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Autore: maavors    08/04/2016    0 recensioni
Mia Nisi è il nuovo sottotenente dei RIS di Roma. Il suo arrivo porterà molti cambiamenti nel (quasi) tranquillo ambiente romano.
IMPORTANTE: sto aggiornando e modificando i capitoli. 05/01/2016
Genere: Commedia, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Bartolomeo Dossena, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 15
 
 
Ci sono momenti in cui non smetto di parlare.
Quando un milione di parole escono dalla mia bocca in pochi secondi.
Un milione di parole che non significano nulla.
Ma quando cerco parole che significhino tutto... non riesco proprio a parlare.
Come "mi manchi".
Come "ti amo".
Come "il mio mondo sta crollando e ho bisogno che tu mi stia vicino".
My Mad Fat Diary s02e07
 
 
 
Arrivarono sul luogo del delitto accompagnati dai colleghi della territoriale. Enormi palazzi bianchi circondavano la via dove si trovavano. Per scendere dalla macchina Mia dovette schivare due enormi pozzanghere causate dall’incessante pioggia. Salirono al terzo piano “’Sto palazzo è uguale a quello de mi nonna” disse Emiliano, Mia e Bianca non poterono non ridere “Che ho detto?” chiese lui “Niente, tranquillo” lo rincuorò Bianca toccandogli delicatamente il braccio. Mia aveva sempre avuto l’impressione che tra quei due ci fosse stato qualcosa: era il modo in cui lui la guardava, come se non ci fosse nessun’altra nella stanza, e lei, ogni volta che lui parlava, lo stava ad ascoltare incantata anche se erano solo le sue stupide battute. Provò invidia nei loro confronti, loro evidentemente c’erano riusciti a far conciliare lavoro e vita privata, lei, invece, non ce l’aveva fatta. Certo lui non era Bart, e lei non era Mia. Ma poi cosa c’era stato tra lei e Bart? Niente. Non c’era stato niente.
     Arrivarono davanti la porta e prima di entrare in casa s’infilarono le tutine per non alterare la scena del crimine. “Chi ha trovato la vittima?” chiese Mia mentre si richiudeva la zip “La moglie” rispose il tenente Sasso “sostiene si sia trattato di una rapina finita male. Comunque Carnacina vi aspetta dentro” i tre annuirono e si addentrarono all’interno dell’appartamento. Era una bella casa: dalle finestre entrava la poca luce che riusciva a penetrare le nuvole, sdraiato a terra c’era un uomo e accanto a lui una pozza di sangue. Era l’unica nota stonata di quel quadretto, era tutto in ordine, tutto pulito, tutto sistemato. Tranquillo.
Carnacina era seduto su un divano proprio di fronte alla vittima “Buongiorno ragazzi” disse con un sorriso alzandosi “bentornata Mia” esclamò guardando la ragazza negli occhi, poi con un impercettibile gesto della mano spostò l’aria davanti a lui e iniziò a parlare: “il delitto è avvenuto alle 21 e 54, cadendo si è rotto l’orologio. La morte è avvenuta a causa dello sfondamento del cranio. Per il momento non so dirvi altro. Appena avete finito mandatemi il corpo” concluse allontanandosi dalla scena.
Mia non prestò molta attenzione alla vittima, quello non era il suo lavoro. Si concentrò piuttosto sull’ambiente circostante, sin dal primo momento in cui era entrata aveva notato qualcosa di strano “Non mi sembra proprio una rapina” disse Mia guardandosi intorno “nessun segno di effrazione e la casa è fin troppo in ordine” aggiunse alzando e riabbassando le braccia. “Sì, e in tasca aveva ancora lo smartphone” commentò Bianca. Repertarono le poche cose che poterono e dopo nemmeno due ore furono di ritorno al RIS.
 
Bianca e Mia iniziarono a lavorare sulla vita della vittima: “Si chiamava Michele Loreto, 55 anni, incensurato” disse Bianca “che altro sappiamo?”
“L’ha ritrovato la moglie stamattina, sostenendo l’ipotesi di una rapina. Aveva una figlia” disse Mia e l’altra annuì.
Mentre digitava al computer Mia notò una figura che da lontano la stava guardando, il suo cuore saltò un battito quando mise a fuoco sul volto: Bart. Stava bevendo un caffè appoggiato al muro. Sostenne lo sguardo per un secondo, poi come risvegliata da un sogno tornò a digitare i dati al computer.
“La Brancato mi ha chiesto di domandarvi come procede il lavoro” quella voce le penetrò nelle vene facendola tremare. “Bene, non sappiamo ancora niente” disse Mia accennando a una battuta, facendo finta che quella fosse una semplice conversazione tra colleghi, facendo finta che andava tutto bene. Aveva gli occhi fissi in quelli di Bart e sapeva per certo che Lucia non gli avrebbe mai chiesto di andare a controllarla. Perché mentire in quel modo? Lui era appoggiato alla porta dell’ufficio e sfoggiava uno dei suoi migliori sorriso, finto anche quello. “Ma questo sta per cambiare” affermò Mia prendendo il telefono che avevano imbustato “lo porto a Ghiro, magari ci tira fuori qualcosa” Bianca annuì. Mia respirò profondamente e passò davanti a quel ragazzo, così maledettamente bello pensò. Gli sorrise debolmente ed ebbe quasi l’impressione che lui le volesse dire qualcosa, come se avesse aperto impercettibilmente la bocca per parlare e poi avesse cambiato idea all’ultimo secondo.
 
“Ricava tutto quello che puoi da questa scatoletta demoniaca” disse Mia appoggiando il telefono sulla scrivania di Ghiro che stava giocherellando con un paio di cuffie. Appena la vide si ricompose “Ai suoi ordini signorina” le rispose spostando una sedia accanto a lui, invitandola a sedersi.  “Come procede la giornata?” le chiese iniziando a lavorare sulla prova “Procede” i due si scambiarono uno sguardo che diceva tutto.
“Non ho visto Orlando stamattina” chiese Mia cambiando radicalmente discorso.
“Cerchiamo di tenere il lavoro separato dalla vita personale per un motivo” Daniele smise di guardarla e iniziò a smanettare al computer “non è facile e non ci riescono nemmeno i migliori” continuò.
“Ha chiesto il trasferimento?” domandò Mia fredda, non che non le importasse ma cercava di tenersi distaccata per non immischiarsi troppo. “No… No. È che ultimamente passa un sacco di tempo in procura, sommerso da scartoffie” Mia non rispose ma annuì.
Circa un mese prima Lucia le bussò alla porta quasi in lacrime “Ehi, che succede?” le chiese premurosa. Lei non rispondeva ma tremava, l’avvolse in un abbraccio e solo dopo parecchie domande sputò fuori il rospo. “Penso che Orlando non voglia più sposarmi” ammise Lucia, Mia non chiese altro e aspettò che l’amica si prendesse il suo tempo per raccontarle cose le stava succedendo. “Pochi giorni prima del tuo incidente non mi sentivo bene, ero sempre stanca e quando mi sono addormentata in ufficio lavorando mi sono decisa a fare dei test” si portò le mani sul volto, nascondendo le lacrime che le stavano fuoriuscendo. “Ero incinta. Due settimane. Non lo so che ho pensato, non lo so quello che ho fatto, ma sapevo solo che era sbagliato. Non andava bene, non rientrava nei piani. Così ho preso un appuntamento per interrompere la gravidanza. Orlando non lo avrebbe mai saputo e sarebbe andato tutto per il verso giusto, come avevamo programmato. Poi non lo so come ma l’ha scoperto e…”
“Mia?” Daniele la strattonò leggermente “Sì?”
“Ho detto: non ho trovato niente di eclatante. Ti ho mandato però le ultime ricerche effettuate su internet, chiamate e messaggi… tutto insomma” Mia annuì e gli stampò un bacio sulla guancia “Grande Ghiro, sei il migliore” disse uscendo dal suo ufficio.
 
Che diavolo stava pensando? La Brancato non gli aveva detto proprio un bel niente. Mia era tornata da solo un giorno e stava già mandando tutto a puttane. Era questo il motivo per il quale lo volevano mandare via. Non si controllava, lui. Era impulsivo, lui. Non pensava. Agiva.
Si bagnò la faccia con l’acqua fredda, doveva pensare al suo caso, continuare a vivere come aveva fatto fino al giorno prima. Ma era così difficile farlo con lei in ufficio. Era una distrazione. Lei era la sua distrazione. Nessuna era riuscita a entrare nella sua testa come aveva fatto lei, nessuna. Sentiva il cuore sbattere contro la cassa toracica, andava a mille. Si sciacquò di nuovo il volto ma non riusciva a controllarsi. Allo specchio appeso sopra il lavandino vedeva un uomo devastato. Un uomo che non era lui. Un perdente. Chiuse gli occhi per non vederlo più, per non vedere quel vigliacco che si nascondeva in bagno per non sentire il profumo della ragazza che non poteva avere.
Inspirò.
Spalancò gli occhi.
Espirò.
Si asciugò come meglio poteva.
Aprì la porta.
Uscì.
 
Mia stava tornando nel suo ufficio quando vide Bart uscire dai bagni. Aveva un’aria strana, sembrava stanco. Decise di distogliere lo sguardo per non rischiare di incrociarlo. Un brivido le corse lungo la schiena. “Eccoti” la voce di Emiliano la fece voltare “Ero da Ghiro, stavamo analizzando il telefono della vittima” Cecchi annuì “Io invece ho convocato la moglie, ci aspetta nella saletta” Mia lo seguì.
Era una signora di una certa età, anche lei probabilmente sulla cinquantina, portava i capelli rosso scuro legati in una treccia e arrotolati sulla nuca. Era seduta composta, braccia e gambe incrociate. Non appena i due carabinieri entrarono nella stanza lei si alzò e strinse loro le mani. “Buongiorno signora, condoglianze” esordì educatamente Emiliano. È inquietante come Cecchi riesca a passare dal dialetto romano al super educato, pensò Mia sedendosi accanto alla signora.
“Cosa ci può dire di suo marito? Aveva qualche nemico? Conti in sospeso con qualcuno?” disse Mia, che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
“Mio marito era un brav’uomo. Non aveva mai fatto un torto a nessuno, tutti gli volevano bene” mentre parlava stringeva un fazzoletto. Non guardò mai la ragazza negli occhi, e solo alla fine, alzando finalmente la testa aggiunse: “È stata una rapina, ve lo dico io com’è andata.”
“Dov’era ieri sera tra le nove e dieci?” continuò a chiedere Mia impassibile.
“Stavo tornando a casa, ho passato il weekend fuori” si fermò un momento “se fossi rimasta a casa probabilmente non sarebbe successo niente… magari…” non riuscì a terminare la frase interrotta dalle lacrime. A Mia rabbrividì il sangue, c’era qualcosa di estremamente sbagliato in quella donna, in quella casa – così perfettamente ordinata. “Arrivederci” disse alzandosi di scatto dalla sedia “esattamente dov’è che è andata?” chiese prima di aprire la porta. Lei la guardò come se avesse profanato un momento sacro, stava piangendo la morte del marito e lei aveva osato farle una domanda “Victoria Terme, a Tivoli” rispose reclutante ma educata. Mia finse un sorriso, come d’altronde lei aveva finto l’intera conversazione, e uscì dalla stanza.
Stava per tornare da Bianca quando Emiliano la fermò “Oh che t’ha preso lì dentro?” ecco che era tornato il Cecchi romanaccio “Niente” rispose evasiva tornando a lavorare.
 
“Bianca cos’hai trovato tra le cose che ti ha mandato Ghiro?” chiese alla collega che era rimasta dove l’aveva lasciata. “Niente di interessante, dai un’occhiata anche tu” rispose girando il monitor del PC.
Lesse velocemente le informazioni che le passavano davanti gli occhi finché non rimase colpita da un nome “Victoria Terme” disse ad alta voce “Cos’è?” chiese l’altra “L’alibi della moglie” Mia chiuse gli occhi e involontariamente si trovò davanti sua madre, il telefono in una mano e dei fazzoletti nell’altra. Suo padre la guardava come se gli avessero sparato. Mia li osservava inerme. Aprì gli occhi. “Questa situazione mi fa venire da vomitare” farfugliò alzandosi dalla sedia.
Uscì dal suo ufficio e si diresse verso la porta principale. Doveva andarsene da lì.
Nel momento in cui varcò l’uscita si sentì meglio, l’aria fresca impregnata di pioggia le colpì il volto facendola respirare a pieni polmoni.
Quella non era la sua famiglia e quella non era sua madre. Se lo ripeteva da almeno dieci minuti quando vide uscire da una macchina Orlando. Piena di gioia gli andò incontro a braccia aperte “Mancavi solo tu” disse stringendolo in un abbraccio che lui ricambiò “Mi ero completamente dimenticato” cercò di scusarsi “Non ti preoccupare, so che hai un sacco da fare in procura” Orlando la guardò con occhi dolci “Mi manca il lavoro sul campo” confessò infine “Sto lavorando a un caso che odio, ci farebbe comodo il tuo aiuto.”
Orlando si illuminò come un albero di Natale, era stanco di lavorare in procura ma almeno aveva una scusa per non vedere Lucia e per tornare tardi a casa. L’amava, l’amava ancora. Non poteva non farlo, gli era necessario, come respirare. Ogni cellula del suo corpo l’amava e ogni giorno ogni cellula si riproduceva e si moltiplicava, e il suo amore cresceva con esse. Nonostante tutto.
Come risvegliatosi da un sogno scosse la testa “Magari un’altra volta” le disse dandole una pacca sulla spalla. Orlando si avviò verso l’entrata e prima di aprire la porta si voltò “Mia” esclamò, catturando l’attenzione della ragazza “non so perché odi il tuo caso, ma non immischiare il lavoro con la tua vita. Sono due mondi opposti” con un sorriso debole ma sincero varcò la soglia, consapevole di dover incontrare la donna che amava.
 
Pochi minuti più tardi Mia seguì Orlando nella caserma. All’interno della struttura c’era uno strano odore, era un miscuglio di caffè scadente e di pulito, di provette che giravano e sangue. Era uno strano odore ma ci era abituata.
Emiliano e Bianca stavano lavorando e lei si fermò un momento ad osservali. Entrambi erano occupati ma erano sereni di stare uno accanto all’altra. Improvvisamente le vennero in mente le immagini di quando lavorava con Bart. Gli occhi di lui non si staccavano mai da lei e Mia si sentiva in imbarazzo e non riusciva a lavorare, allora scoppiava a ridere e lui la fissava incantato. Erano imbranati assieme, nessuno voleva mai lavorare con loro due.
Si morse nervosamente il labbro inferiore e bussò delicatamente sulla porta entrando nella stanza. “Va tutto bene?” chiese premurosa Bianca senza ottenere una vera risposta, ma lo sguardo di Mia manifestava serenità, quindi senza aggiungere altro spostò una sedia accanto a lei. “Senti, qui abbiamo delle incongruenze” iniziò a parlare la ragazza, aggiornando l’amica sul caso “l’alibi della moglie è confermato. Il check-in è avvenuto la mattina del 3 e il check-out ieri sera. Corrisponde alla sua versione”
“E allora? Dove sta il problema?” la interruppe Mia quasi delusa di sentire quelle notizie.
“Leggi qui” Emiliano le passò un foglio con stampati dei messaggi. Era una conversazione tra la vittima e sua figlia, erano messaggi dolci e premurosi: lei gli chiedeva se avesse bisogno di qualcosa dal momento che la madre si trovava a casa della nonna. “Nonna?” commentò Mia “Esatto” esclamò il collega “perché ha mentito?” continuò. “Chiamiamo entrambe, le facciamo venire con una scusa” suggerì Bianca “Va bene” disse Cecchi “mo’ però annamo a pranzo che sto a morì de fame” Mia sorrise e li guardò allontanarsi dall’ufficio.
Probabilmente tutti sapevano della loro relazione, ma nessuno sembrava dirgli niente, nessuno era contrario, nessuno diceva loro “vita privata e lavoro è meglio lasciarli stare separati.”
Continuava a chiedersi cosa avesse sbagliato lei; ma ogni volta si dava la stessa risposta: niente, non aveva sbagliato niente. Era stato Bart a non farsi più sentire, era stato lui a non chiamare, a non passare a trovarla, a chiederle come stava, a fermarla quando aveva chiesto a Christian di riprovarci. Non aveva fatto niente e questo la uccideva. L’aveva lasciata senza nemmeno una parola, senza una spiegazione, senza niente. Un giorno era lì a stringerle la mano e quello dopo non c’era più. Chi era? Che voleva da lei? Niente. Non voleva niente.
Incapace di amare, così lo aveva definito Lucia. Bartolomeo Dossena è incapace di amare, non sa prendersi cura di una persona diversa da se stesso. E lei se lo era inculcato nel cervello. Se lo ripeteva le prime sere – quando si sdraiava a letto e sentiva l’odore di Christian nelle lenzuola – se lo ripeteva come un mantra. Più lo ripeteva e più diventava vero. Bartolomeo Dossena non sa amare e non mi merita, questa era la conclusione a cui era arrivata due mesi più tardi.
Un rumore brusco, come un pugno che sbatteva sul tavolo, catturò la sua attenzione. Uscì dall’ufficio e si ricordò che nella stanza accanto lavorava Bart. Rimase a guardarlo senza che lui se ne accorgesse, senza che nessuno se ne accorgesse. Era sommerso di fogli e si stava passando una mano tra i capelli, era nervoso, faceva così quando non riusciva a venire a capo di qualche problema. Sarebbe voluta andare lì e aiutarlo, abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene. Ma non lo fece, rimase ferma con gli occhi fissi su quella figura agitata.
 
Lentamente Bart si mise seduto. Quel caso lo stava facendo diventare matto. Non tornava niente. Era tutto un casino, come la sua vita. Perché faceva tutto così dannatamente schifo?
Si passò le mani tra i capelli e fu in quel momento che la vide: appoggiata allo stipite della porta della stanza accanto, con l’aria tra le nuvole e la bocca semiaperta, era lì e lo stava guardando. Un sorriso prepotente voleva spuntare sulle labbra ma decise di ricacciarlo indietro. Si guardarono intensamente senza che nessuno dei due disse o facesse niente. Il vetro che li separava li fissava imbarazzato e voleva quasi rompersi per la tensione che si era creata.
Erano tante le cose che voleva dirle Bart, voleva chiederle scusa per tutto quello che non aveva fatto ma restò fermo e non disse niente.
Erano tante le domande che voleva fargli Mia, voleva chiedergli dove era sparito per due mesi ma restò ferma e non disse niente.
E senza dire niente Mia uscì finalmente dalla stanza a vetri. Si lasciò quel ragazzo alle spalle, a lavorare ai suoi problemi e raggiunse i suoi colleghi a pranzo.


 
 
  
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