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Autore: Bloody Alice    06/04/2016    1 recensioni
| Prima Guerra Mondiale | Angst | Two!Shot |
Si chiama anima del violino.
Un oggetto che, a sentire questo nome, fa pensare a qualcosa di grande, qualcosa che in un violino si nota subito, che è sotto gli occhi di tutti.
Ma l’anima del violino è solo un listello cilindrico di sei millimetri all’interno dello strumento: è fatto su misura, non è incollato. Eppure è a dir poco fondamentale per ottenere il suono migliore.
Sbagli di un millimetro ed è fatta, è la fine.
L’anima del violino è qualcosa di cui nessuno si accorge, ma è indispensabile affinché tutto funzioni per il verso giusto.
Genere: Angst, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ali di poesia
s'infrangono
sulle leggere note.


Si chiama anima del violino.
Un oggetto che, a sentire questo nome, fa pensare a qualcosa di grande, qualcosa che in un violino si nota subito, che è sotto gli occhi di tutti.
Ma l’anima del violino è solo un listello cilindrico di sei millimetri all’interno dello strumento: è fatto su misura, non è incollato. Eppure è a dir poco fondamentale per ottenere il suono migliore.
Sbagli di un millimetro ed è fatta, è la fine.
L’anima del violino è qualcosa di cui nessuno si accorge, ma è indispensabile affinché tutto funzioni per il verso giusto.
È ciò che più passa inosservato, di cui alcuni ignorano addirittura l’esistenza, eppure senza di essa lo strumento non può vivere.
Voglio parlare di una persona che era come l’anima del suo violino, anzi, ne era proprio l’anima.
Non si tratta diun racconto uscito dalla penna di chi vuole accontentare il pubblico e sono certo che sarebbe una storia terribilmente semplice, se la guerra non si fosse messa in mezzo, se l’uomo la smettesse di complicarsi la vita.
Voglio raccontare qualcosa che è accaduto davvero, perché io c’ero e pensarci mi sconvolge sempre. A conti fatti, dopo anni, posso dire che stare con Niccolò era davvero sconvolgente.
Qualcosa che non ti permette più di tornare alla vita di prima, di essere come prima.
«Mi scusi, ho finito di passare quattro anni della mia vita con questo genio pazzo, può cortesemente indicarmi l’uscita per la vita comune?».
«…Come? Non c’è un’uscita?».
Tutto sommato, però, la prospettiva di non avere una via di fuga da quell’universo a se stante che girava con le sue regole, la sua fisica e, soprattutto, la sua musica, non era una sfortuna.
Anzi, il Paradiso stesso, ne sono ancora convinto, non potrebbe essere più dolce.
Perché sono pronto a sedermi ad un tavolo con davanti Dio e scommettere che nessuno dei suoi angeli sarebbe mai in grado di fare ciò che Niccolò faceva con il suo violino scheggiato.
Perché tutto il Paradiso precipitava dal cielo quando Niccolò metteva mano a quello strumento, e l’Inferno tremava.
Non lo dimenticherò mai.
Non puoi dimenticare una cosa del genere, Dio, sono pronto a scommettere anche su questo.
 

 
L’anima del violino.
 
 
Il mio lavoro era non avere un lavoro stabile: un nullafacente patentato, di quelli che nessuno potrebbe eguagliare neppure dopo anni di costante applicazione al far niente, ma non perché non volessi rendermi utile per la società.
La voglia era tanta, solo che evidentemente Ypres
aveva deciso che no, un posto sicuro per uno scrittore fallito come me non c’era e aveva anche deciso che no, non ero buono nemmeno per il servizio militare.
Nell’estate del 1914 le cose iniziarono a farsi serie, ma anche quando ormai l’inizio del conflitto era un fatto assodato, io continuavo anon preoccuparmene davvero e a vivere alla giornata.
Una sera suonavo la fisarmonica in una di quelle bettole dei quartieri malfamati, un altro giorno potevate vedermi a vender carote e un’altra volta al botteghino di qualche teatro.
Quello che capitava, insomma, e non ero nemmeno l’unico.
Fu durante una giornata spesa a girare a vuoto, una mattinata infruttuosa sotto ogni punto di vista – quando ti viene voglia di alzare gli occhi al cielo e pronunciare degli insulti che non sapevi nemmeno di conoscere –che lo incontrai.
Io non so cosa suonasse per le strade di Ypres, ma quando staccava l'archetto dalle corde tese del violino ecco che la magia svaniva.
So solo che udii la sua musica, perché era solamente sua, mentre stavo a due passi dall’entrata di non so quale parco – e in realtà non ha importanza, perché la guerra ha fatto svanire gran parte di Ypres.
L’importante era la sua musica. Era la melodia dell’anima, che si attacca alla pelle e al cuore e non ti lascia più.
Lo ricordo come se fosse ieri e non lo dico tanto per dire.
Lui se ne stava accartocciato su se stesso, seduto sul piedistallo di una statua, con indosso un cappotto nero sgualcito e i riccioli corvini che gli coprivano il volto pallido. Sembrava quasi fatto di porcellana, per un istante temetti che se l’avessero urtato lui si sarebbe rotto.
Aveva un violino scheggiato stretto nella mano sinistra e con la destrafacevascivolare l’archetto per dare voce allo strumento.
Santo cielo.
Era una melodia che faceva girare la testa. Ne rimasi incantato. Imbambolato.
Me ne innamorai profondamente, non avevo mai provato un amore così forte per qualcuno o per qualcosa come in quell’istante.
Amavo alla follia quello che suonava. E da quel momento decisi che avrei amato qualsiasi altra melodia gli fosse venuta in mente.
Avrei voluto dirglielo, avvicinarmi e conoscerlo, ma prima di riuscirci si era già alzato, passandosi stancamente una mano tra i capelli, e si era allontanato rivolgendo un flebile sorriso a chi si era fermato ad ascoltare.
Ritengo sia inutile dirvi che continuai a pensarci, anche dopo settimane che non sentivo quella musica, anche dopo aver realizzato che forse non l’avrei più ascoltata.
In ogni caso, nulla poteva togliermi dalla testa quella melodia.


Vagabondai per giornate intere in quel parco, sotto il freddo sole di Ypres, senza trovare ciò che stavo cercando.
Il cielo grigio sovrastava la città brulicante di vita, velieri gonfi di pioggia si accavallavano in una massa grigiastra dalle sfumature perlacee, densa, una coltre talmente fitta da oscurare i raggi pallidi di un sole già malato.
Il vento sibilava fra gli alberi ancora vestiti di foglie autunnali, scricchiolanti e macchiate d'oro, serpeggiando fra i rami scuri protesi verso l'alto in una silenziosa supplica, una muta preghiera prima del sonno invernale. Sussurrava, biascicava. Ed infine taceva per qualche istante, riprendendo poi una nuova danza con i colori del parco dalle tonalità rossastre. 
Per un tempo che mi parve infinito, sembrò che nulla potesse andare nel verso giusto.
Alla fine però una cosa la guerra te la insegna: se le cose non girano come vuoi, devi sforzarti con tutto te stesso di farle girare.
Alla fine impari che se pensi debba piovere, pioverà.
Infatti un pomeriggio le nuvole decisero di avere una crisi di pianto con i fiocchi, forse per ricordare che la guerra non sconvolge mai solo gli uomini.
Era iniziato come iniziano tutti i temporali: con una goccia di pioggia precipitata dalla cappa cinerea – che ben presto sarebbe stata accompagnata dalle gemelle in quel canto nostalgico –, collidendo sulla fronte di qualcheduno con un suono sommesso, che subito aveva esclamato «Piove!», con lo stesso tono di voce di uno che non l’ha mi vista, la pioggia.
L’acquazzone era così forte che faceva quasi male quando ti colpiva, gli alberi dapprima accarezzati dal vento novembrino erano sferzati da raffiche che sembravano quasi in grado di sradicarli dal suolo.
La densa coltre di nembi tuonava tanto da far spavento; nessuno avrebbe mai messo il naso fuori casa.
Nessuno, a parte uno: il ragazzo che avevo incontrato al parco e che ora, rivedendolo, chiunque poteva semplicemente paragonare ad un pazzo.
Stava suonando sotto la pioggia scrosciante, sotto un nubifragio per cui il cielo si era proprio impegnato, esorrideva. Era in piedi, quasi accartocciato su se stesso come la prima volta che l’avevo visto e, ci giocherei qualsiasi cosa, sorrideva.
Mi coprii la testa con il giornale che avevo in mano – anche se non serviva a molto – e gli corsi incontro.
Quando lo feci smettere lui alzò lo sguardo, profondamente contrariato: «Stavo suonando delle emozioni e tu mi hai distratto».
Ci rimasi di stucco. Mi fissava con la medesima espressione che avrebbe potuto fare un bambino a cui era appena stato tolto il giocattolo preferito.
Non sapevo cosa dire, poiché la sua frase era così assurda che avevo improvvisamente dimenticato le parole con cui ribattere.
Semplicemente, lo afferrai per un braccio e lo portai al chiuso. Lui si lasciò trascinare, con il viso ancora crucciato dal disappunto, da uno che nemmeno conosceva – e io, da parte mia, stavo rischiando una broncopolmonite per un pazzo con in mano un violino.
Il bar in cui ero entrato, senza farci nemmeno troppo caso, era piccolo, con uno stretto bancone in legno rovinato. Non me ne sono scordato. Non ho scordato nulla, nessun particolare degli anni accompagnati dalle note di quel violino.
Era gremito di gente: vecchi che giocavano a carte lamentandosi del tempo e soprattutto donne che fissavano il cielo assorte, tristi. Pensavano ai soldati al fronte, lo so, tutti ci pensavano in fondo, a parte i bambini, forse. Era meglio così, meglio che i bambini non si sporcassero con una cosa oscena come la guerra.
Io e il violinista pazzo eravamo bagnati da capo a piedi e l’anziano dietro al bancone, l’unico in servizio in quel momento, smise di servire il caffè appena ci vide. Dovevamo fargli davvero pena, così conciati, perché ci accompagnò di persona ad un tavolo pieno di scatoloni, che spostò in un angolo.
Il ragazzo si sedette di fronte a me, i capelli fradici che ricadevano sul collo e gocciolavano sul cappotto rattoppato, zuppo pure quello. Aveva lo sguardo malinconico; forse era ancora triste perché gli avevo impedito di continuare a suonare.
Mi sentii quasi colpevole, per un istante, ma poi scossi la testa: per Dio, non potevo mica lasciarlo morire di freddo sotto tutta quell’acqua.
Presi un caffelatte e decisi di offrirgli da bere – maledizione, alla fine mi sa che mi sentivo in colpa sul serio.
Lui mi rivolse un sorriso, timido, come quello che aveva riservato ai suoi spettatori il primo giorno che l’avevo visto, e andò a prendere l’ordinazione al bancone prima che potessi muovermi dalla sedia. Lo vidi scivolare nel poco spazio fra i tavoli con grazia e leggerezza, quasi come se stesse ballando, invisibile agli occhi dei clienti.
Mi chiesi da dove venisse una persona simile, con lo sguardo malinconico color nocciola e il sorriso intriso di mestizia; sembrava troppo fragile per il mondo fuori dal bar. Aveva preso a mescolare il suo cappuccino con aria assorta, finché non presi il coraggio a due mani e mi decisi a rompere il silenzio, nel tentativo di iniziare a conoscerlo.
Si chiamava Niccolò – e questo lo avevo già anticipato – ma dovete sapere che non era il suo vero nome. In realtà doveva essere qualcosa che iniziava per R, o forse per A, mi confidò, o magari era solo uno di quei comunissimi nomi che giravano per il Belgio in quel periodo.
Non ho idea del perché non se lo ricordasse, ma evidentemente a qualcuno capita, quando tua madre ti abbandona per motivi sconosciuti all’età di cinque anni.
Così lui si era dato un nuovo nome, all’inizio, si era chiamato Amadeus, come Mozart, perché gli piaceva l’idea di suonare il piano, però non era portato.
Cielo, no. Sarebbe stato terribile se non avesse mai preso in mano un violino.
Appena provò a suonarne uno, una suora di origini italiane, all’orfanotrofio, gli diede un nuovo nome: scelse quello del Paganini.
Niccolò non parlava molto. Beveva il suo cappuccino in silenzio, mentre io osservavo assorto fuori dal bar.
Le gocce gelide rigavano il vetro della finestra, puntellato di tanto in tanto da qualche impronta prossima alla zona della maniglia, proiettato sul cielo tetro e filamentoso, denso di nubi scarmigliate, sbranate in brandelli dal vento impetuoso, lasciando spazio a lacrime leggermente oblique.
Cadevano fitte sull'asfalto ricoperto da larghe pozzanghere, increspate dai soffi leggeri della brezza profumata d'umidità, di terra, disegnata da cerchi concentrici ed arabeschi tramortiti dallo scalpiccio di qualche desolato passante fuggitivo in quelle vie fuligginose e scalcinate. 
Fissai la coltre di nubi e una domanda mi sorse spontanea. «In che senso suonavi “le emozioni”?» gli chiesi, sorseggiando dalla tazza.
Niccolò mi scrutò per alcuni istanti, con gli occhi quasi nascosti dalla frangia e un sorriso appena accennato sulle labbra.
«Suono le emozioni … quelle delle persone. In fondo si sa, le persone non si interessano a nulla che non riguardi loro direttamente, nulla le rende felici come loro stesse. Per questo suono le loro emozioni. Le osservo, cerco di farle mie.» cercai di rimanere concentrato sulla sua spiegazione, ma il mio sguardo e la mia mente continuavano a divagare su particolari: il modo in cui Niccolò girava il cappuccino, lentamente, stringendo il cucchiaino tra le dita affusolate, come rimaneva curvo sulla tazza fumante. Mi accorsi che aveva l’aspetto di una persona normalissima, che di certo non poteva spiccare per via della sua apparente innocenza, qualcuno che di certo senza un talento particolare –come far precipitare il Paradiso sulla Terra quando suonava – poteva facilmente passare inosservato.
Questo pensai di lui, allora. Era la persona più comune che avessi mai visto e mai mi sarei avvicinato a lui se non avesse avuto quel violino scheggiato tra le mani.
Il rumore della porta che sbatteva mi riscosse dai pensieri e udii nuovamente la voce flebile di Niccolò. «La vita dell’uomo è una continua rincorsa verso la felicità. Ci sono momenti in cui ti sembra di raggiungere il cielo, ma appena allunghi il dito, è già tutto finito. La musica è ciò che ti aiuta a rimanere un po’ più a lungo vicino alla nuvole, serve a rendere le persone un po’ più serenee la vita più interessante.» bevve un altro sorso di cappuccino «Non del tutto, forse, ma un poco sì. Non credi?».
Annuii, non sapendo cosa ribattere. Nella mia testa, di tutto ciò che Niccolò aveva detto, era rimasto ben poco. Riuscivo solo a ripetermi Oh, Dio, fa che non smetta mai di suonare, ti prego, e allora, fino all’ultima volta che lo vidi,non riuscii davvero a capire che non era la musica di quel violino la cosa realmente importante, che dava senso a tutto, ma Niccolò.
Lui era l’anima del violino che, piccola, svolgeva tutto il lavoro mettendoci ogni grammo del suo essere, senza che gli altri se ne accorgessero, mentre tutti la ignoravano.
Ma ci arrivai tardi. Chissà, forse era questo il mio limite di mediocre scrittore, non riuscire a cogliere la vera essenza di una cosa.
La pioggia aveva smesso di cadere dal cielo scuro, avvolto in una coperta d'ardesia strisciata di blu nei suoi lembi di pesanti nubi, ancora gravide d'umidità. Statica, l'aria della sera pizzicava la pelle dei passanti avvolti in lanosi cappotti e berretti calati sulla fronte le mani intirizzite dal freddo, lo scalpiccio dei passi illuminato dai fasci dei lampioni che proiettavano ombre sulla strada.
Dall’alto dei miei trentacinque anni, uscendo da quel bar, avevo guardato verso il basso e ciò che avevo visto era stato solo un ragazzo di venticinque per cui non avrei rischiato una broncopolmonite, se non avesse iniziato a suonare. Non avevo capito proprio nulla, ma non lo sapevo ancora, e Niccolò mi salutò con il suo sorriso malinconico senza aggiungere altro.
 

Lo incontrai altre volte, ma non ci davamo mai appuntamento.
Accadeva e basta, Niccolò aveva la capacità di trovarmi ovunque e sempre, senza che me ne accorgessi compariva all’improvviso nel mio campo visivo, accartocciato con il suo violino tra le mani, a fare quella musica straordinaria, per cui sembrava persino che la guerra non fosse più un reale problema, ma solamente qualcosa di lontano, indistinto, privo di importanza.
Scoprii che aveva suonato nei luoghi peggiori della città e soprattutto per strada, in mezzo alle persone incuranti del resto, e lo bombardai di domande sulla musica.
«La musica è qualcosa di troppo grande, per poter essere imbrigliata in una semplice definizione.» mi disse un pomeriggio «È un po’ come l’amore.  Ti travolge, è ovunque, ma non riesci a spiegarlo a parole. Non ci riesci, perché semplicemente non puoi. Perché la musica è qualcosa di troppo alto ed ognuno ha la sua. E la mia è quella dell’anima, che scaturisce dalle persone e si posa sulle corde del mio violino, a volte senza che me ne accorga».
«Questo non dovresti dirlo solo a me, ma ad un teatro intero.» scherzavo ogni tanto, ma poi divenni sempre più serio.
Glielo chiesi fino allo sfinimento perché non avesse mai accettato di esibirsi in un teatro, di quelli seri, perché la musica che faceva lui ti arrivava dritta al cuore e ti spezzava in due senza chiederti il permesso. Era qualcosa che nessuno di quegli idioti in giacca e papillon, acclamati dai ricconi della città, sapeva fare.
Lui però ci riusciva come se nulla fosse.
E come se nulla fosse mi rispondeva – sempre, ogni dannatissima volta – «È che non sono buono per quello. Si deve studiare uno spartito, ma io non ho voglia».
Non aveva voglia, lui.
Niccolò suonava senza pensarci, mi spiegò una di quelle giornate, non aveva uno schema definito in testa, solo una gran confusione, i sentimenti delle persone che vedeva passare davanti a sé gli vorticavano in testa e allora ecco che la melodia iniziava a scivolare fuori dalle corde.
Dapprima flebile, timida, si guardava intorno con aria circospetta per poi aumentare, prendere coraggio e caricare contro i passanti senza ripensamenti, senza titubanze, rubando loro un pezzo di anima che no, non avrebbero mai più riavuto indietro.
 

Eravamo sotto Natale quando lo incontrai nuovamente, dopo una settimana in cui ero rimasto totalmente assorbito dalla ricerca di un lavoro che durasse più di tre giorni.
I fiocchi di neve scendevano lenti dal cielo perlaceo, manto soffice e lieve posato sulle vie immacolate, carezzate da quel vello puro. Vorticavano nel cielo denso, attutito da ogni suono in quel silenzio assoluto, sospeso fra i coriandoli nivei. Il vento li trasportava in una placida danza, baciata dagli aloni giallastri dei lampioni stilati nel lungo viale dagli alberi scarni, i rami neri, spogli, protesi verso il cielo notturno avvolto dalle nubi di quel giorno d'inverno.
Lo vidi seduto per caso, sotto la statua dove lo avevo scorto per la prima volta, ma non era circondato da nessuno, nemmeno da quei bambini che si fermavano sempre intorno a lui, a guardarlo estasiati, rapiti.
Il violino gli era accanto, ma Niccolò non prestava attenzione allo strumento e come ogni volta in cui non l’aveva in mano nessuno riusciva ad accorgersi della sua esistenza.
Fissava invece il cielo, assorto.
Dopo quel giorno al bar mi ero abituato a trovarlo sempre intento a suonare, o comunque con quel violino scheggiato sempre tra le mani, mentre chiacchieravamo.
Mi avvicinai, cauto, sedendomi accanto a lui, che mi salutò piegando le labbra verso l’alto.
Mi resi conto che quel sorriso ormai faceva parte della mia routine, che Niccolò e il suo violino si erano insinuati nella mia vita, entrando poco alla volta, giorno dopo giorno. Quasi mi spaventai al pensiero che sarebbero potuti uscirne, che avrei potuto perdere quella musica.
Picchiettai per un po’ le dita sulle gambe, poi parlai «Un mio amico è tornato oggi dal fronte, sai? Lì hanno fatto una tregua, mi ha detto. Avevano appena iniziato a giocare a calcio con il pallone rattoppato di un inglese, quando lui se n’è dovuto andare. È messo un po’ male, ha rischiato di beccarsi il bacio della buonanotte chissà quante volte, ma non mi ha voluto dire altro a riguardo.» notai che Niccolò mi stava ascoltando con interesse, così proseguii «Mi ha detto che gli ufficiali hanno sbraitato come pazzi, ma i soldati giocavano comunque. Il mio amico, lui, a raccontarmelo mi è sembrato felice come mai prima. In effetti è un po’ un miracolo.»feci una piccola pausa, guardandomi intorno. Era un mattino gelido, ma la neve aveva smesso di cadere ed ora il cielo sembrava intenzionato a prendersi una pausa. Pensai che anche quello era un po’ un miracolo, dopo tutta la neve che era caduta prima, ma continuai a sentirmi triste anche se le nuvole si stavano diradando. «Mi chiedo come faranno però, tutti, quando questa tregua del pallone improvvisata sarà finita.» biascicai, con il viso intorpidito dal freddo «Come riesci a sparare verso la trincea nemica quando sai che potresti colpire uno con cui il giorno prima hai fatto amicizia? Come riesci anche solo a pensare di dare inizio ad una tregua in mezzo ad una guerra?».
Niccolò dischiuse le labbra, formando una piccola nuvola di condensa «Me li sono immaginati spesso, sai? I soldati che stanno combattendo. Un giorno uno di loro si sveglia e decide che è stanco di uccidere ed è sicuro che qualcuno al di là della terra di nessuno la pensi come lui. Allora si alza, lentamente, bandiera bianca in mano, i suoi superiori che gli urlano contro “Che diavolo fai? Torna sotto, che se ti muovi t’ammazzano”, ma lui non li ascolta perché si è stancato anche di dar retta ai loro ordini. E dall’altra parte qualcuno fa lo stesso, magari unsoldato tedesco un po’ grassoccio che è lì solo perché c’è la leva obbligatoria. Si stringono la mano e si dicono che per oggi non se ne fa niente della guerra, perché hanno un dolore proprio lì, nel petto, che impedisce ad entrambi di stare accovacciati dietro la trincea.» Niccolò fissava il cielo e credetti che si sarebbe messo a piangere «Non sono nemmeno sicuro che tutti sappiano il reale motivo per cui ci combattiamo l’un l’altro. Non è quasi buffo? Nasciamo avendo nulla e quando moriamo lo facciamo senza portarci dietro il becco di un quattrino, perché lassù – o laggiù – non serve a nulla essere ricco, a conti fatti. Però nel mezzo lottiamo, lottiamo come dannati per possedere qualcosa di cui poi ci stanchiamo subito».
I raggi del sole dicembrino colavano effimeri lungo le forme rigide della città che si intravedeva tra le chiome degli alberi del parco, schiarendone le pareti scalcinate delle abitazioni, accompagnando il mormorio delle auto che percorrevano le vie dense di smog e di parole, di formiche brulicanti cariche di borse o zaini e le chiome coperte da cappelli ben calati sulla fronte. Cercai di volgere i miei occhi al resto, perché avevo davvero sentito qualcosa incrinarsi, nella voce del violinista, che comunque continuava a parlare.
«Vorrei che la guerra finisse, che tornassero tutti a casa, che le tregue non fossero solo a Natale, ma per sempre, anche se è davvero tanto tempo. Però se ci mettessimo d’impegno ci riusciremmo, no? A smettere di odiarci, intendo. Dio non ci ha creati perché passassimo il tempo a detestarci».
«Non lo so davvero, sai? Da quando è iniziata la guerra ho messo così tante volte in dubbio la bontà umana che ho perso il conto. E ho perso il conto degli amici che ho al fronte, di coloro che ci sono morti o che ci moriranno.» soffiai sulle mani per scaldarle un poco «Il mio amico viene dalla quinta divisione di fanteria. Tu hai qualcuno al fronte?».
«Sì.» mormorò.
«Un fratello soldato, una sorella infermiera?». Niccolò incrociò il mio sguardo, incatenò i miei occhi ai suoi, mentre dalle nostre labbra fuoriuscivano nuvolette di condensa.
«La persona che amo. Settima divisione». Quella frase rimase sospesa nell’aria per alcuni istanti, immersa nella nebbia di Ypres, cristallizzata.
Niccolò tornò ad osservare il cielo coperto «Non riesco ad odiare questo violino nemmeno quando vorrei, perché è un suo regalo.» constatò, quasi assorto «Vivo nella paura di non ricevere una lettera dal fronte, ed ogni volta che guardo la posta spero che lì in mezzo non ci sia uno di quei telegrammi che ti inviano per darti… la notizia.» deglutì, sembrava che stesse per andare al patibolo «Non mi è mai mancato qualcuno così tanto, non ho mai pensato così intensamente a nessuno, nemmeno a mia madre. Trascorro la mia vita intorno ad individui che si fermavano accanto a me solo mentre ho tra le mani quel violino.» borbottò e per la prima volta lo vidi lanciare un’occhiata carica d’astio verso lo strumento «Ma questa persona no, è la prima ad aver visto qualcosa in me al di fuori della mia musica e questo ha scaldato il mio cuore sin dal primo attimo. Sono terribilmente innamorato e non mi importa ciò che potrebbero dire altri». Aveva pronunciato quelle parole con un tono più flebile del solito, intriso di un’emozione che non gli avevo mai letto nel fondo di quei pozzi scuri.
Aveva detto tutto lentamente, come se si stesse dichiarando a quella persona, come se lei fosse lì e lui avesse voluto dirle grazie, forse per l’ennesima volta.
Gli chiesi di chi si trattasse. Niccolò non fiatò per un attimo, ed infine non mi rispose.
Non insistetti oltre, ma rimasi comunque curioso. Volevo sapere chi fosse, lui o lei, come avesse fatto a leggere Niccolò così bene, così a fondo, senza bisogno della sua musica.
Così provai ad immaginarlo.
Forse era una di quelle infermiere timide e a volte un po’ impacciate, ma che aiutavano chiunque e vedevano del buono in tutti, il tipo di ragazza che rimane con il naso tra i libri tutto il giorno, ma si accorge di ogni particolare. O forse era un giovane soldato partito al fronte perché costretto, come uno di quei tedeschi grassocci, oppure perché voleva servire la patria, o forse, pensai liberando il mio spirito romantico, per Niccolò, che aveva visto un giorno, solo e accartocciato su se stesso – ma senza il violino in mano – e ne era rimasto folgorato, per un motivo che non potevo comprendere.
In ogni caso, qualsiasi fosse la sua reale identità, per quanto fossimo amici, quel violinista pazzo non mi confidò nulla di più. Probabilmente la riteneva un’informazione troppo personale.
In fondo Niccolò, questo l’avevo capito e ne sono ancora convinto, preferiva tenere per sé certi dolori, troppo difficili da esprimere a parole, troppo brutti, che ti farebbero piangere come un bambino, ma per orgoglio non ci riesci.
Sospirò. «Alla fine, siamo rimasti entrambi soli, mh?».
«Ma visto che ci siamo incontrati, non lo siamo più, siamo in due. E saremo io e te, finché potremo. Contro un mondo che, in qualsiasi maniera tu voglia girarla, è sempre in guerra.»borbottai, dopo un altro attimo di silenzio.
Niccolò aveva appoggiato il volto sulle ginocchia, inclinando il capo verso di me, e aveva sorriso.
«Sì, saremo noi contro la guerra. »sussurrò e sembrò quasi un giuramento.
Ed era un noi caldo, rassicurante e aveva il sapore di una promessa.
Una promessa che, pensai ingenuamente all’inizio, non avrei infranto per tutto l’oro del mondo, per tutti i lavori dell’universo, nulla mi avrebbe impedito, da quel momento in avanti, di separarmi da quella melodia.
Era il punto di non ritorno, per me. Stavo chiudendo tutte le porte per lasciarne spalancata solo una. E oltre lo stipite c’era solo un precipizio di cui non riuscivo a vedere il fondo, per cui non sapevo cosa aspettarmi, ma con quella musica doveva essere così, tutto imprevedibile, ancora più imprevedibile della mia vita precedente.
Ero pronto per tuffarmi. Nessuno ripensamento signori, non si tornava più indietro dopo un volo simile. Potevo morire sul colpo o sopravvivere, ma non l’avrei scelto io.
Anche se non riuscivo a non essere turbato. Per la prima volta mi preoccupai, per un misero lasso di tempo, di Niccolò, e non della sua musica.
«Però io non vorrei più vivere, se la persona che amo morisse».
Io non vorrei più vivere.
Non vorrei più vivere, se la persona che amo morisse.
Ed ebbi paura.




 

 
   
 
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