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Autore: _Blanca_    26/03/2016    1 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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II. Bon Fleur Place





‘Casa’ si ripeté Anna, scrutando le fessure di luce gialla, tra le tende al pian terreno. Le finestre di Bon Fleur parevano spiarla a loro volta, come gli occhi di un gatto diffidente. Benton era ripartito con uno schiocco di frusta e il cigolio delle calesse si faceva pian piano distante, disperdendosi nell’aria umida e ferma della sera.Sistemato lo scialle sul capo, Anna risalì il viale e, quando fu sul portico, non dovette attendere più di una manciata di istanti, prima che la grande porta venisse aperta dall’interno. Si affacciò una donna. Giovane, minuta, un palmo più bassa di Anna. Indossava un grembiule bianco sopra un abito azzurro; una candida crestina era appuntata sui riccioli, biondissimi, lucidi come quelli di una bambola di porcellana.
Anna si presentò ― era la nipote dei signori Woodhams, la stavano aspettando ― e i begli occhi blu della cameriera si adombrarono di stupore e sospetto. Disse che il signor Woodhams non era ancora rientrato. Anna si sentì invitare ‘ad attendere nel parlour’ mentre la cameriera andava a informare ‘madam’. Non fosse stata la domestica a far strada, Anna non avrebbe avuto idea di dove trovare un parlour ― qualunque cosa fosse. Seguì la cameriera nella penombra del vestibolo, dalle pareti coperte di legno scuro; da un lato, se ne stava uno scheletrico attaccapanni di metallo, dall’altro, una grande scala a chiocciola fagocitava gran parte dell’ambiente. La spirale di gradini saliva verso l’alto, e l’accompagnava una fila di colonnine, raccordate tra di loro da intagli fitti come merletti, tanto complessi che tentare di seguirne il disegno faceva venir il mal di capo.
La cameriera aprì la porta a vetri del vestibolo e introdusse Anna in un secondo ambiente, dove lei contò quattro porte ― tutte doppie e tutte chiuse ― e vide, sul fondo, una seconda porta a vetri. Qui, le pareti erano coperte di legno solo per due terzi; in alto, nel sibilante chiarore delle lampade a gas, correva una tappezzeria a fiori, di un verde scurissimo. Vi erano inchiodati tanti piccoli quadri, dalle cornici massicce, e un lungo specchio rettangolare. In un angolo, il pendolo di un orologio ondeggiava lento.  
Toc toc. Toc toc. Toc toc.
Non si udiva altro.
La cameriera spinse i battenti della prima porta sulla sinistra e fece cenno ad Anna di accomodarsi.
Il parlour si rivelò essere un salottino, ingombro come un bazar. Là dove le pareti non erano nascoste da quadri e acquarelli d'ogni dimensione, da credenze e vetrinette cariche di vasi e candelabri, di vassoi e porcellane, si poteva scorgere il cupo Borgogna della tappezzeria. Le tende, di velluto marrone, davanti alla finestra a bovindo, era tirate, tranne per il sottile spiraglio che Anna aveva scorto dall’esterno. Le bordavano nappe color oro, grandi come dita di bambini. Al centro del tavolo rotondo, c’era un vaso cinese, bianco e blu, da quale spuntava un'esplosione di piume di pavone insieme a un mazzo di fiori secchi.
Quando Anna guardò di nuovo verso la porta, la cameriera era già svanita. Lei se ne restò in piedi, sul tappeto persiano. Lasciò cadere lo scialle sulle spalle, scoprendosi il capo, e incrociò le braccia al petto. Aveva le dita infreddolite, ma nella stanza non c’era nessun fuoco per scaldarsi: il camino era spento.
Fuori, la pendola continuava con l’implacabile toc toc, toc toc, toc toc.
Finalmente, riapparve la cameriera. Era intenta a strofinare il dorso di una mano contro il fianco della gonna. Sembrava a disagio.
«Miss... uhm... sono spiacente, ma... madam vi prega di andare.»
«Cosa?»
La cameriera spostò la mani dietro la schiena. Sollevò il mento, come a farsi coraggio. Parlò tutto d’un fiato: «La signora Woodhams giura di non avervi mai invitata. Non desidera assolutamente ricevervi. Di conseguenza, deve chiedervi di andare.»
«Ma che è? Uno scherzo?»
«No, miss. La signora non scherza mai» disse, grave, la cameriera. «Ve lo assicuro.»
Le labbra di Anna rimasero aperte ma non le riuscì di cavarsi una sillaba di bocca.
Poi, un moto di rabbia la scosse dallo spaesamento e, sempre a braccia conserte, avanzò verso la domestica.
«Che se lo scordi. Io non ho viaggiato fin qui, dall'altra parte del mondo, su suo espresso invito, per sopportare certe bizze da vecchia rimbambita.»
Poiché Anna non possedeva una voce carezzevole, e quando parlava a briglia sciolta, che lo intendesse o meno, diventava aggressiva, la domestica arretrò di un passo e sbatacchiò le palpebre orlate dal ventaglio di ciglia bionde.
Anna costrinse le labbra in un sorriso costipato. Addolcì i toni. L’aveva appena sfiorata dall'idea che spaventare il personale di servizio sarebbe stato un modo pessimo di presentarsi. «Chiedo scusa... dimentichiamo la parte della vecchia rimbambita. Solo... per favore, puoi riferire alla signora che io non andrò proprio da nessuna parte fin quando lei non sarà scesa a parlarmi?»
La cameriera parve annaspare in un genuino smarrimento. Poi, sospirò. Fece un cenno di assenso e, di nuovo, lasciò Anna da sola.
L’attesa fu lunga.
Trascorsero due minuti. Che divennero cinque. Che divennero dieci. Anna si era accomodata in poltrona da un pezzo, col mento tra le mani e i gomiti piantati contro la ginocchia, quando con la coda dell’occhio vide una figura comparire sulla soglia del parlour.
Scattò  in piedi.
Vivian Woodhams, che da un lustro aveva passato i cinquanta anni, le si presentò in un abito d’un viola cupo e intenso, con strati di balze e pieghe che si gonfiavano attorno alla vita da vespa. Non era una figura alta e matronale, ma possedeva eleganza nel portamento e nell’espressione: diritta come un fuso, le spalle spioventi e il mento alto, e uno sguardo da imperatrice pronta a emanare una condanna a morte. Stava scrutando Anna, tenendosi le mani, coperte di pizzo nero, accostate al ventre.  «Ebbene, sei davvero di chi dici di essere?» inquisì la donna. Aveva una voce tutt’altro che robusta, eppure c’era qualcosa di fortemente autoritario nel tono. Vivian Woodhams era il genere di persona capace di mettere in soggezione chi le stava accanto con uno sguardo diretto e una parola pacata.
Nemmeno Anna, suo malgrado, si scoprì del tutto immune alla presenza della zia. «C-certo. Certo che lo sono.» Si schiarì la gola. «Sono vostra nipote.»
«Perché sei qui?»
«Perché mi avete invitata.»
«Sul mio onore, non ho mai fatto nulla di simile. L'inclinazione alla menzogna è un’eredità materna?»
Anna sbatté le palpebre. L’attacco era stato crudele e inaspettato. Ma che cosa stava succedendo? Perché sua zia negava di averla invitata? E sul serio quella donna era la stessa persona che aveva scritto parole traboccanti affetto materno? Le sembrò più probabile che si fosse addormentata sul sedile del calesse, eppure era sicurissima di essere sveglia.  Quel che stava accadendo, stava accadendo davvero. Non poteva essere altrimenti.
Anna fece l'unica cosa sensata: aprì la borsello e tirò fuori i telegrammi.  
«Se non mi avete invitata voi, zia Vivian, allora chi ha scritto questi?»
La zia avanzò e, appena le fu dinanzi, Anna avvertì un intenso profumo di fiori, come se qualcuno le avesse appena aperto un potpourri sotto al naso.  «Sei pregata di rivolgerti a me come madam o signora Woodhams» disse la donna, tendendo una mano verso le carte. Le dita magre si allargavano in grossi nodi alla congiunzione delle ossa, tanto da somigliare a ramoscelli secchi, avvolti in una pelle raggrinzita.
Anna consegnò il plico di carte e la signora Woodhams si spostò verso il tavolo. Prese il tagliacarte dal vassoio, segò la cordicella con un colpo secco e sedette al centro esatto del divano scarlatto. Lei leggeva, in silenzio, mentre Anna se ne rimaneva in piedi, senza saper esattamente cosa dire. O cosa fare delle proprie mani. Si accontentò di studiare il profilo della zia. Sulle tempie, ciocche color cenere si mischiavano al castano dei capelli, raccolti in un’acconciatura tutta riccioli e trecce. La fronte era alta e il naso era diritto e stretto. Non c’era colore sulle guance flaccide ma la bocca sottile, i cui angoli sembravano costretti verso il basso da fili invisibili, aveva una sfumatura di rosso scuro. Le estremità esterne delle sbiadite sopracciglia, sopra gli occhi neri, puntavanoverso l’alto, in uno strano contrasto con il perpetuo broncio delle labbra. La signora Woodhams continuava a sfogliare i telegrammi. Anna notò la chatelaine, d’argento, agganciata alla vita del vestito; tra i gingilli che pendevano dal fermaglio, scorse una chiave, uno specchietto ovale e una paio di forbicine da cucito.
Dopo quella che ad Anna parve una mezza eternità, la signora Woodhams ripiegò l'ultimo telegramma.
«Di queste parole non una è mai uscita dalla mia penna o dalla mia bocca» disse la zia.
Al che, Anna ebbe una gran voglia a chiederle quand'è che era diventata tocca, ma prima che potesse farlo, la zia aggiunse: «È stato il signor Woodhams. A mia insaputa.» E volse lo sguardo sulle tende, attratta da uno scalpiccio di zoccoli che andava facendosi più forte e vicino. «Si parla del diavolo. Una volta tanto, la natura ritardataria del signor Woodhams ha sua utilità ― Siediti.»
Anna obbedì, sistemandosi nervosamente sul bordo della poltrona.
La signora Woodhams non disse più una parola. Restò seduta al centro del divano, composta e impettita, con la schiena diritta e le mani in grembo.
Non udivano più lo scalpiccio sul viale. Ma poco dopo, furono raggiunte dal chiacchiericcio nel vestibolo.
«La visita dagli Ellis è stata piacevole, signore?»
Anna riconobbe la voce della domestica bionda.
«Moltissimo» rispose una voce maschile, piena e pacata. «Sebbene, ancora non comprendo perché mai questo tennis sia diventato più popolare del croquet. Ai miei tempi, non ci piaceva altro. E che rimanga tra noi, Lillian, comincio a pensare di sostituire le mie gocce di laudano, alla sera, con un posto da spettatore a un scontro tra tennisti.»
La cameriera rise. «Signore, avete ospiti.»
«Ma davvero? A quest'ora?»
L'attimo dopo, fece la sua comparsa nel parlour un distinto signore in pantaloni di angora, cravatta di seta e giacca grigia, con un orologio d'argento nel taschino e assolutamente nulla di mefistofelico nell'aspetto. Più vecchio della moglie di quasi dieci anni, lo zio Woodhams aveva una placida faccia inglese, incorniciata da due folte e lunghe basette, e capelli bianchi come la barba di San Nicola.
Anna ebbe appena il tempo di alzarsi in piedi che il vecchio Woodhams aveva già compreso tutto: venne verso di lei, sorridendo, e a braccia tese. «Anna! In carne o ossa! Finalmente, sotto al mio tetto!» In men che non si dica, Anna si ritrovò stretta in un abbraccio vigoroso, che che odorava di tabacco, di brandy e di acqua di colonia. «Fatti guardare!» Lo zio fece un passo indietro, continuando a stringerle i gomiti. «Sei un fiore di ragazza! E che aspetto sano! Signora Woodhams, non è forse il ritratto della salute vostra nipote?»
La signora Woodhams, sublime ritratto della stizza, non fiatò.
«Ma, Anna, sei in anticipo. Credevo non saresti arrivata prima del diciassette di questo mese.»
«Oggi è il diciassette» disse Anna.
«Oh. Accidenti a questa mia testa, che non è mai stata brava col calendario. E l’età non aiuta. Ti chiedo scusa, poveri noi. Avrai pensato che il tuo vecchio e sciocco zio si fosse scordato di te! Ma, dimmi, da quanto sei arrivata?»
«A Maidstone questa mattina. Qui da nemmeno mezz'ora.»
«E indossi ancora il soprabito?» esclamò lo zio. Si guardò attorno. Guardò il tavoletto davanti al camino. «E non c'è il tè. Dov'è il tè? Signora Woodhams, le vostre maniere di padrona di casa si sono arrugginite?»
«Come la vostra capacità di tenermi al corrente dell'arrivo di ospiti» ribatté la signora Woodhams, con gelido distacco.
Per tutta risposta, lo zio Woodhams sfoderò un sorriso benevolo. Si avvicinò alla moglie, mise le mani sulle sue spalle e le stampò un bacio sulla guancia. Lei strizzò le palpebre, come in preda a una fitta di dolore.
«Suvvia, signora. Non tenetemi il broncio.»
«Avete mentito, quando vi siete offerto di occuparvi della risposta alla lettera.»
«Perché la notizia vi aveva turbata.»
«Avevate promesso di rispondere secondo i miei desideri.»
«Fui sul punto di farlo. Fin quando non ho realizzato che il rancore nei confronti di vostro fratello è un’immane ― permettetemi il termine ― idiozia. Il genere di insensatezza che mi sarei sentito in colpa ad alimentare. E adesso non guardatemi con quest'aria di rimprovero! Vi ho tenuto all'oscuro dell'arrivo di Anna, è vero. Ma l'ho fatto soltanto per risparmiarci settimane di proteste.»
«Suppongo non abbiate pensato alle conseguenze.»
«La sola conseguenza che prevedo è un po' di compagnia in più per questo inverno.»
La signora Woodhams continuò: «Voi sapete benissimo che cos'era la madre della ragazza. Guardatela. Guardatela bene. Non c'è modo di farla passare per inglese.»
«Può sempre divertirsi a fare credere la gente di essere spagnola» ribatté lo zio, in tono leggero.
«Già. La gente. Che cosa dirà la gente? Dopo quello che abbiamo rischiato pochi mesi fa, voi portate in casa nostra un―»
«Signora!» la interruppe il marito. Il tono giocoso si stava incrinando. «Rivendico il sacrosanto diritto di ospitare sotto il mio tetto qualsiasi parente mi aggrada, sia esso inglese, pellerossa, folletto o lillipuziano. E che se ne vada al diavolo - la gente. Lillian!»
La cameriera fu lì in un attimo.
«Prepara la camera degli ospiti» ordinò il signor Woodhams. «Anna, dove sono i tuoi bagagli?»
Anna disse di averli lasciati alla pensione in Brewer Street.
«Bene. Lillian, avverti Bert. Deve andare al George Inn, pagare per la camera e ritirare i bagagli di miss Anna Hawkins. E dì alla signora Blackwell di preparare subito del tè per tre.»
«Due» corresse la signora Woodhams. «Per due sarà sufficiente.» Si alzò in piedi, in una sinfonia di fruscii, e lasciò il parlour.
«Non badarci, Anna» sospirò lo zio. Si accomodò in poltrona, allungando le mani sui braccioli. «La cara signora non si lascia sfuggire occasione per abbandonare la scena come fossimo tutti in un dramma di Shakespeare. ― E ma Santo Iddio!» Si stava sfregando i palmi delle mani. Occhieggiò al camino spento. «Ogni volta che resto fuori l'intera giornata, ritrovo questa casa fredda come una cripta. Lillian, sii gentile, accendi il fuoco.»

*

Dopo essersi riscaldata con il tè, rimpinzata di biscotti e mandato giù, senza vergogna, due fette di pound cake al limone, Anna affrontò la spirale della scala a chiocciola con lo stomaco pieno e l'animo tranquillo. Lo zio Woodhams aveva affidato a Lillian il compito di mostrarle la casa e l’ambiente al piano superiore era tale a quello inferiore. Stessa tappezzeria verde a fiori, stesse lampade e una quantità non minore di quadri.
«Questa è la camera di vostro zio» disse Lillian, accennando alla prima porta sulla destra. «E quella è la stanza di madam.» Indicò la porta opposta.
Avanzarono lungo il corridoio: era largo e profondo, illuminato dalla doppia finestra sulla facciata, dietro la balaustra della scala.
«Il salottino del disegno» continuò Lillian. Era la porta successiva a quella della camera dello zio. «In tutta sincerità, non so perché lo chiamino così. Nessuno disegna, in questa casa. Immagino sia perché è rivolto ad est ed è molto luminoso. Ma lo troverete piuttosto piccolo, temo. Una volta era il vestibolo tra le due camere padronali. Adesso, la seconda camera è per gli ospiti... Insomma, è la vostra. Eccola...» La cameriera fece scattare il pomello e sospinse la porta. «In fondo al corridoio, c’è la stanza da bagno e le scale per i domestici. Da lì, si può raggiungere le stanze sull'attico.»
«E là che c’è?»
Anna stava guardando la porta di rimpetto a quella della camera degli ospiti.
La cameriera aggrottò la fronte. «Quella era la nursery.»
«Ci sono stati bambini in questa casa?»
Nessuno le aveva mai parlato di cugini.
«Una. Ma è morta. Tanti anni fa. Così mi ha raccontato la signora Blackwell.» Lillian sospirò. Poi, dopo un attimo di silenzio, ammise: «Io non ho mai visto quella porta aperta. Madam ha vietato ai domestici di metterci piede. Se ne occupa lei. E ha fatto fondere tutte le copie delle chiave. L'unica rimasta la tiene sempre con sé.»
«La chiave attaccata alla chatelaine?»
Lillian fissò Anna, stupita dalla sicurezza della deduzione di lei. Annuì.
«E non vuole che nessuno ci entri. È strano...»
«No, è solo triste. Dev'essere stato terribile perdere quell'unica bambina. Non avete notato che madam veste ancora a lutto? ― Ma venite adesso.»
Entrarono. La camera era priva della folla di suppellettili, divanetti e poltroncine che presiedevano il parlour. Lungo la tappezzeria si alternavano strisce bianche e crema. I mobili di mogano erano massicci ma limitati all'essenziale. C’era un vanity addossato in un angolo, vicino al catino e alla brocca dell’acqua; uno scrittoio sotto alla finestra e una cassettiera di fianco alla porta. Anna vide il baule e borsa da viaggio, che attendevano di venir svuotati, accanto a una poltroncina ai piedi del letto. Soprabito, scialle e guanti stavano, accuratamente piegati, su una sedia imbottita. Nel caminetto scoppiettava un placido fuocherello, ma la camera era ancora fredda.
«Spero sia di vostro gradimento» disse Lillian.
«Oh, è perfetta» rispose Anna. Lo credeva davvero, perché mai prima di allora le era stata offerta una sistemazione simile. Spiò tra le tende della finestra. Era ormai notte. Anna vide un prato chiuso, in lontananza, da una fila di bassi alberi. Lasciò ricadere le tende e andò a stendere le mani verso il fuoco. C’era un quadro, appeso sopra la mensola ― l’unico presente nelle stanza. Era una scena bucolica. Una pastorella, vestita di bianco e di rosa, dormiva lungo la riva di un sassoso ruscello.
«Se solo il padrone ci avesse avvertito» sospirò Lillian, «vi avrei fatto trovare dei fiori freschi.»
Anna le sorrise. «Va bene anche così. Non devi disturbarti...»
«Oh, non è un disturbo» insistette la domestica. «Non c’è niente che mi piaccia come i fiori. ― Se mi date la chiave del baule, sistemo i vostri vestiti.»
«No!»
Anna si maleddisse immediatamente per essere scattata in quel modo. Abbozzò un sorriso. «Io... preferisco fare da sola.»
«Come volete. Vi preparo il bagno, nel frattempo?»
Anna disse sì, ringraziò e stette a guardare Lillian voltarsi e chiudere la porta. Attese, con un crescendo di batticuore, di non sentirne più passi.
A quel punto, andò alla porta. La chiave era rimasta nella serratura e lei la fece scattare.
Sola, chiusa dentro, un improvviso malessere le rimbalzava tra stomaco e cuore. Un attimo, era nausea. E l’attimo dopo, era un dolore in mezzo al petto. Trovò la forza d’animo necessaria a recuperare la chiave dal borsello. Si inginocchiò davanti al baule e lo aprì.
Il primo strato di stoffa erano pantaloni e giacca da uomo. Sarebbe stato un gran fastidio spiegare alla domestica perché quegli abiti si trovavano nel suo bagaglio, ma non erano la fonte dell’agitazione di Anna. Lei li sollevò e li appoggiò sul letto. Quindi, infilò una mano in mezzo alla camicia da notte ripiegata e cavò fuori fagotto ricavato da un fazzoletto di lino.
Anna sedette sui talloni. Sciolse il nodo. La stoffa svelò un libriccino di ruvida pelle, tenuto chiuso da un nastro bianco. Il nastro teneva anche fermo un anello dall’aspetto insolito. Era di fattura semplice, liscio, ricavato dal ferro. Lo decorava una pietra ovale, trasparente come il vetro, e poco più grande dell’unghia di un mignolo.
Trascorse un minuto intero senza che Anna accennasse ad alzarsi dal tappeto, o anche solo ad alzare lo sguardo dal libro e dall'anello.
Poi, sospirò. Chiuse gli occhi. Lentamente, annodò di nuovo il fazzoletto e finì di svuotare il baule, gettando sul materasso la camicia da notte, le calze, i vestiti di seconda mano e un cofanetto di legno, che valeva anche meno delle spazzole e i nastrini al suo interno.
Ma il baule non era ancora vuoto.
Quella che giaceva sul fondo sembrava la valigia di un medico.
Anna la fissò per un lungo attimo, con il volto tirato e le mani aggrappate al bordo del baule. Poi, allungò le braccia per tirare su la valigia. Era pesante come ricordava. La spostò nell’ultimo vano della cassettiera. Nel mentre, prese in considerazione di sotterrare là sotto anche il libro e l’anello. Ma alla fine, riluttante, decise che avrebbe tenuto l’anello nel cofanetto; e  fu il libro a finire sul fondo della cassettiera.
Quando Anna ebbe finito con il baule e la borsa, con suo sommo sollievo, Lillian non era ancora tornata e lei ebbe il tempo di gettarsi in poltrona e chiedendosi se non sarebbe stato meglio seppellire la valigia insieme a suo padre. Se l'avesse fatto ora si sarebbe sentita veramente e completamente libera. Ma ormai era tardi. ‘Non l’aprirò mai più’ promise. ‘Non la guarderò mai più. Non ci penserò mai più.’ 

   
 
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