A te
che sei la zie Ele
… e
la Ele zia.
Banana
Bevve una tazza di tè con un’espressione radiosa stampata sul
viso.
Che silenzio.
Non capitava da
secoli, ormai, che in casa aleggiasse una tale calma. Un clima di beata
solitudine lo circondava. Non poteva chiedere di
meglio.
Shikamaru non era in casa poiché occupato in una noiosissima
missione; Yoshino aveva deciso che quel giorno era “la giornata delle spese” e
si era dileguata, con il suo
borsellino in mano e un’innaturale voglia di
spendere.
Naturalmente, Shikaku aveva capito che quella della moglie non era
che una scusa per comprargli il regalo di anniversario, che sarebbe stato il
giorno seguente. E, sempre naturalmente, anche quell’anno Shikaku non aveva la
minima intenzione di ricordarsi di quel giorno. Era così seccante rimuginare su quanto tempo
avesse sprecato in compagnia di quella donna, quando il suo fisico prestante e
il suo volto vissuto facevano ancora battere il cuore alle giovani fanciulle di
Konoha.
Eh già, aprì gli occhi, era ancora un uomo tremendamente
affascinante.
Era proprio sul punto di addormentarsi per schiacciare l’ennesimo
pisolino della giornata (ormai si addormentava e svegliava saltuariamente ogni
quarto d’ora) quando un forte tonfo proveniente dal piano superiore (il solaio,
precisamente) lo destò.
Corrugò la fronte, assonnato e seccato allo stesso tempo, cercando
di convincersi che quel rumore era stato semplicemente frutto della sua fervida
immaginazione, dello stress dovuto al troppo lavoro e di una qualche
allucinazione da stanchezza.
Purtroppo, le sua capacità di persuasione rasentavano lo zero.
Riuscì tuttavia a convincersi ad alzarsi dalla poltrona per controllare; se a quella donna fosse venuto in mente di
salire in soffitta e si fosse accorta di un qualsiasi possibile disastro dovuto
a qualcosa di essenzialmente sconosciuto, se la sarebbe sicuramente presa con
lui. E quella era l’ultima cosa che voleva.
Davvero.
Gradino dopo gradino, a fatica, raggiunse il solaio. Ecco
cos’aveva causato il rumore: la caduta di uno scatolone da un vecchio armadio
tarlato. Il responsabile era un piccolo topolino grigio, che ora squittiva da
dentro lo scatolone, cercando invano di rosicchiare un vecchio portafogli di
pelle.
Shikaku sorrise, intenerito. Prese in mano il topolino e,
attraverso una finestrella, lo appoggiò sulle tegole del
tetto.
«Va’ e sii felice!» commentò, con fare melodrammatico. Il
roditore, in tutta risposta, squittì riconoscente, mentre scompariva dietro la
grondaia.
Ritornato nel solaio polveroso, Shikaku raccolse da terra lo
scatolone. Conteneva cimeli delle sua infanzia, a partire dal vecchio portafogli
fino ad arrivare ad un album di fotografie.
Incuriosito, aprì l’album, scoprendo le fotografie della sua
adolescenza: Choza e Inoichi sorridevano con lui, facendosi le corna l’uno con
l’altro dietro la testa; il primo bacio di Inoichi con Mikoto; Inoichi che
veniva inseguito da Fugaku; Inoichi pestato a sangue da Fugaku; lui e Choza che
ridevano mentre Inoichi veniva rifiutato da Tsume… aaah, che bei
ricordi…
Mentre sorrideva divertito, una delle fotografie scivolò fuori
dalle pagine ingiallite ed increspate. Ritraeva lui e Yoshino, seduti su una
panchina sotto una quercia.
Se la ricordava bene quella panchina,
lui…
#1. Il
primo
odio non si scorda mai
Yoshino si sedette sulla panchina, incrociando le gambe e
appoggiando il libro di teoria delle arti curative sulle ginocchia. Prese a
leggere avidamente: la settimana seguente avrebbe avuto un esame e doveva
assolutamente essere la migliore, mantenendo il suo primato tra tutte le altre
allieve.
Il sole primaverile picchiava forte sul suo collo; si sciolse la
coda di cavallo, lasciando che la cascata di capelli corvini le ricadessero
sulle spalle. La frescura la invase, sollevandola.
Shikaku passeggiava da solo, con le mani in tasca e il passo
cadenzato. La primavera gli infondeva un senso di sonnolenza addirittura
superiore a quello dell’inverno. Il sole caldo, il calore che abbracciava il
corpo e il morbido prato verde… oh, sì, avrebbe schiacciato il miglior pisolino
di tutta la primavera.
Determinato come non mai a trovare un prato il più verdeggiante e
morbido possibile, si diresse verso la solita collinetta, alla solita quercia,
alle solite due radici a forma di poltrona che l’accoglievano sempre
volentieri.
Stava faticosamente arrancando da ben quarantacinque secondi
quando (sacrilegio!) vide che una scomodissima panchina legnosa, pressoché
nuova, era stata posta esattamente (argh!) sotto la SUA quercia, proprio nel SUO
posticino preferito, tra le due radici a forma di poltrona; e, come se non fosse
abbastanza, una ragazza aveva persino occupato quella maledetta
panchina.
Il tredicenne Shikaku Nara provò, per la prima volta nella sua
vita, un odio irrazionale verso quella femmina usurpatrice del suo trono.
«Ehi, donna!» l’apostrofò il ragazzo. «Sei nel mio
territorio!»
Yoshino alzò appena lo sguardo, corrugando la fronte. «Ah, sì? Non
vedo il tuo nome scritto da nessuna parte…» rispose, rifacendosi la coda alla
velocità della luce, con superbia saccenteria.
«Perché non è la panchina il territorio di cui sto parlando…»
ribatté Shikaku, scoccandole un’occhiataccia, imitando la voce altezzosa della
ragazza. «Mi riferisco a ciò che è sotto la
panchina.»
Con un rapido scatto d’occhi, Yoshino notò che la panchina copriva
perfettamente una deformazione delle radici, che assomigliava vagamente ad una
seggiola.
«TI riferisci a questo?» domandò, indicando le
radici.
«Precisamente.»
«Beh, mi dispiace, ma ora ci sono io qui. Quando me ne andrò
potrai usufruire di quella sedia.»
sottolineò, marcando pesantemente l’ultima parola.
«E tu te ne andrai ora, perché io non ho intenzione di tornare
indietro.» sbottò Shikaku, sedendosi sull’erba e incrociando le braccia al
petto.
«Come vuoi.» Yoshino tornò ai suoi
studi.
Trentasette secondi dopo, la ragazza rialzò la testa. «La vuoi
smettere di fissarmi? Mi dai fastidio.» sibilò,
inviperita.
«Fatti tuoi.»
Trascorsi cinquantanove secondi e mezzo, Yoshino tornò alla
carica.
«Carissimo, o te ne vai o sarò costretta a dartele di santa
ragione.» soffiò, con occhi sottili e sguardo perfido. Shikaku quasi (ma solo quasi) si
spaventò.
«Tu? Secondo me non riesci nemmeno a toccarmi!» la canzonò,
rialzandosi dall’erba e guardandola con palese scetticismo. Nel medesimo
istante, Yoshino sparì dalla sua vista. Shikaku (senza il “quasi”) si
spaventò.
La ragazza apparve dietro di lui e provò a colpirlo con un pugno,
ma il ragazzo, essendo notevolmente più forte, la frenò, bloccandole le mani
dietro la schiena in una semplice mossa. Capì troppo tardi che Yoshino non si
aspettava altro che quello per poter avere le gambe libere e assestare un colpo
ben piazzato in luoghi che solitamente Shikaku non mostrava in
pubblico.
Cadde in ginocchio, gemendo dal dolore, tenendosi la parte lesa
che sembrava pulsare dal colpo.
Odiava le donne. Odiava le donne coi capelli neri. Odiava le donne
con i capelli neri raccolti in una coda. Odiava
Yoshino.
E, mentre guardava la ragazza tornare a sedersi e imbracciare il
libro di teoria, capì che era rimasto fregato.
Vorrei poterti scrivere una dedicona lunghissima e strappalacrime
sulla nostra amicizia, su quanto tu sia importante per me, su quanto ti voglio
bene, su quanto sia legata a te, su cosa precisamente tu sia per me, su
quanto sia bello avere una sorella maggiore…
Però non sono capace, quindi accontentati!
ù.ù
Zia, sei la migliore!!! Spero apprezzerai questa piccola raccolta,
intitolata con la prima parola che ti è venuta in mente ieri.
XD
Ti voglio bennnne.
Aka-chan