Il Capitano
provò a nuotare verso la superficie, ma le forze lo
abbandonarono quasi subito. Senz’aria e senza speranza,
nemmeno la fioca luce
della luna riusciva ad illuminare quel fondale così profondo
ed oscuro. Ismael
si trovò in fin di vita, come già gli era
successo molte volte in passato;
l’unica differenza era che le altre volte aveva sempre avuto
una via di fuga. O
una qualche possibilità di sopravvivere. Così,
mentre i polmoni pieni d’acqua
salata continuavano a bruciare come metallo fuso dentro il suo petto,
il
Capitano chiuse gli occhi e allargò le braccia. La
Mietitrice di anime in fondo
aveva ragione, e tra poco sarebbe arrivata a riscuotere il suo premio.
L’anima
dannata di un pirata troppo pieno di sé, troppo temerario,
che non seppe mai
stare al suo posto.
E per quanto la
Mietitrice avesse una gran fretta di accaparrarsi
quell’anima, quella sera decise di aspettare ancora un
po’.
Ismael era ormai
pronto a lasciare quella vita e discendere nelle
profondità dell’inferno, quando sentì
qualcosa avvolgergli il ventre, ed
iniziare a stringerlo come le spire di un serpente. La morsa si fece
più
stretta ogni secondo, ed il Capitano sentì i polmoni
comprimersi fino ad
esplodergli nel petto, gli occhi quasi gli schizzarono via dalla testa,
le ossa
si frantumarono e i muscoli si lacerarono. Per un attimo credette di
essere
morto, ma ciò che lo aspettava era molto peggio.
Si
ritrovò, dopo qualche secondo, a fluttuare nel vuoto,
ansimando.
Teneva gli occhi chiusi e stringeva i pugni, mentre prendeva a fatica
grandi
boccate d’aria. Aria molto densa. Aria salata, umida.
Acqua. Stava
respirando acqua. Prima di poterlo realizzare, però,
un’ombra cupa oscurò gli ultimi flebili raggi
lunari che filtravano dalla
superfice.
«Dove
lo hai nascosto!? »
Tuonò una voce profonda, che
costrinse il Capitano ad aprire gli occhi e guardare di fronte a
sé.
Nient’altro che buio. «Ho rivoltato la tua dannata
bagnarola da cima a fondo!!
Dove lo hai messo!?! »
Urlava spazientito, l’essere nell’ombra, mentre
Ismael si trovò incapace di rispondere. «Cosa
c’è, il pesce gatto ti ha
mangiato la lingua?! Parla!! »
Continuò a sbraitare, per poi aspettare
una risposta. Però Ismael, con la bocca spalancata, non
riusciva ad emettere un
solo suono. Rimasero nel silenzio per svariati secondi,
finché l’altro non
parlò di nuovo. «Mh. Già, a voi umani
serve l’aria per parlare… Che esseri
inutili. »
Sospirò pesantemente, esalando dalle fauci una corrente che
spinse Ismael
indietro di svariati metri. Dopo
qualche attimo, una bolla d’aria emerse dal fondale ed
avvolse il Capitano, che
iniziò a tossire, annaspando. «Chi… Chi
sei tu? »
Mormorò piano,
rivolgendo uno sguardo verso il buio davanti a sé.
«Hah!
Io ho molti nomi, mortale. Alcuni mi chiamano mostro, altri
demone, ma non sono nulla di questo. »
Parlò lentamente, mentre nel
buio due punti rossi iniziarono a brillare sinistri. «Io sono
Wheke Ka Wata, il
dio del mare. » I
due punti sembrarono avvicinarsi al Capitano. «E
tu… hai qualcosa
che mi appartiene. »
Il dio del mare,
dicendo queste parole, aveva deciso che si era
stancato del buio; così dal nulla evocò un pesce
vipera, che brillò come una
lucciola in mezzo ai due. Ovviamente un solo pesce non sarebbe stato
capace di
illuminare il fondale marino, ma l’onnipotente dio del mare,
Wheke Ka Wata, a
questo non ci aveva pensato.
«Hm.
Non so davvero cosa mi aspettassi. »
Brontolò il dio con la
sua voce rauca, mentre Ismael, nella sua bolla, scuoteva il capo
incredulo.
Sperava che fosse solo un brutto sogno, e in quel momento si ripromise
di non
mangiare mai più stufato di granchio andato a male. Intanto,
davanti agli occhi
del Capitano si presentava una scena incredibile.
Dal fondale, una
dopo l’altra, iniziarono a spuntare le flebili luci
prodotte da delle sottili alghe, che puntellarono il buio
dell’oceano come
migliaia di stelle su un cielo notturno. Insieme alle alghe,
però Wheke aveva
evocato rane pescatrici, piovre giganti e migliaia di minuscoli
plankton
luminosi, per far compagnia al pesce vipera di prima. In un attimo, il
buio
fondale venne illuminato a giorno dai lumi sommersi che popolano
l’oceano.
Ismael non poteva credere ai suoi occhi pieni di stupore e meraviglia.
Ed
orrore e disgusto. Al di là delle rane pescatrici, i
plankton ed il solitario
pesce vipera, una creatura lo stava fissando con i suoi occhi di fuoco.
Era
alto due volte e mezzo l’albero maestro della Royal Serpent
che gli giaceva
accanto insieme al relitto del veliero: una creatura alta
più di sessanta
metri. La sua pelle era spessa, squamosa, di color verdastro, ed era
ricoperta
da innumerevoli creature marine, coralli, alghe, piccoli pesci. Almeno
venti
tentacoli uscivano dalla parte inferiore del suo corpo, come un fascio
compatto, e si dividevano al contatto con il fondale per sostenere il
suo
immenso peso; nella parte superiore, altri cinque tentacoli
s’intrecciavano su
ogni lato, e formavano delle lunghe appendici simili a braccia. La sua
testa
deforme sembrava quella di uno squalo, con piccoli denti aguzzi,
seghettati,
che incutevano terrore solo a guardarli. E quegli occhi che fissavano
Ismael,
sembravano essere piccole sfere di fuoco pronte ad incendiare
l’intero oceano.
Wheke Ka Wata
riuscì in un secondo a far provare ad Ismael qualcosa
che aveva ormai aveva dimenticato da tempo. Gli occhi continuavano a
fissare il
mostro e le mani non smettevano di tremare, le gambe cedettero ed il
Capitano
cadde in ginocchio sulla robusta parete della bolla. Annaspava, gli
venne
voglia di urlare ma riuscì ad emettere solo un flebile
gemito. Rimase immobile,
pietrificato, mentre il mostro allungava uno dei suoi tentacoli per
sfilarlo da
dentro la sua comoda bolla e portarlo più vicino a
sé. L’arto penetrò dentro la
membrana con facilità, e con un veloce movimento
provò ad avvolgere il torso
dell’uomo. Ancora una volta, Ismael si sentì
impotente di fronte al destino, e
decise che forse quello era il giorno in cui avrebbe smesso di
combattere
contro il fato.
O forse, forse
quel giorno era ancora lontano.
Strinse i pugni
e chiuse gli occhi, prese un profondo respiro. Sentì
il petto bruciare come roccia fusa, ed il calore iniziò a
riscaldargli le
membra. No, non era il petto. Era qualcosa nel suo petto. Il tentacolo
si
ritirò, scottato da quel calore che fece sfrigolare
l’acqua attorno al
capitano, in una miriade di bollicine. La sua giacca prese fuoco, e
così anche
il resto dei suoi abiti sbrandellati, che si vaporizzarono in un
istante. Nello
stesso istante, Wheke Ka Whata capì il suo tremendo errore
di valutazione. «Non
l’hai nascosto! Ce l’hai tu! »
Urlò tanto forte da spazzare via ogni
alga, ogni plankton ed ogni pesce attorno a sé;
l’unica fonte di luce, adesso,
era il piccolo sole sommerso che una volta era stato il Capitano
Ismael. «Dannato
umano!! Non è finita qui!! »
Urlò più forte, indietreggiando sempre di
più, mentre il fuoco dei suoi occhi svaniva nel fuoco di
Ismael, mille volte
più brillante di qualsiasi stella e cento volte
più caldo di qualsiasi sole.
Wheke Ka Wata
svanì nell’ombra, da dove era venuto. Pochi
secondi
dopo, il fuoco si spense ed Ismael svenne.
Nel buio del
fondale, il suo corpo venne trascinato via dalla marea.