendendo una risposta. Come c’era d’aspettarselo, nessuno proferì parola, e muovendo qualche incerto passo in avanti, decisi di fare ciò che andava fatto e confessare. “È colpa mia.” Dissi, chinando il capo in segno di resa. “Vieni con me.” Disse la signora Larson, ascoltando la mia confessione e prendendomi per mano. Era ancora adirata, e anche se non lo dimostrava, io ne ero letteralmente certa. Mi lasciai quindi condurre in una piccola stanza illuminata unicamente da una lampadina che penzolava sulle nostre teste, e posando il mio sguardo su una lignea e rovinata scrivania, notai un telefono. In quel momento, tutto mi fu chiaro. Sollevando la cornetta, l’insegnante compose il mio numero di casa, e chinando nuovamente il capo, scelsi di non fiatare. Avrebbe avvertito i miei genitori, ed io sarei sicuramente stata punita. Quella telefonata ebbe fine in appena due minuti, allo scadere dei quali, mi sentii letteralmente sprofondare. Avevo solo nove anni, e sin da questa tenera età, stavo lentamente imparando ad affrontare il peso della realtà.
 
Capitolo IX

Famiglia

Non ho la minima idea del tempo che sia trascorso, ma mi sono addormentata sul divano di casa, ed oggi è domenica. Mi sveglio lentamente, e accanto a me c’è mia madre. Negli ultimi tempi è spesso preoccupata per me, e l’ansia unita al suo gran da fare la portano spesso a crollare addormentata sul divano o sul suo letto. Avvicinandomi, la guardo, per poi lasciarmi sfuggire un sorriso. Proprio come mio padre, lei mi vuole davvero bene, ed io provo gli stessi e identici sentimenti. Il pomeriggio ha preso il posto del mattino facendoci visita, e camminando per gli ampi corridoi di casa, raggiungo la mia stanza. Da ormai alcuni giorni, non la condivido più con Kale. I nostri genitori dicono che stiamo crescendo, e che per tale ragione entrambi abbiamo bisogno dei nostri spazi. Sedendomi sul letto, appoggio la schiena contro il muro, e riflettendo, scopro di doverle dare ragione. Ora come ora, mi sento ancora in colpa per quanto è accaduto a Silvia, e nonostante i miei innumerevoli sforzi, non riesco davvero a smettere di pensarci. Sono silenziosamente immersa nella lettura di un nuovo libro, e di pagina in pagina, la storia mi appassiona sempre di più. Un racconto di fantasia, scritto divinamente. Narrava una storia di felicità, ruotante intorno ai sogni di una bimba della mia stessa età. Il tempo scorreva, e con il solo movimento degli occhi, continuavo a leggere, fissando il mio sguardo sui neri caratteri impressi nelle pagine. Improvvisamente, un suono mi distrae. Qualcuno bussa alla porta di casa, ed essendo l’unica ad aver sentito, mi tocca aprire. Uscendo quindi dalla mia stanza, tornai nel salotto di casa, scegliendo quindi di aprire la porta. Subito dopo averlo fatto, rimasi immobile e muta. Di fronte a me c’era la mia amica Silvia. Sembrava stanca, e il suo viso era rovinato da quello che apparve ai miei occhi come un livido. “Silvia! Va tutto bene?” chiesi, mostrandole la mia preoccupazione e invitandola subito ad entrare. Sul suo viso un’espressione sofferente, e nel corpo tremante la consapevolezza di un dolore che tentava in ogni modo di nascondere. Guidandola nei corridoi di casa, la condussi nella mia stanza. Sapevo bene che aveva bisogno di aiuto, e sperando di riuscire a lenire le sue sofferenze, le chiesi di raccontarmi tutto. “Ti va di parlarne?” azzardai, sedendomi sul tappeto accanto a lei. “I miei hanno di nuovo litigato.” Tardò a rispondere, apparendo ai miei occhi troppo concentrata su un punto lontano e imprecisato. “Mi dispiace.” Mi limitai a rispondere, avvicinandomi ulteriormente a lei al solo scopo di confortarla. “Posso restare?” mi chiese poi, attendendo una mia risposta.Mantenendo il silenzio, guardai per un attimo fuori dalla finestra. L’assolato pomeriggio era stato sostituito dalla buia e nera notte. Subito dopo, tornai a guardarla, scorgendo il dolore nel suo viso. In quel momento, presi un’importante decisione. La mia amica stava soffrendo, ed io non potevo certamente abbandonarla a quello che sarebbe stato il suo triste destino. Contrariamente a me, lei era figlia unica, e il divorzio dei suoi amati genitori la stava letteralmente lacerando. “Resta qui.” Le dissi, lasciando la mia stanza con la ferma e precisa intenzione di parlare con mia madre. Camminando, mi misi subito alla sua ricerca, trovandola seduta nel suo studio. Una stanza che in genere non occupava, e nella quale si ritirava soltanto nei momenti di solitudine. Spingendo leggermente la porta, entrai, senza tuttavia dimenticare di bussare. “Mamma?” la chiamai, dubbiosa. Lei stessa, non rispose, mantenendo il silenzio e limitandosi a sollevare la testa. Guardandola, notai che era assorta nella lettura di alcuni documenti, e raccogliendo il mio coraggio, parlai. “Silvia è qui da noi, può restare?” chiesi, con voce angelica e cortesia inaudita. “Certo.” Rispose, mostrandomi un debole ma convincente sorriso, seguito da uno sguardo che testimoniava l’affetto da lei provato nei miei confronti. Ringraziandola, sorrisi a mia volta, per poi lasciarla da sola e tornare nella mia camera. Ancora seduta sul tappeto, Silvia aveva atteso il mio ritorno, proprio come un fedelissimo cane farebbe con il padrone. Sedendomi in terra, incrociai le gambe, per poi sentirla pronunciare una frase che mi colpì ferendomi l’anima. “I miei genitori hanno smesso di amarsi.” Disse, posando il suo sguardo sul pavimento ed evitando il mio. A quelle parole, non risposi, limitandomi ad avvicinarmi e abbracciarla. Conoscevo la mia amica Silvia forse meglio di me stessa, e negli anni che avevano contribuito a formare e rafforzare la nostra amicizia, avevo potuto capire che lei era una bambina diversa da tutte le altre. Sensibile, buona e dolce, ora incapace di nascondere i suoi sentimenti, e che aveva trovato in me, Harriet e Oliver la sua nuova famiglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo X

Futuro avverso

Ancora una volta, tre lunghi anni. Circa mille giorni che erano lentamente scivolati via dalla mia vita, come una fredda goccia di pioggia farebbe toccando l’affatto caldo vetro di una finestra. Seduta nell’auto di mia madre, mi abbandonavo a dei cupi sospiri, e nascondendo la tristezza dietro a dei falsi e melliflui sorrisi, rimanevo in silenzio, rivolgendo qualche sporadico sguardo al cielo, ora plumbeo come i miei spenti occhi. Lentamente, le nuvole passavano, e usando l’immaginazione, non vedevo altro che i visi dei miei amici nei riflessi della luce che nasceva dal sole, aureo astro re del cielo. Il viaggio continuava avvicinandosi sempre di più alla sua stessa conclusione, e tacendo, io non ponevo domande. Conoscevo bene la destinazione, e venendo colta da un improvviso nervosismo, strinsi i pugni. Il tempo scorreva, e il cielo si stava rabbuiando. Con mia grande sorpresa, perfino le nuvole avevano cambiato colore, passando da un puro e innocente bianco, ad un triste e malinconico grigio. Non avendo modo di accorgermene, ero caduta preda della stanchezza, e tenendo gli occhi chiusi, ascoltavo il dolce sibilo del vento, che si faceva sempre più minaccioso. L’intenso odore della pioggia giunse poi alle miei narici, e inspirando, non sentii altro che pace. Lottando quindi contro gli allettanti richiami del sonno, riaprii gli occhi, e avvicinandomi al finestrino dell’auto, guardai fuori. La pioggia aveva lentamente iniziato a scrosciare, e l’asfalto appariva bagnato e scivoloso. Il tempo scorreva, e con lo stesso il viaggio si avviava verso la sua conclusione. Ancora una volta, chiusi gli occhi, non ascoltando nulla eccetto il suono del mio respiro unito al ritmico battito del mio cuore. Quel suono mi martellava in testa, e improvvisamente, avvertii un orribile stridio. Persi quindi l’equilibrio, ritrovandomi schiacciata contro il sedile posteriore dell’auto. Sbattendo poi la testa, sentii un forte dolore, che mi costrinse a tenere chiusi gli occhi. Faticavo a respirare, e non riuscivo a vedere nulla. La vista sembrava avermi nuovamente abbandonata, e dopo un tempo che non fui in grado di definire, un suono. Incredibilmente, la sirena della polizia, seguita da un’ambulanza. Riuscendo a riaprire gli occhi, vidi una figura alquanto indistinta, che avvicinandosi, mi aiutò a riprendere conoscenza. Biascicando qualche parola, provai a rimettermi in piedi, e fallendo nel mio intento, conservai la mia perfetta immobilità. Non passò molto tempo prima che venissi caricata su una barella, e da quel momento in poi, nulla. Il buio più totale mi avvolse, e per qualche arcana ragione, la mia mente continuava a replicare quel fastidioso suono. Colta alla sprovvista, svenni a causa della mia stessa debolezza, e non riuscendo a vedere altro che l’oscurità, tacqui. Passarono le ore, ed io mi risvegliai in una stanza d’ospedale. Giacevo in un letto dalle bianche lenzuola, e accanto a me rividi mio padre. Alla mia vista, sorrise abbracciandomi, per poi ringraziare il cielo e fissare il suo sguardo sui miei occhi. Iridi plumbee e spente, faticavano a splendere come stelle ormai vicine alla morte e prive della loro luce. Ero finalmente cosciente, ma nonostante tutto, non capivo cosa accadesse. Avevo nuovamente perso il dono della vista, e raccogliendo il mio coraggio, posi una domanda di vitale importanza. “Dov’è la mamma?” chiesi, attendendo una qualunque risposta da parte di mio padre. “Lei sta bene, non preoccuparti.” Mi disse, riuscendo a rassicurarmi e infondendomi sicurezza. Alcuni secondi passarono, e allo scadere degli stessi, compresi l’ardua verità. “Non ti vedo.” Dissi a mio padre, attendendo che riprendesse a parlare e mi guidasse solo grazie al suono della sua voce. Mi parlò quindi con voce apparentemente calma, ma realmente e tristemente spezzata dal dolore e dall’incredulità presenti nel suo animo. Allontanandosi poi da me, scelse di chiedere subito l’aiuto di un’infermiera, che giunse nella stanza dove ero ricoverata appena un attimo più tardi, seguita da alcuni dei suoi colleghi. “Mia figlia non ci vede.” Disse, illustrandole il mio problema e la mia condizione. “Faremo il possibile.” Rispose, guardandolo negli occhi e riferendosi ai suoi superiori. A quelle parole, seguì il mutismo di mio padre, che insoddisfatto da quella così misera risposta, lasciò che la rabbia avesse la meglio sul suo giovane corpo. “Dov’è mia moglie?” Chiese poi, con la voce corrotta dalla collera che sapeva di provare. “Ci dispiace, forse non ce la farà.” Rispose uno dei medici, chinando leggermente il capo a causa della tristezza. A quelle parole, mio padre mantenne il silenzio, e lasciando subito la stanza che occupavo, si mise alla sua ricerca. Riflettendo, compresi che il nostro incidente era stato piuttosto grave, ed io mi reputavo fortunata di essere ancora viva. In quel momento, non ero che una sopravvissuta, ma nonostante tutto, ero triste. Non sapevo se mia madre fosse ancora viva, e secondo le parole dei medici non mi restava che pregare. “Tua madre è forte, ce la farà.” Mi disse l’infermiera, sedendosi sul letto che occupavo al solo scopo di farmi compagnia. Concentrandomi sul suono della sua voce, spostai leggermente lo sguardo, e cercando la sua mano, la strinsi delicatamente. Ad essere sincera, avrei davvero voluto ringraziarla, ma dopo quanto mi era accaduto, ero letteralmente rimasta senza parole. Poco tempo dopo, mi accorsi che si stava lentamente allontanando, e prima che potessi accorgermene, rimasi completamente sola. Il tempo continuò quindi a scorrere, e dopo aver passato una lunga ora a pregare e piangere sommessamente, mi addormentai. Per pura sfortuna, non dormii sonni tranquilli, finendo per sognare mia madre, sdraiata come me in un letto, ferma ed immobile. Quella l’unica immagine che vidi fino al mio risveglio, ossia il momento esatto nel quale scoprii la sua miracolosa e completa guarigione. Muovendomi lentamente, riuscii ad alzarmi dal letto, e soltanto usando le mani e la mia stessa memoria unita al suono dei miei passi, riuscii ad orientarmi. Camminavo senza un’apparente meta, e sentendo la sua voce, mi fermai di colpo. Subito dopo la raggiunsi, e abbracciandola, iniziai istintivamente a piangere. Posando i loro sguardi su di me, i medici mi dissero che le sue ferite erano finalmente scomparse, rassicurandomi quindi sul suo stato di salute. A quella notizia, sorrisi debolmente, e iniziando a pensare, mi resi conto della presenza di un problema. Difatti, e proprio come i medici stessi avevano predetto, l’incidente aveva peggiorato la mia condizione, fino a rendermi completamente cieca. Ero ancora viva, e la felicità mi pervadeva, ma alla stessa si mischiavano le mie lacrime e la mia tristezza. Da quel momento in poi, il mio futuro appariva avverso.
 
 
 
Capitolo XI

Mura invalicabili

Era mattina, e ancora una volta mi svegliavo. Ero vigile, ma di fronte a me non c’era che il buio. Alcune fredde lacrime scivolarono sulle mie candide guance, e asciugandole, rimasi immobile nel mio letto. Rigirandomi, affondai il viso nel cuscino. In quel preciso istante, mi sentivo sola e svuotata di ogni mia energia. Per qualche strana ragione, la mia vita sembrava aver perso ogni significato, e il solo pensiero mi intristiva tanto da ridurmi al mutismo e ad un ardente desiderio di solitudine. Ad essere sincera, sapevo bene che sarebbe stata solo una questione di tempo, ma nonostante tutto, non avrei mai davvero voluto che questo giorno arrivasse. Una tiepida giornata di primavera, con un sole così splendente da somigliare ad una preziosa gemma, e dei fiori tanto aulenti da stordirti inebriandoti i sensi. Tutte cose che per pura sfortuna non posso più vedere. Era ormai passato un mese, e malgrado tale consapevolezza continuavo a maledire quel così infausto giorno. Sarei dovuta andare in ospedale per un ormai solito controllo medico, e solo a causa di un incidente, avevo perso uno dei beni più grandi a questo vasto mondo, ovvero la vista. L’innata e al contempo naturale capacità di scrutare e osservare il mondo attorno a me, ora svanita e persa per sempre, alla pari con una dorata  e unica occasione. Lentamente, il tempo scorreva, e con l’arrivo della sera, scelsi di ritirarmi nella mia stanza. Sedendomi in terra, posai la schiena contro il muro, e incrociando le gambe, sospirai mestamente. Per quella che credevo essere sfortuna, nessuno poteva sentire i miei lamenti, e dopo un indefinito lasso di tempo trascorso a piangere, sentii uno scatto metallico. Istintivamente, alzai lo sguardo, e posandolo sulla porta della mia stanza, mi accorsi dell’arrivo di mio fratello Kale. Salutandomi, si avvicinò a me, e tentando di consolarmi, mi mise dolcemente una mano sulla spalla. Non parlava, ma sapevo che quello era il suo modo di starmi vicino in un momento di tale sconforto. Improvvisamente, la sua presenza parve svanire, ma attendendo in silenzio, compresi di sbagliarmi. Difatti, tornò a sedersi al mio fianco solo alcuni secondi dopo, lasciando che prendessi in mano quello che scoprii essere un foglio di carta. “Te l’ha regalato Silvia, ricordi?” mi chiese, piegando poi le labbra in un debole ma convincente sorriso. Mantenendo il silenzio, attesi che quell’ancora nitido ricordo si facesse spazio nella mia mente, e in quel preciso istante, sorrisi. “Sei te stessa, e sei tutti noi.” Disse Kale, leggendo al mio posto il contenuto di quel biglietto nella forse vana speranza di infondermi coraggio. A quelle parole, non ebbi reazione dissimile dal versare calde lacrime, per poi chiedere a mio fratello di lasciarmi da sola. Rispettando il mio volere, Kale lasciò la mia stanza, e non appena fu abbastanza lontano, ripresi in mano quel biglietto, stringendolo con decisione. In quel momento, compresi che Silvia aveva ragione. Avrei dovuto fidarmi, ma ormai tutto era cambiato, e seppur non volendo, avevo creato attorno a me delle mura invalicabili.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XII

Speranza tradita

Un nuovo giorno iniziava con lentezza, ed io ero ormai abituata alla mia condizione. Completamente incapace di vedere, avevo imparato ad usare gli altri sensi. Indagavo utilizzando le mani, e carpivo ogni singolo suono che giungeva alle mie orecchie. Ad essere sincera, non avrei mai pensato che tali e fini capacità mi rendessero diversa da chiunque altro, eppure era così. Come ogni mattina, aprivo la finestra della mia stanza, e come ormai ero abituata a sostenere, sentivo il sole. L’astro più importante e imponente del cielo mattutino, in contrasto con la luna, indiscussa regina della buia e stellata notte. Rimanendo perfettamente immobile per alcuni sporadici secondi, inspirai a pieni polmoni, lasciando che i potenti raggi del sole mi scaldassero la pelle. Appena un attimo più tardi, la docile aria mi lambisce i polmoni, riempiendoli con tranquillità e gentilezza. Una gioiosa domenica mattina era ai suoi stessi primordi, o almeno questo era ciò che pensavo. Difatti, e forse solo grazie alla mia intelligenza, avevo in qualche modo intuito che qualcosa nella mia giornata sarebbe sicuramente stato profondamente diverso. Tutto era iniziato con la colazione. Notando il mio arrivo in cucina, mio fratello Kale mi aveva salutata, ma per qualche arcana ragione, i miei genitori avevano mantenuto il silenzio. Riflettendo, compresi che qualcosa non andava, ma volendo unicamente evitare di risultare invadente, finsi indifferenza realmente non provata, trascorrendo la mia giornata come ero ormai solita fare. Chiudendomi nella mia stanza, passavo ore a parlare al telefono con la mia amica Harriet. “Ho saputo del tuo incidente.” Mi disse, facendo vertere la nostra conversazione su un argomento serio e privo di ilarità. A quelle parole, raggelai. Concedendomi quindi del tempo per pensare, compresi che  tale evento non era più un segreto. A quanto sembrava, le voci riguardo a ciò che mi era accaduto avevano fatto il giro della città intera, e tutti i miei compagni avevano scoperto una parziale verità. Sapevano che ero rimasta coinvolta in un grave incidente stradale, ma questa non era che la prima delle due facce di quella che io consideravo una metaforica e aurea medaglia. Ad ogni modo, tentai invano di mentire e depistarla, ma grazie al suo spiccato intuito, Harriet riuscì a smascherarmi. “Dimmi la verità.” Mi chiese, con una sottile e quasi impercettibile vena di preoccupazione nella voce. “Non posso.” Risposi, per poi scivolare nel silenzio e tentare in ogni modo di far cadere quel così spinoso argomento. “Puoi fidarti.” Continuò, cambiando improvvisamente il tono che utilizzava nel parlarmi, e facendolo giungere alle mie orecchie come molto più calmo e rilassato. Riflettendo, compresi di non poter continuare a mentirle. La conoscevo da ormai lungo tempo, e la fiducia che avevo riposto in lei era letteralmente incondizionata, ragion per cui decisi di fare ciò che andava fatto, ovvero raccogliere il mio coraggio e mostrarmi onesta.  “Sono diventata cieca.” Ammisi, sentendo la mia voce spezzarsi come una lastra di duro e freddo ghiaccio sotto un enorme peso. Alle mie parole, Harriet non rispose, divenendo improvvisamente muta come un pesce. “Non devi dirlo a nessuno. L’ammonii, sperando di non rivelarmi troppo dura nei suoi confronti e confidando nel mantenimento di tale segreto da parte sua. “Sei al sicuro.” Mi rispose, firmando con quelle parole una sorta di importante contratto orale. “Grazie.” Risposi, facendo suonare quella singola e sincera parola come un sussurro. Subito dopo, misi fine alla nostra conversazione telefonica, e avvicinandomi nuovamente alla finestra, sorrisi. Il sole splendeva, e rimanendo in silenzio, sentivo i suoi potenti raggi baciarmi scaldandomi la pelle. Alcuni minuti trascorsero, e scegliendo di uscire dalla mia stanza, mi ritrovai di fronte alla porta della camera dei miei genitori. Discutevano fra loro, parlando con serietà inaudita. Non avendo alcuna intenzione di origliare, tentavo di ignorare i loro discorsi, ma improvvisamente, una frase mi colpì, e fu come ricevere un pugno nello stomaco. “È la sua unica possibilità.” Disse mia madre, con la voce spezzata e corrotta dalla tristezza. “Sai che non possiamo permettercelo.” Rispose mio padre, per poi scivolare nel silenzio e nascondere la collera serrando la mascella. Fu quindi questione di un attimo, e la porta si aprì. Notando la mia presenza nel corridoio di casa, mia madre sembrò paralizzarsi. “Eleanor… Noi non…” biascicò, sapendo che avevo avuto modo di ascoltare ogni parola da lei pronunciata in precedenza. Con un semplice e secco gesto della mano, la zittii istintivamente. “Non posso operarmi, vero?” chiesi, sfidandola con la voce. Alla mia domanda, non seguì alcuna risposta. L’unica poteva forse essere rappresentata dal mutismo di mia madre, rimasta senza parole e con il fragile cuore spezzato per l’ennesima volta. Per sua sfortuna, suo marito non era lì per tentare di aiutarla, ed io ne avevo ormai avuto abbastanza. Sapevo bene che mi amavano, e che avevano in ogni modo cercato di rendere la mia vita in tutto uguale a quella di Kale, ma solo ora capivo che non ce l’avevano fatta. Anche se inconsciamente, mi avevano ferita. Forse in quel momento era la mia rabbia a parlare, e a causa della stessa, avevo finito per esprimere l’assurdo desiderio di scappare di casa. Data la moltitudine di sentimenti che turbinava nel mio animo, non riflettei, decidendo impulsivamente di fuggire. Iniziando quindi a piangere, diedi le spalle alla donna che mi aveva offerto il privilegio di vivere, e raggiungendo subito la porta di casa, la richiusi sbattendola. Una volta fuori, scoprii l’arrivo della fredda sera, accompagnata da un’altrettanto fredda e scrosciante pioggia, che cadendo con velocità inaudita, bagnava i miei vestiti e il mio povero corpo. Scioccata, continuavo a piangere, ma nascondevo il viso stringendomi nel giubbotto che portavo. I miei occhi erano poi nascosti da un grosso paio di occhiali da sole dalle lenti scure, così da non poter essere visti da nessuno. Ad essere sincera, mi vergognavo profondamente, e non avevo desiderio dissimile dal nascondermi come un’ignobile ladra. Seppur lentamente, camminavo, orientandomi solo grazie ai suoni da cui ero circondata uniti alla mia ottima memoria, strumento che con il tempo avevo imparato ad affinare. Ad ogni modo, e dopo un tempo che non fui in grado di definire, mi ritrovai di fronte alla casa della mia amica Harriet. Tremando come una foglia, bussai più volte, pur senza ottenere alcuna risposta. Non volendo arrendermi, continuai a farlo, per poi scegliere di gridare quel nome. Le luci in casa erano accese, ragion per cui sapevo che se avessi urlato abbastanza forte, qualcuno mi avrebbe sicuramente sentita. Finalmente, dopo un lasso di tempo che mi apparve letteralmente infinito, la porta si aprì. Alzando istintivamente lo sguardo, riconobbi una vena di preoccupazione nella voce della madre della mia amica. “Eleanor! Che cosa ci fai qui?” chiese, tacendo nell’attesa di una mia risposta. “Non posso spiegarle. Harriet è in casa?” risposi, per poi porre quella forse retorica domanda. “Certo. Non stare li ferma, entra.” Mi disse la donna, cingendomi un braccio attorno alle spalle e invitandomi ad entrare. Muovendomi con riluttanza, scelsi di seguirla, per poi avere la fortuna di sentire la voce della mia amica. Alla mia vista, corse ad abbracciarmi. Contrariamente a me, colta alla sprovvista dalle intemperie, lei era completamente consapevole del temporale che infuriava appena fuori casa, e stringendomi fra le sue braccia, tentava di scaldarmi. “Stai tremando.” Osservò, sciogliendo quell’abbraccio al solo scopo di guardarmi. Alcuni secondi dopo, mi sedetti assieme ad Harriet sul divano di casa, e sua madre mi posò una coperta sulle gambe. “Fra poco starai meglio.” Disse, pronunciando quella frase al solo fine di rassicurarmi e porre fine ai miei tremori. Per pura fortuna, il suo espediente funzionò, e non appena fummo sole, Harriet raccolse il suo coraggio, e conservando la speranza di non apparire invadente, scelse di informarsi. “Che ti è successo?” chiese, scivolando nel silenzio e attendendo che le fornissi una qualsiasi risposta. “I miei genitori mi hanno mentito.” Le dissi, facendomi improvvisamente seria. “Cosa ti hanno fatto?” continuò, ponendomi quella domanda con fare a mio dire collerico. “Mi hanno mentito.” Ripetei, concedendomi un attimo di silenzio per respirare. “Avrei potuto operarmi.” Aggiunsi, tirando su col naso e muovendo una mano nel tentativo di asciugarmi una lacrima che sentivo solcarmi il volto. Alle mie parole, Harriet mantenne il silenzio, non avendo reazione dissimile dall’abbracciarmi stringendomi a sé. “Mi dispiace.” Sussurrò, posando una mano sulla mia spalla e scivolando poi nel più completo mutismo. In quel preciso istante, il nostro abbraccio si sciolse per la seconda volta, e l’unico rumore che riuscii a sentire nella calma notturna fu quello prodotto da un violento tuono, preceduto da un lampo accecante. Come ormai sapevo, un destino crudele mi aveva privato del dono della vista, ma nonostante tutto, ebbi modo di osservare la forte luce che quel lampo aveva sprigionato. Da quel momento in poi, le forze mi abbandonarono. Completamente svuotata delle mie stesse energie, svenni. In quel preciso istante, ero sicura di una sola cosa. Il buio della notte mi avvolgeva, e assieme allo stesso, la consapevolezza di una flebile speranza ormai tradita.
 
 
 
 
 
Capitolo XIII

Mano amica

I minuti scorrevano veloci, ed io ero ancora lì, completamente priva di sensi. Da parte mia nessun segno di vita. Quasi a voler cancellare tale realtà, provai a muovere una mano, e riuscendoci, rinvenni. “Dove sono?” chiesi, confusa. “A casa mia.” Rispose Harriet, che era rimasta al mio fianco per tutto quel tempo in attesa del mio risveglio. “Non ricordo nulla.” Farfugliai, attendendo quindi che mi spiegasse l’intera faccenda legata alla notte precedente. Sembrava incredibile, eppure, per qualche arcana ragione, mi sentivo come se avessi appena perso la memoria. La confusione regnava sovrana all’interno della mia anima, e con essa un fastidioso ronzio di pensieri nella mia mente, ora avvolta da una spessa coltre di umida nebbia. “Sei svenuta durante il temporale. C’è stato un tuono, e hai perso i sensi.” Continuò, sorridendo debolmente a causa della paura che sapevo aveva provato in quei momenti. In quel preciso istante, un guizzo di memoria mi saltò in mente, e scattando in piedi, mi avvicinai lentamente alla porta di casa. Poco prima di uscire, ringraziai Harriet, per poi richiudermi la porta alle spalle e allontanarmi. Non appena fui fuori, mi immobilizzai. Sapevo bene che il mattino aveva nuovamente svegliato la mia città, e dopo quanto mi era accaduto, non volevo assolutamente correre altri rischi. Respirando lentamente, mantenni la mia immobilità, e annuendo, mi decisi ad iniziare a camminare. In quei pochi istanti, una sorta di mappa capace di ricondurmi alla mia destinazione si era materializzata nella mia mente, ora lucida e pronta perfino al più complesso dei ragionamenti. Ancora impaurita, camminavo ascoltando il ritmico suono dei miei passi, lenti ma decisi. Assieme a questi, l’eco prodotta dai suoni della città stessa, che io solevo chiamare eco di vita. Ad ogni modo, il mio viaggio proseguiva senza interruzioni, e dopo circa una ventina di minuti, riuscii a tornare a casa sana e salva. Inizialmente, dovetti ammettere di aver timore nel bussare alla porta, poiché credevo che la mia intera famiglia non avesse più intenzione di rivedermi, ma solo alcuni istanti dopo, scoprii di sbagliarmi. Prendendo quindi una veloce ma ponderata decisione, scelsi di bussare, e non appena la porta si aprì, sentii una voce conosciuta e a dir poco inconfondibile. Quella di mio fratello Kale. Alla mia vista, non fece altro che sorridere e lasciarsi prendere dall’entusiasmo e dalla contentezza. “Eleanor è tornata!” gridò, dandomi le spalle e rivolgendosi ad entrambi i nostri genitori, evidentemente affranti per quella che era stata la mia seppur temporanea scomparsa. A quella notizia, seguì la reazione di nostra madre, che vedendomi in piedi sulla soglia di casa, corse ad abbracciarmi promettendo di non perdermi mai più di vista. Non avevo modo di vederlo, ma dal tono della sua voce, alterato dalla gioia, e al contempo spezzato da un felice pianto, capii che il suo viso veniva solcato da affatto amare lacrime, che sfuggivano dai suoi occhi brillando una volta illuminate dal sole. Senza proferire parola, mi prestai a quelle manifestazioni d’affetto, dovendo silenziosamente ammettere di essere felice. La rabbia previamente provata mi aveva portato a credere il contrario, ma nonostante tutto quello che mi era successo, la mia famiglia mi aveva sostenuto, rivelandosi come sempre pronta a tendere una mano amica.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIV

Grande gioia e nuovo dolore

Altri due anni se n’erano ormai andati, scomparendo come la vita delle persone, che finendo, lascia che le stesse passino a miglior vita. Quella che mi apprestavo a vivere, era una giornata completamente nuova, ovvero l’alba del mio quattordicesimo compleanno. Contrariamente a come ero solita fare, quest’anno non avevo alcuna voglia di organizzare una festa. Ad ogni modo, e nonostante ogni mia resistenza a riguardo, mio fratello Kale era di tutto altro avviso, ragion per cui i nostri compagni ci hanno fatto visita portandoci dei doni. Nel tentativo di nascondere il segreto riguardante la mia attuale condizione, avevo continuato ad indossare degli occhiali scuri, così che gli altri non potessero accorgersi di nulla. Con l’inizio della festa, il mio espediente fallì in maniera decisamente misera. Difatti, nel momento dedicato alle foto ricordo, un errore di Harriet, che mi abbracciò così forte da farmi quasi cadere, mandò letteralmente in frantumi i miei occhiali. A quella vista, i miei amici rimasero senza parole. Non osavano parlarmi, e non facevano altro che sussurrare fra di loro. Ferita e delusa, mi abbandonai ad un pianto sommesso, e attraversando il corridoio, raggiunsi la mia stanza. Per pura fortuna avevo ormai imparato a muovermi malgrado ogni difficoltà, e mentre camminavo, delle fredde lacrime mi rigavano il volto, scivolandomi sulle guance e facendole bruciare. Una volta entrata, sbattei la porta con violenza. Subito dopo, mi sedetti in terra, e nascondendo il viso con le mani, parlai con me stessa. “Lo sapevo.” Mi dissi, trascorrendo il resto del pomeriggio a nascondermi da loro e piangere disperata. L’intera faccenda si era ormai protratta troppo oltre, ed io ero ormai distrutta. I miei amici avevano scoperto la verità su di me, e per qualche arcana ragione, il loro mutismo nei miei riguardi era bastato a convincermi di un odio forse non provato per loro e me stessa. Non pensavo che sarei mai arrivata a dirlo, ma detestavo l’essere considerata orribile e diversa. In fin dei conti, conoscevo la verità. Sapevo bene di essere stata privata del dono della vista solo a causa di uno sfortunato incidente, ma nonostante tale consapevolezza, che con l’andar del tempo si era fatta spazio nella mia mente e nel mio animo, una parte di me incapace di accettarlo continuava ad esistere. Intanto, il tempo continuava imperterrito a scorrere, e imputando la colpa di quanto era accaduto alla mia tristezza, mi ero nuovamente isolata dagli altri. La solitudine aveva quindi avuto la meglio su di me, e proprio quando pensavo di essere letteralmente condannata a rimanere da sola, richiusa nella mia piccola stanza, la situazione parve ribaltarsi. A distrarmi, un rumore di passi leggeri e conosciuti. Fu quindi questione di alcuni minuti, e la porta della mia stanza si aprì. In quel preciso istante, riconobbi la voce di mia madre. “Eleanor?” mi chiamò, tentando di attirare la mia attenzione. “Sì?” chiesi, incerta e titubante circa ciò che volesse da me. “I tuoi amici vogliono salutarti, vieni?” disse, terminando il suo discorso con quella domanda e offrendomi la mano. Sorridendo debolmente, annuii, e afferrando le sue affusolate dita con una vena di riluttanza nei movimenti, mi rialzai lentamente da terra. Appoggiandomi quindi a lei, mi lasciai guidare fino al salotto, dove avvertii la presenza dei miei cari amici. “Questi sono per te.” Dissero, parlando all’unisono e guidandomi fino al tavolo dove avevano posato i miei regali. Usando le mani, indagai nel tentativo di scoprirne il contenuto, e aprendone uno, mi ferii accidentalmente con la carta del pacco, sentendo un rivolo di sangue scivolarmi sulla mano. Quasi istintivamente, strinsi il pugno, e di punto in bianco, avvertii una nuova sensazione. Qualcuno mi stava stringendo il polso. “Lascia fare a me.” Disse una voce che inizialmente faticai a riconoscere ma compresi essere quella di Oliver. Ad ogni modo, il tempo scorreva, e il mio amico si stava impegnando per medicarmi la ferita. Mantenendo il silenzio, rimanevo immobile, immaginando gli sguardi stupiti del resto dei miei invitati. “Va meglio ora?” chiese poi, tacendo nell’attesa di una mia risposta. “Sì.” Mi limitai a rispondere, biascicando quell’unica e semplice parola. Subito dopo, il silenzio più totale, e un evento che non potei in alcun modo prevenire. Tutto accadde in fretta, e prima che avessi modo di accorgermene, mi sentii stringere in un delicato abbraccio al quale seguì un bacio posato sulla mia candida guancia. “Ci vediamo.” Disse lui, sorridendo nuovamente e avviandosi verso la porta di casa ora chiusa assieme alle mie amiche. La sera arrivò quindi senza farsi attendere, e poco prima di cadere preda del sonno, imparai una nuova lezione che ben presto identificai come verità. La mia vita stava nuovamente cambiando, e l’ago della metaforica bussola delle mie emozioni era fermo nello spazio che intercorreva fra la grande gioia e l’incalcolabile dolore.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XV

Reazione inaspettata

Come ero solita osservare, i giorni si susseguivano senza sosta, e il tempo scorreva con loro. La possibilità che lo stesso si fermasse non esisteva, e pur sapendolo, continuavo a sperare. In fondo, era tutto ciò che volevo. Fermare il tempo, smettere di soffrire e tornare indietro a quando potevo ancora aprire gli occhi e vedere. Ora come ora, il mondo è per me buio. È mattina, e il sole splende. Rimanendo ferma e inerme davanti alla finestra della mia stanza ne sento come sempre i raggi sulla pelle. Un ennesimo minuto passa, svanendo dalla mia vita come un’ombra in assenza di luce, ed io mi abbandono ad un cupo sospiro. Concedendomi del tempo per riflettere, ho deciso. Da ormai due lunghi anni sono intrappolata in una sorta di universo parallelo, privo di vita e popolato unicamente dalle mie paure. Prima fra tutte, quella di essere giudicata. Lentamente, dei nitidi ricordi si fanno spazio nella mia mente, e concentrandomi, ricordo le parole pronunciate dai miei amici, la perenne presenza della mia famiglia, e il biglietto scrittomi dalla mia amica Silvia. Poche e semplici le parole che aveva usato per ricordarmi che dovevo essere me stessa e tenere alto il nome della nostra solida amicizia. Così, con quel pensiero fisso in mente, scelsi di porre fino al mio isolamento e uscire finalmente dalla mia camera. Scendendo lentamente le scale, incontrai i miei genitori, e salutandoli, notai una strana nota di insicurezza nelle loro voci. Fermandomi quindi a pensare, capii che qualcosa non andava. Forse erano semplicemente troppo indaffarati per parlarmi, o forse temevano per la mia incolumità, di fronte a me non c’erano che dubbi. Volendo unicamente salvare le apparenze legate alla mia falsa felicità, finsi indifferenza realmente non provata, e guadagnando la porta di casa, raggiunsi mio fratello. Alla mia vista, si affrettò a stringermi la mano al solo fine di aiutarmi nel viaggio che ci avrebbe condotto fino a scuola, luogo dove non vedevo l’ora di tornare. Nel mio animo, un turbine di emozioni. Ancora una volta, ero insicura, e non sapevo se i miei amici avessero accettato la mia condizione, o se avessero preferito usarla come pretesto per deridermi. Stando a ciò che avevo avuto modo di carpire dai loro discorsi, questa era la paura più grande di entrambi i miei genitori. Guardandomi indietro, mi capita di ripensarci, giungendo ogni volta alla stessa conclusione, secondo la quale il loro primo incontro era stato alquanto singolare. A quel tempo mio padre era un poliziotto, e mentre era occupato a stanare e sgominare una banda di pericolosi delinquenti, il suo sguardo incrociò quello di mia madre per la prima volta. Giovane ed esile, era spaventata e quasi priva di sensi, letteralmente vicina alla morte. Avvicinandosi a lei, aveva fatto del suo meglio per aiutarla, e dopo essere riuscito nel suo intento, aveva scoperto di amarla, per poi scegliere di farne la sua sposa. Seppur con estrema lentezza, la mia mente vagava, e la mia meta appariva sempre più vicina. Come ogni giorno, l’aria mi lambiva i polmoni, e il sole mi baciava il viso. Fermandosi di colpo, Kale mi strinse la mano. “Siamo arrivati.” Disse, spostando il suo sguardo su di me lasciandosi sfuggire un sorriso. Mantenendo il silenzio, sorrisi debolmente a mia volta, e lasciando andare la sua mano, mi incamminai nei corridoi della scuola fino a raggiungere la nostra aula. Afferrando saldamente la maniglia, esitai per un singolo attimo. Poteva sembrare incredibile, ma avevo di nuovo paura. Temevo il giudizio dei miei compagni, e iniziando inconsapevolmente a tremare, deglutii sonoramente. Alcuni secondi svanirono quindi dalla mia vita, e allo scadere degli stessi, mi decisi. Muovendo lentamente la mano, aprii quella porta, e appena un attimo dopo, udii le voci dei miei compagni. Sorprendentemente, non mi odiavano, e al contrario, erano immensamente felici di vedermi. Lasciando che i ricordi invadessero la mia mente, rimembrai i loro volti ora colmi di gioia, e i loro occhi brillanti di felicità. Altri preziosi secondi passarono, e muovendo qualche incerto e indeciso passo in avanti, raggiunsi il loro gruppo. Improvvisamente, avvertii la loro presenza. Erano tutti attorno a me, e sapevo che non vedevano l’ora di salutarmi. Conservando la mia perfetta immobilità, non mi sottrassi minimamente al loro affetto, e provando una sensazione mai sperimentata prima, mi resi conto di una cosa. In quel nutrito gruppo di ragazzi, qualcuno mancava all’appello. Oliver. Il mio migliore amico oltre a mio fratello, unica persona pronta a sostenermi in ogni occasione. Non avevo sentito la sua voce né la sua risata, e per qualche strana e a me ignota ragione, tale consapevolezza spedì il mio umore metri e metri sotto terra. Ad ogni modo, le lezioni iniziarono al suono della campanella scolastica, e camminando lentamente, occupai il mio posto accanto ad Harriet. Silvia sedeva nel banco dietro al mio, e data la sua natura silenziosa, preferiva non parlare. Per motivi a me sconosciuti, tale discorso poteva essere applicato anche ad Oliver. Stando a quel che avevo sentito, aveva risposto svogliatamente all’appello, alzando una mano per un singolo attimo. Tre lunghe ore passarono, e con l’arrivo dell’intervallo, mi misi subito alla ricerca del mio amico. Raggiungendo il cortile della scuola, chiamai più volte il suo nome, e la risposta che attendevo tardò ad arrivare. Mi muovevo lentamente, e il silenzio mi avvolgeva. Lo stesso si ruppe come vetro nel momento in cui la sua voce raggiunse le mie orecchie. A quanto sembrava, era occupato a parlare con dei ragazzi che non conoscevo, ma che per qualche oscuro motivo, sapevano tutto di su di me. Rimanevo lontana e in disparte, ma nonostante tutto, riuscivo a sentirli. “È troppo strana, e non può neanche vederti.” Dicevano riferendosi a quella che era la mia ormai conosciuta condizione. “Vi sbagliate, lei è uguale a noi.” Rispondeva Oliver, mostrandosi pronto a prendere le mie difese al solo scopo di preservare la solida amicizia che ci legava sin dall’infanzia. Intanto il tempo scorreva, e fingendomi sorda alle loro parole, sopportavo ogni cosa, lasciando che quei giudizi mi scivolassero sulla pelle, lambendola appena. In altre parole, ignoravo la loro realtà, stando alla quale, essere diversi equivale al non avere un valore. I minuti si susseguivano senza sosta, e improvvisamente, una frase in particolare mi colpì ferendo il mio animo per l’ennesima volta. “Devi starle lontano, non merita alcun amico.” A quelle parole, avvertii una stretta al petto, e abbandonandomi ad un cupo sospiro, scelsi di allontanarmi senza dire una parola. In quel momento, avrei davvero voluto avere la forza di reagire, ma dopo quanto mi era accaduto, ero rimasta senza. Quelle così crude e dure frasi mi avevano ferita, e nel momento in cui credetti di non avere più speranze, una sorta di miracolo. Qualcuno chiamò il mio nome, e alzando istintivamente lo sguardo, riconobbi la voce di mio fratello Kale. Avvicinandosi, mi prese per mano, e invitandomi a seguirlo, mi incoraggiò a reagire. “Dovete smetterla!” disse, spostando la sua attenzione su quei tre ragazzi. “Mia sorella è diversa, ma questo non fa di lei un mostro!” aggiunse, difendendomi e frapponendosi fra me e quelli che consideravo miei aguzzini. “Andiamo, lasciamoli da soli.” Mi disse poi, afferrandomi un polso e costringendomi ad ignorare quegli idioti. “Grazie.” Soffiai, tenendo il capo chino al solo fine di nascondere le lacrime che ora versavo. “Non ringraziarmi. Sei mia sorella, e l’avrei fatto comunque.” Rispose, stringendo la mia mano con forza ancora maggiore. Quasi istintivamente, sorrisi, e una volta arrivata in classe, non feci altro che parlare con me stessa, ritrovandomi costretta ad ammettere di essere stata per l’ennesima volta salvata dall’amore che mi legava a mio fratello. Il nostro legame era forte, e in quell’occasione avevo avuto modo di capire che non era unicamente dettato dallo scorrere del nostro stesso sangue.
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVI

Errori

Il tempo continuava a scorrere, ed io ero  comodamente seduta nel salotto di casa. Il televisore acceso trasmetteva un interessante documentario sulla storia contemporanea, e mantenendo un silenzio degno di un cimitero o un luogo di culto, ascoltavo ogni parola. La finestra alle mie spalle era aperta, e il vento mi colpiva la schiena. Per pura fortuna non faceva freddo, ma nonostante tutto, la sensazione datami dallo spirare dell’aria era letteralmente insopportabile. Alzandomi quindi in piedi, scelsi di accomodarmi sulla poltrona, così da cambiare posizione e non essere più costretta ad avvertire tale fastidio. Intanto, l’orologio appeso al muro in cucina continuava a ticchettare senza apparente sosta, e concentrandomi unicamente su quel suono, capii che erano le cinque del pomeriggio. La sera si stava avvicinando ed io ero sola in casa. Al contrario di me, impegnata e assorta nei miei stessi e molteplici pensieri, Kale era occupato a giocare in giardino. Sin da quando era bambino, aveva sempre amato il calcio, e sorridendo, lo sentivo esultare per ogni gol che segnava. Nostro padre gli aveva costruito una piccola porta simile a quelle viste negli stadi, e ricordo che lo aveva ringraziato di tutto cuore. Ad ogni modo, i lunghi anni dell’adolescenza erano giunti fino a noi, e pur se lentamente, molte cose erano cambiate. Difatti, sembrava che l’uomo più importante nelle nostre giovani vite non avesse più tempo per noi. Il suo lavoro tendeva a tenerlo lontano da casa per lungo tempo, e nostra madre trascorreva le giornate preoccupandosi per lui. Essendo un amante delle sfide, aveva scelto la carriera di agente di polizia, e malgrado la mia giovane età, finivo per farmi prendere dallo sconforto e pregare che non gli accadesse nulla di infausto. Con lo scorrere del tempo, ne avevo fatto un’abitudine. Mi inginocchiavo ogni sera di fronte al mio letto, e congiungendo le mani, pregavo. I minuti continuavano a passare, divenendo poi lunghe ore. Prima che riuscissi ad accorgermene, l’orologio battè le dieci di sera. Era ormai tardi, ma la cosa non mi toccava minimamente. Difatti, sapevo bene che tale consapevolezza poteva avere un solo ed unico significato. Le mie preghiere erano state ascoltate, e mio padre era tornato a casa. Tornando subito nel salotto di casa, attesi il suo rientro, e sentendo la porta aprirsi con uno scatto, sussultai. In quel preciso istante, avvertii la sua presenza, e salutandolo, scelsi di abbracciarlo. Per qualche strana ragione, quella manifestazione d’affetto apparì fredda come ghiaccio. Non avevo idea del perché, ma era come se volesse starmi lontano. Indietreggiando lentamente, pensai di essere stata troppo precipitosa e invadente, ma dopo un singolo attimo, scoprii di non avere alcuna colpa. Difatti, lo sentii appoggiare in terra una grossa scatola, e concedendomi del tempo per pensare, mi convinsi che era un regalo. Spinta dalla curiosità, chiesi spiegazioni ai miei genitori, ma per sfortuna entrambi si rifiutarono di rispondere. Quella sera andai a letto curandomi di non disturbare il sonno di nessuno, e addormentandomi attesi l’arrivo del mattino. Le ore notturne passarono, e il sole si levò di nuovo nel cielo. Come ero ormai solita fare,  mi svegliai lentamente, ritrovandomi all’interno della mia stanza. La mia sveglia aveva suonato ridestandomi dal torpore in cui mi ero inconsapevolmente lasciata scivolare, e alzandomi dal letto, sentii mio padre chiamarmi dal piano inferiore. Obbedendo a quella sorta di ordine, scesi le scale fino a raggiungere il salotto, dove una sorpresa sembrava attendermi. Una volta arrivata, sentii la voce dei miei cari seguita da un dolce latrato. Non riuscivo a crederci. Da ormai quasi tre anni ero diventata cieca, e i miei genitori mi avevano finalmente preso un cane. Il mio sogno di bambina  non era mai svanito dalla mia mente, e dopo anni di attesa, era finalmente diventato realtà. Un adorabile cucciolo di circa un anno d’età, una creatura che mi avrebbe fatto compagnia per il resto della sua lunga vita. “È tuo.” Mi disse mio padre, sorridendo leggermente. A quelle parole, non risposi, limitandomi a ringraziarlo stringendolo in un abbraccio. Intanto, il cagnolino si aggirava per la stanza, ma io non potevo vederlo. Ad ogni modo, giocai con lui finchè non fu ora di andare a letto, e proprio in quell’istante, il cucciolo mi seguì fino alla mia stanza da letto. Per qualche strana ragione, non voleva separarsi da me. Il tempo continuò quindi a scorrere, e cadendo preda del sonno, mi risvegliai solo con l’arrivo del mattino. Mi alzai dal letto con estrema lentezza, e dopo la colazione, mi preparai per andare a scuola. Una volta pronta, mi avvicinai alla porta di casa ora aperta, con la ferma e precisa intenzione di varcarla e uscirne. Lucky, il mio cane guida, seguiva ogni mio movimento, avendo sempre cura di avvisarmi di qualsiasi pericolo. Viveva con me solo da un giorno, eppure sapevo di volergli un gran bene. In fin dei conti, svolgeva il suo lavoro alla perfezione, ed era ormai diventato i miei occhi. Per la prima volta in tre anni, potevo nuovamente guardarmi intorno. Era bellissimo poter conoscere la vita attorno a me. Potevo finalmente dirmi viva e felice. Le ore scolastiche passavano lente, e Lucky era sempre al mio fianco. A scuola era benvoluto da tutti, e mai nessuno aveva neanche lontanamente pensato di separarci. Sapevano bene quanto lui fosse importante per me, e in caso di dubbio, ero autorizzata a mostrare i documenti che provassero il valore del lavoro per il quale era stato addestrato. Come di consueto, occupavo il mio posto, e salutandomi, Harriet decise di parlarmi. “Bel cane.” Osservò, regalandomi un sorriso. “Grazie.” Risposi, per poi tacere e tornare a concentrarmi sullo studio, reso per me facile poiché ognuno dei miei libri scolastici era stato sostituito con una copia identica ma scritta in un alfabeto a me comprensibile. Il Braille. Per alcuni versi simile al codice morse, un insieme di linee e punti formava parole e numeri, che toccavo con mano e leggevo con la mente. Ad ogni modo, i minuti si susseguirono veloci, e improvvisamente notai il nervosismo del mio cane. Continuava a tirare il guinzaglio, e per quanto gli fosse possibile, tentava di farmi alzare in piedi. Parlandogli, provavo a calmarlo, ma nulla sembrava funzionare. Subito dopo, lo sentii ringhiare, e abbandonando il mio posto, decisi di dargli retta. Concedendomi del tempo per riflettere, compresi che doveva forzatamente aver visto qualcosa, o avvertito la presenza di un pericolo. L’intervallo arrivò in fretta, e al suono della campanella, raggiunsi il cortile. Preferendo la solitudine alla compagnia, sedevo in un angolo, e mantenendo il silenzio, mi perdevo nel labirinto dei miei pensieri. In quel preciso istante, un nitido ricordo legato ad uno dei miei amici. Per ragioni a me sconosciute, Oliver era scomparso dopo la festa per il mio quattordicesimo compleanno. Difatti, erano ormai giorni che non sentivo la sua voce o la sua risata, e per tale motivo non avevo modo di bearmi della sua compagnia. Non c’era quindi altra spiegazione. Doveva essergli successo qualcosa. Quel pensiero continuava a galleggiare nella mia mente, e il tempo appariva fermo. Nervosa e preoccupata, attendevo la fine delle lezioni, al termine delle quali, avrei certamente indagato. Le restanti ore scolastiche apparvero quindi infinite, ma dopo l’ultima campanella della giornata, tornai subito a casa. Il pomeriggio prese quindi il posto di un dorato mattino, e avvisando mia madre, uscii per far visita a Oliver. Poteva sembrare banale, ma volevo in ogni modo far luce su quel mistero. In altre parole, dovevo sapere. Camminavo lentamente, facendomi guidare dai lenti passi di Lucky, che si fermò non appena raggiunsi la mia destinazione. Avvicinandomi alla porta, bussai attendendo che venisse aperta, ma stranamente, non ottenni risposta. Per nulla scoraggiata, continuai a provare, fino a che la sorte non decise di sorridermi. Fu una questione di meri attimi, e riconobbi di fronte a me la figura di Oliver. “Come stai?” gli chiesi, mostrandomi preoccupata. “Non voglio parlarne, ora vattene. Rispose, facendo suonare quelle parole come una sorta di avvertimento. “Ma io…” biascicai, tentando di riprendere la parola. “Ho detto vattene.” Ripetè, apparendo stavolta adirato. “Oliver, io volevo solo…” ebbi appena il tempo di pronunciare quelle parole, che subito persi l’equilibrio. “Vattene! E non farti più vedere!” gridò, spingendomi così violentemente da farmi cadere. Perdendo improvvisamente l’equilibrio, finii quindi in terra, ma riuscii a rialzarmi solo grazie all’aiuto di Lucky, che tirando il guinzaglio, mi infuse la forza e il coraggio di andare avanti. Per mia sfortuna, era troppo tardi. La porta si era ormai chiusa, e Oliver era di nuovo sparito. Ancora una volta, sentii il mio giovane cuore stretto in una morsa, e sollecitata dal povero Lucky, che ora uggiolava triste e scontento, ricominciai a camminare. Giunsi a casa solo mezz’ora dopo, e rintanandomi nella mia stanza, sfruttai la solitudine che ne conseguì. Sopraffatta dai sentimenti che ora sapevo di provare, misti al dolore derivante dall’accaduto, compresi una tuttavia ardua verità. A quanto sembrava, i miei non erano che errori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVII

Sensi di colpa

Il caldo e assolato pomeriggio venne velocemente sostituito dalla fresca sera, e sedendo sul divano di casa, tenevo il mio libro preferito sulle gambe. Una storia a mio parere intrigante, incentrata su un mistero apparentemente irrisolvibile. Lentamente, scorrevo i caratteri impressi nelle pagine usando i polpastrelli, e in quel modo, trascorrevo il mio tempo. Un’abitudine che avevo finito per sviluppare a causa della mia condizione, e che agli occhi di persone completamente estranee, appariva a volte inspiegabile. Per qualche strana e a me ignota ragione, mi reputavano matta, e non conoscendomi, erano unicamente in grado di giudicare. I miei giorni si susseguivano lenti, e con l’andar degli stessi, mi sentivo sempre più sola. Difatti, perfino le mie amiche avevano smesso di parlarmi. Non sapevo bene il perché, e l’ignorare tale realtà mi feriva, rendendomi nervosa. Improvvisamente, sentii le guance bruciare, e provando una tristezza infinita e indescrivibile, chiusi il libro. Alzandomi in piedi, lo posai sul tavolo di fronte a me, e afferrando il guinzaglio di Lucky, sempre seduto al mio fianco, riuscii a mantenere il mio precario equilibrio. Un mero attimo scomparve dalla mia esistenza, e Lucky tirò il guinzaglio. Colta alla sprovvista, abbassai il capo in preda alla confusione, lasciando che un suo debole uggiolio raggiungesse le mie orecchie. In quel preciso istante, tutto mi fu chiaro. A quanto sembrava, il mio fedele compagno aveva capito ogni cosa. Continuando a tirare, mi guidò fino alla porta di casa, ma io rifiutai di uscire. Difatti, ero troppo triste e sconsolata per permettermi di mostrarmi ai miei amici per quella che ero, e lo stesso discorso appariva applicabile al mondo intero. In fin dei conti, non desideravo altro che del tempo per me stessa, da impiegare nel migliore dei modi. Afferrando il suo guinzaglio convinsi Lucky a seguirmi, dirigendomi quindi verso la mia stanza, luogo dove solevo rifugiarmi nei momenti di noia, dolore o sconforto. In quel preciso istante, desideravo unicamente restare da sola con i miei pensieri, sapendo di essere lontana dalle parole e dagli sguardi della gente divorata dall’ignoranza e dai pregiudizi. Seduta in terra, mantenevo il silenzio, e improvvisamente, sentii il suono prodotto dal campanello della porta di casa. Allarmato, Lucky fissò il suo sguardo su un punto a me lontano, e lasciandomi guidare da lui, scelsi di raggiungere il salotto e aprirla. Abbassai lentamente la maniglia, e non appena la porta si aprì, sentii il mio giovane cuore perdere un battito. Di fronte a me c’era il mio amico Oliver. L’inflessione della sua voce lo faceva apparire malinconico, e la scena che seguì il nostro incontro fu per me completamente inaspettata. Non dandomi neanche il tempo di respirare, mi posò una mano sulla spalla, e iniziando a piangere e singhiozzare, intonò quella che giunse alle mie orecchie come una preghiera. “Per fortuna stai bene.” Esordì, con la voce spezzata e corrotta dal dolore. “Devi credermi, non volevo, ero nervoso e…” continuò, tacendo al solo scopo di prendere fiato e organizzare quel discorso nella sua mente. “Non dire altro.” Proruppi, interrompendolo. “Cosa?” chiese, confuso e stranito dalle mie parole.“Non serve. Sei il mio migliore amico, e non mi faresti mai del male.” Chiarii, lasciando che le mie labbra si dischiudessero in un luminoso sorriso. “Questo è il problema.” Disse, ritrovando il coraggio di prendere la parola. “Scusa, ma non ti seguo.” Ammisi, mostrandomi confusa e alla ricerca di spiegazioni. “Io non voglio più essere tuo amico. Io ti amo, Eleanor.” Confessò, pronunciando quelle parole con una naturalezza tale da sconvolgermi facendo vacillare qualsiasi certezza avessi avuto fino a quel momento. “Non puoi essere serio.” Biascicai, ancora in preda all’emozione, tanto intensa e forte da portarmi a tremare. Alle mie parole, Oliver non rispose, limitandosi a compiere un’azione che non fui assolutamente in grado di prevedere. Mantenendo il silenzio, si avvicinò lentamente, baciandomi con dolcezza per la prima volta. In quel momento, migliaia di emozioni differenti si rimescolavano nel mio animo. La felicità prevaleva su tutte, e la pioggia che aveva iniziato a scrosciare aveva perso di significato. Quel singolo e semplice istante appariva perfetto. Oliver aveva ammesso di voler far progredire la nostra amicizia fino a farla sbocciare in amore, e scusandosi con me, aveva avuto il coraggio di esternare i sensi di colpa che attanagliavano il suo animo sin dal nefasto giorno in cui l’impulsività aveva avuto la meglio su di lui. I suoi sentimenti per me erano per la sua gioia perfettamente ricambiati, e in quella piovosa serata primaverile, avevo scoperto l’amore oltre le apparenze.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVIII

Difesa morale

Un’ennesima settimana aveva raggiunto la sua fine, lasciando quindi il posto all’inizio di una nuova. Non era più domenica, e ciò significava che sarei dovuta tornare a scuola. Svegliandomi all’interno della mia stanza, ne uscii al solo scopo di raggiungere la cucina, per poi sedermi a tavola e consumare la mia colazione. Subito dopo, decisi di vestirmi. Non appena fui pronta, lasciai che il mio fedele Lucky mi guidasse nel viaggio fino a scuola, l’obiettivo che mi ero prefissata. Per pura fortuna, non arrivai in ritardo, ma al mio rientro in aula, qualcosa appariva diverso. Ognuno dei miei compagni manteneva il silenzio, e nessuno osava proferire parola. “Che succede?” chiesi, rivolgendomi alla mia amica Harriet e sedendomi al suo fianco. “È invidia, non credevano riuscissi a tornare.” Rispose, bisbigliando nella forse vana speranza di non essere sentita. Stranita da quelle parole, non fui in grado di capire. “Ti spiego dopo.” Continuò, per poi tacere e riprendere il lavoro lasciato in sospeso. Spinta dalla curiosità, posai una mano sul banco, e indagando, scoprii che quella appena iniziata era l’ora di disegno. Un singolo attimo svanì dalla mia esistenza, e chiedendo ad Harriet di prestarmi una matita, iniziai a creare uno dei capolavori per cui ero nota. In classe tutti mi conoscevano come una ragazza dolce e sensibile, che nonostante le sue limitazioni fisiche riusciva ad essere se stessa. In altri termini, apparivo ai loro occhi come una sorta di artista. Ad ogni modo, continuai a far scivolare la matita sul bianco foglio fino a che non mi sentii soddisfatta. “È davvero fantastico.” Disse Oliver, complimentandosi con me e regalandomi un luminoso sorriso. “Che cos’è, un autoritratto?” chiese, tacendo nell’attesa di una mia risposta. “Proprio così.” Risposi, sorridendo a mia volta. Due lunghe ore trascorsero lente, e con l’arrivo dell’intervallo, non mi mossi dal mio posto. Poco prima di andarsene e lasciarmi da sola, Oliver si avvicinò per parlarmi. “Fa attenzione, e sta lontana da Fiona.” Mi disse, fornendomi un utile consiglio e allontanandosi lentamente. Lasciandomi quindi scivolare in un silenzio così profondo da sfociare nel mutismo, iniziai a riflettere parlando con me stessa. “Chi è Fiona?” mi chiesi, per poi alzarmi in piedi e uscire dall’aula assieme a Lucky, sempre al mio fianco e pronto a difendermi. Come di consueto, camminavo lentamente, e una volta raggiunto il cortile, mi misi alla ricerca dei miei amici. La stessa, si protrasse per alcuni minuti, e improvvisamente, una voce nuova e sconosciuta attirò la mia attenzione. In quel preciso istante, perfino Lucky sembrò interessato. Ringhiando sommessamente, scelse di indurmi a seguirlo fino ad un angolo del cortile, dove alcune frasi mi colpirono riuscendo a ferirmi come mai prima. Quella che sentivo era una voce femminile, e stando a ciò che diceva, stava certamente parlando con il mio amato Oliver. Come ogni volta, rimanevo in disparte, nascondendomi come il sole dietro ai monti, riuscendo comunque a comprendere il significato delle orribili parole che aveva il coraggio di pronunciare in mia presenza. “Come fai ad amarla? È cieca, e non può neanche vederti.” Gli chiese, terminando il suo discorso con quella velenosa affermazione. “Tu non capisci. Io amo Eleanor, e i miei sentimenti non cambieranno mai.” Rispose, per poi tacere guardando la sua interlocutrice con occhi colmi d’odio. Dopo quelle parole, ogni mio singolo dubbio sembrò svanire nel nulla. Quella ragazza doveva forzatamente essere Fiona, e per qualche strana ragione, sembrava odiarmi. Il tempo scorreva, ed io rimanevo ferma. Non tentavo in alcun modo di avvicinarmi, poiché troppo spaventata da quelle che sarebbero state le conseguenze. Intanto, Fiona e Oliver avevano smesso di litigare, e voltatosi indietro, lui camminava con passi pesanti. Tenendo fede alla mia scelta, non muovevo un muscolo, ma una reazione di Lucky tradì le mie speranze. Iniziando a ringhiare e abbaiare, mi guidò verso l’odiosa Fiona, e in quel preciso istante, riuscì a liberarsi dal guinzaglio, per poi scappare via da me e decidere di morderla. Colta alla sprovvista, lo chiamai per nome, venendo tuttavia ignorata. Conoscevo il mio fido compagno quasi meglio di me stessa, e sapevo bene che la sua improvvisa disobbedienza era in qualche modo calcolata. Per tale ragione, non tentai in alcun modo di fermarlo, avendo quindi modo di sentire la mia aguzzina gridare per il dolore. In quel momento, Oliver si voltò dandole le spalle, e guardandola negli occhi per alcuni sporadici secondi, pronunciò una frase che dato il suo pacato carattere non credevo avesse mai avuto il coraggio di formulare. “È quello che ti meriti, e ora stalle lontana!” gridò, per poi scegliere di voltarsi e notare la mia presenza. “Mi dispiace che tu abbia dovuto subire tutto questo.” Mi disse, prendendomi delicatamente per mano e iniziando a camminare al mio fianco. Poco prima di muoversi, Oliver emise un fischio ben modulato, e voltandosi, il mio cane rispose a quella sorta di richiamo. Mi corse quindi incontro facendomi le feste, ed io lo accarezzai. Subito dopo ripresi in mano il suo guinzaglio, e stringendo la mano di Oliver, ripresi a camminare tornando in aula. Le restanti due ore di lezione mi apparvero infinite, ma nonostante tutto, scelsi di non lamentarmi. Ad ogni modo, le voci riguardanti ciò che era accaduto in cortile avevano già fatto il giro dell’intera scuola, e a tal proposito, le mie amiche Harriet e Silvia non facevano che elogiarmi. “Hai fatto la cosa migliore.” Dicevano, sorridendo e lasciandosi sfuggire delle piccole risate. “Qualcuno doveva fargliela pagare.” Rispondevo ogni volta, regalando loro dei sorrisi che ricambiavano senza alcun problema. I minuti scorrevano veloci, e improvvisamente, la mia concentrazione si spezzò come una fragile lastra di ghiaccio al suono dell’ultima campanella della giornata. Alzandomi in piedi, rimisi ognuno dei miei libri nel mio zaino, e dirigendomi verso l’uscita, incontrai mio fratello Kale. Istintivamente, mi prese per mano, e guidandomi con sapienza, mi condusse fino a casa. Una volta arrivata, lo ringraziai di ogni gesto affettuoso nei miei confronti, e lasciandomi stringere in un delicato abbraccio scivolai nel silenzio. “Grazie.” Sibilai infine, per poi sciogliere il nostro abbraccio come neve e raggiungere la mia stanza. La porta era rimasta socchiusa, e richiudendola, mi fermai a pensare. Non riuscivo davvero a crederci, eppure tutto era nuovamente cambiato. Dati i miei trascorsi, avevo finito per credermi inferiore ad ogni altro essere umano, ma dopo aver scoperto sentimenti come l’amore e l’amicizia, ero sicura di non dover più temere nulla è nessuno. Volevo davvero bene ai miei amici, e la loro presenza era per me una vera e propria panacea. Finalmente, e solo grazie al loro aiuto, avevo imparato ad agire per difesa morale.
 
 
 
Capitolo XIX

Realtà occulta

Un altro anno era lentamente passato, ed io vivevo la mia vita senza riserve, sfruttando ogni momento che mi veniva concesso. I miei giorni trascorrevano lenti, trascinando come prigionieri in catene, ed io continuavo a vivere. Quella odierna appariva come una giornata completamente ordinaria, ma svegliandomi con l’arrivo del mattino, compresi di sbagliarmi. Difatti, per qualche strana e a me ignota ragione, i miei genitori sembravano costantemente nervosi. Entrambi, evitavano sia me che mio fratello Kale, mantenendo il silenzio al solo fine di non parlarci. Il pomeriggio prese quindi il posto del soleggiato mattino, e dopo ore passate a fingere indifferenza realmente non provata, capii di averne avuto abbastanza. Chiamando a raccolta le mie forze, decisi di provare a scoprire la verità. Sapevo bene quanto i miei genitori mi amassero, ma il loro comportamento non faceva altro che insospettirmi. Il tempo continuò quindi a scorrere, e mentre mi facevo strada nel corridoio per raggiungere il salotto, ho sentito i miei genitori parlare fra di loro. Per pura sfortuna, non ho avuto modo di carpire la realtà dietro ai loro discorsi, ma nonostante tutto iniziavo ad avere dei sospetti. Non ne ero sicura, eppure sembrava che mi stessero nascondendo qualcosa. Abbandonandomi ad un cupo sospiro, tentai in ogni modo di distrarmi, e tale espediente parve funzionare. Mantenendo il silenzio e la calma, mi persi nel vasto mondo della lettura, e malgrado il passare del tempo, non riuscii a dimenticare quanto era accaduto. Le persone più importanti della mia vita erano impegnate in quella che riconobbi come una lite, e anche se per un singolo attimo, ebbi paura di perderle entrambe. La lunga lista dei miei pensieri galleggiava nella mia mente come migliaia di effervescenti bollicine, e respirando a fondo, ricordai la mia amica Silvia. Il suo volto comparve all’interno della mia giovane mente, e quasi per istinto, piansi. Ad essere sincera, non avevo mai neanche lontanamente avuto il coraggio di pensare ad una vita come la sua, costellata di dolore, paura e ferite, ma ora scoprivo con orrore tale possibilità. Non avevo che quindici anni, ed ero terrorizzata. Tremavo come una povera bestiola impaurita, e le lacrime mi rigavano il volto facendolo bruciare. Non passò molto tempo prima che i miei singhiozzi colmi di disperazione allertassero mia madre. ”Eleanor?” mi chiamò, sperando di riuscire ad attirare la mia attenzione. Alzando gli occhi, guardai dritto di fronte a me. “Stai bene?” chiese, tacendo nell’attesa di una mia qualunque risposta. “No.” Dissi, dandole le spalle e scivolando ancora una volta nel profondo baratro rappresentato dalla mia tristezza. “Cos’hai?” indagò, cingendomi un braccio attorno alle spalle e tentando di confortarmi. Faticando a respirare a causa del nodo di pianto che mi attanagliava la gola, non risposi, limitandomi a lottare per ritrovare la calma. In quel momento, sentii un rumore di passi troppo conosciuto per essere confuso. Mio padre aveva appena fatto il suo ingresso nel salotto di casa, e notandomi, aveva preso posto accanto a me. “Me ne occupo io.” Disse alla moglie, per poi tacere e guardarla allontanarsi. “Che succede? Vuoi parlarne?” mi chiese, posando il suo sguardo colmo di apprensione su di me. “Tu e mamma vi lascerete, vero?” singhiozzai, sperando in una risposta che fino a quel momento avevo sentito echeggiare nella mia mente. “Io e tua madre ti vogliamo bene, e questo non accadrà mai.” Rispose, regalandomi un sorriso e riuscendo a dissipare ogni mio dubbio. “Allora basta litigare, non mi piace per niente.” Continuai, con la voce rotta dall’emozione. Alle mie parole, mio padre non rispose, avendo come unica reazione quella di sospirare lievemente. Subito dopo, mi posò una mano sulla spalla, e abbracciandomi, mi fece sentire protetta. “Andrà tutto bene.” Sussurrò, poco prima di sciogliere quell’abbraccio e rimettersi in piedi. “Aspetta.” Lo pregai, afferrandogli un polso e costringendolo a voltarsi. “Devo dirvi una cosa.” Soffiai, per poi scegliere di tacere e concedermi del tempo per pensare. “Stiamo ascoltando.” Mi incalzò mia madre, facendomi quindi capire che la sua pazienza si stava esaurendo. In quel preciso istante, avvertii una strana sensazione di freddo in tutto il corpo, perdendo ogni capacità di muovermi o parlare. Era incredibile. Dopo anni passati a nascondere la verità, credevo di sentirmi finalmente pronta, eppure mi sbagliavo. Alzandomi in piedi, cercai di mantenere il mio seppur precario equilibrio, e trovando aiuto nel mio fedele Lucky, mi voltai senza dare spiegazioni. I miei genitori erano basiti. Nessuno dei due parlava, e l’eloquenza del loro mutismo era a dir poco incalcolabile. Ancora una volta, non desideravo che la solitudine. Stando al parere dei miei più cari amici, ero una persona forte e sicura di sé, ma in questo preciso istante, volevo semplicemente che qualcuno avesse il coraggio di prendermi per mano e guidarmi nel luminoso cammino che conduceva alla vera felicità. Inginocchiandomi, pregai perché la mia vita divenisse priva di ostacoli, e piangendo, mi addormentai. Avevo fallito nel mio misero intento, e la realtà che conoscevo, sarebbe stata per l’ennesima volta, occultata dal buio di una bellissima e stellata notte.
 
 
 
 
Capitolo XX

Debole ma pronta

Notte. Le stelle brillano nel cielo, il buio mi avvolge, ed io non sento nulla. La quiete è unicamente disturbata dal suono del mio respiro unito al ritmico battito del mio cuore. Sono sveglia e vigile, e un sogno mi ha spinta a riflettere. Non so bene che cosa mi accadrà negli anni a venire, ma nonostante tutto non ho alcuna voglia di arrendermi. La fioca luce della lampada sul mio scrittoio mi faceva compagnia, e sapevo bene che nel cassetto giaceva il biglietto regalatomi dalla mia amica Silvia. Sedendomi sul letto, strinsi i pugni, e investendo ogni singolo grammo delle mie forze nel farlo, mi concentrai, scegliendo quindi di ripetere la frase scritta in quel biglietto. “Sei te stessa, e sei tutti noi.” Mi dissi, respirando a pieni polmoni e sdraiandomi nuovamente. Appena un attimo più tardi mi lasciai abbracciare dalle calde coperte del mio letto, e ripetendo quella frase infinite volte, riuscii ad addormentarmi. Mi svegliai solo la mattina dopo, e alle prime luci dell’alba, preparai mentalmente una lista di cose da fare. Ad essere sincera, mi reputavo una persona giudiziosa, e avere degli obiettivi era una mia sorta di priorità. Come di consueto, Lucky dormiva al mio fianco, e saltando giù dal letto, gli feci qualche carezza. Per tutta risposta mi fece le feste, e sorridendo, raggiunsi la cucina, dove consumai la mia colazione senza dire una parola. Il silenzio presente nella stanza si ruppe come vetro non appena mia madre decise di accendere il televisore. Alle mie orecchie giunsero le notizie del telegiornale, ma una in particolare mi colpì, e fu come ricevere un pugno nello stomaco. Stando a ciò che sentivo, la polizia non riusciva ad identificare il ladro di un prezioso gioiello di inestimabile valore. Istintivamente, sussultai. Finalmente, tutto mi appariva chiaro. Gli avvenimenti della sera prima stavano lentamente acquistando un senso, ed io non avevo più motivo di temere il peggio. Mio padre era un ufficiale, e nonostante i suoi sforzi, non riusciva a risalire all’identità di quel criminale. “Cosa cercano?” chiesi, per poi tacere e attendere che la mia curiosità venisse soddisfatta. “Un anello.” Rispose mio padre, parlando in tono serio e al contempo perentorio, capace di chiudere all’istante qualunque discussione. Data la sua reazione, evitai di porre altre domande, e solo grazie all’aiuto di Kale, ebbi modo di prepararmi efficientemente per la scuola. Poco prima di uscire, aprii il cassetto della mia scrivania, e muovendo lentamente le mani, afferrai il biglietto scrittomi da Silvia. Agendo poi con estrema noncuranza, lo infilai nella tasca della mia giacca. Da ormai lungo tempo avevo perso la vista, e pur non riuscendo a leggere il contenuto di quel foglietto, sapevo di averlo ormai imparato a memoria, e camminando, ripetevo mentalmente quelle poche e semplici parole. Ad ogni modo, arrivai a scuola con un leggero ritardo, ma per mia fortuna nessuno sembrò accorgersene. Facendo il mio ingresso in aula, tentai di occupare il mio posto come ogni mattina, ma inciampando, caddi rovinosamente in terra. Aiutata da Harriet, riuscii ad alzarmi, e non appena lei mi prese per mano, avvertii la tensione presente nel suo corpo. L’aula era fredda, e qualcuno credeva che tremasse, ma pur non riuscendo a vederla, sapevo che non era così. Muovendo qualche incerto passo in avanti, barcollai leggermente, e tentando in ogni modo di mantenere l’equilibrio, mi sedetti senza proferire parola. La gamba destra mi faceva ancora male, e posando il muso sulle mie ginocchia, Lucky tentò di confortarmi. Sorridendo debolmente, mantenni il silenzio, e improvvisamente, qualcuno mi afferrò la mano. L’onestà mi caratterizzava, e facendone uso, avrei potuto letteralmente giurare di conoscere l’identità di quella persona. Era Oliver. “Stai bene?” chiese, mostrandosi evidentemente preoccupato per me. “Sono illesa.” Risposi, lasciandomi poi sfuggire una risatina. “Sai chi è stato?” continuò, ponendomi una seconda domanda e assistendo al mio conseguente mutismo. “È tutta colpa di Fiona.” Disse Harriet, prendendo la parola e facendo le mie veci. A quella risposta, Oliver non ebbe reazione dissimile dall’irrigidirsi, per poi darmi le spalle e fissare il suo sguardo altrove. Ascoltando il rumore dei suoi passi, compresi che si stava lentamente allontanando, e alcuni attimi dopo, una frase lasciò le sue labbra. “Non toccarla mai più.” Sussurrò, passandole accanto e facendo suonare quelle parole come una sorta di avviso per l’immediato futuro. Alcuni preziosi secondi passarono, e la voce di Oliver giunse alle mie orecchie. Ancora una volta, potevo esserne sicura. Mi amava, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggermi. Tutti i miei compagni di classe avevano imparato ad accettarmi, e nonostante la mia condizione, mi volevano bene. Tutti, ad eccezione di qualcuno. Fiona Layton. Figlia di un ricco magnate, priva di sorelle o fratelli e unica erede della fortuna di famiglia. Acida, vendicativa e senza cuore. Queste le uniche parole che Harriet e Silvia avevano usato per descrivermela. Inizialmente, mi ero mostrata restia a crederci, ma dopo quanto mi era accaduto, e dopo le angherie subite unicamente per mano sua, mi convinsi. Nella moltitudine dei pensieri presenti nella mia mente, il volto di quella ragazza appariva come una bionda e detestabile arpia. Non le avevo mai rivolto la parola, eppure ero ormai sicura di odiarla con tutte le mie forze. Con l’arrivo dell’intervallo, raggiunsi il cortile, e una volta trovato un angolo sicuro e lontano da occhi indiscreti, non mossi un muscolo. Per pura sfortuna, accadde ciò che non avrei mai desiderato. Fiona parve notarmi, e avvicinandosi, provò a dare inizio ad una conversazione. “Scusa per stamattina, non l’ho fatto apposta.” Esordì, tacendo nell’attesa di una mia risposta. Mantenendo il silenzio, ascoltavo la sua voce e ognuna delle parole che pronunciava, ma sentendomi ferita, chinai il capo scegliendo di ignorarla. In quel momento, Lucky ringhiò sommessamente. Con un gesto della mano, lo invitai a smettere, e alzandomi, cambiai subito strada. “Aspetta!” gridò Fiona, tentando di indurmi a voltarmi verso di lei. “Mi dispiace davvero.” Aggiunse, per poi scivolare nel silenzio e continuare a seguirmi. “Non ti credo.” Risposi, con la voce pervasa da una leggera aria di stizza. “Sto dicendo la verità.” Continuò, dando quindi inizio ad una patetica supplica. Continuava a seguirmi, e camminando, ripeteva quelle parole. Il tempo scorreva, e i miei nervi si stavano lentamente logorando. Improvvisamente, la sentii afferrarmi un polso, e in quel preciso istante, qualcosa in me scattò, portandomi a compiere un’azione della quale non mi sarei mai creduta capace. “Basta! Ne ho abbastanza di te!” urlai, per poi spingerla e lasciarla cadere in terra. Subito dopo, avvertii un dolore mai provato prima, e fuggendo, sparii da scuola. Per qualche strano motivo, avevo solo voglia di piangere. Ero ormai lontana dalla mia aguzzina, ma nonostante tutto, ero triste. Conoscendomi, sapevo bene di non essere una persona violenta, eppure avevo appena dimostrato il contrario. Evitando di arrestare il mio cammino, arrivai a casa dopo un tempo a mio dire infinito, e bussando alla porta, attesi che venisse aperta. I miei genitori mi accolsero in casa, ma piangendo li ignorai, e senza proferire parola, raggiunsi la mia stanza. Richiudendomi la porta alle spalle, mi sedetti sul tappeto a gambe incrociate, e frugando nel mio zaino, tirai fuori il giocattolo preferito di Lucky. Una vecchia e ormai sporca pallina da tennis. Giocai al riporto con lui per alcuni minuti, allo scadere dei quali, il mio cane scelse di accucciarsi accanto a me e tentare di consolarmi. I minuti continuarono a scorrere, e d’improvviso, non sentii altro che un rumore. Qualcuno bussava alla mia porta, ma nonostante tutto, non mi mossi. Avevo avuto una giornataccia, e non mi andava di vedere nessuno. Un singolo attimo scomparve dalla mia giovane e fragile vita, e la maniglia della porta si abbassò lentamente. “Posso?” chiese una voce a me conosciuta. “Va via, non voglio parlarne.” Risposi, ancora ignorando l’identità del mio interlocutore. “Non sono qui per questo.” Continuò tale individuo, avvicinandosi lentamente e sedendosi al mio fianco. D’improvviso, tutto parve cambiare. Quel soggetto non fece che stringermi la mano, e abbracciandomi, scelse di baciarmi. Evitando di sottrarmi a quella manifestazione d’affetto, non approfittai di quel momento, e dopo la fine di quel bacio, riconobbi il mio Oliver. “Perché sei venuto?” chiesi, stringendo la sua mano con forza ancora maggiore. “Sono qui per aiutarti.” Rispose, per poi tacere e guardarmi con gli occhi di chi ama. “Non vuoi dire la verità ai tuoi genitori?” continuò, attendendo in silenzio una mia qualsiasi risposta. “Cosa? Ma come…” biascicai, colta alla sprovvista da quelle parole. “Non importa.” Dissi infine, rialzando lentamente da terra solo grazie al suo aiuto.“Presto o tardi dovrai farlo.” Continuò, tentando in ogni modo di incoraggiarmi e aiutarmi a decidere. “Hai ragione, andiamo.” Risposi, annuendo e lasciandomi guidare fino al salotto. Una volta arrivata, sentii le voci dei miei genitori. “Ellie! Grazie al cielo sei qui! Cosa ti è successo?” chiesero entrambi, mostrando tutta la loro preoccupazione. “Qualcuno deve dirvi qualcosa.” Disse Oliver, introducendo quello che sarebbe stato il mio discorso. “Ci hai spaventati a morte.” Continuò mia madre, con la voce corrotta dal dolore che sapeva di provare. “Non volete capirlo, io ne ho abbastanza.” Esordii, per poi scivolare nel silenzio al solo scopo di riflettere. “Di che stai parlando?” intervenne mio padre, confuso e alla semplice ricerca di spiegazioni. “Continuate a vivere la mia vita al mio posto tentando di proteggermi, ma non riesco a sopportarlo.” Continuai, sentendo la mia voce spezzarsi e il mio respiro divenire irregolare a causa delle mie stesse lacrime, che bruciando, volevano unicamente abbandonare i miei occhi. “Noi ti vogliamo bene, e da quando sei diventata cieca…” balbettò la moglie, andando alla disperata ricerca di supporto da parte del marito. “Sono stanca! Stanca di tutto questo! Non lo sapete, ma vedere non mi manca!” urlai, avvicinandomi pericolosamente ad entrambi, e avendo quindi modo di notare l’accelerazione del mio battito cardiaco, ora divenuto così veloce da risultare udibile nel silenzio calato solo dopo le mie urla. Respiravo a fatica, e continuavo a tremare, ma nonostante tutto, non accennavo a smettere di lottare per me stessa. “Sapevate che sarebbe successo, e ora avete solo paura.” Conclusi, rimanendo poi ferma e inerme, intenta ad immaginare le espressioni dipinte sui loro volti, ora sicuramente colme di stupore, meraviglia, e soprattutto dolore. Una decina di preziosi secondi trascorse, e al loro scadere, piansi. Mi rifiutavo di crederlo, ma era ormai finita. La rabbia soffocata per tutto quel tempo aveva finalmente avuto modo di uscire, abbattendosi forse ingiustamente sulle anime e sui corpi dei miei poveri genitori, che muti dinanzi alle mie emozioni, non muovevano un singolo muscolo. Era ormai sera, e rintanandomi nuovamente nella mia stanza, non mi accorsi di essere seguita da Oliver. La porta era ancora aperta, e con il viso nascosto dal cuscino, desideravo di svanire come un etereo fantasma e venire inghiottita dall’oscurità. In completo e perfetto silenzio, piangevo. Oliver mi aveva ormai raggiunta, e guardandomi, si sdraiò accanto a me. “Non mi sopporto più.” Confessai, stringendomi a lui e sentendomi improvvisamente protetta. “Non dire così.” Mi ammonì, continuando a guardarmi e accarezzandomi i capelli. “È la verità. Non sono più me stessa, e spingo le persone a odiarmi.” Continuai, sentendomi sprofondare in una voragine di dolore e pentimento. “Ti sbagli, nessuno ti odia.” Rispose, cingendomi un braccio attorno alle spalle nel tentativo di confortarmi. “Prendi me, io ti amo.” Continuò, sorridendo debolmente e parlando con sincerità. “Sei il mio ragazzo, è scontato.” Replicai, tirando su col naso e non riuscendo a smettere di piangere. “Eleanor, ascoltami. I pensieri della gente non importano, io ti amo per la ragazza che sei. Debole ma pronta.” Quelle le ultime parole che mi rivolse prima di posare le sue labbra sulle mie e riuscire a calmarmi da quella sorta di incubo. Lentamente, mi addormentai, e lui con me. Poco prima di rispondere agli allettanti richiami del sonno, mi concessi del tempo per pensare. Conclusi quindi che il mio amato Oliver aveva ragione. Non ero sola, e nonostante la mia debolezza, mi ero mostrata pronta ad agire.
 
 
 
Capitolo XXI

Volti diversi

Il buon mattino mi salutava, e svegliandomi dal sonno in cui ero caduta la notte prima, lasciavo che il sole mi baciasse. Rigirandomi fra le coperte, notai poi l’assenza di Oliver. Accanto a me giaceva il mio cellulare. Acceso, vibrava. Afferrandolo, premetti un singolo tasto, e subito mi accorsi di aver ricevuto un messaggio vocale. “Ben svegliata, ci vediamo a scuola.” Queste le poche parole presenti in quel breve messaggio, caratterizzato dalla voce del mio fidanzato e da una sua piccola risata. Particolari che avevo imparato ad apprezzare e amare, e caratteristiche peculiari del nostro amore, atte a renderlo così speciale. Sorridendo istintivamente, strinsi il cellulare in mano, per poi scegliere di spegnerlo e fare del mio meglio per prepararmi con efficienza alla giornata che aveva appena avuto un lento ma magnifico inizio. Fui pronta dopo circa una ventina di minuti, e grazie a Lucky, mio fido compagno amante della corsa e delle tranquille passeggiate primaverili, arrivai appena in tempo, riuscendo quindi a mantenere intatta la mia reputazione di ottima studentessa. Una volta varcati i cancelli scolastici, decelerai il passo che tenevo, così da ritrovare la calma e non apparire stanca agli occhi dei miei amici. Alla mia vista, mi accolsero con calore e felicità, e tale accoglienza era con il tempo divenuta una consuetudine. Ad ogni modo, la mia quotidianità venne spezzata come un fuscello non appena incrociai Fiona. Appariva felice, e sembrava impegnata a parlare con un ragazzo più grande di lei. Sedendo nel mio banco, misi Harriet al corrente di tutto, e lei agì da sentinella, riuscendo quindi a farmi scoprire la verità. Il ragazzo con cui Fiona era intenta a parlare, rispondeva al nome di Arthur, e nonostante la differenza di età, secondo la quale lui non aveva che diciassette anni, i due sembravano andare molto d’accordo. Secondo alcuni, fra loro sarebbe presto sbocciato l’amore. Continuando ad indagare, avevo scoperto che anche Oliver lo conosceva, e che erano inoltre grandi amici. A quella notizia, avevo sorriso, e per tutta risposta Oliver mi aveva accarezzato la guancia. Riflettendo, e concedendomi quindi del tempo per pensare, ricordai le parole delle mie amiche, stando alle quali avrei dovuto rimanere a debita distanza da lei. “Non mi fido per niente.” Avevano detto all’unisono, quasi fossero state gemelle. In quel mentre, la lezione aveva ormai avuto inizio, ed io mi ritrovai a dover scrivere l’ennesimo e noioso tema. L’argomento centrale era stavolta la fiducia. Concentrandomi, iniziai a scrivere, azione per me tutt’altro che difficile avendo imparato e memorizzato ogni singolo movimento da compiere per cimentarmi nell’arte dello scrivere. A tal proposito, la cecità non mi era d’intralcio, e se anche lo fosse stata, sapevo che avrei fatto del mio meglio per impedirlo. L’intervallo arrivò quindi con quello che credetti essere un leggero ritardo, e come ogni mattina, trascorrevo il tempo che ci veniva concesso nel cortile della scuola. Volendo unicamente starmi vicino, Oliver seguiva il mio esempio, organizzando spesso partite di calcio con gli amici, alle quali assistevo immaginando ogni incontro e gioendo nel sentirlo esultare dopo ogni gol, a seguito del quale, si concedeva una pausa per raggiungermi e salutarmi. Tenendo fede a quella sorta di promessa, ero lì con lui anche oggi, e accanto a me c’erano le mie care amiche. Molto più lontano rispetto a noi sedeva Fiona, intenta a elogiare le qualità di quello che si diceva essere il suo ragazzo. Non era vicina a me, ma riuscivo a sentirla. La sua voce giungeva alle mie orecchie come odiosa, e una singola frase mi colpì come una freccia scagliata da un abile arciere farebbe con il proprio bersaglio. Per qualche strana ragione, parlava di me e Oliver. “Non so cosa trovi in lei. Non ci vede, e forse è così disperata da stare con lui.” Diceva, completando quei discorsi con un sarcastico e acido risolino, che aveva come unico effetto quello di farmi ribollire il sangue nelle vene. Non accennando a smettere di parlare, rincarava ogni volta la dose di insulti rivolti alla persona mia e del mio fidanzato, denigrandoci quindi senza pietà. La mia rabbia saliva, e i minuti scorrevano. Con il tempo, perfino Lucky sembrò accorgersene, tanto da ringhiare e tirare il guinzaglio al solo fine di raggiungerla e darle la lezione che meritava di ricevere. Regalandogli alcune nervose carezze, lo convincevo a desistere dal farlo, e improvvisamente, la situazione parve prendere una piega ben diversa. Salutando il suo gruppo di amiche, si avvicinò a me con un sorriso stampato in volto, e abbracciandomi, salutò perfino Lucky, che ringhiando nuovamente, rifiutò il suo tocco e le sue carezze. In quel preciso istante, la sua amata pallina scivolò fuori dal mio zaino, e pur sentendola rimbalzare, non fui in grado di riprenderla. Per pura fortuna, Lucky fu in grado di riportarla proprio come gli era stato insegnato nei suoi tempi da cucciolo, e porgendomela, mi diede modo di rimetterla al suo posto. Alzandomi lentamente in piedi, gli ordinai di aspettarmi, e sedendosi, il cane obbedì mostrandomi fedeltà assoluta. Subito dopo, mi avviai verso i bagni, dove scelsi di sciacquarmi il viso e le mani. La giornata che vivevo si stava rivelando faticosa, e speravo che la fredda acqua a contatto con il mio viso agisse da iniezione di vitalità. Fortunatamente, tale espediente parve funzionare, ma nulla potè prepararmi a ciò che sarebbe accaduto nei minuti a venire. Camminando, mi avvicinai lentamente alla porta, ma afferrandone la maniglia, la trovai chiusa. Chiamando a raccolta le mie forze, tentai di forzarla, ma invano. Ottenni come unico risultato quello di ferirmi una mano fino a farla sanguinare, e come ciò se non fosse abbastanza, le luci si spensero di colpo. In quel preciso istante, un’orribile sensazione di freddo mi attraversò il corpo, paralizzandolo e impedendomi qualunque movimento. Alcuni minuti passarono, e una voce familiare parve confortarmi. “Eleanor! Mi chiamò, attirando quindi la mia attenzione. “Oliver? Ti prego, aiutami!” risposi piangendo e lasciando che il terrore avesse la meglio su di me. Le lacrime mi bagnavano il volto, e mentre la mia mano continuava a sanguinare, trovavo sempre maggior fatica nel reggermi in piedi. Per pura fortuna, la ferita non era grave, ma nonostante tutto, bruciava. Intanto, il tempo continuava a scorrere, e improvvisamente, sentii abbaiare. A quanto sembrava, Lucky mi aveva raggiunta, e mugolando, tentava in ogni modo di aprire quella porta. I miei pianti non parevano aver fine, e nell’esatto momento in cui mi credetti persa, l’intera situazione si ribaltò completamente. La porta si spalancò, e voltandomi in direzione della stessa, corsi ad abbracciare Oliver. Ancora una volta, mi aveva salvata, e durante il viaggio verso casa, ebbi modo di pensare, imparando un’importante lezione che identificai presto come verità. Fiona era una ragazza spregevole e doppiogiochista, capace di mostrare in determinate occasioni, due volti completamente diversi. Quella era per me stata l’ultima goccia, e camminando, l’amore che sapevo di provare per Oliver si mescolava all’odio provato per lei, e una volta arrivata a casa, non feci che pensare a quanto la detestassi. Tale pensiero disturbò il mio sonno nelle lunghe ore notturne, e seppur con estrema lentezza, il mio animo divenne progressivamente più arido.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXII

Casi irrisolti

Il sole non era ancora sorto, e in questa così giocosa e luminosa primavera, il vento e la pioggia predominavano. Sveglia ormai da ore, sedevo accanto alla finestra del salotto, facendo lentamente scivolare le mie dita sul freddo vetro. Persa in una miriade di profondi pensieri, mi sentivo osservata, e riflettendo, mi accorsi di non essere sola. Kale era lì con me, ed io ero pensosa. Un uggioso pomeriggio aveva preso il posto del mattino, ed ero pensierosa. Un nuovo giorno aveva avuto inizio, e per l’ennesima volta in tre interi giorni, mio padre appariva nervoso. Il tempo continuava a scorrere, e il criminale che cercavano, colpevole del furto di un bene di inestimabile valore, era così scaltro e abile da riuscire a nascondersi letteralmente ovunque. Nessuna prova, nessun indizio. A detta di mio padre e dei suoi colleghi, si brancolava nel buio. Ad ogni modo, e per qualche strana ragione, l’uomo più importante della mia vita aveva ora nuova fiducia in me. Secondo il suo pensiero avrei potuto aiutarlo. Avevo ormai perso il dono della vista, ma la cosa non sembrava toccarlo minimamente. “Sarai la nostra chiave.” Mi disse, poco prima di rintanarsi nel suo studio e tornare a studiare metodi atti alla risoluzione di quel così arduo caso. Volendo unicamente evitare di disturbarlo, avevo scelto di rifugiarmi nella mia stanza, e senza che io avessi modo di accorgermene, Kale mi aveva seguita. “Devo chiederti una cosa.” Disse, avvicinandosi a me e sperando che potessi offrirgli l’aiuto di cui pareva aver bisogno. “Silvia è ancora tua amica, sbaglio?” chiese, dubbioso. “Sì, perché?” indagai, improvvisamente spinta dalla curiosità. “N-Niente.” Biascicò, facendosi sopraffare dalla vergogna. Evitando di intromettermi, rimasi in silenzio, ma non appena mi ritrovai da sola, dovetti ammettere che il comportamento di mio fratello mi straniva. Eravamo gemelli, tanto uniti da confessarci l’un l’altra qualunque segreto, ma ora, di punto in bianco, non era più così. Difatti, Kale appariva ora taciturno, e il senso di vergogna che colsi nella sua voce tremante come una foglia, non faceva che preoccuparmi. Che ci fosse sotto qualcosa? Dato il suo comportamento così ambiguo, non potevo saperlo, ma conoscendolo perfino meglio di me stessa, ero assolutamente certa della sua innata emotività. Sin da quando eravamo bambini, si mostrava forte e pieno di energie, ma con la crescita, e soprattutto in questo periodo, mio fratello sembrava essere diventato una persona a me estranea e completamente differente. Con quell’unico pensiero in testa, raggiunsi i miei genitori in cucina, trovandoli impegnati in una discussione. “Non si sa ancora niente?” chiese mia madre rivolgendosi al marito. “Nulla.” Rispose, parlando in tono mesto. “Lo prenderemo.” Continuò poi, battendo un pugno sul tavolo. Colta alla sprovvista da tale reazione, sussultai. Il mio flusso di pensieri si interruppe, e un bicchiere si ruppe cadendo in terra. Istintivamente, mia madre si avvicinò a me, e cingendomi un braccio attorno alle spalle, mi spinse amorevolmente fuori dalla stanza. “È meglio che tu vada.” Mi consigliò, sussurrando quella frase nel mio orecchio. Stringendomi nelle spalle, finsi irreale indifferenza, e ritornando al mio nido, fui accolta da Lucky. La sera stava arrivando, e come di consueto, aveva voglia di uscire. Sorridendo debolmente, gli regalai una veloce carezza, e afferrando il suo guinzaglio, realizzai il suo desiderio. Prima di uscire, avvisai i miei genitori, e una volta fuori casa, la passeggiata ebbe inizio. Il buio stava calando, e lentamente il freddo pareva raggiungere le mie ossa.Camminavo lentamente lasciandomi guidare dal suo volere, e improvvisamente, fui costretta a fermarmi. Sedendosi, Lucky rifiutò di avanzare, e alcuni istanti più tardi, una voce conosciuta mi inasprì l’animo. “Bella serata, non trovi Channing?” mi chiese quell’avida arpia, con un tono che potei unicamente definire sarcastico. “Buonasera anche a te, Fiona.” Risposi a muso duro, insistendo su quello che era il suo nome. Condividendo le mie sensazioni nei suoi confronti, il mio fedele compagno non ebbe reazione dissimile dall’avvicinarsi con fare minaccioso. La postura rigida, i muscoli in tensione, le labbra ritratte in un ringhio sordo. Una cosa era certa. Ancora pochi attimi, e avrebbe attaccato. Sfacciatamente, Fiona provò ad accarezzarlo, ottenendo come unico risultato quello di adirarlo ulteriormente. “Sta buono bello, non voglio farti alcun male.” Disse, nel mero e fallimentare tentativo di ammansirlo e riportarlo alla calma. “Sparisci, Layton.” L’ammonii, sputando senza ritegno il suo cognome. “Come vuoi, principessa.” Rispose, sempre sfoggiando quel tono di superiorità che mi urtava costantemente i nervi. Cambiando immediatamente strada, quella serpe sparì nel buio, e dandole le spalle, mi incamminai verso casa. In quel mentre, mi concessi del tempo per pensare. Principessa. Il nome con cui mio padre soleva chiamarmi da bambina, e che per qualche strana e a me ignota ragione, lei sembrava conoscere. “Com’era possibile? Come faceva a saperlo?” Due interrogativi che mi perseguitarono per quasi tutta la notte. Nella mia mente, un nuovo motivo per odiarla, nel mondo reale, un indizio che forse avrebbe aiutato mio padre.
 
 
 
 
Capitolo XXIII

Provvidenza

Ancora una volta, era notte fonda, e incapace di dormire, pregavo. Uno stratagemma che avevo impiegato per la prima volta nei miei anni da bambina, quando il desiderio di tornare a scrutare il mondo circostante e poter nuovamente giocare con i miei amici ardeva in me come fiamma viva. Quello era l’unico scopo delle mie continue e costanti preghiere, che con lo scorrere del tempo, sembravano sortire l’effetto sperato. Difatti, gli anni avevano continuato a passare, e la sensibilità dei miei occhi aumentava in maniera sempre più visibile. Ora come ora, ogni singola immagine all’interno del mio campo visivo appare sfocata, e le luci, assieme alle ombre e ai colori, sono le uniche cose che distinguo chiaramente. Una cosa è ormai certa. Seppur lentamente, io sto guarendo. Notandomi in ginocchio di fronte al mio letto, Lucky sgusciò fuori dalla sua cuccia, e una volta raggiunta la mia stanza, si avvicinò al solo scopo di far spuntare un sorriso sul mio volto. Accontentandolo, lo accarezzai lievemente, e rimettendomi in piedi, mi sdraiai nuovamente, per poi cadere in una profonda dimensione onirica dalla quale speravo di non fare ritorno. Dormii solo per le tre ore seguenti, e svegliandomi alle prime luci dell’alba, scoprii la presenza di Oliver nella mia camera. “Che cosa ci fai qui?” chiesi, guardandolo negli occhi e attendendo in silenzio una sua qualsiasi risposta. “Sono passato a salutarti, e tua madre mi ha lasciato entrare.” Rispose, regalandomi un debole ma convincente sorriso. A quella risposta, mantenni il silenzio. Alcuni istanti dopo, lo vidi afferrare il suo zaino. “Cosa c’è? Niente scuola oggi?” chiese, sorpreso dal mio comportamento ora privo della solita vitalità. “No.” Risposi, parlando in tono mesto. “I miei genitori continuano a litigare, ed io voglio vederci chiaro. Continuai, per poi scegliere di fissare il mio sguardo sul pavimento della stanza e lasciarmi avvolgere da un suo abbraccio. Sorridendo nuovamente, mi strinse a sè, pronunciando poi una frase che portò a galla dei vecchi ricordi. “Ci sono io con te.” Le semplici parole rivoltemi prima da Kale, e ora da lui. Il ragazzo che mi amava, e che aveva avuto il lodevole coraggio di confessarlo con il calcolato rischio di rovinare la nostra amicizia. A quelle parole, iniziai istintivamente a piangere, e in silenzio, mi lasciai baciare. Per la prima volta, avevo di nuovo fiducia in me stessa, e sapevo che tutto sarebbe cambiato con l’aiuto della rinomata divina Provvidenza.
 
 
 
Capitolo XXIV

Fredda come neve

Come di consueto, sono di nuovo a scuola. La terza campanella della giornata mi ha già logorato i nervi con il suo irritante suono, e per qualche strana ragione, si odono delle urla nel cortile. Rimanendo in disparte con la sola compagnia del mio fidato Lucky, sento qualcuno chiamarmi per nome. Ad essere sincera, riconoscerei quella voce fra mille. Sorridendo, Oliver mi chiede di raggiungerlo, e stringendomi nelle spalle, obbedisco a quella sorta di ordine. “Che sta succedendo?” Chiesi, confusa da quelle grida apparentemente prive di senso. “Sono appena arrivato, ma sembra che Arthur stia lasciando Fiona. A quelle parole, scivolai nel silenzio, non avendo reazione dissimile dal fermarmi a pensare. Conoscendomi, potevo tranquillamente reputarmi onesta, e in tali vesti, parlavo con me stessa, ammettendo di essere felice per ciò che le stava accadendo. Sin dal giorno in cui i nostri rispettivi cammini si erano incrociati, quella ragazza si era dimostrata unica fonte dei miei problemi, motivo per cui, la sua sofferenza non mi toccava. “Ben le sta.” Pensai, mantenendo il silenzio e sperando segretamente che il mio linguaggio corporeo non rivelasse i miei muti pensieri. Di lì a poco, la lite vera e propria. Una folla di ragazzi si era lentamente riunita attorno ad Arthur e Fiona, e impietriti, tutti noi ascoltavamo. “Sei davvero insensibile, come puoi farle questo?” esordì una delle sue amiche, sempre pronta a farle da spalla in qualunque situazione. “Già! Dopo tutto questo tempo!” gridò una seconda ragazza rivolgendosi al povero Arthur, anche lui pieno di rabbia. “Te l’ho detto un milione di volte! Non sono pronto per questo! Credevo di esserlo, ma non lo sono!” rispose lui, al solo scopo di difendersi da quelle infondate accuse. “È troppo tardi per fuggire, e lo sai bene! Mi avevi promesso che ce l’avremmo fatta insieme!” rispose Fiona, con i verdi occhi che sembravano lampeggiare a causa della sua stessa collera. “Non mi hai dato neanche il tempo di pensare! Mi dispiace, ma non  sono pronto a diventare padre! Gridò Arthur al suo indirizzo, rivelando solo in quel momento la vera causa del loro aspro litigio. Sembrava incredibile, eppure tutto corrispondeva alla verità. Fiona era in dolce attesa. In quel preciso istante, Oliver spostò il suo sguardo e la sua attenzione su di me, e dal suo eloquente silenzio, capii che non era affatto sorpreso. Ad essere sincera, non lo ero neanch’io. Non la conoscevo bene, ma data la sua lunga assenza da scuola, e l’incontro avuto con lei per strada qualche tempo prima, ero sicura che stesse certamente tramando qualcosa. “A quanto sembra hanno passato troppo tempo insieme, e ora c’è un bimbo in arrivo.” Mi sussurrò Oliver, parlando a bassa voce al solo fine di non essere sentito. “Vuoi dire che Fiona è incinta? Lo sapevo, è diventato ovvio.” Risposi, emulando il suo tono di voce e scivolando poi nel silenzio. “Il punto è che Arthur non vuole aiutarla, e Fiona è arrabbiatissima.” Disse una voce alle mie spalle, che non mi parve affatto di riconoscere. “Perché non sono sorpresa?” pensai, per poi abbandonarmi ad un cupo sospiro. “Lascia stare mio fratello, strega! Alcuni di noi vogliono una carriera prima di una famiglia!” intervenne di nuovo quella voce alle mie spalle, che ora comprendevo appartenesse ad Asia, sorella maggiore di Arthur.” Ha ragione, lascialo in pace!” disse un altro dei suoi compagni di classe, tentando unicamente di difenderlo. “Sai una cosa? Va bene! Non sei tu il padre!” urlò Fiona indignata, facendo di quella una quasi velenosa rivelazione. “Cosa? Non lo sono?” biascicò Arthur, che era bruscamente passato da iroso a incredulo. “E allora di chi è?” intervenne Asia, sempre tentando di proteggere il fratello. “Di chi altri se non suo? È proprio accanto a voi. Vero, Stevie?” rispose, ammiccando poi in direzione del ragazzo in questione. Spostando lo sguardo, Oliver ed io lo fissammo a nostra volta. Steven. Suo grande amico, molto socievole, e logorato da un unico difetto, ossia la timidezza. In quel momento, il ragazzo divenne oggetto della collera di Arthur. “Steven! Come hai potuto? Credevo fossi mio amico!” gli urlò, alterandosi di colpo e non badando al tono che utilizzò nel parlare. “Io? Noi non…Voglio dire… non è successo niente.” Piagnucolò Steven, iniziando inconsciamente a tremare come una foglia mossa dal vento. “Guardatevi! State litigando per me.” continuò Fiona, ridendo divertita. “Chiaro che non abbia fatto nulla, è troppo timido. Aggiunse, continuando poi a ridere sommessamente. “Smetti di scherzare e dacci una risposta!” gridò Asia, ora seccata dal suo continuo battibeccare. “Non credi sia irrilevante? Lui mi ha lasciata, quindi non importa.” Concluse, ridendo sarcasticamente e fingendo di arrossire. “Ne ha passate così tante che non lo ricorda neppure.” Osservò Oliver scherzando e scambiandosi con me un’occhiata d’intesa. Per pura sfortuna, quelle parole unite a quel comportamento provocarono l’ira della diretta interessata. “Sta zitto idiota! Va a giocare con la tua ragazza! Strillò in preda alla collera e al rancore. “Almeno lei non è come te.” Continuò lui, prendendo istintivamente le mie difese. “Cosa vorresti dire?” chiese Fiona, ora livida di rabbia. “Vieni via.” Sussurrai, afferrandogli un braccio e costringendolo a seguirmi. “Perché l’hai fatto?” mi chiese, non appena fummo abbastanza lontani da considerarci soli. “Ne avevo abbastanza.” Risposi, tenendo il capo chino e lo sguardo fisso sul terreno. “Non fa che offenderti, perché non reagisci?” continuò, cingendomi un braccio attorno alle spalle e mostrandomi tutta la sua preoccupazione. “Ho altro a cui pensare.” Ammisi, sospirando lievemente e tentando di ignorarlo. Alle mie parole, Oliver mantenne il silenzio, e con la fine dell’intervallo, tornammo subito in classe. Le restanti tre ore di lezione si susseguirono veloci, e all’uscita da scuola, Oliver si unì a me nel tragitto verso casa, e notai che camminando, appariva felice. “Hai saputo?” chiese, attendendo una mia risposta. “No, che c’è di nuovo?” indagai, spinta da una genuina curiosità. “La scuola sta organizzando un ballo studentesco. Che ne dici? Ti va di venire?” disse, completando quel discorso con una domanda. “Non ne ho voglia.” Risposi, sospirando lievemente. “Perché?” mi chiese poi, sorpreso dal mio comportamento. “Sai che non sono mai l’anima di una festa, e poi ci sarà anche Fiona.” Continuai, spiegandogli perfettamente il mio punto di vista. Comprendendo perfettamente, Oliver lasciò cadere l’argomento, e una volta arrivato davanti a casa sua, scelse di salutarmi. Con un gesto della mano, ricambiai il saluto, ed entrando in casa, mi richiusi lentamente la porta alle spalle. Avvertendo il mio arrivo, Lucky corse a farmi le feste, e accettando il suo affetto, lo accarezzai dolcemente. Un sorriso spuntò poi sul mio volto, e salutando i miei genitori, mi avviai verso la mia stanza. Una volta lì, mi ritrovai da sola. Respirando a pieni polmoni, ammirai la mia immagine riflessa nello specchio. Come al solito, nulla in me era cambiato. Difatti, non ero che la solare quindicenne dagli occhi color del piombo, ora più vivi che mai. Due iridi che faticavano a splendere, ma che stavano lentamente ritornando al loro sfavillio originario. L’ora di pranzo arrivò senza farsi attendere, e correndo in cucina, mi sedetti a tavola. Consumai il mio pasto senza proferire parola, e dopo aver finito, provai ad alzarmi. “Aspetta un attimo.” Disse mio padre, apparendo stranamente ansioso di parlarmi. Mantenendo il silenzio, mi bloccai, e guardandolo, mi interrogai riguardo al suo volere. Alcuni istanti svanirono, e lui mi pose una domanda, che ebbe come unico effetto quello di spiazzarmi. “Cosa puoi dirmi di Fiona Layton?” chiese, parlando in tono calmo ma al contempo serio. Concedendomi del tempo per pensare, studiai a fondo la questione, e riflettendo, diedi una risposta sincera ma enigmatica. “È fredda come neve.” Dissi, scegliendo poi di alzarmi e dargli le spalle al solo scopo di tornare nella mia stanza.
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXV

Rifugio perfetto

Quella odierna non è che l’alba di un nuovo giorno, e come ogni anno, nella mia scuola fervono i preparativi per il gran ballo studentesco. Di norma, il ballo è riservato agli alunni delle quinte classi, ma sin da quando la mia amica Harriet, eletta nostra capoclasse e rappresentante dell’intero Istituto, ha scelto di dare un netto taglio a quella che considera un’ingiustizia, le cose hanno preso una piega ben diversa. Ad essere sincera, sono davvero fiera di lei. Stando al piccolo segreto che aveva avuto il coraggio di confidarmi quando eravamo bambine, i suoi muscoli erano spesso rigidi, e lei amava scioglierli con qualche ritmato passo di danza. Un’attività che le era sempre piaciuta, e che con il passare del tempo aveva finito per diventare uno dei suoi hobby preferiti. Essere invitata a casa sua è sempre fantastico, poiché nonostante i mille problemi legati anche al suo aspetto fisico, lei è stoica, e continua ad andare avanti ignorando il giudizio della gente, che grazie al suo aiuto unito a quello di Silvia, anche io avevo imparato a lasciar perdere. Sotto tale aspetto, eravamo simili, e sin da bambine, continuiamo  tutte a ripetere, all’unisono come delle gemelle, che la nostra solida amicizia non avrà mai fine. Può sembrare sciocco e infantile, ma è la verità. Ora come ora, siedo nel mio banco di scuola, e attendo nervosamente l’intervallo. Scrivendomi un bigliettino, Oliver ha ammesso di dovermi parlare di qualcosa di davvero importante, e non volendo disturbare la lezione né rovinarmi la sorpresa, manteneva il silenzio. Sfortunatamente, le occhiate che gli lanciavo andando alla ricerca di spiegazioni non servivano a nulla, e quando finalmente la campanella si decise a suonare, mi affrettai a raggiungerlo. “Cosa dovevi dirmi? Chiesi, avvicinandomi a lui e lasciandomi travolgere dalla curiosità. In quel preciso istante, Oliver esitò per un singolo attimo, e deglutendo, scelse di parlarmi. “Vuoi venire al ballo con me?” chiese, sperando segretamente che accettassi. “Sarebbe un onore.” Risposi, sorridendo ed ergendomi sulle punte per baciarlo. Ricambiando quel bacio, Oliver mi strinse delicatamente la mano, e lasciandola andare, mi invitò a far finta di nulla. In quel momento, mi voltai dandogli le spalle, e stando alla sinuosa e sospetta ombra che vidi, compresi che qualcosa di orribile stava per accadere, e che qualcuno ci stava sicuramente osservando. La mia vista era offuscata, ma nonostante tale difetto, ai miei occhi giunse anche uno strano luccichio. Strofinandomeli a causa della mia stessa incredulità, mi sentii irrimediabilmente confusa, e tornando in classe, non riuscii letteralmente a staccare lo sguardo da Fiona. La conoscevo dal primo giorno di scuola, e grazie ad una serie di casi fortuiti, avevo avuto modo di scoprire ogni singola informazione sul suo conto. Ad essere sincera, non davo molto peso alla sua presenza in aula, e parlando sia con me stessa che con le mie amiche, ammettevo spesso di odiarla e di non voler mai avere nulla a che fare con una persona del suo calibro. Molte cose le erano accadute nell’ultimo mese, e a seguito della sua scandalosa rivelazione, perfino le ragazze del suo gruppo avevano scelto di abbandonarla, ribellandosi al suo volere e decidendo cosa fosse meglio per loro stesse. “Non riusciamo a sopportarti.” Le avevano detto, dandole poi le spalle e sparendo negli ampi corridoi scolastici. A quelle parole, non aveva risposto, e dai comportamenti che esibiva, avevo capito che nella sua vita tutto sembrava aver letteralmente perso di senso. Unicamente per colpa del suo carattere freddo e arido, era rimasta sola e priva di amici, e molte voci giunte al mio orecchio dicevano che la sua stessa famiglia aveva preso una terribile decisione. Harriet e Silvia mi avevano infatti messo al corrente della reazione dei suoi genitori al suo piccolo segreto, che avendo come unico risultato quello di portare disonore ad una famiglia agiata quanto la sua, l’aveva in altri termini rovinata, portandola di fronte alla collera del padre, che adirato, aveva prontamente deciso di diseredarla. Ricordo bene che a quella notizia, mi sentii sbiancare. Odiavo Fiona, eppure ora un pizzico di pietà nei suoi confronti si faceva spazio nel mio animo. Di conseguenza, il mio giovane cuore non faceva che allargarsi, ma per pura sfortuna tornava a stringersi e inaridirsi nell’esatto momento in cui ricordavo ogni sua cattiveria nei miei riguardi. Ero nuovamente piena di rabbia, e parlando unicamente con me stessa nel silenzio della mia aula scolastica, avevo imparato un’ennesima lezione, secondo la quale, lei sapeva sicuramente qualcosa riguardo all’infausto mistero di cui mio padre si occupava, e aveva trovato sia nel buio che nell’ombra, il rifugio perfetto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXVI

Raggio di luce

Sedici anni. Un’età che avevo finalmente raggiunto, e che ad essere sincera, mi rendeva fiera di me stessa. Ero ancora un’adolescente, ma stando al parere della mia intera famiglia, stavo lentamente iniziando a maturare. Sin da quando non ero altro che una bambina, i miei genitori non facevano altro che lodarmi per quanto fossi decisa e giudiziosa, e nonostante l’inarrestabile scorrere del tempo, continuano a farlo persino ora. Una nuova giornata di scuola aveva appena avuto fine, e nel pieno di un assolato pomeriggio, mi ritrovai sola e senza nulla da fare. Sospirando lievemente, mi sedetti accanto alla finestra, e con fare decisamente annoiato, trascorsi il mio tempo fissando le nuvole, che mosse dal vento, giocavano nel cielo. Lucky era al mio fianco, e il suo improvviso stato d’allarme mi riportò alla ragione. Ai miei occhi appariva teso e nervoso, e il suo sguardo fermo sulla porta di casa mi rese facile preda per la confusione che non tardò a sopraggiungere. Alcuni istanti dopo, il campanello della porta. Un suono che conosceva, e che con il tempo aveva imparato a segnalare. Alzandomi in piedi, scelsi di andare ad aprire, rimanendo esterrefatta dalla scena che ne seguì, e alla quale mi ritrovai costretta ad assistere. In quel momento, gli attimi che scorrevano senza apparente sosta, somigliando alle scene di un vecchio film, apparivano infiniti. Per qualche strana ragione, il cuore non faceva che battermi, e le mani tremavano. Chiamando a raccolta le mie forze e il mio coraggio, afferrai la maniglia, e abbassandola, aprii la porta. A me dinanzi, il mio amato Oliver. Data la mia condizione, non riuscivo a vederlo chiaramente, ma un singolo particolare destò la mia attenzione. I suoi occhi. Di un verde pallido ma incredibilmente piacevole, mi avevano rapita nel giorno del nostro primo bacio, e da allora non riuscivo a smettere di pensarci. Lo amavo davvero, e nonostante le maldicenze sul conto della nostra relazione, i sentimenti che provavamo l’uno per l’altra non accennavano a cambiare. “Va tutto bene?” mi chiese, con un filo di preoccupazione nella voce. “Mai stata meglio, perché?” risposi, incerta e dubbiosa. “Sembri strana.” Continuò, ridendo di gusto. “Scusa, è che oggi non sono in vena.” Dissi, parlando in tono mesto ed evitando il suo sguardo. “Cosa c’è?” azzardò, con la voce ancora corrotta dall’ansia. “I miei genitori litigano, Fiona mi odia e Kale si comporta in modo strano. Non riesco a capirci nulla.” continuai, sperando di non annoiarlo con quelli che erano i miei problemi. “Non disperare. Sorridimi, è il tuo compleanno!” Rispose, solo dopo essere entrato in casa scegliendo di accomodarsi sul divano. Subito dopo, cingendomi un braccio attorno alle spalle, tentò di confortarmi.Nel semplice tentativo di accontentarlo, dischiusi le labbra in un sorriso, per poi avvicinarmi e scegliere di abbracciarlo. “Grazie.” Sussurrai, poco prima di sciogliere quell’abbraccio e riuscire a ricompormi. “Di nulla, sai che sono sempre qui per te.” Disse, regalandomi un secondo sorriso e alzandosi lentamente in piedi. In quel preciso istante, notai che Oliver aveva la chiara e precisa intenzione di andarsene, e poco prima che riuscissi a fermarlo, si voltò verso di me. “Eleanor?” mi chiamò, destando quindi la mia attenzione. Sollevando lo sguardo, attesi che ricominciasse a parlare, e solo alcuni istanti dopo, due semplici ma al contempo importanti parole sfuggirono dalle sue labbra. “Ti amo.” Mi disse, parlando a bassa voce e rendendo quel momento perfino migliore di quanto già non fosse. Mantenendo il silenzio, non risposi, e guardandolo allontanarsi, non mossi foglia. Alcuni istanti passarono, ed io mi ritrovai sola. Il mio sguardo fisso sul pavimento, il silenzio padrone del soggiorno. D’improvviso, un nuovo particolare. Sul tavolo del salotto giaceva una piccola busta che non ricordavo di aver mai visto. Alzandomi in piedi, la presi in mano, per poi aprirla e scoprire che conteneva una lettera. Iniziando a leggerne mentalmente il contenuto, non potei evitare lo scorrere di alcune piccole lacrime, che inesorabilmente finirono per bagnarmi il volto. “Cara Eleanor, so bene cosa stai passando, ma sappi solo una cosa. Tutti noi siamo qui per te, e tu non sei da sola. Potrai perfino crederti matta, o pensare di esserlo, ma in realtà non è così. Qualcuno ti spingerà a compiere gesti involuti, ma tu non cederai, ne sono certo. Ricorda, sei te stessa, sei tutti noi, e sei il mio raggio di luce. Oliver.” A leggere quel nome, mi immobilizzai. Le lacrime continuarono a sgorgare, ed io non ebbi modo di fermarle. In quelle poche frasi, la nuda e cruda verità che circondava la mia vita. Nella mia mente, soltanto ricordi. Il dolore, la rabbia e i palpiti del mio stesso cuore, riuniti in me in quel preciso istante. Una realtà che avevo da lungo tempo appreso, ma che ora guardavo con occhi diversi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXVII

Indagini

In un giorno come quello appena spuntato come un delicato fiore con il sorgere del sole, so che non andrò a scuola. “Non oggi.” Ha detto mio padre, svegliandomi e parlandomi solo dopo avermi sentito chiedere spiegazioni a riguardo. Scivolando nel silenzio, evito di lamentarmi e puntare i piedi, e dopo una sana colazione seguita da una veloce doccia, salgo in auto assieme a lui. “Dove stiamo andando?” ho il solo coraggio e la forza di chiedere, attendendo una risposta. La stessa, tarda ad arrivare, poiché mio padre, impegnato a guidare con inaudita prudenza, stringe il volante con una forza incalcolabile, e ai miei deboli occhi appare distratto. Ad ogni modo, non mi ripeto, e il viaggio continua. Con la sua inevitabile fine, sento lo sportello dell’auto aprirsi, e la mano di mio padre intrecciarsi alla mia. “Seguimi.” Dice, per poi tacere e invitarmi a camminare al suo fianco. Annuendo, affretto il passo che tengo, e camminando, non ho il tempo di accorgermi di essere appena entrata in quello che sembra essere l’ufficio di mio padre. Una volta entrato, saluta alcuni colleghi. Uno di loro mi nota, e avvicinandosi, mi sorride debolmente. “Questa è mia figlia.” Disse mio padre, presentandomi al suo confuso compagno di lavoro. “Ti somiglia.” Osservò quest’ultimo, regalandomi un secondo sorriso. “È il ritratto di sua madre.” continuò mio padre, trovandosi a dover disilludere l’amico. “Come mai è qui con te?” chiese una sua collega, incuriosita dalla mia vista. “Lei sarà la nostra chiave.” Rispose, parlando in tono solenne. A quelle parole, la donna mantenne il silenzio, limitandosi a tornare a sedersi di fronte ad un computer. Stranita, mi guardai attorno, avendo quindi modo di capire cosa stesse accadendo. A quanto sembrava, l’intera squadra di poliziotti stava lavorando alla risoluzione del caso, e nonostante mio padre mi avesse rivolto quelle così rassicuranti parole, per qualche strana ragione sentivo di essere di troppo. “Sicuro che potrò aiutarti?” azzardai, dubbiosa. “Certo. Devi solo indagare.” Rispose, per poi tacere e studiare l’espressione dipinta sul mio volto. In preda alla confusione, lo guardai senza capire. “Sta solo attenta a non farti scoprire.” Aggiunse, guardandomi con aria seria. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, per poi scegliere di passare il resto della giornata al suo fianco. Mi venne quindi mostrato il suo ufficio, e posando il mio sguardo sulla solida scrivania presente nello stesso, notai una voluminosa cartella, piena di fogli, documenti e fotografie. In una piccola cornice, una foto mi ritraeva. A quella vista, sorrisi istintivamente, e spinta dalla curiosità, aprii quella cartella. Sapevo bene che non avrei dovuto farlo, ma ad ogni modo la mia mano fu più veloce della luce, e in un mero attimo scelsi di aprirla. Appena un attimo dopo, mi ritrovai a provare la sensazione peggiore della mia vita. Davanti ai miei occhi, una grossa pila di documenti. Ogni singolo foglio portava un nome che riconobbi subito. Stentavo a crederci, ma era quello di Oliver. Scioccata, non riuscii a parlare, e in quel momento le parole sembravano morirmi in gola. Tacendo la mia scoperta, andai in cerca di mio padre, e durante il viaggio di ritorno a casa, non gli rivolsi neppure un misero sguardo. Ad essere sincera, non mi reputavouna persona rancorosa, ma dopo quanto avevo appreso, le carte in tavola erano cambiate. La più incontenibile rabbia mi pervadeva, tanto da indurmi a detestare la mia immagine riflessa nello specchio del bagno. Fissandola, non facevo che piangere, e in preda alla disperazione, sferrai un pugno contro il vetro, rompendolo e ferendomi una mano. Aprendo poi il rubinetto, mi sciacquai subito la mano ferita, scoprendo che la fredda acqua mi pungeva la pelle come migliaia di finissimi aghi. Il tempo scorreva, e il mio sangue misto all’acqua stessa colava nel lavandino, fino a sparire nello scarico. Non appena fui soddisfatta di quel risultato, mi asciugai le mani, per poi scegliere di uscire dal bagno e raggiungere la mia stanza. Sedendomi sul letto, ricominciai a piangere, e sentendo i miei lamenti, Lucky si avvicinò per offrirmi conforto. Un suo leggero mugolio seguito da qualche sporadica leccata riuscì a risollevarmi il morale, e con l’arrivo della sera, consumai la mia cena a capo chino, evitando lo  sguardo di entrambi i miei genitori. “Che hai fatto alla mano?” sembrò chiedere mia madre, pur mantenendo il silenzio. Per tutta risposta la nascosi, e incrociando lo sguardo di mio padre, lo fissai con odio. Dopo la cena andai subito a letto, faticando a dormire a causa della mia scoperta. Quella notte, innumerevoli domande popolavano i miei sogni e la mia mente. “Era tutto reale? Oliver mi stava mentendo sin dall’inizio? Era davvero un ladro?” Tre quesiti che assieme a molti altri non trovavano risposta. Tacevo nel mio sonno, ma ero certa di una cosa. Avrei dovuto, anche da sola, continuare le indagini.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXVIII

Cuori d’acciaio

I giorni passavano, e malgrado l’incessante scorrere del tempo, le cose non sembravano cambiare. I notiziari non facevano altro che menzionare il nome di Oliver collegandolo al crimine su cui mio padre investigava, e il dolore continuava a perseguitarmi. Ero assolutamente certa che qualcosa non andasse. “Dev’esserci un errore.” Mi ripetevo, parlando con me stessa e torturandomi le dita rimanendo seduta nel mio banco di scuola. L’odierna lezione di storia mi appare infinita, e data la moltitudine di pensieri che galleggia nella mia mente, non ho modo di concentrarmi. Oliver è seduto al mio fianco, e mantenendo la concentrazione, non proferisce parola. Contrariamente a lui, Kale occupa il banco in fondo all’aula, e stranamente, la mia amica Silvia non riesce a staccargli gli occhi di dosso. A quella vista, sorrido debolmente, e tornando a fissare la lavagna, fingo indifferenza realmente non provata, e iniziando a prendere appunti, spero vivamente che ognuno dei miei ora tossici pensieri si dissolva come nebbia. L’intervallo arrivò quindi senza farsi attendere, e prendendomi per mano, Oliver mi incoraggiò ad uscire dall’aula. Seguendolo senza lottare, giunsi in cortile. “Ho una sorpresa per te, ma devi chiudere gli occhi.” Mi disse, riuscendo quindi a destare la mia attenzione e la mia curiosità. Lasciandomi sfuggire un sorriso, obbedii a quella sorta di ordine, e quando li riaprii, ebbi la fortuna e la gioia di scoprire la verità. Difatti, Oliver aveva in mano una piccola scatola, all’interno della quale giaceva un piccolo anello. Abbracciandolo, lo ringraziai del regalo, e lasciandomi baciare, lo sentii rivolgermi una frase che ebbe il potere di farmi innamorare di lui come la prima volta. “Ti amo.” Mi disse, per poi tacere e limitarsi a sorridere. Il tempo continuò quindi a scorrere, e trascorrendo il resto della pausa con lui, mi beai della sua presenza. Con la fine della stessa, tornammo in classe, e occupando il mio posto, scoprii che il comportamento di Silvia non era cambiato neanche di una misera virgola, e che ora Kale sembrava aver preso parte a quel muto gioco di sguardi. Silenziosa, sorrisi, e scambiandomi un’occhiata di intesa con Oliver, ottenni la sua approvazione. A quanto sembrava, era del mio stesso parere. Ad essere sincera, iniziavo ad avere non pochi sospetti circa un’eventuale infatuazione da parte di Silvia per mio fratello Kale, e a giudicare dagli sguardi che si scambiavano durante le lezioni, ora i miei pensieri venivano confermati. Ad ogni modo, ritornai a casa assieme a Kale e Oliver dopo il suono dell’ultima campanella scolastica, e nonostante il mio grave difetto della vista, potei letteralmente giurare di aver visto Silvia arrossire salutandoci. Volendo unicamente evitare di destare sospetti, mantenevo il silenzio fingendo che nulla fosse accaduto, e una volta arrivata a casa, i miei genitori invitarono Oliver a pranzo. Sulle prime, lui parve dubbioso, ma dopo solo alcuni attimi di incertezza, scelse di accettare. Subito dopo ci sedemmo a tavola, consumando il nostro pasto in religioso silenzio. Con la fine del pranzo, Oliver ed io scegliemmo di raggiungere la mia stanza, ma mentre eravamo nell’atto di alzarci, qualcuno suonò alla porta. Voltandomi verso la stessa, scelsi di andare ad aprire, e la scena che ne seguì mi tolse ogni parola di bocca. Di fronte a me una Silvia completamente diversa. Tremante, paurosa ed insicura, mi guardava con occhi da cerbiatto, e raccogliendo le sue forze e il suo coraggio, mi pose una domanda. “Kale è qui con te, giusto?” chiese, con un tono irrimediabilmente corrotto da quella che identificai come vergogna. Guardandola, notai che le gambe le tremavano, così come la sua naturalmente flebile voce. “Sì, perché?” risposi, ponendole un interrogativo a mia volta. “Dovrei parlargli, ed è importante.” Continuò, con le gote che le si arrossavano senza che lei potesse fare nulla per evitarlo. A quelle parole, non risposi, e con un gesto della mano, la invitai ad entrare. Muovendo qualche incerto passo in avanti, si decise a farlo, per poi scegliere di sedersi sul divano di casa. Non volendo farla attendere inutilmente, andai subito a chiamare Kale, spiegandogli l’intera situazione. Camminando, raggiunse la nostra amica nel soggiorno, e sotto consiglio di Oliver, decisi di lasciarli soli e tornare a concentrarmi su di lui. “Devo dirti una cosa.” Esordii, non appena arrivammo nella mia camera. “Parla pure.” Rispose lui, regalandomi un debole ma convincente sorriso. “È complicato da spiegare. Fammi solo una promessa.” Dissi, parlando in maniera confusa ed enigmatica. “Dovrai starmi lontano per qualche tempo, d’accordo?” continuai, sentendo il petto dolermi e il mio cuore spezzarsi come un debole fuscello. “Perché dovrei? Io ti amo!” Rispose, stranito dalle parole che avevo appena pronunciato. “Anch’io ti amo, ma la polizia ti cerca.” Ammisi, guardandolo negli occhi e sapendo di essere ormai sul punto di piangere. “Che stai dicendo? Non ho fatto niente!” si difese, divenendo quindi rigido come un’asse di legno. “Oliver, voglio crederti, ma ci sono le prove!” dissi, mentre il mio volto veniva solcato da calde lacrime colme di dolore. “Io ti amo!” ripetè, con la voce che si spezzò a causa dello sforzo. “Allora fallo per me. Se davvero mi ami, fammi questa promessa.” Dissi, avvicinandomi e lasciando che mi baciasse. In quel preciso istante, le nostre labbra si unirono, e i sentimenti che provai furono letteralmente indescrivibili. Appena un attimo dopo, Oliver decise di darmi le spalle, e aprendo la porta della mia stanza, scelse di andarsene lasciandomi da sola. Non potevo crederci. Ero attonita e senza parole. La notizia ci aveva sconvolto entrambi, ma a quantosembrava, Oliver ne era uscito sconfitto. Con fare sconsolato, sospirai. Avvicinandomi alla finestra, guardai fuori, e scoprendo che la sera era ormai calata prendendo il posto del pomeriggio, affidai un desiderio ad una stella. Passai quindi quella notte a pregare, e prima di cadere preda del sonno, potei dirmi sicura di una cosa. Oliver avrebbe superato quella prova per me, agendo unicamente in nome del nostro amore, dei nostri sentimenti, e dei nostri ormai feriti cuori d’acciaio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXIX

Messa alla prova

È di nuovo domenica, e sono in piedi di buon’ora. Una veloce doccia mi ha aiutato a riprendermi dal torpore in cui mi ero permessa di cadere durante la scorsa notte, ed io mi sento pronta al lento e magnifico inizio della mia giornata. L’autunno ha ormai bussato alle porte della mia città, e seppur lentamente, le foglie degli alberi perdono il loro colore, passando dal verde al giallo e al marrone. Colori che ad essere sincera gradisco, ma che nonostante tutto, portano alla mia mente il pensiero della morte. Ammirando il panorama dalla finestra della mia stanza, scopro che ogni piccola foglia, ormai vicina alla fine della propria vita, è mossa dal vento, e raggiunge il terreno fino a sdraiarcisi assieme alle sue compagne di sventura, formando quindi un magnifico tappeto. Le mie gote appaiono arrossate a causa del freddo, e mestamente, sospiro. Volendo unicamente tentare di risollevarmi il morale riportando un sorriso sul mio volto, Lucky mi si avvicina. Il suo abbaiare è soffocato dalla pallina da tennis che stringe fra i denti, e afferrandola, realizzo il suo desiderio. Chiaro è che voglia giocare, e raggiungendo il giardino di casa, non faccio altro che lanciargliela per un tempo che non ho modo di definire. L’erba è ormai assente, e il terreno è ricoperto da mucchi di foglie secche e scolorite, ma nonostante questo, Lucky riesce sempre a riportarmi la palla. Improvvisamente, sembra cambiare idea, e ignorandomi, torna in casa. Voltandomi nella sua direzione, lo guardo confuso, ma i suoi occhi brillano. Ad essere sincera, conosco il mio cane quasi meglio di me stessa, e il luccichio delle sue iridi marroni può avere un unico significato. Di sicuro ha in mente qualcosa. Alcuni secondi scompaiono dalla mia vita, e lui torna indietro. Come c’era d’aspettarsi, non è solo. Kale è con lui, e mi ha portato il suo guinzaglio. A quanto sembra, è ora di una passeggiata. Di fronte a tale capriccio, sospiro, ma al contrario di me, Kale sorride. Ora come ora è impegnato a sferrare calci ad un pallone, e pur mantenendo la concentrazione, riesce comunque a parlarmi. “Dagli un’occasione, vuole solo uscire.” Dice, mentre palleggia come un professionista. “Va bene.” Replico, con fare annoiato. “Andiamo.” Continuo, rivolgendomi a Lucky e afferrando il suo guinzaglio. Felice, il cane scodinzola, e iniziando a correre, mi costringe ad affrettare il passo. Alcuni minuti dopo ci ritroviamo in strada, e dato l’arrivo dell’autunno, il quartiere appare freddo e desolato. Il sole sta per calare, e la passeggiata prosegue. Il gentile vento mi sposta i capelli, e l’unico suono udibile risulta essere quello dei miei lenti ma decisi passi. D’improvviso, Lucky si ferma e abbaia contro un mucchio di foglie. Un comportamento alquanto strano da parte sua, ma per il quale esiste sicuramente una più che valida motivazione. Un piccolo ringhio segue quel latrato, e guardando meglio, noto un particolare. Un mucchio di foglie ormai rinsecchite in una giornata autunnale. Fin qui nulla di strano. Spinta dalla curiosità, lo fisso, e sobbalzando, lascio che l’ingegno mi sia d’aiuto. È troppo ordinato, ed è ormai ovvio che nasconda qualcosa. Quasi istintivamente, lascio andare il guinzaglio, e Lucky parte in avanscoperta. Continuando ad abbaiare, ora scava indagando come gli è stato insegnato, e ciò che mi porge subito dopo, non fa che alimentare i miei sospetti. Un anello. Un piccolo ninnolo che ai miei occhi appariva privo di qualunque valore, ma che a uno sguardo più attento del mio poteva certamente avere un altro significato. In quel preciso istante, un ricordo si palesò nella mia mente. Per qualche strana ragione, ero fermamente convinta di aver visto quella sorta di gioiello da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare dove. Arrestando il mio cammino, mi sforzai di riuscirci, e come i fotogrammi di una pellicola, le immagini relative a quel ricordo saettarono nel mio inconscio. Agendo quindi d’istinto, me lo misi in tasca, e correndo al fianco di Lucky, tornai subito a casa. Non appena arrivai, incrociai lo sguardo e il cammino di mio fratello Kale. “Dove vai?” chiese spontaneamente, notando la fretta che non avevo modo di nascondere. “Non ho tempo per spiegare. Dov’è papà?” risposi, parlando con velocità incredibile e non curandomi del tono che utilizzai nel farlo. “Nel suo studio, perché?” continuò, completando quella frase con una forse ovvia domanda. “Non ho tempo.” Ripetei, scansandolo e ponendomi come unico obiettivo lo studio di mio padre. Correndo, lo raggiunsi in poco tempo, e una volta arrivata davanti a quella porta, evitai perfino di bussare. Ero troppo arrabbiata per farlo, e ciò che avevo da mostrargli era decisamente troppo importante. “Eleanor! Cosa ci fai qui? Sai che non puoi entrare mentre sto lavorando!” mi redarguì mio padre, alzando gli occhi dallo schermo del suo computer quasi perennemente acceso. “Non mi interessa. Devi vedere una cosa.” Replicai a muso duro, per poi frugarmi nella tasca dei pantaloni ed estraendone quel famigerato anello. “Dove l’hai trovato?” mi chiese, facendosi improvvisamente serio. “Me l’ha portato Lucky, e ora sono due.” Dissi, con la voce corrotta da un perfetto mix di nervosismo, collera e dolore. “Com’è possibile?” indagò mio padre, apparendo ai miei occhi sempre più confuso.”Uno è mio, l’altro era in strada. Se lo analizzerai scoprirai la verità.” Continuai, sfidandolo con la voce. “Lo faremo domani, e tu verrai con me.” Disse poi, ponendo inaudita enfasi su quelle ultime parole. Per nulla intimorita, tenni lo sguardo alto in segno di sfida, e voltandomi fino a dargli le spalle, scelsi di andarmene. Con l’arrivo della notte, non dormii. Ero stanca, ma non certo fisicamente. Erano ormai passati sedici anni, ed io ne avevo abbastanza. La gente attorno a me non vedeva altro che la mia condizione, e la voce che possedevo sembrava non esistere. Il tempo continuava a scorrere, e la mia pazienza andava esaurendosi. Avrei trovato una soluzione e salvato Oliver dalla galera, poiché ero troppo stanca di essere messa alla prova dalla mia stessa vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXX

Reliquia d’argento

Anche oggi, per la seconda volta nell’intero anno scolastico, non sono a scuola. Nessuno conosce il vero motivo della mia assenza, e ad essere sincera, credo sia meglio che rimanga un segreto. Difatti, perfino i miei più cari amici sono all’oscuro di tutto. Fra le persone coinvolte in quella che è la realtà dei fatti, appare Oliver, il ragazzo che amo con ogni singolo e vitale battito del mio cuore, e che sin dall’inizio non avrei mai voluto trascinare con me nel buio. Attorno a me regna l’oscurità, e al mio fianco c’è mio padre, che con in mano una lente di ingrandimento, studia entrambi gli anelli che sono riuscita a fornirgli. Uno è mio, e l’altro non ha un proprietario, o almeno così sembra. Le ore passano, e la stanchezza inizia a farsi sentire. I miei nervi sono ormai logori, ma ad ogni modo non cedo, e rimembrando le parole presenti nella lettera scrittami da Oliver, mostro il mio stoicismo, fiera di andare avanti e agire per quella che reputo una nobile causa. Divorata dall’ansia, mi guardo nervosamente intorno, ben sapendo che il risultato che tanto attendo si paleserà presento davanti ai miei occhi. improvvisamente, mio padre sposta il suo sguardo su di me. “Avevi ragione.” Dice, con voce ferma e decisa. “Cos’hai scoperto?” chiedo, mentre la mia voce trema e minaccia di spezzarsi come uno dei fragili rami della quercia nel giardino di casa nostra. “Questo è l’anello incriminato.” Risponde, prendendolo in mano e lasciando che la luce di una piccola lampada lo colpisca. “Nient’altro?” azzardo, sperando di non chiedere troppo e non risultare impaziente.“Purtroppo no.” Afferma, parlando mestamente e rabbuiandosi di colpo. Nel tentativo di riportare la gioia sul suo volto, gli sorrido. “Hai fatto ciò che potevi.” Dico, guardandolo con occhi pieni di speranza. “Ora tocca a te.” Aggiunge, riponendo l’anello in una piccola busta di plastica, spesso usata nel suo lavoro per conservare prove o oggetti importanti. “Che devo fare?” indago, con la voce incrinata da una vena di incertezza. “Non ti resta che capire di chi sia, e poi riferirmelo.” Chiarisce mio padre, sorridendo a sua volta e riuscendo quindi a riacquistare il buonumore. Lasciandomi poi stringere in un delicato abbraccio, mi offro di custodire l’anello, e andando a letto, lo infilo sotto il cuscino. In fin dei conti, la mia camera è forse il posto più insospettabile, poiché nessuno oltre a me vi mette mai piede. Prima di dormire, rivolgo al cielo una muta preghiera, e chiudendo gli occhi, cado preda del sonno. Mi sveglio solo con l’arrivo del mattino, e alle prime luci dell’alba, sono già in piedi. La luce e le ombre combattono davanti ai miei occhi, e camminando, barcollo leggermente. Come è ormai solito fare, Lucky accorre in mio aiuto, e guidandomi, mi permette di arrivare fino in cucina, dove consumo la mia colazione come ogni mattina. Il tempo scorre, e non passa molto prima che io mi accorga di essere in ritardo per la scuola. Affrettandomi, riesco ad arrivare in tempo, e camminando per gli ampi corridoi scolastici, raggiungo la mia aula. Arrestando il mio cammino unicamente per respirare e regolarizzare il mio battito cardiaco, tento in ogni modo di calmarmi. Subito dopo faccio il mio ingresso in aula, e sedendomi, occupo il mio banco. Le lezioni hanno quindi inizio, e per qualche strana ragione, il tempo appare fermo. Il suono della campanella non fa che ripetersi, e ben presto assisto all’arrivo dell’intervallo. Lentamente, ognuna delle mie amiche lascia l’aula, così come il resto dei compagni. Tutti ad eccezione di qualcuno, ovvero Fiona. Rimanendo in piedi accanto al posto che è solita occupare, non fa che guardarsi intorno, scrutando fino in fondo ogni minuscolo angolo. Appare nervosa, ed io non oso avvicinarmi. Mantenendo la mia immobilità, non oso muovere un muscolo, e ignorandomi, lei sceglie di uscire e raggiungere il cortile, e senza volerlo, mi ritrovo a seguirla. Una volta fuori, finisco per assistere all’ennesimo dei suoi sbalzi d’umore. “Devo sapere chi è stato!” urla, parlando con il suo ormai conosciuto gruppo di amiche, che dopo averla abbandonata hanno deciso di tornare sui loro passi. “Che ti succede?” chiede una di loro, visibilmente preoccupata per lei. “Il mio anello! È sparito, e non riesco più a trovarlo.” Risponde, trovando non poche difficoltà nel controllare le sue stesse emozioni. A quelle parole, taccio istintivamente, e allontanandomi, mi assicuro di sparire dalla sua vista. So bene di avere in tasca l’oggetto del suo desiderio, ragion per cui, non mi resta che fingere indifferenza e sperare che non mi noti. Per pura sfortuna, il mio piano fallisce, e i nostri sguardi si incrociano. Accorgendosi della mia presenza, mi spintona con una forza tale da farmi perdere l’equilibrio. Incapace di difendermi, cado a terra battendo la testa, e qualcosa scivola fuori da una delle mie tasche. Quasi istintivamente, sposto lo sguardo e lo vedo. L’anello. Unico oggetto che non volevo trovasse, e che ora giace in terra accanto a me. Il dolore che provo è forte, ma rialzandomi faticosamente in piedi, non stacco lo sguardo dal terreno. Abbassandomi, tento di recuperarlo, ma qualcuno sembra avere le mie stesse intenzioni. Le gambe fanno ancora male, e chinandomi, rischio di cadere. Poi, quasi come se tutto facesse parte della scena più importante di un film, la buona sorte sceglie di sorridermi. Di fronte a me vedo Oliver, che regalandomi un sorriso raccoglie il gioiello da terra, e cingendomi un braccio attorno alle spalle, mi aiuta a riacquistare l’ormai persa stabilità. “Questo deve essere tuo.” Dice, aprendo una mano al solo scopo di mostrarmi quel piccolo e argenteo anello, ora sporco di terra. “Ti sbagli!” grida una voce alle nostre spalle. “Quel gioiello mi appartiene, e la tua ragazza è una ladra!” aggiunge quella stessa voce, che stordita da quanto accaduto, fatico a riconoscere. Voltandomi, scopro la vera identità del mio misterioso interlocutore. È Fiona. “Non parlarle in questo modo!” le urla Oliver, incrociando il suo venefico sguardo e tentando unicamente di difendere me e il nostro amore. “Sai che non farebbe del male a una mosca.” Aggiunge, parlando in tono serio e al contempo acceso e colmo d’ira. “Come fai a fidarti? Chi ti assicura che non menta?” risponde lei, rivolgendo con tali parole una grave offesa alla mia fragile persona.  In quel momento, sento il sangue ribollirmi nelle vene. La rabbia mi acceca, e so per certo che il mio autocontrollo sta scemando. Muovo alcuni passi nella sua direzione, ma vengo fermata. Oliver mi stringe un polso, e pur non facendo uso della parola, comunica. “Vieni via.” Sembra dire, tenendo gli occhi puntati su di me. Respirando a fondo, scelgo di dargli retta, e camminando al suo fianco, torno in classe. “Non finisce qui.” Scandisco in silenzio, rivolgendomi a quell’odiosa arpia. Ad ogni modo, e prima che abbia modo di accorgermene, le lezioni terminano, e abbandonando il mio posto, mi dirigo verso la porta dell’aula. Mi ritrovo poi in corridoio, ben sapendo che l’uscita della scuola è a pochi passi da me. In completo e perfetto silenzio, decido di varcarla, per poi unirmi ad Oliver nel tragitto verso casa. “Per fortuna sono arrivato in tempo.” Mi dice, accennando a parlarmi solo quando siamo ormai lontani da occhi indiscreti. “Non avrei voluto, ma lei è una persona così… Rispondo, bloccandomi al solo scopo di non perdere nuovamente il controllo. “Orribile?” azzarda lui, sorridendo leggermente. “lo so bene. La conosci, e purtroppo non cambierà mai.” Continua, concludendo quel discorso con tre parole capaci di risvegliare nella mia mente un ormai sopito interrogativo. “Fiona Layton, unica erede della fortuna di famiglia, ora diseredata a causa di un errore, sarebbe mai riuscita a perdonare se stessa e cambiare?” Non potevo saperlo, e ad essere sincera, non mi importava. Sapevo bene di stare tornando a casa in compagnia della persona che amavo, e nei momenti in cui eravamo insieme, ogni cosa sembrava passare in secondo piano. Amavo davvero Oliver, e stargli lontana risultava a volte perfino doloroso. Una volta arrivata a casa, andai subito in cerca di mio padre e mio fratello, e salutandoli, decisi di parlarci. Da quel momento in poi non feci altro che annuire e mostrare melliflui sorrisi. Con l’arrivo della sera, consumai la cena discutendo con i miei cari, e alla fatidica domanda riguardante la mia giornata scolastica, non potei fare altro che rispondere mentendo. Dissi infatti che tutto andava bene, avendo la fortuna ed il piacere di vedere un sorriso spuntare sul volto di mia madre. Portando quindi avanti quella banale conversazione, non aprii bocca sull’accaduto. I miei genitori odiavano la violenza, e conoscendoli, sapevo bene che venire a conoscenza del calvario della loro unica figlia li avrebbe distrutti. Volendo preservare l’incolumità dei loro animi, tacevo, e ritirandomi nella mia stanza, mi concessi del tempo per pensare. Seduta come al solito accanto alla finestra, mi frugai nella tasca della giacca, per poi estrarne l’ormai famigerato anello. Secondo alcuni un semplice ninnolo, ma per mio padre qualcosa di completamente diverso. Guardandolo, mi abbandonai ad un cupo sospiro, e chiamando a raccolta le mie forze e il mio coraggio, mi decisi. Io, Eleanor Channing, avrei presto o tardi scoperto i segreti di quella reliquia d’argento.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXXI

Ultimatum

Come si suol dire, il mattino ha l’oro in bocca, ma sfortunatamente, quello odierno non mi ha regalato altro che fredda pioggia. Cadendo, bagna il duro e inospitale manto stradale, e in questa così uggiosa domenica, non posso che accomodarmi accanto al caminetto. Kale è con me, e anche Lucky mi fa compagnia. Sdraiato sul pavimento, sembra dormire, ma il ritmico muoversi della sua coda mi suggerisce che è ancora sveglio. Gli occhi socchiusi, e l’aria stanca. Ad essere sincera non lo biasimo. Lo conosco bene, e reputandolo un cane molto attivo, non mi sorprendo nello scoprire che a volte preferisce riposare. Spinta dalla curiosità, e desiderosa di rompere il silenzio presente nel salotto di casa, mi rivolgo a mio fratello. “Cosa ti ha detto?” chiedo, dubbiosa. “Chi?” risponde, apparendo evidentemente confuso dalla mia domanda. “Silvia.” Chiarii, solo dopo aver trascorso almeno un minuto nel pensare a come porre in modo delicato la questione. Sai, sembrava così ansiosa di parlarti quel giorno.” Continuai, parlando in tono neutro e sperando segretamente che trovasse il coraggio di dirmi la verità. Con un nodo in gola, Kale non potè evitare di deglutire sonoramente, e guardandomi, si morse un labbro, quasi a voler impedire la fuga delle parole dalla sua bocca. “Ha detto di amarmi, ed io…” esordì, per poi scivolare in un silenzio dettato dalla vergogna che sapevo provasse in quel momento. “Tu cosa?” chiesi, incalzandolo e mostrandomi curiosa. “La amo anch’io, e l’ho invitata al ballo.” Rispose, con la voce rotta dall’emozione. A quelle parole, non risposi, e limitandomi ad abbracciarlo, gli posai una mano sulla spalla. “Sapevo che ce l’avresti fatta.” Gli dissi, sorridendo debolmente. Il nostro abbraccio si sciolse quindi come fredda neve colpita dai raggi del sole in primavera, e in quel preciso istante, un ricordo apparve nella mia mente. Il ballo. Kale aveva ragione. Mancava all’incirca un mese, e per una precisa ragione, non avevo alcuna voglia di andarci. Sapevo bene che Oliver mi avrebbe accompagnata, ed ero sicura di amarlo, ma dati i miei trascorsi, non avevo la benchè minima intenzione di parteciparvi. Troppe cose stavano accadendo, e il mio cupo umore non era certo adatto allo svago e al divertimento. Congedandomi da Kale, afferrai le chiavi di casa e il guinzaglio di Lucky, e uscendo, non ebbi cura di chiudere la porta. Un’improvvisa e giusta rabbia sembrava aver appena avuto la meglio su di me, e credevo fermamente che una passeggiata sarebbe riuscita a calmarmi i nervi. Poco tempo dopo mi ritrovai fuori casa, e fatti pochi passi, incrociai lo sguardo e il cammino del mio amato Oliver. “Che cosa ci fai qui?” gli chiesi, notando l’accelerazione del suo respiro unito all’aspetto della sua fronte, ora madida e imperlata di sudore. “Ti stavo cercando.” Biascicò, faticando a mantenere la calma. “Mi hai trovata, ma che cos’hai?” continuai, con un filo di preoccupazione nella voce. “Sono appena scappato da Fiona. Mi ha minacciato, e ha anche cercato di prendersela con te. Ho provato a difenderti, ma lei…” mi disse, interrompendo bruscamente quel discorso al solo scopo di riprendere fiato e ritrovare la serenità ormai persa. “Il suo anello. Sa che gliel’hai rubato, e lo rivuole indietro.” Confessò, non appena le sue stesse emozioni gli diedero modo di farlo. “Cosa? Non se ne parla!” sbottai, scoprendo che perfino Lucky, abbaiando furioso, aveva scelto di darmi manforte. “Eleanor, so come la pensi, ma potrebbe farti del male. Io non voglio che accada! Ti prego, ricrediti!” mi disse, afferrandomi per le spalle e scuotendomi nella speranza di riportarmi alla realtà. Ignorandolo, mi divincolai fino a liberarmi dalla sua presa, e convincendo il mio fedele compagno a seguirmi, gli diedi prontamente le spalle. In quel preciso istante, sentii le guance iniziare a bruciarmi a causa di alcune lacrime che desideravano unicamente uscire. Rompendo definitivamente gli argini presenti nei miei occhi, scoppiai a piangere, e voltandomi, fissai nuovamente il mio sguardo su Oliver, per poi pronunciare una frase della quale non potei che pentirmi nei minuti a venire. “Hai ragione! Gli gridai, vedendolo ormai lontano da me. “Ma cosa dovrei fare? Ridarglielo e lasciarla distruggere il nostro amore, la nostra vita e il lavoro di mio padre? Rispondi!” aggiunsi, ammonendolo severamente e sperando in una sua risposta. In quel momento, notai un repentino cambiamento nell’espressione di Oliver. Ad essere sincera, non l’avevo mai visto così adirato prima d’ora. Appariva teso, e per l’ennesima volta, il suo respiro era divenuto irregolare. Il ragazzo che amavo e sapevo di amare era ora diventato una persona completamente diversa. Pareva odiarmi, ed io me ne chiedevo il perché. Alcuni secondi passarono, e una singola frase mi spezzò irrimediabilmente il cuore. “Fa come vuoi, ma sappi che fra noi due è finita! Mi disse, urlando a pieni polmoni e scegliendo quindi di abbandonarmi senza fare ritorno. In quel momento, l’intero mondo sembrò crollarmi addosso. Ero rimasta sola, e perfino Lucky era fuggito via da me dopo le mie urla e la mia lite con Oliver. Improvvisamente, venni pervasa da un nuovo senso di rabbia, impotenza e infine rammarico. Che potevo farci? La situazione non aveva fatto altro che degenerare, e solo dopo un istante di riflessione, capivo che era colpa mia. Camminando lentamente, tentai di tornare a casa, ma il buio mi avvolse, rendendo quindi titanica tale impresa. Il silenzio della sera veniva spezzato dal suono dei miei passi, che riflettendo il mio umore, erano lenti e strascicati. Con l’amaro in bocca e nel cuore, fissavo il terreno. Nulla era più importante, e ogni cosa aveva perso il suo precedente e originario significato. Attorno a me non c’era che l’oscurità, e all’improvviso, un individuo alle mie spalle mi tappò la bocca, e stringendomi a sè mi impedì di muovermi. “Ridammi l’anello o morirai.” Disse quel losco figuro applicando una forza ancora maggiore sul mio collo, che ora doleva come mai prima. “Non lo farò mai.” Risposi a muso duro, sentendo che le parole mi si spegnevano lentamente in gola. In quel preciso istante, un suono a me sconosciuto, e un dolore incredibile. Qualcuno mi aveva colpito, e poco prima di svenire, guardai negli occhi il mio aguzzino. Una figura femminile, e decisamente troppo conosciuta. Fiona. Le forze stavano per abbandonarmi, e negli sporadici secondi che mi vennero offerti dalla fortuna, rivolsi a quella ragazza delle semplici ma al contempo enigmatiche parole. “Non è finita.” Dissi, venendo meno in quel preciso istante.
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXXII

Viva o morta

Ed io ero lì, sdraiata sull’asfalto, ferita e priva di coscienza. Per pura fortuna respiravo ancora, e il mio battito cardiaco era debole ma presente. Stavo bene, ma avevo bisogno di aiuto. Un immane sforzo fu ciò che mi permise di aprire gli occhi, e il resto delle mie energie parve svanire non appena provai ad alzarmi da terra. Colta alla sprovvista dalla mia stessa paura, temetti di cadere, e proprio quando pensai di scontrarmi con il terreno, tutto cambiò. Qualcuno era lì con me, ed io non ero più sola. Istintivamente, mi voltai. Lucky. Il mio fedele compagno era tornato da me, precipitandosi in mio soccorso. Dopo la caduta e il colpo ricevuto, faticavo a camminare e respirare, così scelsi di fidarmi del mio cane. “Andiamo.” Gli dissi, mentre sentivo la ferita alla testa bruciare come non mai. Obbedendo a quell’ordine, Lucky iniziò a correre, e abbaiando, provò ad allertare i passanti. A causa della mia più nera sfortuna, ogni singola anima parve ignorarmi, e d’improvviso, una stella decise di sorridermi. Mi ero ormai fermata, e per una sorta di miracolo divino, ero riuscita ad arrivare a casa. Respirando sempre peggio, chiamai a raccolta le mie forze, e bussando alla porta, pregai che qualcuno la aprisse. Preoccupati, entrambi i miei genitori accorsero, e nell’esatto momento in cui la mia ora piangente madre chiese spiegazioni, le forze che speravo di aver conservato scivolarono fuori dal mio povero corpo. Svenni fra le braccia dei miei genitori, e il tempo continuò imperterrito a scorrere. Non vedevo nulla, ed ero ormai incapace di sentire. Il mio cuore sembrava essersi fermato, e ritrovandomi in un apparente stato di narcosi, giacevo inerme. La mia amata madre non faceva che piangere, e cos1ì mio padre, adirato o forse in preda ai sensi di colpa. Non avevo modo di esserne sicura, ma c’era qualcosa nel suo comportamento che mi induceva a credere che si assumesse la colpa del mio incidente. Così, ad occhi chiusi e apparentemente priva di vita, non mi muovevo. Inutile è dire che venni subito portata in ospedale, dove i medici dissero che se avessimo tardato anche solo di pochi minuti, io non ce l’avrei fatta. Secondo il loro onesto parere ero ancora viva, ma unicamente grazie ad un intervento superiore alle loro capacità. “È entrata in coma, ma è stabile.” Disse uno dei medici, rivolgendosi a mia madre, ancora sconvolta per ciò che mi era accaduto. “Ce la farà?” chiese, asciugando ogni sua lacrima con un fazzoletto. “Solo il tempo potrà dirlo.” Proruppe un’infermiera, avvicinandosi ai miei genitori e guardandoli al solo scopo di infondere in loro la speranza necessaria ad andare avanti. A quelle parole, mia madre non rispose, e lasciandosi ricadere sulla sedia, pianse sommessamente. I medici la lasciarono quindi da sola, e tornando a dedicarsi a me, capirono di avere ben poche speranze. La mia vita era appesa ad un filo sottile, e avrebbe potuto spegnersi come una candela dalla cera consunta o una vecchia e ormai fulminata lampadina, ma io stessa non potevo farci nulla. Diciassette anni. Quella era la mia età, e ben più esiguo il numero riguardante la realtà che ora vivevo. Per quel che ne sapevo, pochissime persone sopravvivevano ad un trauma pari al mio, e molte di loro finivano per non rivedere la luce. Nel mio silenzio, rivolgevo mute parole a me stessa, e ammettendo di essere spaventata, mi feci più coraggiosa. La mia ora non era arrivata, e Fiona non mi avrebbe avuto viva né morta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXXIII

Ansia

Un mese. Quello era l’esatto lasso di tempo trascorso, ed io ero ancora incosciente. I minuti sparivano dalla mia esistenza, e attorno a me c’era solo il silenzio. Anche se lentamente, sapevo di star migliorando. Ora come ora, riuscivo a sentire il suono del cardiografo usato per controllare il mio battito cardiaco, così come le voci degli infermieri. In altri termini, sembravo aver ripreso conoscenza, ma nonostante tutto, ero ancora troppo debole per parlare, muovermi o aprire gli occhi. Vegetavo quindi in quel letto d’ospedale, respirando debolmente. Di punto in bianco, un rumore. Quella che sento è una porta che si apre, richiudendosi subito dopo. Qualcuno è appena entrato, e aprendo leggermente gli occhi, lo vedo. Oliver è venuto a farmi visita, e sfortunatamente, l’espressione dipinta sul suo volto, ora scuro e mesto, non era delle migliori. Qualcosa lo stava sicuramente turbando, ed ero certa di essere la causa del suo dispiacere. Muovendo qualche incerto passo in avanti, mi si avvicina, e con gli occhi velati dalle lacrime, sceglie di parlarmi. “Eleanor, va tutto bene? Perché non vuoi svegliarti?” mi chiede, sperando in una risposta che forse non avrà mai. “Da quando ti è successo tutto questo, cerco sempre di sorridere ed essere felice, ma in realtà fa male. Fa male! Ti piace vedermi soffrire?” continua, mentre la sua voce si incrina e spezza irrimediabilmente. In questo preciso istante, vorrei davvero rispondere, e donargli la speranza che da tempo sogna di ricevere, ma sono troppo debole, e non posso. Le lacrime iniziano quindi a bagnare il suo volto, e improvvisamente, la porta si aprì di nuovo. Cigolò sinistramente, e il padre di Oliver fece il suo ingresso nella stanza. “Non c’è nulla da fare figliolo. È troppo debole, e se la ami davvero, lasciala libera. “Non ti credo. Lei è forte, e si sveglierà.” Rispose, guardando fissamente il padre negli occhi. “Quando sarà pronta a vedere il mondo.” Aggiunse, avvicinandosi al mio letto per deporvi un fiore e posare le sue labbra sulle mie. “Io la amo, e credo in lei.” disse infine, scegliendo di seguire il padre e lasciare la stanza che occupavo. Seppur lentamente, la porta si richiuse senza un suono, e il silenzio fu riempito dal debole ma presente battito del mio cuore. Le forze che ancora possedevo si concretizzarono in poche e fredde lacrime che scendendo, mi rigavano le guance, rosee e paffute. Mantenendo la mia immobilità, non mossi foglia, e concedendomi del tempo per pensare, potei dirmi certa di una nuova realtà, secondo la quale, il mio incidente e la mia stasi forzata non stavano causando altro che dolore. Ero sveglia e vigile, ma come sempre, troppo debole per mostrarmi al resto del mondo. Poco prima di cadere in un profondo sonno e perdere nuovamente i sensi, pensai ai miei più cari amici. La bella Harriet, sempre al mio fianco sin dall’infanzia, e la dolce Silvia, ora fidanzata con mio fratello Kale, che segretamente aveva taciuto un’infatuazione per lei per quattro lunghi anni. Volevo davvero bene ad ognuno di loro, e con il passare del tempo, avevano finito per entrare a far parte della mia famiglia. Riflettendo, compresi di non poterli abbandonare. Sapevo bene che mi amavano, primo fra tutti il mio Oliver, ragazzo di cui mi ero innamorata alla giovane età di quattordici anni. Stavano insieme da ormai lungo tempo, e non volevo che la nostra relazione raggiungesse il suo culmine solo a causa mia. La mia assenza addolorava ogni persona a me vicina, e in altri termini, non desideravo altro che tornare a vivere ed essere me stessa, avendo quindi modo di rivedere la loro felicità e i loro sorrisi. A quanto sembrava, Oliver risultava essere la persona maggiormente colpita da quanto mi era accaduto, ed io non lo avrei abbandonato, riuscendo a riprendermi e guarirlo dalla sua ansia.
 
 
 
 
 
Capitolo XXXIV

Meraviglia

I giorni si susseguivano senza alcuna sosta, e da ormai tre mesi giacevo inerme in un arido e clinico letto d’ospedale, ottenendo come unico risultato quello di intristire ogni persona a me cara e vicina. Come al solito mi sentivo debole e priva di forze, ma sforzandomi mantenevo viva la speranza, esprimendo giornalmente il desiderio di restare in vita. Ad ogni modo, era di nuovo mattina, e con il sole che sceglieva di baciarmi, respiravo a fatica. La porta della mia stanza si apriva con un ormai solito cigolio, e una persona a me conosciuta, faceva il suo ingresso nella stanza. Aprivo gli occhi con lentezza, e guardandomi attorno in completo silenzio, rivedevo i miei amici. Oliver era in mezzo a loro, e come ero ormai solita notare, piangeva. Con lo scorrere del tempo, si era convinto del parere dei medici, secondo il quale non mi sarei mai svegliata, e per tale ragione, versava calde lacrime. Per pura fortuna, mi sentivo sempre meglio, e respirando a pieni polmoni, decisi di rompere come tagliente vetro il silenzio presente nella stanza. “Ragazzi…” li chiamai, sperando che nonostante la mia fievole voce riuscissero a sentirmi. A quella sorta di richiamo, Harriet rispose per prima. “Si sta svegliando.” Disse, attirando con un gesto della mano l’attenzione degli altri. Alla loro vista, sorrisi debolmente, e con un filo di voce, posi una semplice ma al contempo importante domanda. “Dov’è Oliver?” chiesi, lasciando che un singolo colpo di tosse facesse la sua comparsa. “Sono qui.” Rispose lui stesso, avvicinandosi e prendendomi la mano. “Dicevi sul serio? È davvero finita? Continuai, spostando il mio sguardo e la mia attenzione su di lui. “No, e sappi che in tutto questo tempo nessuno mi ha impedito di pensare a te. I medici credevano che non ce l’avresti fatta, ma io ero fiducioso. Io ti amo, Eleanor Channing.” Mi disse, stringendo la mia mano con forza ancora maggiore e ponendo inaudita enfasi su quello che era il mio nome. “Ti amo anch’io.” Risposi, per poi baciarlo e aver modo di capire quanto fossi realmente legata a lui. I nostri amici erano lì accanto a noi, e a quella vista, Harriet sembrò piangere. Non riusciva a crederci, ma la sua migliore amica era ancora viva e pronta ad affrontare il mondo. Le sue erano lacrime di gioia, e lasciando che si avvicinasse, la confortai. “Ti voglio bene.” Mi disse fra le lacrime, scegliendo quindi di stringermi in un fortissimo abbraccio. A quelle parole, non risposi, limitandomi a regalarle un sorriso. Alcuni istanti passarono, e qualcuno bussò alla porta. Rimanendo immobile, attesi che venisse aperta, e non appena accadde, sorrisi nuovamente. Di fronte a me non c’era che la mia intera famiglia, felice di rivedermi dopo quel così lungo lasso di tempo. “Ellie! Grazie al cielo sei salva!” disse mia madre, correndo ad abbracciarmi e stringendomi a sé come sapevo non avesse mai fatto. Mantenendo il silenzio, accettai quell’abbraccio, e dopo averlo sciolto, provai ad alzarmi in piedi. Entrambi i miei genitori mi sorressero per evitare che cadessi, e con l’arrivo di un’esperta infermiera, fui dimessa e dichiarata pronta per tornare a casa. Il viaggio in auto ebbe quindi inizio, e per qualche strana ragione, sembrò durare meno del previsto. Per la prima volta in quei tre mesi, ero di nuovo felice. Quello odierno, in cui il sole splendeva dando mostra di tutta la sua magnificenza, non era un giorno come gli altri. Era infatti una speranza, un miracolo, o in altri termini, una meraviglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXXV

Pioggia dopo il sole

Un nuovo mese aveva avuto il suo lento inizio, e la pioggia aveva appena smesso di scrosciare. Un coloratissimo arcobaleno era ciò che ora riuscivo a vedere. Tutti i miei colori preferiti in un sol colpo, ora davanti ai miei occhi. Quasi istintivamente, sorrisi, e spostando il mio sguardo sul vecchio orologio appeso al muro del salotto, tornai alla realtà. Il tempo scorreva, e l’aria era ancora umida. Il mio fedele Lucky dormiva, e improvvisamente, si svegliò di soprassalto. Qualcuno aveva bussato alla porta, e correndo in direzione della stessa, iniziò ad abbaiare. Spinta dalla curiosità, lo seguii, per poi notare la presenza di un particolare. Sul pavimento giaceva una busta da lettere, e avvicinandomi, tentai di raccoglierla da terra. Vedendomi fallire nel mio intento, Lucky scelse di aiutarmi, e sedendosi al mio fianco, mi porse quella lettera. Aprendola lentamente, scelsi di leggerne il contenuto. Non appena iniziai a farlo, sentii il sangue gelarmisi nelle vene. “Sai bene chi sono. Ti odio con tutta me stessa. La mia vita era molto migliore prima di incontrarti. Tutte le mie amiche mi hanno abbandonata, ed è solo colpa tua. In questa lettera non cerco il tuo perdono, ma sappi una cosa. Un giorno soffrirai tanto quanto me. Il dolore ti sovrasterà, e non potrai fare nulla. Ti toccherà rimanere ferma ed inerme a guardare mentre il tuo mondo va lentamente in pezzi. Solo allora capirai che miei sentimenti sono cupi, e in questo istante hai una sola possibilità. Ridammi il mio anello e nessuno si farà male.Tetre frasi che non ebbero potere dissimile dal far sopraggiungere in me una sorta di paralisi. Non sapevo davvero cosa fare, ed ero combattuta. Sapevo bene di non poterlo fare, e una scelta contraria mi avrebbe letteralmente condannata. Difatti, se avessi anche solo pensato di agire secondo il suo volere, la profezia scritta nella lettera si sarebbe avverata. Il mio intero mondo si sarebbe sgretolato sotto il peso di tale e importante decisione, il mio amore avrebbe avuto fine, e il nome della mia stimata famiglia sarebbe stato coperto dal fango. In altre parole, non avrei che sofferto. Ad ogni modo, non passò molto tempo prima che capissi chi era il mittente di quel così tetro e oscuro messaggio. Fiona. La stessa e orribile ragazza che avevo disgraziatamente conosciuto in una calda mattinata scolastica, e che affermava di odiarmi sin dal giorno in cui le stelle e la fortuna smisero di sorriderle. Secondo il suo pensiero, la colpa del suo dolore non era che mia, e nonostante la falsità delle sue credenze, sembravo non avere voce in capitolo. Qualcosa in lei non andava, e sin da quel così nefasto giorno, io ero divenuta il suo unico obiettivo. Il fulcro della sua rabbia, il bersaglio della sua cattiveria. Non riuscivo a crederci. Una sorta di maledizione incombeva su di me, e in un modo o nell’altro, avrei dovuto correre ai ripari e salvarmi. Il pomeriggio prese il posto del mattino, e andando alla ricerca di conforto, parlai con mio fratello Kale. Per pura sfortuna, anche lui aveva paura di Fiona, e temendo una sua qualsiasi reazione, sceglieva sempre di non toccare tale argomento. “Mi terrorizza, e potrebbe farci del male.” Diceva, iniziando inconsciamente a tremare ogni volta. “Che significa?” chiesi, dopo averlo sentito pronunciare quella frase per l’ennesima volta. “È determinata, e ti sta cercando. Non hai visto la sua lettera?” mi rispose, completando quel suo discorso con una domanda. “Cosa dovrei fare?” chiesi, confusa e stranita. “Ho le mani legate.” Aggiunsi, guardandolo con aria di resa. “Non è vero.” Disse Kale, avvicinandosi al solo scopo di confortarmi. “Puoi darle ciò che vuole e renderla mansueta.” Continuò, fornendomi un consiglio dalla dubbia e forse nulla utilità. “Non capisci? Non posso farlo!” piagnucolai, ben sapendo di essere ormai sul punto di scoppiare a piangere. Istintivamente, mi voltai verso la porta di casa, e invitando Lucky a seguirmi, ne uscii senza parlare. La lite appena avuta con mio fratello mi aveva appena resa muta, e piangendo, mi diressi verso casa di Oliver. Mi amava con ogni singolo battito del suo cuore, e nel giorno del nostro ufficiale fidanzamento, aveva solennemente promesso di proteggermi in ogni occasione. “Sei il mio raggio di luce.” Mi aveva scritto in una lettera colma di pensieri nati direttamente dal suo cuore. Ad ogni modo, raggiunsi la sua casa in compagnia di Lucky, lanciandomi fra le sue braccia non appena mi lasciò entrare. Devi aiutarmi!” gridai, avendo come unica reazione quella di abbandonarmi ad un pianto dirotto. “Calma e dimmi cos’è successo.” Disse, lasciando che mi sfogassi e cingendomi un braccio attorno alle spalle. “È tutta colpa di Fiona. Ho ricevuto una sua lettera, ed è stata categorica.” Risposi, con la voce irrimediabilmente corrotta dal pianto e da un nodo alla gola che mi impediva di respirare normalmente. Che vuoi dire?” mi chiese, andando alla ricerca di informazioni. “Ecco, leggila tu stesso.” Risposi, estraendo quella lettera dalla piccola borsa che avevo con me. Con estrema delicatezza, gliela porsi, e scivolando nel silenzio, scelsi di provare a ricompormi. I giorni passavano, e nonostante avessi ormai diciassette anni, la mia innata emotività finiva spesso per giocarmi brutti scherzi, portandomi al mostrare comportamenti unicamente riconducibili ad una bambina. Fra gli stessi si annoveravano le urla, i pianti e la caparbietà, che ad essere sincera, ero ormai stanca di tenermi dentro. “A quanto sembra rivuole il suo anello.” Disse Oliver, che nel frattempo aveva finito di leggere e interpretare quella così minacciosa lettera. A quelle parole, non risposi. Per pura fortuna, il mio silenzio apparve eloquente, e guardando Oliver negli occhi, non cercai che il suo conforto.“Credimi, dispiace anche a me, ma devi farlo.” Mi disse, alludendo all’unico passo che potevo compiere in tale situazione. “Ma questo significherebbe…” piagnucolai, venendo bruscamente interrotta e non avendo neanche il tempo di finire quella frase. “È la tua unica possibilità.” Continuò, riportandomi con quelle parole alla realtà che continuavo ad ignorare. “No.” Sussurrai, parlando con me stessa e conservando la segreta speranza che non riuscisse a sentirmi. “Mi hai convinta.” Gli dissi, parlando in tono mesto. “Andrà tutto per il meglio, Eleanor.” Disse infine, posandomi una mano sulla spalla ed enfatizzando quello che era il mio nome. Mantenendo il silenzio, lo ringraziai senza parlare, e voltandomi, scelsi di andare per la mia strada. Mi incamminai quindi verso casa, e arrivai appena prima che la pioggia iniziasse a scrosciare. Al sicuro nel calore della mia stanza, mi sedetti sul letto, e posando la schiena contro il muro, nascosi il volto con le mani. Non ero sola, e Lucky era lì con me, ma nonostante la mia tristezza, non volevo mostrargli le mie lacrime. Il vento spirava appena fuori dalla mia finestra, e quella che avevo dinanzi, era la pioggia dopo il sole.
 
 
Capitolo XXXVI
Inganno
La mattina iniziava con il pallido e timido sole, ancora nascosto da delle grigie e pesanti nuvole, pronte a scaricare pioggia e intemperie sulla mia amena e ridente cittadina. Alzandomi, fingevo felicità e indifferenza, e preparandomi adeguatamente, andavo a scuola. Il mio viaggio in pullman alla volta della mia destinazione appariva letteralmente infinito, e con il lento scorrere dei minuti, non facevo che guardare fuori dal finestrino. Ad ogni modo, e prima che avessi modo di accorgermene, raggiunsi la mia meta, e scendendo dall’autobus, varcavo i cancelli scolastici. Camminavo alla ricerca della mia aula, che trovai con grande facilità. In quel momento, la mia mente era satura di pensieri, che data la loro negatività, sembravano avere un peso incalcolabile, che incredibilmente, gravava sui miei stessi sentimenti. Come avevo avuto modo di capire, il minaccioso comportamento di Fiona nei miei confronti non aveva accennato a cambiare, e guardandola distrattamente, notai che non faceva altro che fissarmi con sguardo malevolo. “Ti odio.” Sembrava dire, mentre il suo intero corpo inviava chiari segnali. La postura rigida, gli occhi incatenati ai miei, il brontolio sommesso che emetteva e che riecheggiava nel silenzio dell’aula, tutto in lei urlava quelle due semplici parole. Racchiudevano un sentimento che ricambiavo completamente, e mantenendo la mia immobilità, tentai di restare concentrata. L’intervallo arrivò con il suono della terza campanella scolastica, e con esso la mia libertà. Abbandonando il mio posto, mi concessi del tempo per rimanere da sola, e guardandomi intorno, mi addentrai negli ampi e ariosi corridoi scolastici. Muovendo qualche incerto passo in avanti, sentii qualcosa, o meglio qualcuno, afferrarmi un polso e spingermi contro la lunga fila di armadietti che costeggiava il muro. “Dov’è il mio anello, Channing?” chiese, sputando il mio cognome. A quella domanda, che giunse alle mie orecchie come retorica, non risposi. Notando il mio a suo dire beffardo silenzio, Fiona strinse il pugno, mostrandosi intenzionata a picchiarmi. La paura mi portò a distogliere lo sguardo, e in quel preciso istante, vidi Oliver. “Aiutami.” Lo pregai, mantenendo il silenzio e sentendo i miei occhi velarsi di lacrime. Rimanendo fermo e inerme, Oliver si limitò a guardarmi, e prendendo parte a quel muto gioco di sguardi, ricordai le sue parole. “Devi farlo.” mi aveva detto appena un giorno prima. Seppur con estrema lentezza, quel ricordo spaziò nella mia mente, e divincolandomi dalla presa di Fiona, scelsi di arrendermi, o almeno così lei credeva. Nascondendo per un attimo la mano, mi sfilai l’anello regalatomi da Oliver, e aprendo il palmo, glielo mostrai. “Eccolo.” Dissi, abbassando il capo e portando avanti una falsa e mellifluamente triste commedia. “Non avrei dovuto rubartelo, mi dispiace.” Continuai, pronunciando quelle parole con la grazia di una vera attrice. Stavo palesemente fingendo, ma i miei compagni non sembravano averne la minima idea. Credevano infatti che mi fossi finalmente redenta, e in muta osservazione, continuavano a fissarmi increduli. Non avevano mai visto Fiona così arrabbiata. Conoscendola, sapevano bene quanto fosse incline all’ira, ma il suo livello di collera sembrava aver raggiunto una nuova vetta. Posando gli occhi su quell’anello, Fiona me lo strappò letteralmente di mano, e alzando i tacchi, si allontanò da me. “Non farti mai più vedere.” Sibilò guardandomi. “Come il tuo bambino?” le chiese Oliver, prendendo istintivamente le mie difese. “Cos’hai osato dirmi?” rispose lei, riversando la sua ira su di lui. “La pura verità. Hai mentito a tutti, e perfino ad Arthur!” urlò Oliver, scegliendo di difendere anche l’amico, che pur rimanendo in disparte, aveva sentito ogni parola. “Che cosa? Ma allora…” biascicò lui, sentendo la frase morirgli in gola come una tenera bruciata dal gelo invernale. “Esatto. Non ero incinta, e non ti ho mai amato!  Sappiate solo che vi odio tutti, e ora  sparite dalla mia vista!” gridò, rivelando a quella sorta di platea la nuda e cruda verità che per mesi aveva continuato a nascondere. Subito dopo, scelse di andarsene, e tornando in aula, non fece che ignorarci. Non appena fui libera dalle grinfie di quell’ignobile arpia, raggiunsi il mio amato Oliver, che abbracciandomi, scelse di confortarmi. “Perché hai ceduto? Era solo un ricatto.  Non pensi alla tua famiglia? Che cosa accadrà ora?” chiese, tempestandomi di domande durante il tragitto verso la nostra aula. Per sua sfortuna, nessuno di quegli interrogativi trovò una risposta. Scivolando nel mutismo, lo ignorai, e alterandomi di colpo gli diedi le spalle. Accelerando quindi il passo che tenevo, scappai via da lui, rifugiandomi subito nel bagno delle ragazze, unico posto in cui sapevo non sarebbe venuto a cercarmi. Stranito dal mio comportamento, Oliver chiamò più volte il mio nome, pur senza ottenere risposta. In quel momento, un’orribile dolore al petto mi stava debilitando, e a causa dello stesso, un’azione semplice e naturale quanto respirare mi fu ardua e difficile. Odiavo ammetterlo, ma Fiona aveva ragione. La quasi soprannaturale profezia nella sua lettera si stava lentamente avverando, e distrutta dal dolore, non ero pronta a rivelare il mio inganno.
 
 
 
 
 
Capitolo XXXVII

Salva ma in catene

È ancora notte fonda. Sono sveglia, e per ingannare il tempo e tentare di sconfiggere l’insonnia che mi tiene sveglia, ammiro la luna e le stelle nel pallido ma scuro cielo di un azzurro dolce ma al contempo penetrante. Parlando con me stessa, le conto in silenzio, e sbadigliando, inizio a prendere sonno. Ad ogni numero corrisponde un timido sfavillio, e ad ogni minuto, un mio battito di ciglia. Volevo solo dormire, perdere conoscenze nelle lunghe ma esigue ore notturne, lasciarmi andare e svegliarmi con il mattino. Una missione a mio avviso impossibile, poiché un sogno ricorrente mi spingeva a tornare alla realtà. Non vedevo altro che visi conosciuti ma orrendamente deturpati dal buio. Forse fantasia, forse paura, o ancora premonizioni. Non lo sapevo, ma ero spaventata. Ricominciando a comportarmi da bambina, lasciai la mia stanza, raggiungendo subito quella di Kale. Il mio passo, seppur felpato, poteva essere udito nel silenzio della notte, e alla mia vista, mio fratello appariva confuso. “Non dormi neanche tu?” chiese, sbadigliando e sorridendo debolmente. Silenziosa, accennai una negazione scuotendo il capo, e disturbando la quiete presente nella nostra umile dimora, Kale mi parlò. “So cosa stai pensando, è stata Fiona, non è vero?” disse, riuscendo letteralmente a leggermi nel pensiero e terminando quel discorso con una forse ovvia e retorica domanda. “Come lo sai?” chiesi, confusa e stordita dal sonno che era ormai vicino a raggiungermi e prendermi con sé per poi trascinarmi in una profonda dimensione onirica. “Sei mia sorella, so tutto di te.” Rispose, lasciandosi poi sfuggire una piccola risata. “Silvia me ne parla molto, sai? Dice che è meglio starle lontano.” Continuò, guardandomi in attesa di un mio parere. “È perfida, fredda e calcolatrice.” Dissi, parlando a denti stretti e tentando in ogni modo di mantenere la calma. “Dai, ora basta. Andiamo a dormire.” Disse, posandomi una mano sulla spalla nel tentativo di guidarmi nella tetra oscurità. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, e una volta arrivata nella mia stanza, lo vidi sdraiarsi in terra. “Passami la coperta, oggi dormo qui.” Disse, poco prima di abbassare il capo e abbandonarlo sul suo morbido cuscino. Obbedendo a quella sorta di ordine, afferrai la coperta ripiegata sul mio letto e lasciai che l’afferrasse, per poi sdraiarmi a mia volta e riuscire finalmente a dormire. Per qualche strana ragione, la presenza di mio fratello agiva da antidoto e da panacea contro la mia insicurezza. Dopo quanto era accaduto, dovetti ammettere di provare paura nel dormire da sola, ma la sua presenza nella mia camera rendeva tutto diverso. Potevo fidarmi e dirmi tranquilla. Scivolando poi nell’incoscienza data dal sonno, mi svegliai solo con l’arrivo del dorato mattino. Ergendosi nel cielo, il sole aveva deposto un bacio sulla mia guancia, e muovendo lentamente un braccio, mi schermivo il viso. Dato il mio difetto della vista, una luce troppo forte e diretta avrebbe potuto risultare dannosa, così come lo era stato ormai anni addietro. La mia giornata aveva avuto inizio, così come le mie giornaliere mansioni. Ero impegnata a prepararmi per la scuola, e all’improvviso, un pensiero mi balenò in mente per pochi secondi. Per qualche strana ragione, potei chiaramente vedere e leggere una parola. Verità. Quello il lemma impresso nella mia mente come neri caratteri nella bianca pagina di un libro. Mi perseguitava senza che io potessi fare nulla per impedirlo, e al mio arrivo a scuola, mi decisi. Avrei confessato ogni cosa ad Oliver. Era il mio ragazzo, e avevamo un rapporto solido e stabile da ormai quasi quattro anni, ragion per cui, sapevo bene che continuare a fingere e mentirgli non avrebbe avuto senso. “Fatti coraggio.” Mi disse Harriet, dandomi una pacca sulla spalla. “Siamo con te.” Aggiunse Silvia, sorridendo e dando manforte all’amica. Accettando i loro consigli, presi fiato, e muovendo qualche incerto passo in avanti, scelsi di fare ciò che andava fatto, ovvero confessare. “Oliver, devo parlarti.” Esordii, fermandomi al solo scopo di respirare e organizzare le idee. In fin dei conti, quello che stavo per dirgli era assolutamente serio ed estremamente importante, e ad essere sincera, non avrei mai voluto che ci fossero fraintendimenti di sorta. “Vedi, l’altra mattina io…” continuai, venendo quindi bruscamente interrotta dall’odioso e ridondante suono della campanella che annunciava l’inizio delle lezioni. “Me lo dirai più tardi.” Mi disse Oliver, sorridendo apertamente. A quelle parole, mi limitai ad annuire, ma quel giorno, la sfortuna sembrava seguire ogni mio passo. Difatti, e senza che avessi alcun modo di impedirlo, accadeva sempre qualcosa di diverso, che puntualmente mi negava la possibilità di parlare con Oliver. Ad ogni modo, e forse per l’intervento di una forza a me nettamente superiore, riuscii a parlargli nel pomeriggio. Difatti, aveva deciso di passare il resto della giornata con me di sua spontanea volontà, ed io non potevo certo non realizzare tale desiderio. “Che cosa c’era di tanto importante?” mi chiese, dopo aver passato all’incirca un’ora a spiegarmi il corretto procedimento di risoluzione di un problema matematico. “Non posso dirtelo.” Risposi, timorosa e ora priva di coraggio. “Perché?” chiese, confuso e stranito dalle mie parole. “Ti conosco troppo bene, e ti arrabbieresti con me.” dissi, con la voce che tremava alla pari con il mio giovane corpo. “Fallo e basta. Starai subito meglio.” continuò lui, incoraggiandomi ad aprirmi come una porta o uno scrigno contenente un prezioso tesoro. “Fiona ha il mio anello.” Confessai, parlando ad una velocità tale da non riuscire a comprendermi. “Cosa significa?” chiese, alterandosi di colpo e apparendo ai miei occhi visibilmente iroso. “Tu eri lì con me, e lei mi stava provocando, non volevo lasciarla vincere e così le ho dato il mio. Possiamo ancora farcela.” Dissi piangendo e sentendo le lacrime rigarmi il volto sfigurandolo come profonde ferite. Alle mie parole, Oliver mantenne il silenzio, e nulla potè prepararmi alla sua reazione. Avvicinandosi, scelse di baciarmi, e non rinunciando al suo affetto, lo strinsi a me. “Lo sapevo. Non ti sei arresa, e questo è ciò che conta.” Mi disse, non appena quel bacio ebbe fine. “Non avrei mai potuto farlo.” Risposi, sorridendo leggermente. Ad ogni modo, ero finalmente sicura di ciò che provavo. Oliver mi amava davvero, tanto da non battere ciglio di fronte ad una notizia di quel calibro. Chiaro era che avevo lasciato nelle mani di quell’arpia una parte di me, ma la cosa non mi toccava. Ero ferita ma salva, e un giorno o l’altro, Fiona avrebbe vissuto in catene. In altri termini, non avrebbe mai più fatto del male ad anima viva.
 
 
 
 
Capitolo XXXVIII

Di fronte alla legge

Dodici lunghi e interminabili mesi erano ormai passati, ed io sapevo bene di aver impiegato tale lasso di tempo nel seguire le tracce di una ladra che rispondeva ad un nome capace di lasciarmi l’amaro in bocca. Fiona Layton. Ricca, priva di cuore e scrupoli, era riuscita a mettere le mani su un anello custodito nel museo cittadino. Una preziosa reliquia, un tempo appartenuta ad una principessa. Con lo scorrere del tempo, aveva avuto modo di capire che la mia intera famiglia le dava la caccia, e grazie a molteplici stratagemmi che richiedevano l’uso della sua innata crudeltà, era sempre riuscita a fuggire. “Non oggi.” Queste le parole che mi ripetevo tentando di alzarmi da terra. Quello odierno appariva come un giorno di scuola assolutamente normale, eccetto per la stessa Fiona, insolitamente nervosa e desiderosa di solitudine. Per qualche strana e a me ignota ragione, non voleva avere niente e nessuno intorno, e tale discorso poteva essere applicato anche alle ragazze che tempo addietro formavano il suo gruppo. In seguito a numerosi litigi, l’avevano abbandonata, e spezzando le metaforiche catene che le tenevano ancorate al suo volere, erano riuscite a liberarsi e scegliere di vivere ognuna la propria vita. Ad essere sincera, non conosco i loro nomi, ma so bene che tre di loro, più grandi di me di qualche anno, sono ormai arrivate alla fine degli studi, e ora sperano di realizzare i propri sogni. Per pura sfortuna, una quarta ragazza che credo rispondesse al nome di Heather ci ha tristemente lasciati qualche mese fa. Durante le indagini successive alla sua misteriosa morte, una sola ed unica pista, così come un singolo colpevole. In altre parole, Fiona si era macchiata di una colpa ben più grave di un furto. Lei l’aveva uccisa. Ricordo bene quella scena, quasi corrispondesse a ieri. Eravamo a scuola, e nei corridoi non si sentivano altro che urla. Mi trovavo lì per caso, e camminando, avevo sentito ogni parola. Heather era furiosa, e la sua rabbia aveva finito per trasformarsi in tristezza, portandola quindi a piangere calde e amare lacrime. Non poteva crederci, ma la ragazza che credeva essere sua migliore amica, si era rivelata ai suoi occhi come una sporca e ignobile ladra. “ Sei solo una bugiarda! Dirò tutto, e ti farò arrestare!” le aveva detto, con la voce spezzata dalla collera e dal pianto. “Azzardati anche solo a provarci e morirai come tua madre!” aveva risposto Fiona, per nulla spaventata da quelle parole, che alle sue orecchie giungevano come prive di senso. Tremante e impaurita, mi ero rintanata in un angolo dell’aula. Notando lo stato in cui versavo, i miei compagni avevano spiegazioni, ma non avevo risposto. Una volta tornata a casa, provai a dormire, ma tale tentativo di scacciare quegli orribili pensieri dalla mia mente si era rivelato inutile. Sinceramente credevo che le frasi da me sentite non fossero altro che frutto della rabbia di entrambe, ma pochi giorni dopo, mi accorsi di sbagliarmi. Fiona aveva mantenuto la parola data, e senza riflettere sulle conseguenze del suo gesto, l’aveva uccisa. Il movente era chiaro, e l’arma non era stata nascosta. Un coltello da cucina sporco e ricoperto del sangue della povera e innocente vittima, ritrovato nello zaino da cui non si separava mai. Ad ogni modo, tale crimine non le valse che la reclusione per un periodo di cinque anni, allo scadere dei quali sarebbe poi stata rilasciata, ma per me non era abbastanza. Non aveva fatto altro che ferirmi e denigrarmi per anni interi, ragion per cui, decisi finalmente di agire. Tornai a casa assieme ad Oliver, e andando subito alla ricerca di mio padre, confessai la verità. “Conosco il colpevole.” Dissi, estraendo il prezioso anello dalla tasca della giacca che portavo. Alle mie parole, mio padre non rispose, limitandosi a chiedermi di continuare a parlare con il solo uso dello sguardo. “È Fiona Layton.” Dissi, per poi abbassare lo sguardo e ritirarmi nella mia stanza. Alcune ore passarono, e ascoltando il notiziario, compresi che mio padre era subito passato all’azione. Fiona era finalmente stata arrestata, e dopo anni di dolore, ferite e soprusi, nessuno di noi avrebbe più dovuto temerla. Nel triennio successivo al suo arresto, Oliver ed io scegliemmo di andare avanti con la nostra vita, e convolando a giuste nozze, promettemmo di amarci fino alla fine dei nostri giorni. La stessa fortuna toccò alla mia amica Silvia, che dinanzi alla proposta di Kale, che la esortava a compiere un così grande passo, non potè che accettare con il volto illuminato da un sorriso e gli occhi velati dalle lacrime. La felicità pervadeva la vita e l’animo di ognuno di noi, e con il sole che splendeva alto nel cielo della mia amena e ridente cittadina, una criminale del calibro di Fiona Layton, aveva, grazie alla mia astuzia unita alla mia grande determinazione, ricevuto la punizione meritata una volta ritrovatasi di fronte alla dura ma onesta legge. In ultimo, e come cosa più importante, avevo finalmente risolto questo mistero, scoprendo che la pura verità aveva dimorato per tutto quel tempo nella mia mente, nel mio giovane cuore e nei miei vacui occhi.
 
 

Complimenti, siete appena giunti alla fine della storia di Eleanor, nostra eroina in questo racconto. Spero solo che vi sia piaciuta, attendendo un vostro parere,


Emmastory :)    
 

 
   
 
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