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Autore: sarasuskind    15/03/2016    0 recensioni
ogni mattina, per settimane, io vi ho osservato, e immaginare le vostre vite ha salvato la mia di vita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grace
 
Grace McCugan ha circa settant’anni: come ogni mattina si è cotonata leggermente i capelli biondo pallido, chiaramente tinti; li ha fermati ai lati con due piccole forcine blu, malgrado ciò, i continui sballottamenti causati dall’autobus, le hanno fatto scivolare qualche ciocca sugli occhi nocciola. Grace McCugan doveva essere una gran bella donna ai suoi tempi, ma se con attenzione si osserva il suo viso, si possono scorgere ancora i segni di un’antica epoca d’oro: le guance sono all’in su e per niente cadenti, ma non sono rifatte; gli occhi, come già detto, di un bel nocciola sono grandi e vispi; probabilmente questa mattina ha prestato meno attenzione del solito nel truccarsi, e piccoli grumi di mascara si sono addensati ai lati degli occhi, esaltando ancora di più le ciglia lunghe e folte; le labbra sono di una tinta rossastra, ma se devo essere sincero, questa mattina ha messo il rossetto più scuro del solito: con qualche probabilità avrà cambiato marca. Più passano le mattine, più noto che il trucco di Grace si fa più spesso, più pesante, non dev’essere un trucco di ottima qualità. Nonostante ciò sembra contenta del suo aspetto, e seduta nella parte destra dell’autobus, porta con sé un’espressione soddisfatta, non usuale alle persone che salgono sulla linea 47 alle 07:36 del mattino. Il leggero foulard è abbinato alle forcine blu, come del resto la giacchetta con le nappe grigie. Non calza tacchi o scarpe alte, semplici scarpette da signora: credo trovi abbastanza volgare voler sembrare più alta di quello che è. Grace non sta combattendo la vecchiaia, al contrario. Semplicemente credo abbia scelto di viverla con eleganza e con un rossetto, stamane, tendente al bordeaux.
Grace McCugan non è solita ascoltare i discorsi altrui sull’autobus, la considera la forma più bassa per apprendere informazioni. La si può definire una donna per bene, una signora a tutti gli effetti. Indossa pochi gioielli, una collana di perle bianche, e qualche volta dei guanti leggeri beige. Porta la fede: una sottile fedina d’oro, un poco sbiadita, che in continuazione fa girare attorno all’anulare. Porta quell’anello come se non fosse una cosa normale, come se da poco lo indossasse, come se non fosse divenuto nel tempo appendice del suo corpo, come di norma accadde alle spose. Grace prende l’autobus sempre da sola, e scende sempre alla stessa fermata, mattina dopo mattina. Una fermata prima della mia, credo vada a fare la spesa, ma credo anche che prima di questo, vada al cimitero. Grace non ha figli, se li avesse conserverebbe una foto di loro nella taschina trasparente del portafoglio, che quando apre per mostrare il biglietto al controllore, non vedo. Sempre osservando il suo portafoglio noto una tessera fedeltà del supermercato, quello dove ho ipotizzato vada ogni mattina per prendere il necessario per la giornata; non noto altre tessere, spille o carte. Grace dev’essere vedova, credo da più di un anno, e lo credo per le quotidiane visite al cimitero, le quali essendo così frequenti mi fanno pensare alla morte di un coniuge o di un figlio; e lo credo data la sua aria di serenità stampata sul volto truccato, truccato per mascherare la disperazione  e la solitudine che la invade. Malgrado costanti osservazioni delle gesta, degli sguardi e delle mosse di Grace McCugan, ho impiegato parecchie settimane per notare quanto fosse devota al suo Dio. Una mattina di aprile, scorsi tra le pieghe di una camicetta azzurra, un piccolo crocifisso di argento, appeso al collo, e la stessa mattina notai che nella borsa, custodiva quasi fosse un segreto, opuscoli di gite di gruppo con la parrocchia, per luoghi a me sconosciuti, ma normalmente definiti come luoghi miracolati: grotte, casette di campagna o addirittura prati, in cui gente malata era stata guarita per mezzo della mano del signore. Incredibilmente accecata dall’idea di guarigione, Grace, la mattina seguente, iniziò a leggere gli opuscoli, sorridendo nel vedere foto di famiglie felici, e bambini che si rotolavano nei prati. Incredibilmente ingannata dall’idea di una nuova vita, dall’idea di poter sbocciare un’ultima volta.
Grace McCugan quella mattina cambiò meta, e scese alla fermata dell’ospedale. Per due mattine Grace McCugan non prese l’autobus linea 47; ma il terzo giorno, quasi resuscitata, salì alla fermata dell’ospedale per poi scendere a quella del supermercato: portava sotto al braccio diverse cartelle, e buste gialle. Non era truccata, anzi probabilmente da pochi minuti si era alzata dal letto, e si era lavata la faccia. Un leggero strato di fondotinta, tanto per uniformare la bianca pelle, e per risaltare meno le occhiaie. Ma nonostante ciò potei notare per la prima volta, dopo mesi, il vero volto di Grace: le rughe la pervadevano, la pelle era pallida, e gli occhi meno vispi senza i grumi di mascara. Le labbra carnose e rosa. Non portava più la fede, sebbene portasse ancora il crocifisso. Quella mattina la sua espressione mi rivelò quasi tutto di lei: quella mattina gli occhi erano stanchi, i capelli freddi e non fermati ai lati con forcine blu, bensì pettinati velocemente e legati in uno chignon scomposto; le sue mani fragili, così deboli da poter essere spezzate con la forza della parola, gridavano sconfitta.
Fu l’ultima mattina che vidi Grace McCugan. Ho pensato molto a lei e ai suoi opuscoli da indottrinamento. Mi ha fatto riflettere Grace McCugan: in quelle settimane mi ero particolarmente interrogato sul valoe della mia fede, sulle mie convinzioni, e sulla sostanza delle mie promesse. Grace radicò in me dubbi, incertezze molto più che pesanti.
Grace probabilmente era malata, con tutta sicurezza posso dire di aver avvertito cambiamento e vecchiaia in lei, dopo la sua visita all’ospedale, come un serpente che cambia pelle, Grace aveva cambiato il suo modo di essere; e quando spinse il bottone per fermare il bus, guardai accuratamente le sue unghie, e non erano di quel rosa salmone come ogni giorno, erano grigie, con macchie bianche, probabilmente per l’assenza di calcio, e smangiucchiate. Ma non si trattava di un solo e unico cambiamento nell’aspetto fisico: se mi limitassi a questo non potrei certo descrivere le vicende di Grace.  Oltre alla modifica di meta, non colsi più quella sottile complicità che si era andata a creare tra noi durante gli innumerevoli tragitti. Oserei definirla semplice empatia del viaggiatore: capita di tanto in tanto di poter osservare, senza essere fermati, le persone, poiché ci troviamo nella posizione di poterlo fare senza destare il minimo sospetto. Ed esiste un patto silenzioso tra due viaggiatori di autobus che si scrutano nella mattina, che fanno in modo di non incrociare gli sguardi, ma in realtà non sarebbe un grande problema se capitasse: entrambi sorriderebbero, e continuerebbero dopo pochi secondi la normale osservazione dell’altro. Il patto sottoscrive anche di non dover giudicare l’altro: se il viaggiatore è un uomo sulla cinquantina e sta leggendo un romanzo rosa, non bisogna considerare il poveretto un debole, o uno senza scopi nella vita. Bisogna entrare in empatia con lui: bisogna ipotizzare come sia andata la sua giornata, e per farlo, è necessario osservarlo senza staccare mai gli occhi. Bisogna conoscerlo, come io conosco Grace McCugan. Ma dal momento in cui lei venne a mancare nella mia vita in autobus, volli sapere di più. Indagai. Indagai fino a trovare informazioni sufficienti e soddisfacenti a far tacere la mia sete di riposte.
Grace aveva capito di essere sola. Non aveva più nessuno al mondo. Da quanto seppi poi in seguito, James, suo marito, era morto tre anni prima, lasciandola in una casa abitata da fantasmi. Una villa nella parte più ricca e lussuosa della città, ma che ora la stava facendo disperare.  Era stato un pezzo grosso nel settore elettro-meccanico, credo un dirigente, sempre impegnato nel lavoro, sedentario e possessivo. James McCugan aveva da sempre trascurato la moglie; secondo voci di corridoio l’aveva tradita parecchie volte con l’altro dirigente dell’azienda, una trentenne mora e dalle gote rifatte di nome Linzey. Si erano sposati così giovani, così immaturi erano stati. Avevano frequentato il medesimo liceo, e si erano innamorati. E desiderosi di addentrarsi nella vita di coppia, avevano lasciato la casa dei genitori, avevano comprato piatti e bicchieri nuovi, e si erano trasferiti. Il lavoro di lui erano sempre stato la necessità della coppia: Grace era assolutamente secondaria e subordinata alla soddisfazione lavorativa di lui. E nel tempo si era fatta piccola, era divenuta una minuscola ombra che si aggirava nella casa; uno spettro che consentiva al marito di scoparsi la collega, uno spettro con poche vere amicizie, uno spettro senza passioni e dall’indole ancora bambina. Il suo matrimonio non le aveva mai dato modo di crescere. E James non le aveva nemmeno permesso di continuare a studiare, di laurearsi, di guadagnarsi un titolo valido, e questo perché i soldi servivano a mandare avanti la casa, il mutuo, l’auto rossa che James aveva voluto comprare. Lei era una semplice e invisibile impiegata di un’azienda ortofrutticola. Non potè mai spendere i suoi soldi, il suo stipendio, viaggiando, perché James odiava l’aereo, e odiava anche dovere guidare per lunghe ore; la sua idea di vacanza era molto più simile all’idea di lungo letargo.
 La morte di lui, se da un lato l’aveva resa più sola di prima, dall’altro l’aveva ricondotta a se stessa. E lei si era ritrovata. Da pochi anni a questa parte aveva capito come fare a vivere. Lei non aveva mai potuto avere figli, a causa di un cancro alle ovaie. E anche quella porta per lei si era chiusa molti anni prima. Nei momenti bui del loro rapporto, lei pensava alla possibilità di aver un figlio, da crescere, a educare. Un figlio che le cambiasse la vita, che la distraesse, che le facesse capire cosa lei fosse realmente. Ma un mattina ricevette la notizia, e non fece altro che chiudersi in se stessa, non fece altro che scordare il mondo, che cadere in una depressione senza punti di fuga. Era morta dentro. Ma dopo la morte di James non aveva più tenuto sotto controllo quel mostro che le cresceva nel basso ventre, un mostro che le aveva rubato la femminilità, e la possibilità di essere felice. E non gli aveva semplicemente recato sufficienti attenzioni, forse perchè occupata a gestire il patrimonio e i debiti del defunto marito, e una casa e un mutuo da saldare. Un cancro che, come un insetto annidato nel più oscuro degli angoli, era cresciuto, fino a divenire maligno e irrecuperabile. Era divenuta irrecuperabile.  E da quella mattina, durante la quale l’oncologo l’aveva messa al corrente della situazione, delle metastasi che avevano raggiunto il cuore, dell’affaticamento, e dell’incapacità da parte della medicina, di guarirla, Grace aveva addirittura smesso di consultare opuscoli, e di andare a trovare un marito, la cui morte, la stava facendo morire, anche se in realtà anche la vita di quello l’aveva fatta morire dentro. Malgrado la pesante vita, seppi poi in seguito, che mai aveva smesso di credere nel suo Dio, mai era passato giorno, senza che l’aria di casa sua, non fosse colma di preghiere e suppliche. Se avessi la forza per credere in Dio, non stenterei a credere che Dio l’avesse sentita, perché la sua fede risuonava e creava eco ovunque; nonostante questo, aveva lasciato alla natura il compito di proseguire nel suo corso.
Grace McCugan morì nel suo letto, una mattina di maggio. Il crocifisso al petto, e la fede nel palmo della mano. Avrebbe incontrato James, ma non sarebbe stata lieta eternamente per questo. Finalmente poteva smettere di nascondere il suo insetto, finalmente poteva vagare senza trucco e occhi vispi. Per l’eternità Grace McCugan avrebbe  potuto essere serena, e tutti i rimpianti della sua vita sarebbe spariti. La sua eleganza, la sua educazione, ora non avrebbe più dovuto fingere. Era libera. Grace era libera.
   
 
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