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Autore: Sandra Prensky    05/04/2016    1 recensioni
ATTENZIONE: Non è una traduzione del libro "Black Widow: Forever Red". Avendolo letto, mi sembrava che ci fosse troppo poca attenzione su Natasha, e allora ho deciso di riscriverlo con tutta un'altra trama.
Natalia Alianovna Romanova, Natasha Romanoff, Vedova Nera. Molti sono i nomi con cui è conosciuta, molte sono le storie che girano su di lei. La verità, però, è una questione di circostanze. Solo Natasha sa cosa sia successo veramente nel suo passato ed è ciò da cui sta cercando di scappare da anni. Quando sembra finalmente essersi lasciata alle spalle tutto, ecco che scopre che la Stanza Rossa, il luogo dove l'hanno trasformata in una vera e propria macchina da guerra, esiste ancora. Solo lei, l'unica Vedova Nera traditrice rimasta in vita, può impedire che gli abomini che ha visto da bambina accadano di nuovo. Per farlo, però, dovrà immergersi nuovamente nel passato che ha tanto faticato a tenere a fondo, e sarà ancora più doloroso di una volta: tutta la vita che si è costruita allo SHIELD, tutte le persone a cui tiene sono bersagli. Natasha si ritroverà di nuovo a dover salvare il mondo, affrontando vecchi e nuovi nemici e soprattutto se stessa.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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II.

 

But if you close your eyes,

Does it almost feel like

nothing changed at all?

(Bastille – Pompeii)

 

Russia, 1934

 

La ragazzina con i capelli rossi non riusciva a smettere di tremare nell’angolo buio in cui era rannicchiata. La stanza era scura, si potevano a mala pena distinguere i contorni delle pareti e dei due armadi addossati al muro. Eccetto per quelli, la stanza era spoglia. La pochissima illuminazione era fornita da uno spiraglio di luce che usciva dalla porta socchiusa, dall’altra parte rispetto a lei. Ogni tanto poteva vedere delle sagome che si muovevano. Sapeva di non essere sola: poteva sentire l’eco di altri pianti sommessi, sentiva qualcuno farfugliare parole sconnesse. L’unica cosa che poteva dire con certezza è che nessuno in quella stanza era un adulto. Avrebbe voluto alzarsi e andare dagli altri, chiedere cosa ci facesse lì, cosa fosse quel posto, qualsiasi informazione, ma era come paralizzata. Le ginocchia serrate al petto, gli occhi offuscati dalle lacrime che minacciavano di scendere, il tremore incontrollabile le impedivano di compiere qualsiasi movimento. Non riusciva a formulare un pensiero logico. La sua mente era dominata dalla confusione, nemmeno si ricordava la propria identità, se avesse una famiglia, come fosse arrivata lì. Aveva dei ricordi molto frammentari, ma non riusciva a scindere la realtà da quello che sembrava più un sogno. Vedeva una donna dai capelli rossi piangere, si vedeva trascinata da un’ombra, mentre un uomo dai capelli disordinati la portava via, sentiva i propri urli come un’eco nei suoi pensieri. Non aveva idea di chi fossero le figure che popolavano quei pensieri e con ogni secondo che passava, le immagini si annebbiavano sempre di più, come se fossero impresse su una tela i cui colori si stavano lentamente sciogliendo sotto la pioggia. La porta davanti a lei si spalancò, lasciando entrare altra luce e provocando un paio di urli spaventati provenienti da vari punti della sala. Per qualche secondo le fu impossibile respirare e dovette raccogliere tutte le sue forze e fare appello a tutto il proprio autocontrollo per riuscire a calmarsi abbastanza da prendere aria. Una figura in nero entrò dalla porta e si diresse verso il centro. Era ormai la terza volta che ciò accadeva, da quando lei si ricordava di essere lì. Per la prima volta, tuttavia, riuscì a girarsi verso l’uomo e vedere gli altri presenti in quella stanza: come aveva già intuito, erano tutti bambini. Anzi, bambine per essere precisi: non vedeva l’ombra di un maschio. A prima vista, tuttavia, sembravano tutte più grandi di lei di almeno un paio d’anni. Non che lei si ricordasse la propria età, d’altra parte. Analogamente alle volte precedenti, l’uomo prese per mano una bambina che aveva l’aria troppo terrorizzata per sembrare in grado di opporre resistenza. Dal suo angolo lei la osservò un secondo, per imprimerla nella memoria in modo da riempire quel vuoto che regnava nella sua testa. La bambina doveva avere non più di dieci anni e aveva un aspetto piuttosto emaciato. Non era particolarmente alta, ed era magra come solo qualcuno che ha patito la fame può essere. I suoi lunghi capelli biondi erano sporchi di fuliggine e tagliati irregolarmente in più posti. I grandi occhi grigi erano sbarrati e il viso pallido era incrostato di sporco e in certi punti anche una sostanza rossa che non poteva essere che sangue. Indossava quello che una volta doveva essere stato un vestito di bassa lega, ora ridotto a straccio. Non portava scarpe ai piedi e zoppicava visibilmente. L’uomo la condusse fino alla porta, che stavolta venne richiusa dietro di lui in modo da togliere tutta la luce nella stanza. Lei sospirò, mentre intorno a lei riprendevano i piagnistei isterici. Nessuna delle bambine che avevano superato quella porta erano state ricondotte nella stanza: dove le portavano? Strinse ancora di più le ginocchia al petto e soppresse un singhiozzo. Sapeva perfettamente che nessuno l’avrebbe sentita in quel marasma, eppure non voleva dare il minimo segno della sua presenza. Si appiattì contro il muro, chiusa su se stessa, e cercò di non badare all’atmosfera di tensione e paura che regnava in quella stanza.

 

 

Il rumore di una porta che si apriva la fece sobbalzare e aprire gli occhi di scatto. Vi furono un paio di secondi di dormiveglia in cui non ricordava dove fosse e cosa fosse successo. Un paio di secondi di pace prima che la dura realtà le ripiombasse addosso schiacciandola con il suo peso come un macigno. Era ancora in quella stanza. Doveva essere stata talmente stanca, impaurita e distrutta da addormentarsi. Una rapida occhiata le bastò per rendersi conto di essere l’unica rimasta in quella camera, che voleva dire un’unica cosa. Questa volta, l’uomo in nero era lì per lei. Sentì il terrore farsi nuovamente strada nella sua testa impedendole di ragionare con lucidità. L’ombra dell’uomo si avvicinava sempre di più a lei, già sentiva il suo odore acre di vodka e sudore impregnare l’aria intorno. Fece per chinarsi e prendere la sua mano. Fu a quel punto che il suo istinto prese il sopravvento: di colpo, serrò le dita della mano e sferrò un pugno in faccia all’uomo, più forte che poteva. Egli, preso alla sprovvista, vacillò per un secondo, lasciandole il tempo di compiere uno scatto e passare sotto le sue gambe. Corse verso l’unica uscita che vedeva, la porta da cui era entrato l’uomo. Si ritrovò in un corridoio lungo, pieno di porte su entrambi i lati. Corse a perdifiato verso la prima, incalzata dal rumore dei passi dell’uomo che nel frattempo si era ripreso dietro di lei. Si scaraventò verso la prima porta, chiusa. La seconda, anche. Il suo respiro si faceva sempre più affannoso, non aveva fatto quella fatica per essere presa di nuovo. La terza porta era chiusa, e così la quarta. Disperata, prese a fare spasmodicamente pressione sulla maniglia della quinta, fino a che questa non cedette con un suono metallico. Senza aspettare ulteriormente, si precipitò nella stanza, richiudendo la porta dietro di sé, mancando per un pelo l’uomo che ormai l’aveva praticamente raggiunta. Fece per riprendere a correre, quando si accorse di essere in una stanza piccola e di essere circondata da uomini in camice bianco, che si girarono immediatamente verso di lei. Li contò rapidamente: erano quattro. Il primo sulla destra era alto e dall’aria dinoccolata, magro. Non doveva avere più di trent’anni, tuttavia i suoi occhi azzurri erano talmente duri da dare l’impressione che fosse più vecchio. Quello al suo fianco era probabilmente sulla sessantina. Aveva i capelli brizzolati e il naso adunco. Portava dei ridicoli baffi alla francese. Era molto più basso del vicino, e anche più in carne. Il terzo doveva avere una quarantina d’anni. Era pelato e piuttosto alto, portava degli occhiali spessissimi rotondi, la cui montatura era mezza rotta. In mano teneva una siringa con del liquido rosso all’interno. Il quarto sembrava essere quello a capo della squadra. Pur non essendo tanto alto, dava l’impressione di essere immenso. Aveva le spalle larghe ed era in generale ben piantato, portava i lunghi capelli neri e unti legati in una coda. Due occhi piccoli e dall’aria cattiva si vedevano dietro a due lenti a mezzaluna. In mano aveva un fascicolo pieno di fogli con diverse formule matematiche e grafici disegnati. Tutti e quattro avevano un’espressione stupita sul volto, mentre la guardavano. Lei rimase ferma, interdetta, mentre la sua testa lavorava angosciosamente per trovare una via d’uscita. Di colpo si spalancò la porta dietro di lei, lasciando entrare l’uomo da cui era scappata. Per la prima volta, riusciva a vederlo bene in faccia. Era biondo e aveva gli occhi azzurri, gli zigomi alti e i lineamenti duri. Il naso era gonfio e in una strana posizione, in più stava sanguinando. Tirandogli quel pugno doveva averglielo rotto. Si fermò di scatto, trafelato, spostando gli occhi da lei agli scienziati. Vi furono diversi secondi di immobilità completa, il silenzio interrotto solo dall’ansimare dell’uomo. Il quarto scienziato finalmente parlò, interrompendo il silenzio.

-Beh, Anatoly? Cosa significa tutto questo? È forse una sorta di scherzo?- La sua voce era fastidiosa, melliflua. L’uomo, visibilmente preoccupato, annaspò cercando una risposta.

-La ragazzina... La stavo andando a prendere, ma si è ribellata.

-Stai forse cercando di dirmi che ti sei fatto maltrattare da una ragazzina di...- si interruppe un attimo per cercare un foglio sul suo quaderno- SEI anni, senza alcun tipo di addestramento e che peserà venti kili al massimo, tra l’altro ancora sotto l’effetto del siero della memoria che le abbiamo somministrato?

Bene, pensò lei tra sé e sé, almeno so la mia età. E so anche perché non riesco a ricordare più niente. Nel frattempo Anatoly era impallidito. Il medico era indubbiamente uno che incuteva paura e doveva essere, come lei aveva immaginato, a capo di tutti i presenti.

-Mi... Mi ha colto alla sprovvista, signore. Non... Non accadrà più, glielo giuro.

-Sarà meglio- tagliò corto il medico. -Ora vattene, lasciaci con la bambina. Tu e io continueremo questa conversazione più tardi.

A queste parole Anatoly impallidì, se possibile, ancora di più. Per un momento sembrò che stesse per protestare, ma poi si limitò ad assentire e lasciare la stanza in un rispettoso silenzio. Lei si girò nuovamente in direzione dei medici, che erano tornati a rivolgere tutta la loro attenzione su di lei. Il quarto medico la squadrò con aria di sufficienza per qualche secondo e poi disse, secco:

-Un altro scherzo come quello che hai fatto ad Anatoly e giuro che ti somministro così tanto siero da farti credere di essere un passerotto e farti passare il resto della tua vita in una gabbia per uccelli, ci siamo intesi?

Lei non proferì parola, cercando disperatamente di non far notare il terrore che era tornato ad attanagliarla. Non l’avrebbe data vinta a loro, chiunque essi fossero. Anche essendo piccola, non era stupida e sapeva che ci sarebbero state poche probabilità per lei di uscire viva da quel posto. Non aveva intenzione, tuttavia, di morire piangendo e implorando pietà come una bambina piccola.

-Molto bene.- proferì il dottore e fece un gesto del capo al primo medico, che annuì e si avvicino a lei. Senza il minimo accenno di grazia, la prese in braccio da sotto le ascelle e la sistemò su un lettino. Per quanto lei cercasse di divincolarsi, il medico la superava di due o tre volte in altezza, e la sua presa era ferrea. Il secondo dottore lo seguì a ruota, e la legò al lettino con delle cinghie.

-Di solito non le usiamo, ma non vorremmo mai rischiare che la nostra piccola ribelle si metta nei pasticci e si rovini quel bel faccino, vero?

Lei continuò nel suo ostinato silenzio, principalmente perché non era sicura della fermezza della sua voce nel caso avesse voluto controbattere. I medici si spostarono verso l’altro capo della stanza e si tuffarono in una conversazione sottovoce, di cui lei non riusciva a captare nemmeno una virgola. Sospirò piano e girò la testa verso l’alto. Sopra di lei c’era una lampada enorme, di acciaio talmente lucido che riusciva a vedere il suo riflesso, anche se lievemente distorto. Incuriosita, si osservò per qualche attimo, in quanto erano riusciti a cancellarle anche i ricordi del proprio aspetto. Nel complesso, togliendo il pallore eccessivo, la polvere che le sporcava la faccia e il disordine generale della sua figura, aveva un aspetto piuttosto grazioso. Rimase diversi secondi a esaminare i suoi lunghi capelli rossi e ricci. Dovette strabuzzare gli occhi per riuscire a capire che le sue iridi erano di un colore smeraldino, e riuscì a scorgere anche un neo sulla guancia destra. Era piuttosto magra, sebbene non mostrasse segni di malnutrizione come la bambina che aveva visto prima. Dopo essersi specchiata ancora per qualche istante, tornò a rivolgere la sua attenzione alla stanza, cercando qualsiasi strumento con cui potesse tagliare le cinghie e difendersi dai medici. Questi erano presi così animatamente dalla conversazione da non essersi accorti di aver alzato un po’ la voce, abbastanza da farle sentire tutto.

-È impossibile che ce la faccia, è troppo piccola! Il siero della Vedova la ucciderebbe dopo qualche ora!

-Ma quale siero della Vedova, quella lì morirà al primo allenamento, ve lo dico io. È la più giovane che abbiamo, la più bassa e presumibilmente la più leggera. La distruggeranno!

-Concordo. Verrebbe in effetti da chiedersi perché abbiano deciso di prendere anche lei. Potevano semplicemente ucciderla come tutte le altre inadatte.

-Ma per il cognome, è ovvio. Ai piani alti farà comodo avere l’ultima discendente della stirpe dei Romanov tra le loro file.

-Beh, indubbiamente. Vedremo allora cosa se ne faranno i piani alti del cadavere dell’ultima Romanov.

-Basta così.- Una voce risuonò nella stanza, causando il silenzio più totale di tutti i presenti. Da un angolo buio nascosto da un armadio emerse la figura di un uomo alto, che portava l’uniforme di un soldato russo completa di colbacco. Sembrava essere sulla quarantina. Da sotto il copricapo spuntavano dei capelli nero corvino disordinati, aveva anche dei lunghi baffi e un accenno di barba. I suoi occhi scuri sembravano più gentili di quelli di ogni persona che aveva visto fino a quel momento.

-Questa bambina sopravviverà molto più di quanto pensiate. È scaltra, a differenza delle altre: ha ascoltato tutta la conversazione senza che voi ve ne accorgeste, senza contare che non ha smesso per un secondo di cercare un’arma che le potesse garantire la libertà. È stata l’unica a cercare di ribellarsi quando siamo andati a prenderla, riuscendo persino a rompere il naso a uno dei vostri soldati più fidati. Non si è nemmeno messa a piangere alle tue minacce, Grigor, e come avete gentilmente ricordato voi è la bambina più piccola che abbiamo. Ha l’intelligenza e soprattutto non ha intenzione di morire. La forza fisica la acquisirà col tempo. Ha tutte le carte per diventare una Vedova Nera.

Nessuno dei medici osò produrre un fiato mentre l’uomo si avvicinava al lettino dove era adagiata. Lei non si mosse di un millimetro mentre osservava ogni suo movimento, e nemmeno mentre lui la liberò dalle cinghie che la tenevano ferma. C’era qualcosa in lui che portava il suo istinto a provare fiducia, ma la sua ragione premeva esattamente per il contrario: non poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia con nessuno, lì dentro.

-Ciao, Natalia. Io mi chiamo Ivan Petrovitch Bezukhov, e sono uno degli addestratori della Stanza Rossa.- La sua voce si era addolcita rispetto a qualche secondo prima. -Puoi stare tranquilla, ora. Sei al sicuro, nessuno di noi ti farà del male. Adesso segui Dimitri, - si fermò per indicare il terzo medico, quello pelato- ti porterà nella stanza qui di fianco. Lì ti puoi fare una doccia, almeno dovresti liberarti di tutta questa polvere. Poi ti daremo degli abiti puliti e potrai raggiungere le altre nel dormitorio. D’accordo?

Lei, che finalmente sapeva anche il proprio nome, lo squadrò in silenzio per qualche secondo. Considerando che non avrebbe avuto possibilità di scappare da lì, si disse che non aveva molte scelte. Decise di assecondare Ivan e alzarsi dal lettino. Non credeva ancora a una parola di tutto il discorso sulla sicurezza, soprattutto non dopo aver origliato la conversazione dei dottori, ma decise che avrebbe esaminato la struttura ed elaborato un piano per scappare in seguito. Per ora, si sarebbe fatta una doccia e avrebbe dormito, magari anche mangiato con le altre. Aveva bisogno di forze, dopo quella giornata.

 

Uscita dalla doccia, trovò ad aspettarla degli asciugamani e dei vestiti puliti, come aveva detto Ivan. Si asciugò in fretta, e indossò gli abiti: erano una canottiera bianca con la sagoma di una clessidra rossa sopra e un paio di pantaloncini corti neri. Trovò anche degli elastici, così si legò i capelli bagnati in una treccia. Uscì dalla camera e trovò Dimitri fuori ad aspettarla. Senza una parola, le fece cenno di seguirlo. Lei obbedì. Attraversarono il corridoio dove era stata fino a quel momento e presero l’ultima porta, che si affacciava su una rampa di scale. Scoprì allora di essere nel seminterrato di una villa piuttosto grande. Salirono per quelli che dovevano essere un paio di piani. Dimitri si fermò davanti a una porta di ferro piuttosto vecchia, che stonava con il resto dell’abitazione, la quale era invece piuttosto elegante e in stile ottocentesco. La aprì e senza troppe cerimonie spinse Natalia dentro, richiudendo la porta praticamente subito dietro di lei. Si guardò intorno: tutti i presenti, ovvero probabilmente tutte le bambine che c’erano prima nella stanza, si erano girate a guardarla. La maggior parte di loro aveva un’espressione persa, altre stavano ancora piangendo. Nella stanza c’erano una cinquantina di letti, messi disposti in due file, e ognuna delle ragazzine era sistemata su uno di essi. L’unico libero era in fondo alla stanza, vicino alla stessa bambina bionda che aveva visto trascinare via da Anatoly qualche ora prima. Senza fare rumore nel muoversi, andò verso quella direzione, sempre seguita dallo sguardo delle altre. Si sedette sul letto e iniziò a osservare tutte le ragazze presenti, studiandole attentamente. Quando spostò lo sguardo sulla biondina di fianco a lei vide che stava ancora piangendo ed era talmente pallida da sembrare gravemente malata. Aveva gli occhi vuoti, persi verso un punto del muro davanti a loro. Meglio, pensò. Almeno non è una chiacchierona. Iniziò ad esaminare una stanza, per cercare eventuali vie di fuga. Non vi erano finestre, l’unica via d’uscita sembrava essere la porta d’acciaio da cui era entrata, che era chiusa a chiave e presumibilmente sorvegliata. Mentre si scervellava per una possibile soluzione, una guardia entrò, accompagnata da uno dei medici.

-Ora di dormire.- proferì la guardia, con voce severa. Percorse tutta la stanza fino al letto di Natalia, l’ultimo, e tirò fuori un paio di manette da sotto il materasso. Prese senza nessun garbo il polso di lei, e lo incatenò al letto senza ulteriore indugio. Poi proseguì con i letti di fianco, mentre il medico dall’altra parte faceva lo stesso lavoro. Li maledisse tra sé e sé. Quando spensero le luci, si coricò, cercando di mettersi quanto più comoda potesse sopra quel materasso praticamente inesistente e con la mano legata al letto. Tutta la tensione del giorno le piombò sulle spalle, e si lasciò finalmente andare in un silenzioso pianto, ora che nessuno la poteva più vedere. Mentre le lacrime le rigavano le guance e le sue palpebre si facevano mano a mano più pesanti, non poté fare a meno di pensare che fuggire da lì sarebbe stato ancora più difficile di quanto avesse immaginato.

 

 

   
 
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