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Autore: Margarinas    18/03/2016    0 recensioni
Lo squallore di una città, il ghetto del più brutto dei ghetti. Qui vive Yania, insieme a sua sorella Arbie. Un luogo destinato a marcire nel tempo, a sprofondare nel dimenticatoio, tra povertà, malvivenza e mafia. Quale ragazza di diciannove anni non sogna una fuga verso un posto migliore? Non Yania. Non c'è posto per lei in un mondo che non le appartiene, allora perché non cercare di rendere, se non felici, vivibili i momenti della sua giovinezza, all'ombra di una vecchia quercia, aspettando la fine?
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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SE PENSI DI NON POTER CADERE ANCORA PIÙ IN BASSO ALLORA SEI AL CENTRO DELLA TERRA

 Ero rimasta a casa quel giorno, chissà perché. Semplicemente non avevo avuto voglia di uscire, tanto, o facevo niente a casa mia o facevo niente in altri posti. Mia sorella aveva seguito il mio esempio, ma stufatasi di rimanere in quel minuscolo appartamento, che puzzava di fumo di sigari e di umidità mista a muffa, era uscita per andare a fare della spesa, lasciandomi sola con i miei pensieri e il silenzio perenne di casa mia.
 Ero seduta sul sudicio divanetto, patria di milioni di germi mortali che sfortunatamente non avevano ancora preso possesso del mio organismo, leggevo una rivista vecchia di undici anni, come minimo, aspettando un probabile colpo d'infarto. Suonò il campanello, cosa che mi stupì per due ragioni: a) non credevo avessimo un campanello e b) a nessuno fregava di noi quindi perché venire a disturbarci in pieno giorno?
 Riluttante mi alzai e camminai fino alla porta. Non aveva lo spioncino, non c'era nemmeno il catenaccio, quindi la aprii, al massimo potevano essere dei ladri ben educati che se ne sarebbero andati con le tasche ancora più vuote di prima. Impietositi, ci avrebbero donato la loro refurtiva.
 Rimasi ferma mentre fissavo l'ultima persona che mi sarei aspettata di trovare lì, sulla soglia di casa mia, Jakaka. Era l'ultima persona del nostro "gruppo", nonostante fosse arrivato prima di altri. Non si vedeva quasi mai e quando c'era si lanciava in lunghi monologhi citando alcuni documentari che aveva visto anni prima, storpiando malamente la storia, senza accorgersi che nessuno di noi lo stava ad ascoltare.
 Non dissi nulla e lui nemmeno aprì bocca. Rimanevamo lì a fissarci, come due statue di pietra.
 «Mi fai entrare oppure no?» sbottò lui dopo quello che mi parve un secolo di silenzio, che rimpiansi non appena sentii la sua voce.
 «Dovrei?» continuavo a scrutarlo imperturbabile. Non avevo nessuno intenzione di lasciarlo entrare, non perché mi vergognassi di casa mia, probabilmente lui viveva in un posto fin troppo simile, ma semplicemente perché non avevo alcuna ragione valida per farlo. Jakaka capì dal mio sguardo che non lo avrei fatto passare, quindi si fece largo a forza, mi scansò, entrò in casa e richiuse la porta con un tonfo.
 «No, fai pure come se qualcuno ti avesse invitato» borbottai irritata dirigendomi verso il cassetto dei coltelli. «Come fai a sapere che viviamo qui?»
 «Yania. In uno schifo di città come questa tutti sanno dove vivono tutti» sbuffò come se stesse parlando con la persona più stupida del mondo. Pescai uno dei coltelli più affilati, e ne avevamo tanti, l'unica cosa vagamente importante in quel posto, e me lo rigirai tra le dita.
 «E per quale motivo saresti qui?»
 «Ah, sì» si guardò intorno con circospezione, ma non disgusto. Ci avevo preso sul suo appartamento. «Ho bisogno di rimanere "nascosto" per un paio di giorni.»
 «E avresti intenzione di stare qui?» domandai stupida soffocando una risata ironica. «Non se ne parla nemmeno. No.»
 «Posso ripagarti, mica voglio che lo fai gratis» sibiliò offeso.
 «Non voglio i soldi che non hai, nemmeno accetto un "pagherò"» mimai l'ultima parola facendo le virgolette con le dita. Jakaka frugò all'interno delle tasche della sua giacca malridotta e tirò fuori un sacchetto di plastica che buttò sul tavolo della cucina. Era pesante, nonostante contenesse solo polvere.
 «No grazie» questa volta ero io l'offesa. «Che razza di pagamento sarebbe della droga?»
 «La usano tutti, qui» scrollò le spalle, evidentemente per lui era uno scambio equo. «Persino tua sorella.»
 «Per prima cosa, quello che fa mia sorella non mi interessa» allugai una mano e spinsi il pacco verso di lui, al bordo del tavolo. «E secondo, quello che fa mia sorella non è affare che ti possa riguardare.»
 «Come fai la difficile» riprese il pacco e se lo reinfilò nelle tasche. «Sono sicuro che se facessi la stessa offerta ad Arbie accetterebbe.»
 «Scusa, ma preferisco una droga più legale come l'alcool o le sigarette, e in ogni caso mia sorella adesso non c'è. Ci sono io e io dico di no.»
 Incociai le braccia sul petto mettendo bene in vista il mio amico coltello. Jakaka non parve cogliere la minaccia. Un briciolo di amor proprio ce l'avevo ancora, se non ero scesa tanto in basso da adolescente e provare una droga allora, non lo avrei fatto nemmeno in quel momento. Di certo, più in basso di un drogato, alcolizzato, fumatore incallito che vivava in una città come questa c'era solo il centro stesso della Terra. Per quanto mi riguardava non avevo alcuna intenzione di finire a marcire in un angolo sull'asfalto umido dei miei stessi escrementi. Molto meglio un infarto, o un suicidio, o un cancro, o un ictus, o venire assassinati.
 «Non so tu, ma io non ho mai visto nemmeno l'ombra di un poliziotto, qui» prese una sedia e vi ci sedette. Fu troppo. Lanciai il coltello sul tavolo che andò a conficcarsi sul ripiano di legno. Jakaka sussultò.
 «Vattene fuori di qui» sibilai. Riluttante, si alzò e senza combattere se ne andò. Avevo sperato in una specie di combattimento in cui io ne sarei uscita vincitrice, ma mi andava bene così, eppure una strana sensazione si fece strada attraverso di me e la odiai fin da subito.
 Raccontai la vicenda ad Arbie, quella notte. Eravamo entrambe girate di schiena e fissavamo il soffitto macchiato d'umido, nel dormiveglia.
 «Avrei potuto accettare» borbottai scendendo sempre di più verso l'oblio causato dal sonno.
 «Avrei potuto sì» concordò mia sorella sbadigliando.
 «Non so cosa mi sia preso» ammisi.
 «Dì un po', Yania» scattò lei girandosi su un fianco verso di me, che sobbalzai dallo spavento svegliandomi di colpo. «Non è che stai iniziando ad avere voglia di vivere?»
 «Ma che, vuoi scherzare!» scattai io, questa volta. Ci ritrovammo a fissarci negli occhi. «Se questo è vivere allora non vedo l'ora di scoprire quale divertimento sarà morire.»




 Buonasera signore e signori.
 Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando ho pubblicato il vecchio capitolo (purtroppo non sono un calendario vivente), e vi dirò che ero un pochettino preoccupata di non riuscire a scrivere niente di sensato per questo capitolo fino a che, quando l'ispirazione chiama bisogna accendere il computer.
 Sono ossessionata dall'idea di aver fatto tipo 7483730 errori, chiedo scusa, sono stanca e anche avendolo riletto due volte probabilmente qualcosa mi è sfuggito. Vi prego di farmelo notare e non vogliatemene male. çç
 Comunque, come avete notato sono delle piccole storielle quasi autoconclusive, che nell'insieme ne formano una più grande. Detto fra noi, quando inventai questa storia era del tutto diversa, ma era una fantasia infantile e quindi mi sono decisa a cambiarne la trama, mantenendo però l'ambiente e i personaggi, che fino a qualche giorno fa erano senza nome e inventati sul momento, a parte quello di Jakaka, per il quale ho chiesto aiuto al mio vecchio gruppo, che saluto.

 Buona lettura a voi, e possano i biscotti portarvi fortuna.
 -Marga.
  
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