Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: antigone7    16/03/2016    2 recensioni
Delia ha sedici anni, un carattere sfrontato e solare, una parlantina un po' eccessiva, un mucchio di nuovi amici e un solo acerrimo nemico: Matt Patterson è l'unica persona che fa uscire il suo istinto omicida. Crescendo, però, si accorgerà che l'odio è un sentimento troppo spesso sottovalutato e che, a volte, le cose non sono esattamente come potrebbero sembrare a prima vista.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Marie's and surroundings'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prologo


Devo stare tranquilla, non devo agitarmi, devo rimanere calma.
Forza, Dee, inspira, espira, inspira, espira, su. Tranquilla tranquilla tranquilla tranquilla tranquilla. Un altro respirone e… Ecco, mi sento già meglio.
Quasi mi sono dimenticata il motivo per cui…
MA COME DIAVOLO È POTUTO SUCCEDERE????
No, no, cazzo, così non va bene. Mi ero ripromessa di stare calma e starò calma.
Col cavolo, sono agitata, okay? Ogni volta che ci penso mi viene l’urticaria, è assurdo, è inverosimile. E sono incazzata, anche dopo aver parlato con David.
Perché è un deficiente, sul serio. Non David, poveretto. Parlo di lui, di… di Matt.
Ecco, ho detto il suo nome e già mi tornano gli istinti omicidi.
Questo non doveva accadere, accidenti, Matt non doveva farmelo. Era OVVIO che non doveva, cioè… Io e Matt ci odiamo, ci odiamo da sempre. Mi ricordo bene quand’eravamo a scuola, i battibecchi in corridoio, gli insulti in classe, le occhiatacce in… beh, dappertutto. Ci odiavamo, ci odiamo.
Com’è successo, allora? E soprattutto, perché?
In realtà lo so bene, mi ricordo com’è cominciato tutto.
Ma tutto cosa, poi?









1. You can call me Cinderella


Avevo appena sedici anni quando i miei genitori decisero, mio malgrado, di trasferirsi dalla fantastica Oakland, una delle città più grandi e popolate della California, paradiso per chi, come me, ama divertirsi, conoscere gente, andare a concerti, cercare ogni sera locali diversi, a Winthrop, una cittadina di circa trentamila abitanti in Massachusetts, cioè esattamente sulla costa opposta degli States. All’epoca per me fu un trauma, ma non lo diedi troppo a vedere e mi comportai da ragazza matura, per quanto la mia età lo permettesse.
Sapevo bene che i motivi del nostro trasferimento erano seri: mio padre aveva problemi al lavoro e mia madre aveva passato una brutta depressione, dalla quale era uscita debolissima e parecchio instabile. Vivevamo tutti i giorni sul filo del rasoio, temendo che mia madre avesse nuovamente un crollo psicologico grave. Papà era pazzo di lei – lo è ancora, a onor del vero – e non voleva vederla stare nuovamente male: così, in poche settimane decise di licenziarsi e trovare casa a Winthrop, la cittadina natale di mia madre, dove viveva anche mia nonna materna.
Effettivamente, col senno di poi, quella fu la scelta più giusta. Dopo che ci fummo trasferiti mamma migliorò e non ripiombò più nel baratro, tornando quella donna meravigliosa che era prima. Forse fu anche e soprattutto grazie alla vicinanza di nonna Charlotte, ma la nostra famiglia tornò a sorridere, a poco a poco.
Questo però successe col tempo, col passare delle settimane e dei mesi. All’inizio la situazione era ben diversa.
Ero solo una ragazzina e non facevo certo i salti di gioia all’idea di lasciare la mia città, la mia scuola, i miei amici e la mia vita per buttarmi nell’ignoto. Ero forte, sì, e i miei genitori lo sapevano bene. Ma nemmeno io ero indistruttibile, per quanto gli altri volessero vedermi così. Vivevo dietro a una maschera che mi ero costruita con anni e anni di pratica: fingevo che mi andasse bene tutto, ma dentro di me piangevo a dirotto perché dovevo lasciare Oakland e tutto ciò che di buono avevo costruito là.

Il mio primo giorno nel nuovo liceo era un lunedì mattina d’inizio febbraio. Il fatto che l’anno scolastico fosse già iniziato da diversi mesi non aiutava, in effetti, ma, come si dice? Aiutati che il ciel t’aiuta: ero ben predisposta a conoscere almeno qualcuno, in quel buco di città, che non girasse con sette metri di puzza sotto il naso o che non si credesse il più figo dell’universo solo perché indossava le bellissime scarpe firmate che paparino gli aveva comprato.
Le scuole statali americane sono controllate quasi sempre da una rigida gerarchia, basata su di una piramide sociale tanto statica quanto assolutamente idiota.
In cima ci sono i più belli, simpatici, amati e popolari della scuola, quelli contro i quali nessuno può permettersi di andare: in genere sono i giocatori di football o di basket o di pallanuoto – dipende da qual è lo sport più seguito – e le loro fidanzate modelle.
Alla base, praticamente sottoterra, troviamo i cosiddetti sfigati: secchioni, emarginati sociali, nemici giurati dell’ora di educazione fisica e chi più ne ha più ne metta.
Al centro c’è invece una vasta gamma di persone “normali”, specie troppo spesso dimenticata da telefilm, libri, teen drama, ma sempre ben fornita, anche se poco stabile: uno di questi può sempre compiere un gesto eroico che lo faccia diventare popolare o un’azione infima che lo porti a rinverdire le fila degli sfigati. C’est la vie.
Infine, ci sono gli eccentrici. Generalmente questi non sono considerati né modelli da seguire né sfigati da evitare, sono semplicemente personaggi strani da guardare un po’ in disparte senza capire se è necessario ammirarli oppure ridergli dietro.
Io, a Oakland, facevo parte di quest’ultima categoria. Avevo amici tra i quarterback e le ragazze pompon, mangiavo in mensa con i secchioni del corso d’informatica e conoscevo un sacco di persone normali. Ero strana perché cambiavo spesso colore e taglio di capelli e mi vestivo senza seguire particolari mode, ma nessuno aveva il coraggio di annoverarmi in una categoria piuttosto che nell’altra, perché in fondo stavo simpatica un po’ a tutti. Ero piuttosto popolare ma non per la mia bellezza sfolgorante o il sorriso smagliante, quanto per il mio carattere solare e il mio essere sempre in movimento.
Dopo il trasferimento, quando misi piede per la prima volta nella Winthrop High School, decisi che non mi sarei sbilanciata. Volevo, finalmente, essere considerata anch’io una persona normale, con amici normali e comportamenti normali. Così, cominciai a guardarmi intorno, speranzosa, con un preciso scopo: conoscere gente normale. Lo capii anni dopo che, probabilmente, la normalità non esiste, è un puro concetto astratto. Ma questa è un’altra storia.

La Winthrop High School, lo notai non appena ci misi piede quel lunedì, non era diversa da tutte le altre scuole superiori d’America. Ero conciata normalmente: jeans, maglione, scarpe da ginnastica, il mio cappotto rosso (che, ok, forse non era poi così sobrio, ma neanche troppo eccentrico!) e i capelli – che al momento erano del mio colore naturale, ovvero biondo cenere e non troppo lunghi – legati in una semplicissima coda alta. Nonostante ciò percepivo gli sguardi su di me, ed erano sguardi più insistenti del necessario. Era così evidente che fossi nuova? A quanto pareva sì. Ad ogni modo, quegli sguardi mi infastidivano, ma non riuscivano a intimidirmi, ero abituata a cose peggiori. Tenni la testa ben alta, guardai negli occhi tutti quelli che mi fissavano e continuai la mia sfilata in corridoio senza intoppi.
Con il preside avevo già parlato due giorni prima, l’orario ce l’avevo tra le mani, non mi mancava niente. Dopo un passaggio veloce all’armadietto per appoggiare due o tre cose, mi diressi svelta verso l’aula dove avrei dovuto avere la mia prima lezione: Letteratura Inglese. Non male, non era la mia materia preferita, ma me la cavavo anche in quella, nella mia vecchia scuola.
Avevo già visto dov’era l’aula, mi sarebbe bastato percorrere quel corridoio, fare le scale, poi girare a destra e…
Maledizione! Proprio all’ultimo angolo successe una cosa che, secondo i miei piani, non sarebbe dovuta accadere. Appena svoltai, andai a cozzare contro qualcosa – che identificai solo dopo come un essere appartenente al genere umano – e caddi a terra, con il mio zaino, per fortuna, ben ancorato sulle spalle.
Tipico, pensai, sconfortata e seccata. Ci mancava solo che alzassi la testa e mi trovassi di fronte il ragazzo più bello, simpatico e popolare della scuola, e a quel punto sarei andata dritta a iscrivermi alla lista dei più banali cliché cinematografici della storia dell’umanità. Dai, certe cose succedevano solo nei film! Era impossibile…
Quando alzai veramente lo sguardo, però, per un attimo credetti di essere davvero in un film hollywoodiano. E, per la precisione, di aver appena incontrato il protagonista maschile di tale film.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo. Ma, purtroppo devo ammetterlo, all’inizio mi feci fregare anch’io dal suo bel faccino, tanto che dopo dieci secondi di stupore catatonico – solo dieci, sì, per fortuna tendo a non farmi mai trovare più di troppo impreparata – gli sorrisi incoraggiante, per fargli capire che non mi ero fatta male, e mi rialzai da terra, vagamente imbarazzata.
Quando mi trovai in piedi di fronte a lui in tutta la mia statura – davvero molto scarsa, per mia disgrazia – rialzai, coraggiosa, gli occhi su di lui. Stavo per scusarmi e, magari, presentarmi con lui, ma fui bloccata dal suono della sua voce.
“Ehi novellina, pensi già che il corridoio sia tutto tuo, eh?”
Ci misi due secondi netti a decidere che quel tizio, per quanto bello, mi stava altamente sulle palle. Odiai da subito il suo modo arrogante e sfrontato di rivolgersi a me, alzando un sopracciglio e sorridendo irriverente. E poi… novellina?? Ma come diavolo si permetteva quel bellimbusto di rivolgersi così a me?
Non mi premurai neanche di rispondergli. Semplicemente, mentre le campane nella mia testa smettevano bruscamente di suonare, mi pulii la giacca da invisibili granelli di polvere e lo superai, accingendomi a raggiungere l’aula di letteratura prima che suonasse la campanella dell’inizio delle lezioni.
“Comunque le tue scuse le avrei accettate volentieri, sai, bionda?” mi apostrofò alle mie spalle mentre mi allontanavo tentando di mantenere un briciolo di dignità.
Le mie scuse te le sei giocate, bello, pensai inviperita, senza voltarmi.
Ma perché, perché tutti i bei ragazzi dovevano essere così stronzi o così deficienti?

Entrai nell’aula di Letteratura ancora incavolata con quel tipo – e con me stessa, per la figuraccia. Appoggiai con forza lo zaino su un banco qualunque fra quelli liberi, in seconda fila, e mi sedetti, spostando la sedia con rabbia. Facendo quel movimento notai che la persona seduta sul banco in parte al mio era trasalita, probabilmente spaventata da tanta veemenza nei miei movimenti.
Ottimo. Era appena cominciato il primo giorno di scuola in quel pulciosissimo paese e già avevo collezionata una figura di merda, un’occhiataccia da Mister-Sono-Biondo-E-Bellissimo-E-Tu-Non-Sei-Nessuno, e inoltre ero riuscita a spaventare la mia prima vicina di banco.
Benissimo, Delia, continua così e ti eleggeranno a breve capitano della squadra di stronzaggine della scuola, mi dissi, cercando di calmarmi prima di voltarmi per fare conoscenza con la povera anima che avevo impaurito.
Era una ragazza e appena mi girai distolse lo sguardo da me e cominciò a fissarsi intensamente le mani sopra il banco. Dovevo rimediare in qualche modo, sennò avrei passato il resto dell’anno senza alcun vicino di banco, lo sapevo: le voci in una scuola, specie se non molto grande come quella, girano piuttosto velocemente.
“Ciao,” le dissi sorridendo e cercando di sembrare amichevole, ma lei sobbalzò ancora leggermente quando le rivolsi la parola.
“Scusa se ti ho spaventata, non volevo,” continuai, senza troppe speranze.
Lei finalmente si girò a guardarmi e abbozzò un sorriso. “Figurati, non mi hai spaventata.”
Cavolo, era carina. Cioè, a me piacevano i ragazzi, chiariamo, ma non potevo non ammettere che quella ragazza aveva davvero dei lineamenti fuori dal comune: pelle olivastra, capelli nerissimi e liscissimi lunghi fin sotto le spalle, occhi verdi e tratti del viso delicati. Accanto a lei avrei certamente sfigurato, io e i miei capelli color topo!
“Mi chiamo Delia, comunque, Delia Gray,” mi presentai porgendole la mano che lei strinse brevemente.
“Audrey Byrne.”
Mi sorrise, timida. Timida, cosa che, ovviamente, io non ero, non sono e, temo, non sarò mai: a volte tenere la boccaccia chiusa mi farebbe bene. O forse no, comunque quella volta parlai, per fortuna.
“Sono nuova qui,” spiegai, senza rendermi conto che lei non mi aveva chiesto proprio un bel niente. “Comunque la scuola non mi sembra male e generalmente ci metto poco ad ambientarmi, almeno spero. A parte che stamattina ho già fatto un brutto incontro; non tu, è naturale…” Stavo parlando a macchinetta, decisamente e me ne resi conto: va bene logorroica e mezza pazza, ma non sono deficiente. “E scommetto che a te non te ne frega proprio niente,” conclusi.
Audrey sorrise, poi il suo sorriso si allargò. Alla fine era evidente che si stava trattenendo dal ridere, cioè, dal ridermi in faccia.
Sospirai, abituata a certe situazioni. “Va bene, puoi ridere se ti va, lo capirei. Anch’io mi riderei in faccia, ora.”
Lei ridacchiò, comunque con una certa educazione. “Sei buffa,” commentò.
“Grazie.”
“Oh, scusa, non volevo offenderti,” si spiegò subito: si vedeva lontano un miglio che era una persona talmente buona che, probabilmente, era impossibilitata fisicamente a fare del male a chicchessia. “Era in senso positivo: di solito quelli nuovi stanno sempre sulle loro…”
“Tranquilla, non mi offendo. Me lo dicono in molti, ormai lo prendo come un complimento anche quando non lo è!”
Audrey sorrise di nuovo. Almeno qualcosa di positivo la mia parlantina l’aveva ottenuto: ero riuscita a sciogliere l’imbarazzo, e non era poco.
In quel momento entrò il professore di Letteratura, un certo Mister Berries, e il chiacchiericcio nell’aula si interruppe. Ovviamente mi fece alzare per presentarmi di fronte all’intera classe e per dire qualcosa su di me: avrete già capito che non sono – e non ero – una ragazza particolarmente timida, quindi lo feci senza grossi problemi. Sentii qualche borbottio nel momento in cui dissi – non senza un certo orgoglio – di venire dalla California, ma per il resto nessuno si interessò più di tanto a me e non fecero domande strane.
Il seguito della lezione fu tranquillo, normale. Normale, esattamente come mi ero prefissata di essere. Alla fine dell’ora scambiai qualche chiacchiera con Audrey che, come avevo già intuito, a differenza mia era timidissima. Mi salutò con un “ci vediamo domani” e un mezzo sorriso, e io sperai con tutta me stessa di aver finalmente trovato quel briciolo di normalità che stavo cercando.

Ma durante l’ora di Biologia rividi lo stronzo. E conobbi il suo nome. Non che ci tenessi a saperlo, visto come mi aveva trattata durante il nostro primo incontro, comunque lo scoprii per caso.
Ero già dentro l’aula semideserta – per la precisione eravamo solo io e un’altra ragazza, che poco dopo avrei capito essere la secchiona del corso – quando lui entrò, zaino mollemente appoggiato sulla spalla e mano destra in tasca, come poco prima. Appena mi vide si fermò un secondo, giusto il tempo di squadrarmi con aria annoiata e alzare un sopracciglio, mormorò un “chi si rivede” a cui non mi degnai neanche di rispondere e passò avanti, andandosi a sedere in fondo alla classe.
Poco dopo l’aula si riempì e cominciò la lezione, alla fine della quale il biondo mi passò di nuovo accanto per raggiungere la porta mentre io ancora rimettevo l’astuccio nello zaino. Viste le sue precedenti uscite, mi aspettavo un’altra frecciatina o uno sguardo di superiorità dei suoi, invece mi ignorò completamente, cosa che mi stupì: rimasi a guardarlo imbambolata mentre prendeva la porta e si allontanava. Mi ricordo che pensai anche che avesse un bel culo e mi auto maledissi per quello.
Comunque, la mia vicina, una certa Sheila con cui avevo scambiato due parole durante la lezione, notò il mio sguardo e dovette fraintenderlo, perché mi parlò con fare cospiratorio, anche se non le avevo chiesto niente.
“Lui è Matt Patterson,” disse, con voce sognante. “Matthew Jonathan Patterson Junior, per l’esattezza. È un gran figo, eh?”
“Non mi interessa,” borbottai, colta sul fatto, scuotendo la testa.
“Certo che ti interessa, invece! Ho visto come lo hai guardato. Ma non devi preoccuparti, interessa a tutte qui a scuola,” confessò Sheila senza credere alle mie parole. “È bello, alto, ricco ed estremamente pieno di fascino. Peccato per il suo caratteraccio, è un po’ troppo burbero e chiuso in se stesso.”
“Io direi pure cafone,” sospirai, rancorosa, ma lei non mi sentì.
“Comunque ti sconsiglio di stargli dietro,” continuò, imperterrita.
Bella, avrei voluto dirle, non hai capito. Io a quello lì gli sto dietro solo per colpirlo col lanciafiamme quando non se ne accorge, fidati. Ma stetti in silenzio e ascoltai il resto delle sue parole, che non erano finite.
Mamma mia, questa parla più di me, non va per niente bene.
“Certo, pare che esca con un discreto numero di ragazze, ma quasi tutte più grandi. E poi è scostante da far paura, dicono. Lo so dalle voci, ovviamente, non l’ho mai provato di persona, anche se ammetto che mi piacerebbe… Dio, a chi non piacerebbe, hai visto i suoi occhi? E il suo culo?”
E continuò a parlare di quello e di decine di altre cose – di tutto ciò che le passava per la testa – finché non inventai una scusa per liberarmi e fuggii esasperata.

“Com’è andata a scuola, pulcina?”
Mio padre mi accolse con un fantastico thè caldo e l’aria attenta e premurosa.
Non riuscivo a odiarlo per aver deciso il trasferimento, era più forte di me. Lo aveva fatto per il bene di mia madre, per il bene della nostra famiglia e, anche se non apprezzavo quella nuova cittadina sulla costa orientale, tentavo di capire le sue ragioni. Oltretutto si vedeva lontano un miglio che si sentiva in colpa per avermi imposto quel cambiamento e non era mai stato così gentile e premuroso con me prima di allora.
Perciò, finsi la solita noncuranza.
“Bene, bene… Papà, mi hai fatto il thè, grazie!”
Lui mi schioccò un bacio sulla guancia. “Allora, com’è la nuova scuola? Cos’hai fatto oggi?”
Mi fece quasi tenerezza. Sorrisi.
“Ho seguito le prime lezioni, niente di che. L’anno è già cominciato da sei mesi quindi dovrò un po’ capire come stanno messi coi programmi, ma penso di potercela fare.”
“Brava la mia pulcina!” si congratulò mio padre, dandomi un buffetto. “E hai conosciuto qualcuno di interessante?”
Pensai alle conoscenze della giornata: Audrey, Sheila, un ragazzo gentile e brufoloso di cui non ricordavo il nome. E poi quel Patterson: mi veniva l’urticaria solo a pensarci, ma evitai di parlargliene.
“Sì, una ragazza carina, si chiama Audrey.”
Chiacchierammo allegramente per un po’ bevendo il thè, infine gli domandai dove fosse la mamma e lui mi rispose che si trovava in camera con la nonna. Gli dissi che andavo a salutarle e mi sorrise incoraggiante.
Nonna Charlotte era la madre di mia madre. Non l’avevo mai vista molto spesso perché, ovviamente, fino a una settimana prima lei viveva a Winthrop mentre noi stavamo in California e dovevamo fare parecchie ore d’aereo per andare a trovarla. Ma adesso eravamo lì, e già dopo i primi giorni vissuti a stretto contatto con lei mi ero accorta di quante cose avessimo in comune: era una donna forte e battagliera e sospettavo di avere preso da lei la maggior parte dei lati del mio carattere, dal momento che i miei genitori, invece, erano molto diversi da me.
La adoravo, comunque. Ammiravo il suo modo di prendere la vita, così simile al  mio ma molto, molto più maturo e consapevole. Con piglio deciso stava spronando mia madre a uscire dal baratro della depressione in cui era caduta quasi sette anni prima, dopo un brutto aborto. E ci stava riuscendo: era ancora all’inizio ma io vedevo dei cambiamenti evidenti in mamma e speravo che stavolta ce la facesse davvero.
“Fallo almeno per tua figlia, Miriam, lei se lo merita.”
Quella era la voce di nonna e Miriam, ovviamente, era il nome di mia madre. Le potevo sentire discutere dall’altra parte della porta ma non mi andava di origliare e avevo un brutto presentimento: bussai e subito dopo entrai, trovando mia madre stesa a letto e nonna Charlotte accanto a lei, che la guardava con aria di rimprovero. Mi si strinse il cuore: mamma passava le giornate a letto solo quando stava male – psicologicamente molto male, intendo – e in quel primo periodo a Winthrop non l’avevo ancora vista così.
La salutai e mi sedetti sul letto, accanto a lei, dandole un bacio sulla guancia. Mamma accennò un sorriso, cosa che prima non faceva mai, e per un attimo sperai che le cose andassero bene, da lì in avanti.
E promisi a me stessa che avrei fatto di tutto per farle andare bene. Ora, c’era anche nonna Charlotte ad aiutarmi.












È una follia pubblicare questa storia, già lo so. Ma è da secoli che è lì e mi guarda triste, e ultimamente, chissà perché, ha deciso di prendere possesso delle mie sinapsi e si è messa a scriversi da sola. Giuro.
Procediamo con ordine, con qualche informazione che forse può esservi utile.

Crumbling away è una storia nata praticamente secoli fa nella mia testa. All'epoca stavo scrivendo e pubblicando qui su EFP un'altra cosa, Of all the people in the world. Dai personaggi di quella è nata anche questa storia, con Delia protagonista. Non ne è un sequel, per il momento è più un prequel, però più avanti raggiungerà e supererà le vicende di Of all. Essendo Crumbling narrata da tutt'altro personaggio (Of all è raccontata in prima persona da Jude, che qui comparirà nel prossimo capitolo) sarà una cosina un po' diversa, anche se conto di mantenere il tono ironico e più o meno leggero della sua genitrice.
Non è assolutamente necessario aver letto l'altra storia per comprendere questa. Potete farlo, se volete, ovviamente a me farebbe piacere, ma sappiate che Of all è ambientata, per ora, nel futuro rispetto a questa. Va benissimo leggerle nell'ordine che volete, o leggerne solo una delle due, o non leggerle affatto, as you want.

Crumbling, ripeto, sarà una storia prevalentemente leggera, ma purtroppo non sono capace di scrivere senza qualche dramma. Niente di troppo stressante, solo la vita reale che ogni tanto si immischia nella storia di questi ragazzi.
So che i primi capitoli possono sembrare noiosetti ma, mi spiace, è più forte di me, mi servono sempre a caratterizzare i personaggi. Poi ci sarà più azione, promesso.
Delia è una persona molto, molto diversa da me e da come ero io alla sua età, spero di riuscire a renderla lo stesso. Matt è molto di più di quello che si vede nei primi capitoli, ma questo lo noterete più avanti. Per quanto riguarda il resto, la trama, i personaggi, le ambientazioni, sappiate che ho appositamente giocato con i cliché tipici dei teen drama americani, quelli della mia generazione almeno. Quindi troverete la storia letteralmente infarcita di luoghi comuni e banalità: io vi ho avvisati, non venite a lamentarvi poi!

Spero che apprezziate. I primi cinque capitoli di Crumbling away sono già scritti e, per ora, sto continuando a scrivere. Non posso garantire niente, sono estremamente scostante e pigra, ma un feedback minimamente positivo potrebbe aiutarmi.

Vi ringrazio infinitamente per l'attenzione, a presto!
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: antigone7