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Autore: passiflora    01/04/2016    0 recensioni
Talia Musi è morta. La stella del balletto è stata ritrovata a penzolare dal soffitto, il corpo rigido come congelato in un macabro passo di danza. Un uomo vestito di marrone è stato visto uscire dal palazzo dove la donna viveva. Un uomo vestito di marrone che sembra essere scomparso nel nulla.
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Il mondo fluttua davanti ai miei occhi, leggero e inconsistente, come fumo che sale da una sigaretta lasciata a spegnersi nel posacenere. Il mio corpo non lo sento più, però la testa mi scoppia. Sbatto gli occhi per mettere a fuoco e vedo qualcosa. Lucido parquet marrone, muri rossi. La stanza è illuminata da una luce calda, ma non capisco da dove venga. C’è nell’aria un odore nauseante. Qualcosa sta davanti ai miei occhi, o forse sono molte cose. Non capisco. Cerco le mie mani, che devono pur essere da qualche parte. Trovo le dita, le muovo. Poco alla volta il mio corpo sta tornando, un pezzo alla volta, come un puzzle da ricomporre. Alzo il braccio e mi stropiccio gli occhi. Mi rendo conto di essere seduto, il che è una cosa buona. Poi mi concentro sulle figure che ho davanti agli occhi. Quando mi rendo conto di cosa sto guardando, mi sento peggio di quanto non stia già. Un gelo improvviso mi invade la carne e le ossa e io mi dimentico di nuovo di me stesso. Quelle che io credevo molte figure, in realtà sono solo due: io, seduto su una sedia, vestito di tutto punto, e lei. Lei, con addosso uno di quei vaporosi abiti da balletto, con le scarpette e tutto il resto. E la nostra immagine è riflessa dentro una parete specchiata che occupa un sacco di spazio. Lei è lì in piedi, le punte delle scarpette puntate a terra, le ginocchia flesse, la schiena piegata all'indietro, un braccio teso verso l'altro. Sembra una posizione scomoda, eppure lei è immobile e gira su se stessa come la bambolina di un carillon. Non capisco perché, ma ne sono terrorizzato.
Rimango seduto per un po', cercando di ricordare come ci si alza e come si cammina. Vedo la porta della stanza, in un angolo. Ha una cornice enorme, quella porta. È pacchiana, l'ho pensato nel momento stesso in cui sono entrato in questa stanza.
Quello me lo ricordo. Ero entrato nella stanza perché lei me lo aveva chiesto. Cosa è che mi aveva chiesto? Di cambiarle una lampadina, presumo. Alzo lo sguardo vero il lampadario. Manca una lampadina. Abbasso lo sguardo e nel farlo capisco perché lei gira in quel modo strano, con il risultato che sono ancora più spaventato. C'è una corda che passa per un anello fissato nel soffitto. Da una parte è legata alla sbarra di legno che lei usa per i suoi esercizi, dall'altra è legata ai suoi polsi. È la corda a sorreggerla. Non so come faccio, ma mi alzo e mi avvicino. La testa di lei è reclinata all'indietro, i lunghi ricci scuri le penzolano dalla testa. Le sue gambe sono legate tra loro ed è questo che le fa rimanere in posizione. Ha una treccia fatta di nastrini allacciata attorno al collo pallido e dalla sua bocca spunta qualcosa di bianco. È graziosa. Ed è morta.
L'ho uccisa io.
L'ipotesi mi atterrisce. Come avrei mai potuto? Quello era un modo molto fantasioso di uccidere qualcuno e io non sono un fantasioso, non ho inventiva. Sono una persona qualsiasi. Alzo lo sguardo e vedo il riflesso della ballerina, rigido e aggraziato anche nella morte. E poi c'è un uomo, chino su di lei, con una faccia sbattuta e stupida. Suppongo di essere io, perché non c'è nessun altro nella stanza. Suppongo di essere io, ma non mi sembro tanto io. Lascio da parte la ballerina morta, che gira su se stessa come una banderuola, e mi avvicino allo specchio. Fisso gli occhi slavati del tipo che ci vedo riflesso e non li riconosco. La cosa mi spaventa più della ballerina morta che potrei aver ucciso io. Che devo per forza aver ucciso io. Qui ci sono solo io. Ripenso a quello che era successo prima di entrare in quella casa, ma non c'è modo che qualcosa mi venga in mente. Mi ricordo della lampadina e che lei dopo mi ha detto qualcosa, qualcosa per cui io ho riso. “Tu mi ucciderai”, doveva essere qualcosa del genere. La ballerina si muove alle mie spalle, la corda scricchiola. Io infilo la porta e esco da quella casa.
 

 
L’avviso arrivò nel tardo pomeriggio: la famosa ballerina Talia Musi era stata ritrovata morta nel suo appartamento.
Il trambusto che ne era seguito aveva avuto pochi precedenti. Dopotutto, non succedeva spesso che una étoile del balletto venisse ritrovata morta durante una tournée; ma soprattutto, non capitava spesso che venisse uccisa da un serial killer.
Non era un’informazione ufficiale, ma tutti l’avevano capito nell’istante in cui era stata mostrata una foto del corpo.
Posa plastica, come se la morta stesse danzando; nastrino intrecciato intorno al collo, abito di scena. Pesante trucco sul viso, che copriva il pallore del cadavere. Gambe legate tra loro con i nastri delle scarpette. Sicuramente l’aria era impregnata di un corposo odore d’incenso. Appartamento in ordine, nessun furto, nessun oggetto fuori posto. Nessun indizio.
«Quella posa... viene da qualche balletto?» domandò il commissario.
«Il lago dei cigni, signore» rispose una giovane poliziotta, guardando la fotografia con sguardo turbato.
«Lei è esperta di balletto?»
«No, ma Talia Musi si esibiva nel Lago dei cigni e io sono andata a vedere lo spettacolo due sere fa.»
«Si tratta certamente di lui» fece un altro agente, incrociando le braccia al petto. «Lo schema è quello. È arrivato a colpire direttamente una star del balletto. Ma c’era da aspettarselo, no? Avevamo già capito che era ossessionato dalla danza classica.»
«Certo, ma fino adesso le sue vittime erano state persone qualsiasi. Com’è riuscito ad abbordare Talia Musi?» sbottò il commissario. «Mi sembra un’impresa un po’ più complicata.»
«Le star sono pur sempre persone in carne ed ossa, persone più normali di quanto noi possiamo credere» si inserì una terza collega, avvicinandosi mentre reggeva un voluminoso fascicolo. «E richiedono agenti sul posto. Che qualcuno si muova.»
 

 Scendo le scale con calma, facendo attenzione a dove metto i piedi. Ho un talento naturale per le cadute, soprattutto quelle dalle scale, e cerco di evitarle come meglio posso. Mi viene in mente che a concentrarmici troppo finisce sempre che inciampo, così smetto di controllare i miei passi. Mentre scendo, sale una ragazza tutta sudata, vestita con abiti sportivi. È impegnata a correre su per le scale e penso che non si accorga nemmeno di me. Poco male, nessuno lo fa mai e ci sono abituato. Essere ignorato può dare fastidio soltanto quando di solito la gente ti nota, ma quando passi la vita ad essere uno qualunque non ti cambia molto che una bella ragazza tutta sudata ti degni o meno di uno sguardo. Comunque arrivo alla hall ed esco dal palazzo. Stringo in mano la mia valigetta, ma è come se non la sentissi. Come se fosse solo il prolungamento del mio braccio. Mi volto verso il portone, non lo so perché, e noto che il vetro è a specchio. Un me tutto intero si riflette sulla superficie, ma è come se riflettesse un estraneo. So che sono io solo perché quell’uomo non può essere nessun altro. Ho provato la stessa sensazione di sopra, con la ballerina. È qualcosa di alienante. Perché sono vestito di marrone? Io odio il marrone. È un colore orribile. Né scuro, né chiaro, né elegante, né sobrio, né interessante. É solo marrone. È come dire...il grigio dei colori caldi. L’apoteosi del niente. Del banale. Io odio il marrone e mi viene voglia di eliminare quell’odiosa giacca che indosso. Mi muovo verso destra, lungo il marciapiede. Il quartiere dove si trova il palazzo è vicino ad un’affollata zona commerciale, ricca, piena di gente con i soldi. Anche io ho un po’ di soldi e li aveva anche la ballerina. Ma lei li aveva fatti ballando e ne aveva da buttare. I miei sono risparmi tirati su con un lavoro odioso, ma dalla paga rispettabile. Lungo il cammino, le vetrine dei negozi incorniciano la mia faccia inconsistente. Non sono io, quello infilato nei miei brutti vestiti. Stento a credere che quella persona abbia vissuto la mia vita, mangiato il mio cibo, usato il mio spazzolino, baciato la mia ragazza -quella volta, tempo fa-. D’un tratto mi fermo. In una vetrina è esposta una giacca blu che mi piace molto. Vedo il riflesso dello sconosciuto sovrapporsi alla sagoma del manichino. La giacca sta bene allo sconosciuto. Chi lo sa, forse se modifico qualcosa ricomincerò a vedere me stesso nello sconosciuto. Entro nel negozio, provo la giacca. Mi sta bene. Costa molto. La compro comunque ed esco indossandola. Nella vetrina successiva è esposto uno specchio. Ci guardo dentro. Lo sconosciuto è sempre lì, con quella scriminatura laterale, quegli occhiali metallici, quella camicia a righine sottili, quella pancetta. E gli occhi verdi che si perdono dietro a sopracciglia cespugliose e occhiaie marcate. Ho sempre avuto questo aspetto? È per questi occhi pesti e mesti che la ballerina mi ha invitato in casa sua? Chissà come ha fatto. Chissà cosa ho sperato quando mi ha trattenuto. Forse ho sperato di finirci a letto. L’ho fatto? Non me lo ricordo. Ma mi vergogno all’idea che possa esserci finito quel tipo nello specchio. E accidenti, quei pantaloni proprio non vanno con quella giacca. Entro nel negozio e chiedo di vedere un paio di Jeans.
 

 
«Non credo di aver mai visto una cosa del genere.» Il commissario era sinceramente stupito. Prima era stato infastidito, poi arrabbiato per via della folla di giornalisti che si accalcavano intorno al portone del palazzo, ora fissava il cadavere appeso al soffitto in quella posa rigida. «Sembra una di quelle ballerine che escono dai carillon.»
«E’ inquietante. Come diavolo c’è riuscito?» esclamò la giovane agente che lo seguiva ovunque con il bloc-notes in mano.
Il commissario allungò una mano e afferrò il braccio di un agente della scientifica che si aggirava nei paraggi avvolto dalla tuta bianca da lavoro. Stava per rivolgergli quella stessa domanda quando si fece avanti un altro individuo in bianco.
La dottoressa a capo di tutta la baracca, una donna dalla freddezza e schiettezza inquietanti, si tolse i grossi occhiali di plastica e si posizionò a braccia incrociate di fronte al commissario. Dietro di lei, i suoi sottoposti stavano delicatamente sciogliendo la corda che sorreggeva il cadavere.
«Allora?» fece il commissario.
«Allora ci sono particolari piuttosto strani» rispose la donna.
«Quanto strani?»
«Così strani che credo quasi potrebbero condurci a una verità definitiva sul Killer della danza.»
 

 
Insieme ai Jeans ho comprato una t-shirt grigia. Si intona bene con la giacca blu. L’insieme mi fa sembrare più magro. Più giovane. Sono giovane. O almeno, lo sono ancora, abbastanza. Una volta si smetteva di essere giovani molto prima, adesso invece siamo tutti afflitti dalla sindrome di Peter Pan. O forse abbiamo capito che abbruttirsi di responsabilità e serietà non porta da nessuna parte? Ché tanto finiamo tutti nello stesso posto e nessuno ha stabilito che se ci si arriva stanchi e arrabbiati, dopo aver spuntato dalla lista tutte le tappe obbligatorie –laurea, matrimonio, casa, macchina, figli, cane, risparmi, amante, pensione-, si vince qualche premio. Ho i miei vestiti vecchi nella busta del negozio. Adesso l’unica cosa che non va più sono le scarpe. Vedo un negozio che ne vende poco più in là. La ballerina stava in un appartamento preso in affitto in una zona centrale e lussuosa e ora cammino in mezzo alla folla frettolosa, passando di fronte a negozi sempre più raffinati. Sembra quasi che la bellezza e l’opulenza di ciò che espongono trasformi anche il riflesso della città e della gente nel vetro. Vedo delle scarpe di pelle, eleganti. Costano una fortuna ma io non ho mai speso per niente e di soldi da parte ne ho a sufficienza. Entro e chiedo di provarle. La commessa è insolitamente gentile con me, non mi guarda con diffidenza. Vestito così, non devo sembrare fuori posto. Nemmeno in un luogo come questo, tutto specchi e luci soffuse. Lei mi chiede il numero. Quarantacinque. Vado insolitamente fiero dei miei piedi così grandi. Forse perché a scuola chi portava il quarantatré veniva preso in giro e io almeno sotto quell’aspetto ero al sicuro. La ragazza mi porta le scarpe come se fossero un prezioso oggetto di vetro che può rompersi da un momento all’altro. Mi porge la destra. Calza come un guanto. Non ho mai portato scarpe così belle e comode. Sembra che aspettassero proprio me, che fossero state fatte su un calco del mio piede. Dico che le prendo e che voglio anche delle calze. Lei me le porta, abbinate a quello che già indosso. Chiedo anche una cintura. La ragazza, efficientissima, sceglie per me e mi consegna tutto. Pago e chiedo se posso indossare la merce. Ottengo il permesso e pochi minuti dopo me ne vado trionfante. Ora le mie vecchie scarpe sono chiuse nella scatola di quelle nuove, un onore che non meritano. Le butto in un cassonetto. Non voglio più vederle. Invece c’è una cosa che continuo a vedere, come se l’immagine si fosse cristallizzata nei miei occhi: la ballerina che si allaccia le scarpette da danza. L’operazione è quasi solenne. Prima di indossare le scarpette ha avvolto in fasce i suoi piccoli piedi magri, dalle dita brutalmente scorticate. Quel pensiero mi disturba. Proseguo la mia traversata senza riuscire al resistere al desiderio di specchiarmi. Ho bisogno di un taglio di capelli nuovo e il barbiere è proprio a pochi metri da qui.
 

 
«Vedete questi nodi?»
La dottoressa, il commissario e l’agente col bloc-notes sono chini sul cadavere di Talia Musi. La donna indica il nastrino al collo di Talia, poi allunga il braccio e indica i nastri che le tengono le gambe unite in quella strana posizione. Ha le unghie smaltate di rosso acceso. Il commissario annuisce.
«Sono stati fatti da un mancino. Ebbene, la Musi era mancina. Ma questa potrebbe essere solo una coincidenza. Quello che mi preme è qualcos’altro. Mi accerterò della questione in laboratorio ma a colpo d’occhio, direi che questi nodi lei se li è fatti da sola.»
In quel momento, un agente entrò nella stanza sventolando un foglio con una foto stampata sopra. «Signore» esclamò appena ebbe individuato il commissario. «Signore, quest’uomo è uscito da qui pressappoco all’orario stimato per la morte della Musi. Una ragazza dice di aver incrociato un uomo sulle scale, vestito di marrone. Non riesce a ricordarne il volto ma è certamente questo qui.»
Porse il foglio al commissario. L’immagine era sgranata e l’uomo era ripreso di spalle.
«Cosa dovrei farmene?» sbottò il commissario. «Avete almeno stimato l’altezza?»
«Nella foto non ci sono molti punti di riferimento, ma dovrebbe essere circa un metro e ottanta.»
«Un uomo vestito di marrone, sul metro e ottanta, coi capelli scuri e una faccia che si dimentica facilmente. Abbiamo praticamente appena esteso le ricerche al novanta percento della popolazione del pianeta.»
 

 
Il barbiere ha fatto una magia. Non ho più la barba e i capelli sono più corti, niente riga di lato, solo un lieve accenno di movimento. Non ricordavo nemmeno di avere i capelli ricci. Mi guardo soddisfatto nello specchio. Mi sembra di avere di nuovo vent’anni, ma sono decisamente migliorato rispetto a quell’epoca. Ho una faccia più vissuta, più interessante. Non l’avrei mai detto, eppure è così. Una voce femminile mi sussurra che ho dei begli occhi. Me lo sussurra all’orecchio, mentre sono seduto su una sedia scomoda. La voce mi parla dei miei occhi mentre io li sento pesantissimi. Mi alzo dalla sedia e pago, poi lancio un’altra occhiata allo specchio che copre tutta la parete di fronte alle cinque sedie reclinabili. Sospiro. Ecco, quello lì potrei essere io, perché no? Manca ancora qualcosa. Un orologio, degli occhiali, una borsa più sportiva. Odio questa valigetta. Lascio il negozio del barbiere. E’ quasi buio, ma sono euforico. Entro nel primo negozio di occhiali che trovo e provo alcune montature. Sotto consiglio della commessa decido per una blu, che sembra fatta di legno. Chiedo di far montare le mie vecchie lenti sulla nuova montatura. Si può fare, ci vorrà mezz’ora. Nel frattempo, la ragazza mi suggerisce di provare a utilizzare delle lenti a contatto. Non le ho mai indossate, mi fanno paura. Lei mi dice che ho degli occhi di un bel colore e che è un peccato nasconderli dietro le lenti da miope. E’ il primo complimento che ricevo da anni. Anzi, no, perché qualunque cosa fosse stata detta prima, era rivolta all’altro, a quello sconosciuto che si era attaccato a me come una scoria, come lo smog della città a fine giornata. Dico che le voglio provare e lei mi aiuta a indossarle. Sbatto le palpebre. Mi guardo nello specchio e ho un tuffo al cuore. Finalmente ci incontriamo, penso. Non mi accorgo nemmeno di aver detto alla ragazza di voler comprare le lenti. So solo che dieci minuti dopo esco dal negozio con degli occhiali nuovi, una scatola di lenti usa e getta e il numero della commessa scritto su un bigliettino da visita.
 

 
Oramai si era fatto buio. La città si spegneva, i negozi chiudevano ma il loro lavoro era appena iniziato. Era stato un problema portare il cadavere fuori dal palazzo. A causa della posa rigida, ampia e ingombrante c’era sempre un pezzo che spuntava fuori dal telone.
I giornalisti avevano scattato come forsennati e poi erano rimasti, anche quando la polizia aveva tolto il disturbo.
Il commissario ricevette una chiamata. Nessuna notizia dell’uomo misterioso. Era stato ripreso da una telecamera di sorveglianza mentre svoltava lungo una strada secondaria ma poi non si trovava più.
Erano appena arrivati in commissariato quando ricevette una seconda chiamata. Era la dottoressa. «Vieni immediatamente.»
Il commissario scaricò la sua assistente e fece retromarcia, avviandosi velocemente verso il laboratorio. Aveva iniziato a piovigginare.
«Avevo ragione» disse la dottoressa non appena lo vide comparire sulla soglia asettica della camera mortuaria. Gli fece cenno di avvicinarsi e quando fu abbastanza vicino gli mostrò un nastro blu di seta.
«Vuoi fare qualche gioco con me?» chiese lui, dubbioso.
«Ma no, idiota. Voglio mostrarti una cosa» rispose lei, sedendosi su una sedia e iniziando a legarsi le gambe tra loro. Il commissario seguì l’operazione. La dottoressa sembrava impacciata, ma il commissario si rese conto che tentava di fare tutto al contrario, come avrebbe fatto un mancino. Terminò il lavoro con un fiocco che le costò notevole fatica, dopo di che tese le gambe verso il commissario.
«Guarda un po’» disse, «e poi guarda quelli di lei, anche se sono un po’ più intricati.»
Il commissario eseguì. La somiglianza era lampante. I nodi erano stati fatti da qualcuno mancino che si era legato da solo.
«Ma questo… cosa significa?» borbottò l’uomo.
«Due cose, secondo me» rispose la dottoressa. «La prima, è che l’assassino sia quell’uomo e che abbia in qualche modo indotto Talia a legarsi in quel modo per poi darle da bere la sostanza che l’ha paralizzata e soffocata. Ma ti dirò, mi sembra molto strano. Tutte le altre volte il killer, che come ben sai era mancino, ha legato le sue vittime di persona e le ha lasciate a terra.»
«Forse in questo caso, siccome la vittima è proprio una ballerina, ha voluto fare qualcosa di diverso, quasi per omaggiarla» azzardò il commissario. I pazzi facevano cose simili, ogni tanto.
La dottoressa fece un’espressione scettica. «La seconda opzione» continuò, «è che Talia Musi abbia fatto tutto da sola.»
«Che cosa?» esclamò l’uomo.
«E che quell’uomo in marrone sia un capro espiatorio.»
«Ma non è…»
«Possibile? Credi? Per quale motivo? Perché Talia è una donna? Ti dirò, c’è un motivo per cui voi uomini non ci ritenete capaci di fare del male ed è perché vogliamo farvelo credere. Riflettici. E mentre rifletti, controlla se i luoghi in cui sono state ritrovate le vittime corrispondono alle tappe della tournée de Il lago dei cigni.»
 

 
I negozi ormai sono chiusi ma non ho voglia di tornare a casa. Prendo il portafoglio dalla valigetta, lo metto in tasca. Dentro non c’è nient’altro di personale, solo dépliant che butto subito nel raccoglitore della carta e moduli ancora vuoti. Butto anche quelli. Poi, nel cassonetto butto la valigetta. Mi sembra di essermi liberato da un peso. Mi sento bene, leggero, nuovo. E ho fame. Controllo sul cellulare e trovo un ristorante ben recensito nelle vicinanze. Quando ci arrivo vedo che si tratta di un posto piuttosto elegante, arredato in uno stile decisamente liberty. Ferro battuto, luci calde, specchi. Molto bene. Entro a testa alta quando prima non avrei fatto che guardare la punta delle mie brutte scarpe. Scelgo un tavolo e ordino dei piatti dai nomi intriganti e del vino. E’ un po’ triste essere lì da solo ma non mi importa. Mi sento bene, impermeabile a quello che può pensare la gente di me. Qualcuno mi sussurra all’orecchio che sono buffo. E’ di nuovo la ballerina. Dice che se mi fossi presentato vestito e pettinato in questo modo, con questo spirito, forse prima mi avrebbe scopato. Le rispondo che la sola idea di poter essere sfiorato da quelle dita scorticate mi fa ribrezzo. Lei ribatte che non ci avrei fatto caso una volta che lei mi avesse messo le mani addosso. Sono così impegnato a parlare con la ballerina che non mi accorgo della ragazza che si è seduta davanti a me. E’ una biondina bassa e graziosa, con un corto vestito nero e il rossetto rosso. Ha il naso piccolo, a punta. E’ carina. Mi chiede se può sedersi con me. Sei già seduta, penso ma non lo dico. Iniziamo a parlare. Lei è simpatica e da come mi guarda penso proprio di interessarle. Sento degli strani brividi che mi attraversano la schiena. Non mi capita spesso che le ragazze si interessino a me. Mangiamo e beviamo del vino. Poi pago per entrambi e usciamo insieme. Andiamo a piedi, passeggiando piano, un po’ barcollanti. Stiamo andando a casa sua. Superiamo un bar chiuso e poi un’edicola. Ci sono ancora i manifesti con i titoli più salienti della giornata. Leggo di sfuggita il nome Talia Musi. Rimango un momento imbambolato, torno indietro. La ragazza mi chiede se ho sentito di cosa è successo. Rispondo di no mentre lo stomaco mi si contorce come una serpe viva. Tu mi ucciderai, ridacchia la ballerina. Ripete quelle tre parole mentre io svengo sulla sedia. Leggo il sottotitolo. Un uomo misterioso è stato visto uscire dal palazzo. Sono io. La ragazza parla ma la sua voce mi arriva ovattata. Mi racconta quello che ha letto nei giornali web. Un uomo è stato visto uscire dal palazzo ed è stato ripreso dalle telecamere, un uomo vestito di marrone con una valigetta. E dei capelli con la scriminatura di lato, la barba ispida e dei brutti occhiali, potrei aggiungere io, ma non lo faccio. Perché quell’uomo marrone non sono io, non più. Anzi, non sono mai stato quella cosa infima e anonima. La ragazza continua a parlare. Dice che la stampa suppone che quell’individuo sia il famoso Killer della danza, che uccide le sue vittime e ne dispone i corpi imitando famosi movimenti di altrettanto famose coreografie. Le mani mi tremano così le infilo in tasca. Lei dice che Talia Musi era un orgoglio per la nazione e che i giornalisti si stanno certamente leccando le dita per l’accaduto. Chiedo se siano tristi per la morte della donna. Lei risponde che probabilmente la vedono solo come un’occasione per vendere qualche copia in più. A quel punto, non so perché, le do un bacio. E’ da tanto che non bacio una ragazza ma mi riesce discretamente. Il problema è che quando socchiudo gli occhi vedo la ballerina. Mi bacia mentre scivolo nel buio. Tu mi ucciderai, dice. Tu mi hai ucciso. Sei un maledetto assassino.
 

 
L’agente entrò nella stanza reggendo un blocco di fogli pinzati insieme. Aveva la faccia pallida e stanca ma allo stesso tempo illuminata da un brivido di eccitazione.
«Signore» disse, «corrispondono.»
«Fammi vedere» sbottò il commissario. Sfogliò le pagine e constatò che l’agente aveva ragione: le tappe della tournée e i luoghi degli omicidi combaciavano. Ma c’era dell’altro. Casi simili, archiviati perché irrisolti, risalenti a svariati anni prima…
«Agente, controlla dove la Musi si è allenata prima di venire scoperta. Doveva avere al massimo quattordici anni…»
«Già fatto, signore. E sì, la zona corrisponde a quei vecchi casi.»
“Incredibile” pensò il commissario. Erano sulle tracce del Killer della danza da mesi e le acque iniziavano a muoversi. Si era lasciato dietro delle tracce, aveva commesso degli errori. Era stato già ipotizzato che fosse in realtà una donna ma i dubbi rimanevano per via della forza necessaria per piegare e legare le vittime in quel modi complicati. Si era parlato di problemi d’identità, traumi infantili, frustrazione, perfezionismo, ossessione, culto dell’immagine. Si era parlato di molte cose ma nessuno aveva mai pensato semplicemente che potesse trattarsi di una ballerina. Una flessibile, leggiadra ma allenatissima ballerina.
«Abbiamo perizie psicologiche sulla Musi? C’è qualcosa su di lei? Sappiamo se si allontanava dopo gli spettacoli o altro? Testimonianze visive?»
«Stiamo controllando, signore» rispose l’agente.
In quell’istante, entrò l’assistente del bloc-notes. Al contrario del suo collega, la sua espressione era una maschera di dubbio.
«Cosa c’è?» domandò il commissario.
«Beh, ecco, è arrivata la copia del giornale che uscirà tra qualche ora, signore.»
 

 
Tu mi ucciderai, tu sarai la mia ultima vittima, tu mi ucciderai, tu sarai la mia ultima vittima. La voce della ballerina galleggia ancora nella stanza. Mi sembra di essere immerso nel miele e di muovermi al rallentatore. Eppure, quando siamo saliti in questo appartamento, il mondo sembrava correre fin troppo veloce. Non avevo mai fatto una cosa del genere, con una sconosciuta. Mi sembra di non ricordare nemmeno più l’uomo vestito di marrone. Forse non è mai esistito. In ogni caso, la ragazza ha finito ciò che la ballerina ha iniziato. Quei suoi nastri rosa hanno legato insieme a loro il mio demone e me l’hanno strappato di dosso. E’ rimasto attaccato lì, a penzolare insieme a lei dal soffitto. Che cosa ingegnosa. Uccidersi e poi dare la colpa a qualcun altro. Brillante, devo ammetterlo. E la stampa ci è cascata in pieno. Lei li ho presi in giro tutti quanti. Ho molte cose da imparare da una così sveglia. Penso cos’avrebbe fatto lei a questo punto. Non so bene come ci sono arrivato, fino a qui, ma ora devo pensare a come andare avanti. E’ stato bello andare a letto con la ragazza, davvero. Sarò sempre grato anche a lei per avermi aiutato a liberarmi di quell’ingombrante bozzolo una volta per tutte. Mi era piaciuto sentirla gemere, devo essere stato abbastanza bravo. Tuttavia, l’ho fatto comunque. Mi sono alzato e sono andato in bagno. Lei mi aspettava nella stanza da letto, tutta accoccolata come un gatto. Guardandomi nello specchio mi sono detto che devo fare palestra, andare a correre. Poi, ho cercato nell’armadietto dei medicinali. Ho trovato i guanti. E i medicinali. C’erano cose normali, aspirine, e poi un ansiolitico. Dal bagno sono andato alla cucina e ho rovistato ancora un po’ in silenzio. Ho trovato quello che cercavo nel cassetto dove lei teneva gli utensili da cucito. Sono tornato in camera e le ho offerto un bicchiere di vino con gli ansiolitici sciolti dentro. Lei ha bevuto e poco dopo non riusciva più a respirare. E’ collassata in poco tempo. Ovvio, con tutta la roba che le avevo messo nel bicchiere. Adesso non so bene come procedere. Guardo delle foto in internet, foto di Talia Musi. Era davvero bella, l’ho pensato subito. Quei piedi, però… Beh, ora non ha importanza. Dispongo il corpo della ragazza come se stesse per fare un pliè. Faccio un lavoro accurato e mi riesce bene. Sono un tipo meticoloso e questa lentezza che percepisco mi aiuta a notare i particolari che altrimenti potrei lasciarmi sfuggire. Prima di uscire pulisco tutto a fondo, sia le superfici che lei. Metto le lenzuola, l’asciugamano e tutto ciò che posso aver toccato nella lavatrice e accendo. Quando esco la strada è deserta, nessuno mi vede andare via. Questa volta mi va bene che nessuno mi noti però non riesco a far smettere di parlare la ballerina. Tu mi ucciderai, tu sarai la mia ultima vittima. Continua a rinfacciarmelo, ribadirlo. Ora però aggiunge qualcosa. Mi sorride, giusto un secondo prima che io svenga, e dice che se voglio posso continuare il lavoro.
 

 
Il commissario teneva il giornale aperto davanti a sé. Era immobile da circa un’ora, gli occhi fissi sulla fotografia della Musi e accanto ad essa uno scatto che ritraeva una giovane ragazza bionda. Il titolo avvertiva che il killer aveva mietuto una seconda vittima, ritrovata nelle prime ore del mattino, legata con un nastro rosso in un macabro pliè. Il giornale era convinto che l’uomo in marrone avesse colpito ancora.
E così sarebbe stato. Nessuno avrebbe mai convinto la gente che la Musi fosse il vero killer, l’uomo in marrone forse solo una persona innocente ripresa per errore e il secondo killer un imitatore.
Lui aveva un’ipotesi. La Musi aveva fatto entrare l’uomo in marrone in casa solo per far poi ricadere la colpa su di lui. Avevano trovato un flacone di un potente sonnifero. Forse aveva sedotto l’uomo e l’aveva attirato nella trappola per poi narcotizzarlo e attuare il suo piano. Lui però non aveva chiamato la polizia. Se n’era andato ed era scomparso nel nulla. Avevano controllato il tragitto che aveva compiuto ma non erano arrivati a nulla. Nessuno ricordava di aver visto un uomo del genere e in più i fotogrammi estratti dai filmati erano sgranati e servivano a poco. Eppure esisteva ancora la possibilità che fosse stato lui e certo, sarebbe stato perfetto. L’uomo medio, a cui nessuno fa caso. Quello che scivola invisibile attraverso la vita, che non mette i brividi, così normale che non riesci nemmeno a ricordarne la faccia. Chissà quanti ce n’erano, in giro, di persone così. Quante nullità covavano dentro di sé un demone pronto a colpire?
   
 
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