Il clacson in strada suonò troppo a lungo. A
esso riuscì di portare a termine il compito che la luce del mattino non era stata
in grado di ultimare: svegliare Jack.
Il ragazzo aprì gli
occhi nel chiarore del mattino. Intorno a lui, fra il bianco, non fu in grado
di riconoscere la camera da letto in cui si trovava. Aveva qualcosa di
famigliare, segno che ci era già stato. La cosa lo aiutò a tranquillizzarsi
quando tutto prese improvvisamente a vorticare. Il semplice giramento di testa
gli permise di capire che, la sera precedente, nulla più dell’alcol – e forse
neanche troppo di quello – era entrato nel suo corpo; altrimenti i postumi
sarebbero stati differenti e ben più pesanti. Si appoggiò sui gomiti, ancora
intontito. Le lenzuola di cotone gli scivolarono di dosso, fermandosi poco
sotto l’ombelico. In quei brevi istanti ogni parte del suo corpo venne
accarezzata dalla stoffa chiara e delicata, cosa che gli fece intendere che non
stava indossando niente sotto di essa. Per lui poteva significare una cosa
soltanto. Si voltò per vedere se, alla sua sinistra, l’altro ancora stava
dormendo. Il sorriso che gli si era dipinto in volto a quel pensiero, scomparve
improvvisamente.
La persona addormentata
accanto a lui gli dava le spalle. Le lenzuola seguivano fedelmente i contorni
del suo corpo: la vita sottile, i fianchi morbidi e le linee formose. Le spalle
scoperte permisero a Jack di vedere la pelle diafana in quei pochi centimetri
che introducevano la linea che scendeva lungo la schiena. I lunghi e setosi
capelli biondi erano sciolti e arruffati, liberi sul cuscino.
Il cuore del ragazzo
rallentò di colpo. Accanto a lui, nel letto, c’era una donna e non una
qualsiasi, bensì Riley.
Numerose domande
cominciarono a riempirgli la testa ma, sopra a tutte, la più insistente era una
soltanto: come era stata possibile una cosa simile?
Jack non riusciva a
staccare gli occhi dal corpo della ragazza accanto a lui. Contemporaneamente
costringeva il suo cervello a tentare di ricordare, a ripercorrere i minuti e
le ore precedenti. La testa continuava a
girargli; per colpa dello shock lo fece con forza maggiore. Tuttavia fra la
confusione ammassata dentro di lui – accresciuta ancora di più alla vista di Riley
– le cose cominciarono a delinearsi con lentezza e dolore. Aveva pensato bene,
pochi minuti prima. La sera precedente aveva, sì, bevuto, ma non troppo. Per
tale motivo dopo l’iniziale momento di smarrimento riuscì a ricordare tutto. I
ricordi riaffiorarono smossi nella sua testa. Andarono a riempirgli il
cervello, gli occhi; gli contorsero lo stomaco e fecero crescere in lui il
forte peso del rimorso.
*
Appartamento
N° 23 – La sera precedente.
Jack premette con una tale forza l’icona rossa
del telefonino che se lo schermo dello smartphone si fosse crepato non ne
sarebbe certo rimasto sorpreso. Come la chiamata venne chiusa il ragazzo, in
preda a un impeto di rabbia intenso come non gli succedeva da tempo, lanciò il
cellulare contro il divano, liberando insieme a quel gesto un verso d’ira. Si
portò le mani sul viso nel vano tentativo di riuscire a regolarizzare il
respiro. Era inutile. Aveva la mascella tesa per la rabbia che stava provando e
un tale senso di frustrazione dentro da non riuscire a trovare neanche con il
pensiero il modo migliore per sfogarsi.
Louis
lo aveva fatto di nuovo. Era riuscito a farlo sentire una nullità, il piacevole
diversivo con cui amava crogiolarsi di tanto in tanto, ma da tenere ben
nascosto alla vista del mondo. Da più di sei mesi la loro relazione andava
avanti, tuttavia lo faceva in modo strascicato, con continui alti e bassi e
sempre minacciata dalla luce della verità, che avrebbe potuto smascherarli da
un momento all’altro.
Louis
era sposato. Per un uomo di politica del suo calibro mostrare all’America la
sua famiglia perfetta – eterosessuale, felice e completa – era fondamentale.
Tuttavia, più di due anni prima, il politico non era riuscito a rimanere
indifferente davanti agli occhi grigio-azzurri di Jack già dal momento del loro
primo incontro a un brunch. Jack era là, all’epoca, sotto le sembianze di uno
dei due figli di Benjamin Miller – il Presidente degli Stati Uniti –,
dichiaratamente omosessuale e notevolmente annoiato. Ai due era bastato un
drink insieme e poche parole perché fosse evidente la complicità che, in
qualche modo, li avvicinava.
A
ogni loro incontro l’attrazione si rafforzava. Jack aveva cominciato a
considerare sempre meno irritanti le cene formali a cui era costretto ad andare
in quanto a figlio del Presidente. Erano il modo più efficace per interagire
con Louis, per conoscerlo meglio, per ammirarne l’innata bellezza, dai capelli
biondi ed elegantemente arruffati e dagli occhi azzurri che sembravano costantemente
alla ricerca di quelli di Jack.
Poi,
circa sette mesi prima, Louis si era lasciato andare. Jack lo aveva accolto ben
volentieri fra le proprie braccia, condividendo con lui il tempo, il letto, la
musica che amava suonare al pianoforte e la cocaina che sempre più spesso
acquistava a notte fonda.
Da
allora si vedevano con frequenza maggiore. Jack – ormai figlio dell’ ex Presidente – era diventato l’amante
di un politico in carriera, in ascesa. E se ne era innamorato. Dall’altra parte c’era Louis, che aveva sempre
sostenuto di ricambiare i sentimenti dell’altro e che si diceva pronto a
lasciare la moglie e la figlia per poter stare insieme a lui.
In
quei mesi, però, non lo aveva mai fatto. Aveva ripetuto a Jack che avrebbe
chiesto il divorzio a breve un’infinità di volte e quest’ultimo, come uno
stupido, ci credeva di continuo. Tuttavia Louis non aveva ancora lasciato la
moglie; non le aveva neanche accennato nulla riguardo la sua nuova storia.
Per
tale motivo, quel giorno, avevano litigato ancora. All’ennesima richiesta da
parte di Jack di poter rendere nota al pubblico la loro relazione, Louis aveva
risposto che gli serviva ancora tempo, che lui non avrebbe potuto capire, che
non sarebbe mai stato considerato normale
quello che avveniva fra loro. Lo screzio era degenerato in una violenta lite
telefonica, fatta di imprecazioni, di inesattezze e di continui scarichi di
colpa. Era poi sfociata nel silenzio quando Jack aveva chiuso la conversazione
con rabbia, lanciando il telefono contro il divano che aveva di fronte.
Frustrato,
fece scivolare le mani fino ai capelli corvini, spettinandosi più di quanto già
non fosse. Raggiunse il pianoforte e si sedette, convinto che la musica avrebbe
potuto aiutarlo. Non riuscì a decidere una canzone da suonare. Molte le aveva
dedicate a Louis ed era consapevole che non sarebbe riuscito a suonarle senza
finire con il pensare a lui. Decise di lasciar stare lo strumento. Con suo
rammarico la musica non avrebbe potuto aiutarlo, questa volta. Raggiunse di
fretta uno dei cassetti del mobile della camera da letto. Dentro cercò fino a
trovarlo un piccolo ovulo di pellicola trasparente, usato a protezione di una
soffice polvere bianca. Tornò in soggiorno con quello in mano, si sedette sul
divano – ignorando completamente il telefono cellulare – e dispose la poca
polvere che gli era rimasta in due strette file. Arrotolò una banconota da un
dollaro e si preparò a inspirare tutto.
Non
lo fece. Rimase fermo a guardare le due strisce di polvere in maniera assente,
la mascella ancora contratta per la rabbia. Con gesti nervosi delle dita
continuava a tormentare la banconota arrotolata che aveva in mano. Era troppo
arrabbiato, troppo nervoso. In un simile stato la cocaina avrebbe certo potuto
aiutarlo, ma un parte di lui si rifiutava di assumerla; semplicemente non la
voleva. Avrebbe dovuto trovare un altro modo per togliersi dalla mente Louis
per un po’ e in un improvviso momento di realismo si rese conto che, da solo,
non ci sarebbe mai riuscito.
Non
perse neanche tempo a infilarsi un paio di calze. Attraversò a piedi nudi quel poco di strada che lo separava
dall’ingresso dell’appartamento che aveva di fronte. Bussò un paio di volte,
rimanendo in attesa. Quasi subito Riley comparve sulla porta. Indossava una
t-shirt bianca, larga e morbidi pantaloni da tuta. I capelli biondi erano
legati in un disordinato chignon che si ergeva sopra la sua testa. Come vide il
ragazzo sorrise, già perfettamente consapevole che a bussare era stato lui.
«Spero
di non disturbare» esordì Jack, abbozzando un sorriso. Trovarsi davanti la
ragazza lo aiutò notevolmente a sentirsi meglio.
Loro due si erano
conosciuti poco dopo l’arrivo del ragazzo nel condominio. Come per tutti i
vicini di casa, avevano iniziato salutandosi sulle scale quando si
incontravano. Erano poi passati a brevi conversazioni sul pianerottolo, davanti
ai reciproci ingressi, finché non ne erano scaturiti i primi inviti a bere
qualcosa, a prendere un caffè. Riley e Jack erano così diventati amici.
Lui si trovava
incredibilmente bene in sua compagnia. Stando con Riley non provava il minimo
bisogno di assumere qualche sostanza per rilassarsi; con lei non servivano
alcolici, cocaina o cose del genere. Riley aveva una tale naturalezza implicita
nei gesti che era più che sufficiente per stare bene insieme a lei.
I due per lo più
parlavano, guardavano film alla televisione, alle volte giocavano con la Playstation
della ragazza, mantenendo sul divano fra loro un pacchetto di marshmallow che,
quando veniva aperto, era predestinato a finire.
Riley sapeva
dell’omosessualità di Jack e a lui piaceva il fatto che era una delle poche persone
che non lo faceva sentire sbagliato
per questo. Perfino la sua famiglia, di tanto in tanto, lasciava trapelare di
non aver totalmente trovato una spiegazione alla situazione del figlio,
nonostante gli volessero veramente bene.
«Non disturbi tu, dovresti
saperlo.»
La ragazza aprì
maggiormente la porta, dando le spalle a Jack che lo prese come il giusto
invito a entrare. Casa di Riley profumava sempre e anche quella sera non era da
meno. Nel suo piccolo soggiorno – così uguale a quello del ragazzo – aleggiava
un leggero sentore di noci tostate. Lei si sistemò accanto al tavolo, a cui si
appoggiò leggermente con il fianco. Incrociò le braccia sotto i seni, rimanendo
a osservare l’amico. Non era solo dovuto al fatto che lo aveva sentito gridare
diversi minuti prima, le bastò poco per capire che in Jack qualcosa non andava.
Riley decise di affrontare la questione per gradi, di non essere schietta nel
chiedere al ragazzo cosa fosse successo e di farlo soltanto se si fosse
presentata l’occasione giusta.
Jack le offrì
quell’occasione praticamente subito. Alla ragazza non sfuggì il modo in cui si
guardava intorno, né l’incertezza di cui erano pieni i suoi occhi chiari mentre
evitava accuratamente il suo sguardo.
«Va tutto bene?» chiese,
semplicemente. Lui portò immediatamente gli occhi su di lei. Rimase a guardarla
come se si fosse ricordato solo in quel preciso istante il posto in cui si
trovava. Poi incurvò lentamente le labbra in un sorriso amaro e ferito:
«Abbiamo litigato di nuovo» mormorò.
Riley abbandonò le
braccia lungo i fianchi, senza rispondere. Jack aveva nuovamente allontanato lo
sguardo, puntandolo sul mobilio dell’angolo cottura alle spalle della ragazza.
«Vuoi sederti?»
Gli indicò con un cenno
del capo il divano. Lui si limitò ad annuire, andando a sistemarsi su una delle
due estremità. Il divano di ecopelle nera della ragazza era ormai rovinato e
sfondato dagli anni, ma ancora piuttosto comodo. Jack ci si sistemò e incrociò
le gambe sul cuscino. Riley lo raggiunse poco dopo. Posò una bottiglia di vino
e un paio di bicchieri sul tavolino che avevano davanti e si accoccolò accanto
al ragazzo, il corpo ruotato verso di lui. Jack afferrò la bottiglia e, per la
prima volta da quando era entrato nell’appartamento n° 24, parve rilassarsi veramente.
«Mi ricordo di questa»
disse, sorridendo. Aveva regalato lui quella bottiglia a Riley, diverse
settimane prima.
Lei estrasse dalla tasca
dei pantaloni il cavatappi e lo porse a Jack. Questi, senza troppi problemi,
stappò la bottiglia e versò generose quantità del liquido scuro nei due
bicchieri. Ne bevve un lungo sorso, preparandosi a ricevere il primo affondo
della ragazza. Non si fece attendere, infatti: «Cos’è successo questa volta?»
Lui si voltò a
guardarla. Riley teneva gli occhi sul bicchiere, muovendolo leggermente affinché
il vino potesse far arrivare al suo naso l’aroma.
«Non lo ha ancora
detto a sua moglie. Comincio a
sospettare che non lo farà mai.»
Quell’ammissione lo fece
star male. Ingollò ciò che gli era rimasto nel bicchiere e si pulì la bocca con
il dorso della mano. La conversazione di poco prima con Louis gli tornò alla
mente, così come il forte senso di frustrazione che era stranamente scomparso
alla vista di Riley. Si versò un secondo bicchiere di vino.
«Jack ne abbiamo già
parlato. So che sei innamorato di Louis, ma forse è meglio lasciare perdere
questa storia, non credi?»
Lo costrinse a
guardarla: «Lui è un politico. È in un momento delicato della sua carriera.
Comincia a farsi un nome, a essere notato in giro. Porta avanti l’immagine
della famiglia modello, davvero pensi che metterebbe a rischio tutto per mostrare
alla luce del sole una relazione omosessuale?»
Jack rimase a guardarla
negli occhi. La disarmante verità che gli aveva appena raccontato non lo fece
arrabbiare quanto avrebbe potuto fare sentirla pronunciare dalla voce di sua
madre, di suo padre o di suo fratello. Quelle parole, dette da Riley, suonavano
come una realtà sconsolante, a cui non si sarebbe potuti sfuggire neanche
aggrappati alle fantasie o le illusioni più forti.
«Ma lui mi ama» provò a
replicare. Un tentativo debole che suonò tale anche a lui stesso. Si sentì
improvvisamente crollare. Un misto di rabbia e tristezza lo avvolsero. Rabbia
perché si trovava ad affrontare una storia male assortita, in cui si era buttato
convinto di compiere le scelte giuste ma che invece si dimostravano sempre più
sbagliate. E tristezza, perché tutto ciò lo faceva stare male.
Riley non rispose
all’affermazione instabile fatta da Jack poco prima. Terminò il suo bicchiere
di vino, mentre il ragazzo già si versava il terzo in preda alle sue angosce.
«Non riesco a mettere in
piedi una storia sincera» disse lui all’improvviso, finendo in fretta anche il
terzo bicchiere. Riley si voltò a guardarlo. Gli occhi grigio-azzurri erano
puntati sul tavolino che aveva davanti, le labbra incurvate in
un’incomprensibile smorfia. «Rovino sempre tutto. Mi illudo che le persone
siano sincere con me anche quando non è vero.»
D’improvviso guardò la
ragazza: «Sono solo un passatempo e io ogni volta mi convinco di non essere
tale. Come si può pensare che uno come Louis rinunci alla carriera per stare
con me? Sono il figlio gay dell’attuale Segretario di Stato e il nightclub che
voglio aprire è ancora solo un mucchio di carta e scarabocchi. Non potrei mai
essere alla sua altezza.»
La sua voce si fece
nervosa, irritata. Riley si accorse che tremava leggermente e che era
profondamente addolorata. Tuttavia Jack si sentiva sempre più nervoso e più
frustrato. Voleva solo dimenticarsi di ciò che gli era successo. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per capovolgere le cose. In quel momento sentì che la cocaina
che aveva nell’appartamento gli sarebbe potuta essere utile. Non potendola
prendere, però, si limitò a versarsi un nuovo bicchiere di vino.
«Non è colpa tua.»
La voce di Riley sferzò
l’aria. Lui si voltò di scatto a guardarla, ma gli occhi della ragazza erano fissi
sul nulla di fronte a lei. Il verde acquoso di cui erano intrisi si era
appannato. Quando ricambiò lo sguardo di Jack ci mise un po’ a riprendere
parola: «Non è colpa tua se le persone ti trattano male, se non hanno il minimo
ritegno per i tuoi sentimenti.»
Si strinse nelle spalle
di fronte all’occhiata perplessa lanciatale dal ragazzo. «Credi di essere
l’unico a cui le cose vanno da schifo?»
«Io…» tentò di dire lui,
ma le parole gli morirono in gola. Riley gli si mostrò davanti più fragile di
come l’avesse mai vista, alle prese con tormenti invisibili ai suoi occhi.
Tuttavia Jack non riusciva a trovare pace.
«Non c’è niente di male
a lanciarsi in una storia, sai? A provare, sperando che le cose vadano per il
verso giusto. Il problema è che quando le cose non vanno bene si rimane
scottati.»
Gli occhi della ragazza
si allontanarono. Jack appoggiò i gomiti alle ginocchia e si protese verso di
lei. «Perché non me l’hai mai detto?» le chiese.
Riley sentì lo stomaco
stingersi tanto erano vicini gli occhi di Jack quando sollevò i suoi per
guardarlo. «Dirti che cosa?» mormorò.
«Che condividiamo la
stessa sorte. Che siamo entrambi innamorati di qualcuno che non ci ricambia
realmente.»
L’aroma di lamponi che
possedeva il vino si riusciva percepire leggero
nell’alito del ragazzo. Era troppo vicino per Riley e non riuscire a scomporsi
davanti a quella che per lei era assoluta perfezione fu impossibile.
Era Jack la persona di
cui Riley era innamorata. La loro amicizia si era trasformata ben presto in una
maledizione per la ragazza e lo aveva fatto nel momento esatto in cui la
consapevolezza che lui non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti si era
annidata fra cervello e cuore. La cosa la faceva stare male, ma si era
ripromessa di non rovinare il legame che la univa a lui per un capriccio. Non
poteva contare neanche sull’attrazione fisica. Con Jack non aveva speranze per
il semplice fatto che lui non l’avrebbe mai guardata come un uomo guarda una
donna.
I quattro abbondanti
bicchieri di vino ingurgitati in fretta da Jack stavano già cominciando a
rendere le sue percezioni ovattate. La consapevolezza dei propri gesti era
allentata, i freni inibitori sciolti. Per questo motivo quando Riley schiuse le
labbra, facendo scivolare gli occhi verdi per un solo momento sulla bocca del
ragazzo, lui non fu in grado di bloccare il fremito che lo percosse.
Baciò Riley. Lo fece con
intenzione, con foga, come se lei fosse l’unica cosa in grado di permettergli
di dimenticarsi di Louis. La ragazza ricambiò senza esitazione quel bacio, che
si fece via via anticamera di qualcosa di ben più passionale. Jack la strinse a
sé; lei fece aderire con perfezione il corpo a quello del ragazzo. I primi
vestiti cominciarono a sfilarsi, i respiri, sempre più ansanti e sovrapposti,
divennero leggeri gemiti, strozzati fra le loro labbra. Il disordinato chignon
di Riley si sciolse e Jack ebbe modo di sentire i capelli, lisci e morbidi come
seta, colpire delicati la sua mano mentre questa scorreva lungo la schiena nuda
della ragazza.
Per lui era tutto
strano, diverso. Aveva la mente
completamente annebbiata e non gli riuscì – né gli andava – di fermarsi. Per la
prima volta in quella sera Jack non stava pensando assolutamente a niente.
Ciao
a tutti!
Innanzitutto
vi ringrazio per aver letto il primo capitolo di questa mia nuova long. È la prima
volta che scrivo una cosa del genere e spero che vi piaccia fino alla fine.
Ora,
ci tengo a fare una precisazione. Questa storia è fortemente ispirata a una
serie TV chiamata Political Animals, mai uscita in Italia.
Volevo
semplicemente farvi sapere che – ahimè – questo lavoro non è totalmente farina
del mio sacco, anche se ho cambiato cose a sufficienza perché non sia neanche
una fanfiction dedicata a quella serie TV.
È
una sorta di compromesso, diciamo così.
Spero
davvero che proseguiate nella lettura e, soprattutto, spero che questo lavoro
sia di vostro gradimento.
Grazie!
MadAka