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Autore: Ankhor    24/03/2016    1 recensioni
Le persone sono tutte uguali.
Vivono una vita frenetica le cui giornate sono un susseguirsi di attimi identici, dando per scontato che, dopo l’oggi, verrà sicuramente un nuovo giorno dove potranno rimediare a ciò che hanno lasciato in sospeso.
Anch’io ero così, del tutto inconsapevole che la mia serena monotonia sarebbe stata distrutta da una piccola distrazione, dall’irrazionale paura del buio e dal brusco scatto di un paio di vecchie forbici.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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RUMORE DI FORBICI


Rumore, un assordante e ripetitivo rumore. Qualche tempo fa la consideravo musica, ricordo che mi piaceva perdermi in quel miscuglio di note e pensieri osservando il bianco paesaggio invernale visto dal finestrino.
Ripensando ad allora dovrei sentirmi triste, sconsolata, nostalgica; invece non riesco a provare niente di tutto ciò. Il mio cuore rimane vuoto ed indifferente e forse è meglio così.
Ogni tanto mi vien da ripensare al giorno in cui tutto cambiò.
Diciotto novembre 1996: è una data anonima, difficile da ricordare e per molti totalmente priva di significato. Avrebbe dovuto esserlo anche per me, una giornata come tutte le altre e invece morii.
Quella mattina salii sul pullman e presi posto sul sedile destro della quarta fila. Non avevo nessun motivo in particolare per mettermi lì, semplicemente era libero ed affiancato al finestrino quindi perfetto per una come me.
Appena un minuto dopo il mezzo partì. La mia scuola era abbastanza lontana, mi aspettava almeno un’oretta di viaggio prima di arrivare perciò mi misi comoda e perquisii il mio zaino in cerca del lettore CD.
Aspetta. Non c’era! Ero uscita di casa in tutta fretta e dovevo essermelo dimenticato chissà dove. Controllai e ricontrollai come una matta, sperando che la mia testardaggine potesse in qualche modo modificare la realtà. Il risultato fu ovvio.
Era frustante come il tempo sembrasse lento senza la mia musica, avevamo passato appena cinque fermate e mi sembrava di esser lì da un’eternità.
Presa dalla noia mi girai per scrutare i miei compagni di viaggio.
Era assurdo quante poche persone potevano esserci alle sette e mezza del mattino: una manciata di studenti come me, alcuni impiegati assonnati e un paio di uomini in giacca e cravatta…
Poi c’erano due signore vestite di grigio con dei foulard a coprirgli i capelli.
Se ne stavano tranquillamente sedute a capo chino sul fondo dell’autobus, stranamente non ricordavo a che fermata fossero salite.
Non erano stati i loro indumenti ad incuriosirmi ma ciò che stavano facendo, quella sulla destra stava lavorando a maglia mentre l’altra continuava a passarle il filo senza mai fermarsi.
Bene, dovevano passare almeno venti minuti, cosa potevo fare? Nulla, ecco la risposta.
Rimasi ferma per un po’ ma attendere senza far niente era davvero snervante.
Mi voltai di nuovo, le signore ora guardavano fisse davanti a loro. Erano vecchie, forse troppo vecchie; i loro visi erano ricoperti da una così spessa trama di rughe che dava quasi l’impressione che indossassero una maschera.
Mancavano tre fermata alla scuola.
Le osservai ancora, non riuscivo ad evitarlo, era semplicemente più forte di me.
Adesso ricambiavano entrambe il mio sguardo, ci fissammo per qualche minuto.
Fui io a distoglierlo per prima, per paura dei loro occhi neri, bui e privi di pupille. Terrificanti pozzi in cui non sarei mai voluta cadere.
Per qualche motivo la loro figura mi ricordava qualcosa riguardante la morte.
Ero sicura di averle già viste da qualche parte, forse non proprio loro ma credo di ricordarmi una qualche immagine che le ritraeva. Non so per quale motivo mi ritrovai a pensare alla lezione di greco dell’altro giorno…
Ormai eravamo quasi alla mia fermata, era la prima volta che avevo fretta di scendere dall’autobus.
Mi voltai un’ultima volta a scrutarle, ora non guardavano più me perché la loro attenzione era rivolta ad un bianco e sottile filo che avevano teso con molta cura. Sorridevano.
Impaurita, attesi i pochi interminabili minuti guardando solo ed unicamente la strada.
Quando l’autista aprì le porte corsi giù più velocemente che potevo, non mi accorsi del gradino e caddi.
Probabilmente morii in quel momento, non ricordo molto però sono piuttosto sicura di aver sentito una specie di scatto metallico simile a quello delle forbici.

Adesso sono su un autobus con le mie due care compagne, siamo vestite di grigio e dei veli ci coprono i capelli. Non abbiamo un nome ma gli antichi ci chiamavano Parche, devo ammettere che suona bene.
Sono le sette e mezza e stiamo osservano una ragazza sola che ascolta della musica, mentre il filo della sua vita ci scorre tra le dita.
Posso sentirlo da qui. Rumore, una assordante e ripetitivo rumore.
  
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