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Autore: Nonsonoio    30/03/2016    0 recensioni
È una tremula giornata d’autunno e le foglie si mantengono incerte sui rami di un grande viale alberato, velate nella notte. Potrebbero cadere da un momento all’altro lasciando il mondo con l’illusione che sono ancora lì per qualche ora, finché la luce non avrebbe illuminato i loro minuscoli corpi uccisi dalla notte che scorreva serena e sincera, abbracciando gli scheletri di tutte le sporche anime che avevano paura di buttarli via dai loro grossi armadi.
Il jazz, quello che lui chiamava "Suono del cuore".
Quel bar.
Quell'assassino.
Quella ragazza, Asia.
Quel bar.
Quell'angolo di paradiso.
Folie à deux.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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È una tremula giornata d’autunno e le foglie si mantengono incerte sui rami di un grande viale alberato, velate nella notte. Potrebbero cadere da un momento all’altro lasciando il mondo con l’illusione che sono ancora lì per qualche ora, finché la luce non avrebbe illuminato i loro minuscoli corpi uccisi dalla notte che scorreva serena e sincera, abbracciando gli scheletri di tutte le sporche anime che avevano paura di buttarli via dai loro grossi armadi.

Mi incammino con mio padre verso casa, dopo averlo ascoltato tastare e fare pressione sulle varie chiavi del suo amato sax facendo crescere in me un’emozione nuova e inaspettata sotto il simbolo di quello che lui chiamava “suono del cuore”: il jazz. È un pover’uomo, pensavo, l’unica persona diplomata in conservatorio che ha la necessità di sporcarsi le mani in una fabbrica di scarpe per far sì che il suo unico figlio abbia qualcosa da mangiare ogni giorno. Nell’era del pop e del commercio, era l’unico musicista che doveva portare suo figlio ad una sua esibizione perché non aveva una moglie che potesse preparargli una cena e per evitare di indebitarsi con qualcuno doveva approfittare del buffet del teatro.
Improvvisamente mio padre si accascia a terra incontrando quelle foglie già morte e distruggendo l’illusione che volevano creare insieme alla notte, e lascia scatenare un denso e grave scroscio quando le sue ginocchia pesanti toccano l’asfalto ricoperto di secchi cadaveri. Il laccio del suo pendente, un orologio che aperto aveva sull’altra faccia un piccolo specchietto che il mio vecchio era solito usare per controllarsi la bizzarra e malcurata dentatura di tanto in tanto, si tagliò sfiorando la lama che gli si affondava nel collo. Nel battito di palpebre in cui il mio sguardo si è imbattuto in quello specchietto ho avuto un sussulto, un gelido terrore ha pervaso tutto il mio corpo e mi ha elettrificato il cuore. In quello specchietto non c’era il mio riflesso, ma una terribile e calunniante faccia bianca con profondi e scolpiti occhi completamente neri con delle minuscole pupille rosse e dei grandi denti affilati.
 
La trepidante paura mi fa svegliare nel cuore della notte nella schifosa e minuscola mansarda che mi ospita. Dall’impeto dell’alzarsi di scatto urto contro il basso soffitto di legno di quei pochi metri quadri che negli ultimi otto anni mi hanno tenuto lontano dai ponti e dagli angoli oscuri delle strade.
Da ormai otto lunghi anni cerco di macchiarmi di una colpa espiante inseguendo un nome che non conosco limitando la mia vita ad un’ossessione per una vendetta che alleggerirebbe la mia anima dal grande peso dell’assassinio di mio padre.
Da ormai otto lunghi anni sono entrato in uno schifoso meccanismo delinquenziale nella speranza di risalire all’irritante, spregevole e infame ladraccio che ha affondato la sua indegna lama nella gola del mio vecchio nella speranza vana di aver vinto la lotteria per la semplice e sterile visione di un portastrumento che conteneva quel suo povero legno trafugato poi per essere venduto per pochi spiccioli. Era invece la gola di un pover’uomo costretto a cucire suole per permettere al figlio di comprarsi un libro o un giocattolo o ancora più semplicemente del cibo e l’affitto di una piccola catapecchia.
Da ormai otto lunghi anni ho calpestato la mia dignità alternando droghe e piccoli furti per andare avanti in una società malata e convincermi di essere più malato di essa per raggiungere l’ignota identità di quell’infame ladraccio.
Mi è stato detto di soffrire di DPST, una forma di disturbo post-traumatico da stress, in seguito alla morte di mio padre per lo sviluppo della mia aggressività e per il mio avvicinarmi al brutto ambiente della strada e dell’alcool. Non so quanto possa fidarmi di questa diagnosi, profetizzatami da un caro amico ormai caduto troppo in basso per colpa di una partita andata a male, ma allo stesso tempo non penso di avere la competenza di sindacare su un argomento tanto delicato quanto una malattia abitualmente diagnosticata ai soldati di ritorno dallo schifo della guerra, e la determinazione storica nella mia vita del motivo per cui ho o non ho tanta rabbia in corpo non mi interessa neanche lontanamente.
Mi fa male la testa, ho preso una brutta botta per colpa di quel brutto incubo. Mi avvicino al vecchio frigorifero acceso ancora per miracolo grazie ad un’incalcolabile quantità di nastro isolante che ne avvolge il cavo dell’alimentazione e, presa una bottiglia di birra ghiacciata, la tengo prontamente ferma sul livido che andava formandosi sulla mia ampia fronte.

Dopo una manciata di minuti, ancora provato e arrabbiato dal riprovevole e spregevole sogno che ha portato a svegliarmi nel cuore di una fredda e tremula notte d’autunno, avvicino la bottiglia alla bocca e con i denti faccio saltar via il tappo, e bevendo, sorso dopo sorso, mi torna in mente sempre più vivido il ricordo di quell’orribile scena.
   
 
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