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Autore: LaMicheCoria    09/04/2016    0 recensioni
2011. Pari a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono addosso.
2013. “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato tu. Ci sei sempre tu.”
«Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Genere: Angst, Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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{ Sono già in caduta libera ~ File 11}

 

Sulla Strada Per il Tennessee
Autostrada
2013

 

Alla radio trasmettevano Arms, di Christina Perri. In una situazione differente sarebbe stato un sottofondo perfetto per qualcosa di ben più intimo –Intimo? Doveva avere le sinapsi ridotte a scoppiettante pop corn- una di quelle situazioni che ricalcavano la scena di una commedia romantica, col protagonista al volante che racconta, ma non ha parole da far uscire, è tutto sottinteso, tutto lasciato all’immaginazione dello spettatore; e c’è lei, illuminata dal sole o da un pomeriggio autunnale, che guarda avanti e ride, gira gli occhi su di lui, una sintesi perfetta di complicità e armonia.
Quante ne ha viste, di sciocchezze simili, con Pepper? In realtà nessuna. O forse una, di sbieco, mentre si occupava di stilare la lista di qualche componente per una qualche invenzione di qualche importanza. La musichetta melodica, strimpellata da una voce al dolcificante, gli arrivava all’orecchio sotto forma di tintinnaboli cinguettanti e non vi aveva mai prestato viva attenzione: li aveva accantonati in una parte recondita del cervello, dove prendevano polvere gli scatoloni coi ricordi di Peggy e di Jarvis, dell’infanzia in collegio, del cibo ungherese di Hanna.
Forse, gli sovvenne il pensiero, avrebbe dovuto avere maggior considerazione per quei film dalle tinte color miele. Non tanto per il loro dubbio gusto, né per la trama infarcita di crema e panna, bensì perché guardarli significava essere seduto sul divano con Pepper accanto e un cartone di pizza e un commento sarcastico sulle labbra. Avrebbe significato essere normale, una volta tanto, anche per soli novanta minuti. Normale e senza grilli per la testa, senza supercattivi da combattere, senza cose da costruire, senza vita da riparare, da sistemare col nastro adesivo per darle una parvenza di solidità.
E anche se era Happy a fare gli occhi dolci a Pepper, non importava. Anzi, Happy poteva stare con loro, gli piacevano quei filmetti allo zenzero, avrebbe fatto la mossa e…

Happy è morto.
La consapevolezza arrivò simile allo schianto di un camion contro un calesse. Lui, ovviamente, era il calesse: antiquato e sgangherato, ridicolo dinnanzi alla crudeltà della vita, inutile al rumoreggiare e stridere di ruote e asfalto, dei nemici che guadagnavano terreno e lo ghermivano nella notte, peggiori di un incubo –Peggiori perché non erano un incubo, erano reali e non sarebbero scomparsi all’avvicendarsi del mattino.

Happy è morto. E anche Rhodes. E adesso sono qui, in una macchina presa in prestito insieme ad un Agente di Livello Sei e cerco di salvarmi la vita nell’unico modo che mi riesce –Improvvisando.
“Dovresti dormire, non arrovellarti su pensieri che ti tolgono sonno ed energie.”
Non è la prima volta che Colin gli fa la paternale.
Ma è la prima volta che la paternale assomiglia ad un ordine da campo di battaglia. Della serie: Se non dormi, soldato, non sarai pronto per l’arrivo dei crucchi e allora ci ritroveremo i crauti in posti decisamente poco piacevoli.
“Pensa a guidare, Hendrick, e dimmi se ti serve il cambio.” Tagliò corto Stark, piccato.
È un fatto personale, con lui, una scaramuccia di proporzioni belliche epocali. Tony non ha intenzione di dimenticare il suo insulto tanto presto –E concentrarsi sulla ripicca contro l’Agente, su quanto gli abbia fatto rodere lo stomaco e abbia costituito uno schiaffo imperdonabile al suo io-bambino-che-legge-in-un-angolo lo aiuta ad allontanare la testa da un mondo troppo da adulti consapevoli perché gli possa piacere.
“Non sento la fatica.” Gli ricordò l’altro “Guiderò io per tutto il tragitto. Tu hai bisogno di riposare, io di un caffè di tanto in tanto.”
 “Guarda che non serve fare l’ubermensch. Non hai la Hill e nemmeno il vecchio pirata Fury da impressionare per avere una stellina in più sulla lista degli Agenti buoni. Fury è morto, bellimbusto, lo S.H.I.E.L.D. è stato rivoltato come un calzino e tu sei soltanto un innocuo, ingenuo, patetico reietto che cerca di darsi un tono, fingendosi più grande di quel che è.”
Quant’era facile ferire gli altri. Irrobustire il dolore, farne una lama, un coltello da affondare più e più volte contro gente innocente, contro gente abbastanza coraggiosa da affrontare la sofferenza, da sobbarcarsene il peso sulle spalle senza recriminare, senza cedere –Senza cercare un colpevole, consci che l’unica cosa utile in certe situazioni è la necessità di mettere sempre un piede davanti all’altro.
“L’innocuo, ingenuo, patetico reietto sta anche cercando di salvarti la vita” E d’improvviso, sotto la sferza degli occhi azzurri di Colin, Stark avvertì il morso della vergogna sbranargli lo stomaco, togliergli il fiato, recidere e strappare il respiro dai polmoni “Non c’è di che.”
Il magnate abbassò lo sguardo –Chi mai era riuscito a tanto?- e riacchiappò in silenzio il fumetto comprato alcune ore prima alla stazione di servizio. Lo aveva afferrato con la stessa voracità di un bambino, attirato dai colori sgargianti in puro stile anni ottanta, dalle inconfondibili stelle e strisce, dallo scudo in bella vista che pareva fendere l’aria nella sua direzione: una vecchia perla, apparsa come una pura epifania divina, cui Stark si era aggrappato con trasporto da vero fedele.
Hendrick aveva inarcato le sopracciglia, quando lo aveva appoggiato sul rullo untuoso della casSa, uno sguardo confuso, perplesso, a tratti non si capiva se infastidito o meno dalla presenza della carta stampata in mezzo alle merendine, ai fazzoletti e altre millanta porcherie a poco prezzo prese per il viaggio fino in Tennessee.
Ed era stato proprio il fumetto il motivo della loro litigata –Litigata, che vocabolo da vecchia coppia di sposini che si contende il telecomando-, il casus belli. Le continue occhiate lanciate da Hendrick al fumetto, mentre Tony lo leggeva attento contro le ginocchia –Una posizione abbastanza scomoda, ma Agente Perfettini gli aveva già rimbrottato la mania di mettere i piedi sul cruscotto gnè gnè gnè-, lo avevano stizzito alquanto.

Che c’è?
Mi chiedo come tu faccia a leggere quella porcheria, aveva sibilato Colin, con malcelato disprezzo, le labbra strette in un cordone stretto e rancoroso.
E’ Capitan America, Hendrick. Tutti leggevano Capitan America, quand’ero bambino. Tu no? Non che la cosa mi stupirebbe, si intende.
No. Non lo leggevo. E’ soltanto propaganda.

Scelta di parole sbagliata. Se anche aveva cominciato a provare una certa compatibilità emotiva dovuta alle circostanze contingenti nei confronti di Colin, lo sconsiderato commento rivolto al suo idolo lo aveva depennato dalla lista di coloro cui  far mandare, ad opera della santa Pepper, gli auguri di Natale.
Non parlarono per lungo tempo.
Cominciò a nevicare e volteggii e sbuffi bianchi rotearono loro intorno; dai bocchettoni della macchina ruggì un boato di aria calda, in netto contrasto con la patina argentea che si arrampicava pian piano sui finestrini.
Nessuno dei due avvertiva il bisogno di parlare. Entrambi, considerò Stark, erano troppo esausti. Pensare, cercare un contatto umano abbisognava di energie che non potevano permettersi di spendersi: la solitudine era l’unica compagnia cui affidarsi, cristallizzando il mondo in un attimo che non era prima e non era dopo, dove il passato scompariva sotto il manto nevoso ed il futuro era impossibile da intravedere oltre i vetri appannati.
Un’insegna attirò l’attenzione del magnate, che chiuse il fumetto e pulì il finestrino con la manica.
“Fermati!” intimò all’altro “Fermati subito!”
Il Texaco T, come recitava il traballante cerchio di metallo posto sopra il parasole gravido di neve, era una sottospecie di minimarket pseudo messicano, una struttura dismessa, un rettangolone di muratura sgraziato che le lampeggianti lucine natalizie rendevano grottesco e ridicolo. A Tony non interessava la merce in scadenza all’interno, né le grandi occasioni sponsorizzate da tranci di scatoloni aperti alla meglio su cui campeggiavano scritte in pennarello indelebile, bensì la cabina telefonica, quel relitto dei tempi andati, l’armadio preferito di Superman, la sua ancora di salvezza.
L’orlo dei pantaloni si inzaccherò di neve nel correre verso l’affare di vetro lurido e le mani, a contatto con la cornetta gelida, si riempirono di brividi; con Hendrick a fare da palo, intabarrato in una giacca gonfia di imbottitura, ed un indiano di legno che osservava con occhi vuoti le profondità dell’infinto, il magnate digitò veloce alcune cifre ed attese lo scatto dall’altra parte della cornetta.
“Pepper sono io.” Esordì, la voce resa incerta dal freddo e dalla linea altalenante “Non ho molto tempo. Perciò, innanzitutto, perdonami per averti messo in pericolo. Sono stato un egoista e uno stupido, non accadrà più. Inoltre è Natale e…Avevo preso un regalo. Happy aveva preso un regalo.” Si corresse “Un coniglio.” Un sorriso stanco “Enorme, Pepper. Grosso, troppo grosso. L’ho consigliato io ad Happy. E’ a casa. Dovevi entrare, di ritorno all’ospedale, e vederlo lì e Happy avrebbe…” un groppo alla gola, un cappio a lutto a serrare la carotide “Devi anche perdonarmi perché non posso tornare. Devo trovare questo tipo. Tu devi stare al sicuro, so solo questo. C’è anche Agente di Livello Sei, qui con me. Saremo al sicuro. Non temere.”
Fuori il vento gli trapassò il costato, violento, lo ghermì di neve, di ghiaccio. Colin si spazzolò i capelli biondi con le dita, per far cadere i fiocchi incastrati tra le ciocche; alzò la testa e il sorriso rassicurante che gli rivolse, insieme al poncho preso in prestito, come gli ricordò, dall’Indiano di legno fu abbastanza per compiere il primo passo e mettere un piedi davanti all’altro.

 

Da qualche parte, Queens
Marciapiede
2013

 

Dalla casa proveniva il profumo famigliare di una torta, lasciata a raffreddare sul davanzale. Murdock non la vedeva, tuttavia ne percepiva la consistenza, la durezza fragrante della crosta a contatto con l’aria, il respiro morbido dell’impasto e del ripieno gonfio, denso di marmellata di more. Sapeva anche a chi apparteneva, quel prodigio culinario: il canto mormorato a mezza bocca, scivoloso tra le rughe delle labbra; la spuma del sapone per piatti che inanellava le dita affusolate e forti, nonostante gli anni; il tintinnio degli orecchini contro il lobo ed il principio della gola, quando piegava la testa…
“Buongiorno, May.”
Un sussulto di sorpresa, un gemito della ceramica all’impatto improvviso con la spugna ruvida. La finestra, al piano di sopra, che si apriva ed un cuore in allerta, che batteva e batteva e batteva e rimaneva guardingo. Mani strette alla balaustra, presa salda, oltre il limite umano, il propagarsi catarroso di crepe all’interno del cemento –Peter Parker era appena accorso per capire il perché della visita di Matt Murdock ed il suo allegro rivolgersi alla zia.
“Matt, caro!” esclamò la donna e l’avvocato si fece sfuggire un sorriso, genuino, spontaneo alla sua voce sinceramente cordiale “Che piacere vederti.” Frullare di pelle e tessuto, May si stava asciugando le mani in una pezzuola ruvida, ancora impregnata da precedenti lavaggi e lavori domestici “Qual buon vento ti porta qui da noi?”
“Lavoro, May. Il ragazzo che devo difendere dovrebbe abitare da queste parti, ma non mi riesce di trovarlo. Mi chiedevo se…”
“Ma certo che ti aiuto Matt, caro.” Lo prevenne May, senza nemmeno dargli il tempo di finire la frase “Dove dovrebbe abitare questo giovanotto?”
“A Cypress Avenue.” Rispose l’avvocato, appoggiando il palmo della mano sinistra sul dorso della destra, ancorata al bastone bianco “Si chiama Colin Hendrick, lavora per un market indiano qui vicino. Il suo appartamento dovrebbe trovarsi al numero ventisei, non poco distante dal Cascada.”
Un lieve tentennare –Perplessità, dubbio- percepì il collo di May tendersi per un attimo, segno che quanto gli era stato appena detto non rientrava tra le sue conoscenze contingenti.
“Ci deve essere un errore.” Disse infatti la donna “Quel palazzo è sfitto da anni.”

 

Rosehill, Tennesse
Strada Principale
2013

 

Rosehill si presentò ai loro occhi sottoforma di un filare di palazzetti tracagnotti, campagnoli, tutti uguali a se stessi e intervallati di tanto in tanto da un bar o da una drogheria, un unico negozio di scarpe e vestiti, un sarto, un market che vendeva ogni cosa, dal terriccio al sapone per le mani. Le macchine erano per lo più camioncini scrostati, stracolmi di robaccia per i campi e attività manuali di sorta; gli uomini indossavano per la maggior parte camicione a scacchi, erano per la maggior parte baffuti e indossavano, per la maggior parte, stinti cappellini con visiera. Le donne avevano addosso magliette sformate, trafugate da qualche outlet che metteva tutto a due dollari, e macchiate lì dove si era staccata più di una manciata di lustrini e paillette; i capelli di molte di loro erano stoppie incollate da polvere e neve, poche, invece, avevano cercato di agghindarsi e acconciarsi come insegnava una rivista di moda vecchia di almeno cinque anni.
Tony affondò le mani in tasca, soffiando via un refolo di fiato condensato; Colin, al suo fianco, indicò una rientranza nella via, uno spiazzo rettangolare illuminato a giorno dai bagliori sussurranti delle candele; sciogliendosi, la cera era colata fin sull’asfalto, bianche, sempiterne lacrime a memoria della tragedia. L’asfalto divelto si apriva sotto le croci e le cornici simile ad uno spruzzo di schiuma cementificata; filoni di fiori grassocci, finti, dai colori spenti tempestavano l’intorno, cingendo la zona in un cordone di petali stinti e corolle a poco prezzo.
Colin superò Tony in silenzio, per andare ad accovacciarsi davanti a quell’altarino popolare che ancora sapeva di cenere e carne maciullata. Socchiuse gli occhi chiari e le candele disegnarono strani riflessi nel suo sguardo fattosi improvvisamente lontano.
Stark si morse la lingua prima di chiedergli cosa gli fosse preso, anche perché la sua voce dovette lasciare il posto al pigolio curioso –E finanche guardingo- che giunse dietro di loro.
“Siete qui perché vi piace il turismo nero?”
Hendrick girò la testa, sorridendo da sopra la spalla.
Il bambino, imbacuccato in una felpa più grande di lui, mise su l’espressione più sospettosa del suo repertorio, con labbro sporto e sopracciglio destro inarcato compresi nel prezzo; somigliava ad un buffo ammasso di grigio e marrone, convinto di sembrare più grosso di quel che era, con la sciarpona di lana grossa e i guanti senza dita –Fuori dall’orlo, la pelle era arrossata dal freddo e dal nevischio scioltosi sui capelli castani.
 “Qual è la versione ufficiale?” gli chiese l’Agente, alzandosi in piedi e facendo un cenno a Tony perché si mettesse più in ombra. Erano in un paesello dimenticato da Dio nel Tennesse, certo, ma non era comunqueo una ragione valida per essere meno prudenti.
“Una fuga di gas.” Il bambino si allontanò di un passo, non appena Colin piegò il ginocchio a terra per essere alla sua stessa altezza. Probabilmente odiava il comportamento semi-paternale degli adulti nei suoi confronti, a Tony non occorse molto per capirlo. Riconosceva anche un paio di comportamenti di quando era in collegio…
“Tu sei Tony Stark?”
“No, non lo sono.” Ribatté il magnate, schiarendosi la gola e calcando meglio il cappello con la visiera sulla fronte “Affatto.”
“E tu chi sei?” gli chiese Colin, spostando per una frazione di secondo l’attenzione del bambino su di sé “Vuoi dirci come ti chiami?”
“Harley.” Rispose il piccolo, tendendo il collo per osservare meglio Tony da oltre le spalle dell’Agente “Lo sai che i giornali ti hanno dato per morto?” lo informò.
“Sì, i giornali dicono cose come questa, in assenza di notizie migliori.”
Colin permise ad un sorriso di trasparire sulle labbra –Sorriso che contagiò anche Harley, diamine, pensò Tony, quell’uomo è un genio della manipolazione.
“Cos’è successo?” chiese ancora, una volta che Harley ebbe di nuovo gli occhi nei suoi “E’ importante.”
“Dicono che questo tipo abitasse qui intorno.” Il bambino scrollò le spalle, aggirò Hendrick e andò a sedersi dinanzi al cerchio di luci. L’alone bianco-argenteo filò striature e carezze e bagliori tra le ciocche un tempo tagliate a scodella ed ora un mero guazzabuglio di nodi; gli occhi, intelligenti e vivi, ruotarono per cercare le figure di Stark e di Hendrick nel momento in cui essi gli si accomodarono accanto “Aveva vinto un sacco di medaglie nell’esercito. La gente dice che un giorno è impazzito e ha fatto, sai…” fece un gesto con le mani, un incrocio tra una palla da rugby e una sfera un po’ storta “Una bomba. E si è fatto saltare in aria. Qui”
Colin scosse piano la testa, drizzandosi in piedi. Tony non disse una parola, non emise suono, e studiò i suoi occhi, il suo sguardo, la tensione della mandibola nello sfiorare a punta di dita le ombre nere impresse sui muri di mattoni –Istantanee di morte, macabre polaroid che avevano catturato l’ultimo respiro di persone la cui sola colpa era stata trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
“Sei persone morte, giusto?” domandò Hendrick, lasciando cadere la mano e girandosi appena a guardare il bambino “Sei. Non cinque. Sei.”
Harley annuì.
“Sì.”
La mente di Stark volò immediatamente al ragionamento che Colin aveva formulato, guardando le ombre. Tra le sei vittime era annoverato lo stesso autore della tragedia, il che voleva dire…
“Pensaci.” Tony si voltò verso il piccolo, la cui espressione rifletteva in maniera assai eloquente la sua perplessità “Sei morti. Solo cinque ombre.”
“Sì, ma…” Harley si strinse nelle spalle –Probabilmente, da come abbassò gli occhi, non credeva nemmeno lui alla replica che stava per fare “Dicono che le ombre sono i segni delle anime salite in cielo. Tranne che per l’uomo-bomba, lui è finito all’Inferno perché non è rimasta la sua ombra. Per questo sono solo cinque.”
“E tu ci credi?”
“E’ quello che dicono.”
Era un bambino, in fondo, e la tragedia, salvo che per pochi, era unicamente una fonte inesauribile di trafiletti sui quotidiani, di servizi televisivi a cadenza mensile, interviste pilotate, gente mai vista che si faceva ritrarre davanti alle ombre. Se i grandi dicevano che le ombre erano i segni delle anime, cosa gli importava? Non avrebbe cambiato la sua vita, qualunque essa fosse. Era una nota a margine, un qualcosa da tirare fuori qualora si fosse ritrovato nella situazione in cui, durante un discorso, il suo interlocutore avesse ricordato il nome di Rosehill soltanto per l’eco della tragedia.
“Sai cosa mi ricorda questo cratere…?”
Tony colse il rizzarsi delle spalle di Colin, un fiotto di azzurro nella penombra delle candele, ma fu troppo occupato a contenere lo spasmo sofferente ai polmoni per accorgersi di come l’Agente si fosse prontamente messo in allarme al vago accennare del bambino agli eventi di sei mesi prima.
“Non ne ho idea.” Borbottò Stark, avvertendo la voce mancare e le parole farsi balbettanti “E non—Non mi interessa.”
Ma Harley, estatico, desideroso di sapere, di conoscere, di ascoltare da uno dei diretti interessati, reclinò la nuca all’indietro e alzò le braccia al cielo, le allargò per dare l’idea dello squarcio che si era nel cielo della Grande Mela.
“Quel gigantesco portale a…” rise, lo sguardo luminoso ed eccitato “A New York! Lo ricorda anche a te?”
Uno. Due. Tre. Quattro. Per ogni respiro Tony aveva cominciato a contare un numero, perché la mente si allontanasse dal fiato affannato ed ogni numero era un cerchio che il dito scavava sulla tempia, perché il cervello andasse in loop e silenziasse l’estasi di Harley, facendo tacere il rombo devastante che gli stava frantumando le orecchie e torceva i polmoni e disintegrava la trachea.
“Non ne voglio parlare.”
“Ritorneranno?” impossibile frenare la curiosità di un bambino, era una valanga di sensazioni ed emozioni e ricordi e immagini e ruggiti ed esplosioni lampi scrosci urla sangue boati fiamme fuoco vuoto vuoto d’aria vuoto nel petto vuoto pneumatico oltre lo spazio vuoto vuotovuotovuoto v u o t o “Gli alieni.”
“Forse.” La voce rapida il respiro rarefatto nella trachea “Non…”
“Questo argomento ti mette a disagio?”
“Non lo so posso prendere fiato un secondo---?” come se fosse facile, come se l’aria potesse davvero arrivargli ai polmoni, come se davvero potesse respirare –Ma non era facile l’aria non arriva ai polmoni non poteva respirare non poteva non poteva.
“Ci sono cattivi a Rosehill? Ti serve una busta di plastica per soffiarci dentro?”
Respira. Respira. R e s p i r a.
“Prendi medicine?”
“No.” La voce che balza alla bocca, un singhiozzo disperato, un urlo acido ricacciato a forza nell’esofago.
“Dovresti prenderle?”
“Probabile.”
“Hai lo stress post-traumatico?”
“N—“
“Stai diventando completamente pazzo?”
Sì. No. Forse. Non sono pazzo. Forse lo sono. Forse la pazzia è umana e io non sarei umano se non fossi pazzo e pazzo è questo mondo e questo mondo è normale e pazzo è ciò che è successo e sarebbe da pazzi non esserne sconvolti e sarei pazzo se non lo fossi e forse pazzo è normale è normale la pazzia in un mondo pazzo dove nulla c’è che non lo sia---
“Vuoi che la smetta--? Posso smetterla se vuoi!”
“Mi mandi fuori di cervello---“

Click. No, click non rendeva l’idea, no. Era un rumore troppo infinitesimale. Troppo parodistico. Gli ingranaggi si scardinarono con un boato metallico di dentelli, le viti si disarticolarono in ogni loro più minuscolo componente che tlingtlangtlong andò a cozzare contro le pareti del cranio e si rovesciò nel cuore una cascata di fitte e scariche allucinanti che abbagliarono gli occhi e scoccarono un unico, salvifico, ossessivo ordine nella sua testa Fuggi scappa fuggi corri voi mettiti in salvo corri corri corri fuggi corri scappa corri corri scappa scappa scappa scappacorrifuggi---Un corpo caldo, nel gelo che irretisce le ossa. Battito cardiaco armonico, regolare, che dà il tempo, che scandisce il respiro, cadenzato nel ronzio ovattato e anestetizzato, vibrante del cervello. Un contatto umano, nella girandola animale di pensieri sconnessi, un punto saldo nella realtà che si sfalda e si sfascia e si sgretola e schegge di cielo che si staccano dalla volta dell’universo e si frantumano e spuma di stelle che rovente brucia i bordi del Creato.
La mia armatura mi serve la mia armatura la mia armatura la mia armatura la mia armatura metallo freddo metallo calotta guscio guscio dove nascondermi calotta da cui rinascere protezione difesa attacco nascondiglio fuoco e ghiaccio la mia armatura la mia armatura non ti serve l’armatura Tony cerca di respirare cerca di prendere fiato concentrati su di me concentrati sulle mie parole non ti serve l’armatura l’armatura è ciò che mi tiene lontano dal mondo anche se sono circondato niente piò ferirmi niente ti ferirà qui Tony sei al sicuro concentrati su di me qui nessuno vuole farti del male dentro l’armatura sono protetto ma qui ti proteggerò io ci sono io al tuo fianco non ti devi preoccupare devi soltanto respirare respirare respirarerespirarerespirare r e s p i r a r e r  e  s  p  i  r  a  r  e.
Colin lo aveva fatto sedere e Tony nemmeno se n’era accorto. Ne prese coscienza riemergendo dal panico, dalla confusione che aveva ovattato i pensieri e, come una pressa, stretto il suo corpo fino a far scricchiolare le ossa, inaridire il sangue nelle vene. Cominciò a tossire, perché l’aria era fredda nella gola e non si aspettava di ingoiare un fiotto tanto veloce tanto in fretta tanto improvvisamente, aveva dimenticato per secondi eterni cosa significasse respirare e che si dovesse fare. L’ossigeno aveva il sapore della neve, ma era rancida quanto la paura e divenne acido nello stomaco e corrose l’intestino, sbranandolo a poco a poco.
Tony artigliò una manata tremante di neve e la gettò contro Harley, non essendo in grado di formulare un’accusa più articolata di quella. Si avvide poi delle dita di Colin sulle spalle, sulle braccia che sfregava e frizionava per riattivare la circolazione, del torace che gli premeva sulla schiena, del suo fiato che gli rizzava i peli sulla nuca.
“Il tipo che è morto.” Tony, in un moto di stizza, spintonò via Hendrick, nonostante l’aiuto che gli aveva dato per riprendersi, nonostante la mano tesa con cui lo aveva appena rimesso in piedi –Il freddo alle membra non si acquietò, i brividi della debolezza sghignazzarono lungo la spina dorsale “Parenti? Una madre? La signora Davis dove sta?”
Harley si grattò il naso con la manica della camicia a scacchi che teneva sotto il giaccone; pensò un poco alla cosa, valutando la distanza a spanne.
“Dove sta sempre.” E Colin non poté impedirsi di girare gli occhi al cielo e far arrivare le sopracciglia direttamente al principio della fronte.
“Visto.” Sebbene ancora livido in volto e col fiato mozzo, Tony annuì in una approvazione a bocca spalancata –Unicamente, però, per ossigenare cuore e cervello “Ora sei di aiuto.”

 

Cypress Avenue, Queens
Appartamento di Colin Hendrick – O supposto tale.
2013

 

“Tana per il Diavolo.”
Matt se lo aspettava. Non era andato a casa di May Parker con l’unico intento di parlare con la vecchia zia: gli interessava anche e soprattutto lanciare l’esca, attendendo con pazienza che il Ragno fuoriuscisse dal buco zampa dopo zampa e si incamminasse verso la tela di bugie e macchinazioni di cui stava cominciando ad intravedere la trama.
“Qual buon vento ti porta qui, Uomo Ragno?” gli domandò Devil –Il cui udito, tranne lo zampettare dei topi ed il respiro del ragazzo, non avvertiva nulla- voltandosi nella sua direzione “Cerchi casa?”
“In effetti mi sto proprio accertando che il padrone non ci sia.”

Ftump. L’Uomo Ragno si era appena appeso ai muri e dallo scivolio dei piedi Matt ne individuò il cammino dalla parete fino al soffitto.
“Cosa sta succedendo?” sotto la patina di noncuranza, l’avvocato colse nella voce del ragazzo una nota di urgenza, i primi barlumi di panico “C’entra il Mandarino?”
Il Mandarino. Un’entità astratta e pubblica allo stesso tempo. Un burattinaio di paura, di fiato sospeso, di menzogna, di omicidio, l’uomo del Chinese, l’uomo che aveva ucciso Happy, l’uomo che aveva sulle mani il sangue di Rhodes e, sebbene non ci credesse –Vuoi per testardaggine, vuoi per istinto- Stark.
Fury morto. Il Mandarino. Un Agente senza dimora dalla temperatura corporea insolitamente alta. Doveva esserci una connessione, doveva esserci, Devil si rifiutava di credere a simili, catastrofiche coincidenze. Che il Mandarino fosse la causa e la morte di Fury l’effetto? No, era improbabile. L’omicidio di Fury non era stato scenografico: aveva sì colpito l’America, ma diametralmente opposto alla maniera in cui il Mandarino operava. Egli, in fondo, si poneva come Maestro ed un Maestro insegna, un Maestro usa immagini e scene se non tangibili quantomeno riconoscibili. La morte del Direttore era stato un colpo inferto con crudeltà ad una cerchia ristretta di persone, rispetto alla totalità del popolo americano –E, da quanto aveva potuto apprendere e capire, il Mandarino non dava lezioni private.
“E’ uno specchio per le allodole.” L’Uomo Ragno lo trasse via dal guazzabuglio disordinato di pensieri “Questo appartamento. Non capisco il motivo per cui avrebbero dovuto darti un indirizzo sbagliato.” Parlata agitata, frettolosa, tentativo di nascondere il fatto che conosceva il motivo ed il nome per cui Matt era lì “E’ soltanto uno specchio per le allodole.”
“Un’illusione.” Concordò Matt “Per nascondere qualcosa di più grande.”
Uno specchio per le allodole. Un riflesso che attirasse l’attenzione, mentre il vero male serpeggiava nascosto, dietro le quinte, assai meno visibile di un terrorista orientale dai modi magniloquenti…

 
Rosehill, Tennesse
Walker’s
2013

 

 

Stark sollevò il bavero della giacca, che spuntava dal poncho malandato. Sì, non lo aveva ancora tolto, gli teneva caldo. Colin, al suo fianco, affondò le mani nelle tasche del giaccone di pelle, dando un’occhiata veloce al magnate.
“Come pensi di fare?” gli domandò, indicando il locale con un cenno impercettibile della testa.
“Improvviserò.”
“Ti serve un piano.”
“Io ce l’ho un piano: improvvisare.
E mentre tornava a girare il volto verso il Walker’s con un sorriso tronfio sulla faccia, il cozzare di una spalla ben tornita costrinse Tony a voltarsi, di nuovo, chinarsi a terra per raccogliere un vecchio cellulare e quindi allungare la mano in direzione di…Beh, una donna assai piacente, con occhi neri da paura, una sventola un po’ selvaggia –Dannazione, era così che Happy aveva chiamato Pepper quando lei se n’era andata dall’ufficio la prima volta, impettita, infastidita dal tono superficiale e decisamente misantropo con cui le si era rivolto al colloquio; nonostante il grosso nodo cicatriziale che le tagliava in obliquo la guancia sinistra, da sopra la radice fino all’angolo della bocca, il suo viso aveva un’attrattiva particolare, olivastro e circondato da una svolazzante e disordinata chioma fulva. La camicetta bianca era l’unica cosa con una parvenza innocente, nella sua figura, il resto –Dagli stivali alti alla giacca nera con cappuccio e pellicciotto- le conferivano un’aria di sfida e pericolo –Aria che, lo si sapeva, per Stark era un ordine a chiare lettere di oltrepassare il perimetro di sicurezza.
“Bel taglio di capelli. Le dona.” Lo sbuffo di Colin, dietro le spalle, era un chiaro monito a sbrigarsi e rimandare a dopo gli incontri romantici.
“Bel poncho.” Rispose lei, le labbra piegata un un’ironia sfrontata.
“L’ho preso da un indiano. E’ un regalo prezioso.”
“Oh, non ne dubito.” La donna arcuò le sopracciglia nere –Il sinistro, notò Tony, era tagliato in maniera non intenzionale, una cicatrice piccola, minuta, un barbaglio bianco impercettibile “Le auguro una buona serata.”
“Possibile che tu debba correre dietro ad ogni gonna che vedi anche in una situazione del genere?” fu il rimbrotto velenoso di Hendrick, nel mettere la mano sopra i tre cerchi di vetro incastonati verticalmente sulla porta di ingresso.
“Dovresti divertiti di più, Colin. Altrimenti dov’è il vantaggio di essere morti?” Stark bloccò l’Agente prima che potesse fare un solo passo dentro al locale “Tu rimani qui e fai da palo.”
Col senno di poi, sarebbe stato meglio che Colin entrasse con lui. Purtroppo il senno di poi è una di quelle meraviglie umane che non funzionano mai perché, appunto, costituiscono dei lampi di genio troppo tardivi per essere di una qualche utilità.

Col senno di poi se Colin fosse entrato con lui, di certo Tony avrebbe avuto meno possibilità di trovarsi ammanettato e con la faccia sbattuta contro il tavolino sporco di noccioline dalla donna-faina –A conti fatti, non possedeva un’aura pericolosa. Lei era pericolosa a livelli schizzoidi, con evidenti manie di protagonismo ed una dose di sadismo niente male.
Il col senno di poi, evidentemente, non aveva funzionato e fu con i polsi stretti dietro la schiena che Tony schizzò fuori dal Walker’s e fu ad occhi sgranati che Hendric lo fissò, stralunato, e fu con un gesto di immediato allarme che gettò via il fiammifero con cui stava per accendersi la pipa e fu con un moto di stizza che lo riprese Stark perché non era proprio quello il momento di fumare e avevano un problema dietro le spalle quindi che si sbrigasse ad usare una qualche manovra alla Chuck Norris dello S.H.I.E.L.D. prima che finissero arrosto.
E fu con un moto di orrore che Tony si accorse come al problema della donna-faina fosse appena andato a sommarsi il problema dell’uomo-noce, uscito da una macchina nera e lucida al pari del carapace di un insetto: non ci voleva un genio per capire che l’obiettivo era il fascicolo di Davis.
Gli occhi dell’uomo-noce fiammeggiarono, lo sguardo di Colin virò in freddo metallo.
“A lui ci penso io.”
“Hendrick, io sono ancora ammanettato!” provò a protestare il magnate.
Protesta che cadde nel vuoto. L’Agente scattò in avanti, agguantò il coperchio di un bidone dell’immondizia e lo scagliò senza complimenti verso l’uomo-noce, colpendolo sotto la mandibola ed impedendogli di fare fuoco.
Tony rimase interdetto per un istante, per poi, l’istante dopo, gettarsi a corpo contratto dentro la vetrina del negozio immediatamente opposto al Walker’s. Nel turbinio seghettato delle schegge che gli volavano attorno s’immaginò Pepper immersa fino alla gola dalle scartoffie per pagare tutti i danni arrecati a Rosehill. Grazie a quella prospettiva rassicurante, il cervello alla deriva gli evitò di accusare totalmente il dolore dell’impatto contro il pavimento. Non fu lo stesso nell’involarsi oltre il bancone –Una tavola calda? Interessante- quando la donna-faina ebbe alzato il fucile per fare ficcargli un pallettone in mezzo agli occhi.
Non doveva più fidarsi delle rosse –A parte Pepper. Erano subdole, al pari della Romanoff. Ed erano dannatamente veloci, notò, cozzando contro il muro. Non l’aveva sentita arrivare. Un attimo prima era ancora fuori, sulla strada, e l’attimo immediatamente dopo eccola a stanarlo dal suo nascondiglio –C’era tattica, nelle sue mosse, strategia, era un passo davanti a lui perché ragionava come si ragiona sul campo di battaglia per cogliere di sorpresa il nemico.
Il che voleva dire che, per farla finita e portare a casa la pelle, era necessario essere due passi avanti e adattare il pensiero ad una logica militare, migliorandolo con una sana dose di inventiva e improvvisazione.
Punto uno, impedirle il contatto visivo con occhi, volto e altre parti del corpo scoperte. Le sue mani bruciavano, la sua carne ustionava, era un’arma al pari di Davis, ma, al contrario del ragazzo, era perfettamente collaudata e non avrebbe fatto cilecca.
Punto uno bis, sfruttare il fuoco a proprio vantaggio. Essere una persona capace di estrarre conigli dal capello porta al rischio che, se non si è attenti, chiunque può rubare il cappello ed estrarre una volpe: schivando, saltando, usando le suppellettili della tavola calda come trampolini di lancio per un modus operandi suicida, Stark fu in grado di avvolgere gli anelli delle manette alla carotide della donna-faina e quella, in risposta ad un furioso istinto di sopravvivenza, aumentò la propria temperatura corporea al punto di liquefarle. Bingo. Impedimento maggiore superato, ora restava la pazza ad orologeria.
Punto tre. Scienza. Un sottotitolo perfetto alla sua autobiografia Un trucchetto sfigato ed una battutaccia –A Tony venne quasi da ridere al pensare a quanto i bulli si assomigliassero, così convinti di essere al di sopra di ogni cosa grazie ad un paio di muscoli ben sviluppati, strampalati poteri mistici ed una presa di acciaio. Un microonde e le medagliette di Davis strappate al dossier che la madre, convinta di avere a che fare con la donna-faina, gli aveva mostrato mescolati insieme erano una ricetta perfetta –Insieme ad un bel liquido per pulizia infiammabile, ovviamente. Il muro di fuoco non l’avrebbe mai fermata, tuttavia era un ottimo escamotage per prendere tempo e rallentarla: il vero spettacolo venne annunciato dal trillo fischiante del microonde e dal crocchiolio picchiettante delle tags.
La deflagrazione si gonfiò vermiglia dentro lo stomaco metallico dell’apparecchio, unito al soffio rovente del gas che Stark aveva liberato staccando di netto la presa del bocchettone.
L’esplosione fu uno schiaffo bollente, una rapida, cocente staffilata che fece vibrare il portellone dietro cui Tony aveva trovato riparo. Le orecchie ronzavano e la testa doleva, faticava a mettere insieme i pezzi, a far combaciare gli eventi; dentro il cranio rimbombava il silenzio assordante della detonazione improvvisata, il naso era incrostato di polvere e di cenere, del lezzo della carne dilaniata. Le ginocchia tremarono quando si mise in piedi, unica figura eretta tra le pareti sventrate della tavola calda. Cercò Colin, tra le teste della gente schiamazzante che correva da una parte all’altra di Rosehill, ma non lo vide.
Un cigolio scoppiettante attirò l’attenzione del magnate: la donna-faina dondolava disarticolata sugli alti cavi della corrente, una figura gibbosa e fumante, una marionetta senza vita gettata via alla fine dello spettacolo. Una visione terrificante, che segnava però la fine di uno dei due problemi.
La domanda era…E l’altro?
Un brivido attraverso la spina dorsale.
Suono liquido di metallo che si scioglie.
Tony si girò di scatto, il fiato rappreso in gola. La cisterna d’acqua, sopra la sua testa, emise un gemito raccapricciante e doloroso. L’uomo-noce sogghignò, la mano che brillava di arancio e di oro mentre liquefaceva le possenti gambe di sostegno. I lacci che trattenevano il corpo metallico si staccarono con uno schiocco secco, la cisterna traballò senza più alcun appiglio e Stark, maledicendo se stesso, maledicendo Hendrick di cui non vedeva nemmeno l’ombra, cercò una via di fuga dal disastro imminente. Non trovò altro che una rete protettiva a bloccargli il passaggio: l’acqua gli si rovesciò impietosa addosso, un muggito gelido, mani umide artigliate alla pelle e ai vestiti, marosi ringhianti che gli strapparono il fiato e più di un battito cardiaco. La cisterna, ormai divelta e spaccata, rovinò a terra coi resti dei sostegni, bloccando in parte la gamba di Tony, chiudendogli ogni possibilità di fuga, trattenendolo, costringendolo a terra. L’uomo-noce, fradicio ma illeso, fece scintillare gli occhi maligni e la cornea si velò di fuoco crepitante.
Un passo, un altro, un altro ancora, vicinò ad ogni secondo di più –E Stark non poteva muoversi, non poteva reagire, non poteva fare nulla se non cercare di liberare la gamba. I centri nervosi gridavano allarme e pericolo, trasmettevano scariche di panico –L’uomo sempre più vicino, troppo vicino…

Stonk.
Il coperchio del bidone scavò un solco nella tempia destra dell’uomo noce e, prima che questi potesse reagire, Hendrick gli fu addosso. Schiantò una mano sulla nuca e sfruttò il proprio slancio per conficcare il volto dell’uomo-noce direttamente nell’asfalto; ancora a ginocchia piegate l’Agente saltò verso Stark, che ringraziò quei dannati cento kili per un metro e novanta, abbastanza in forma da sollevare gli spessi tralicci e liberargli la gamba.
Hendrick agguantò il magnate per le braccia, sollevandolo di peso e spintonandolo via, convincendone il corpo a muoversi con sonore manate sulla schiena. Stark incespicò, le caviglie ridotte a polvere, la vista che andava e veniva, la lucidità ridotta a meno di niente a causa del dolore lancinante delle ossa. Si voltò, non sentendo i passi dell’Agente dietro le spalle, e lo spettacolo dell’uomo-noce che si rimetteva in piedi gli ghiacciò il sangue.
“Colin!”
Ma l’Agente doveva già aver colto il movimento dell’avversario: facendo perno sulla gamba sinistra, ruotò il torso e la violenza del calcio che arrivò allo zigomo dell’uomo-noce fu tale da sradicare ogni connessione tra le vertebre cervicali, tranciando a metà il fascio filamentoso dei nervi.

 

Località Sconosciuta
Laboratorio
2011

 

Non avrebbe mai potuto far loro del male. Erano persone innocenti, private di volontà e coscienza, che agivano per ordini perversi instillati nel loro inconscio dalle parole seducenti del Dottore. E mentre il corpo doleva e i muscoli trasudavano scariche elettriche e il sangue impazziva nelle vene, si disse che per nulla al mondo avrebbe mai alzato le mani per ferirli: tenerli a distanza, senza ucciderli, aprirsi una via di fuga, senza che fosse bagnata di sangue.
I legacci gli scavarono i polsi, quando provò a tirare per spezzarli. Digrignò i denti e vide l’uomo col doppiopetto sorridere del suo tentativo: aveva la preda in pugno, lo comprese immediatamente.
La preda era in lui. Impotente, costretto ad un sedile che bruciava la pelle come le fiamme dell’Inferno, stretto al torace, ai polsi, alle gambe, al collo perché non potesse muoversi più del dovuto –Abbastanza libero, però, perché avvertisse col cuore e la mente una via di fuga. Il corpo continuava a lottare, dove trovava una boccata di respiro, si contraeva e si disfaceva in grugniti di dolore. Per l’uomo era piacevole vederlo combattere contro l’inevitabile, lo comprendeva dai suoi occhi lustri di ferina soddisfazione.
Quale che fosse, comunque, il desiderio di ludibrio del suo aguzzino, non avrebbe smesso di muoversi, di tendersi, di fare forza e tentare di recidere i legacci che lo costringevano indietro.
Le macchine singultavano a ritmo del suo cuore impazzito, alla pressione cardiaca che si schiantava contro le costole, alla temperatura che aumentava ringhio dopo ringhio, al gonfiarsi dei muscoli, del fiato che erompeva dalle narici dilatate. Le tempie, pressate da un semicerchio di metallo, erano un tormento di sofferenza e fiamme tanto spostava la testa e faceva strusciare il capo contro gli uncini gelidi.
Si fece avanti il medico, gli occhi incolori, la mascella sbilenca, le dita lasse attorno ad un morso di cuoio.
Serrò i denti ancor più strettamente, il mento alzato in segno di sfida, gli occhi azzurri che vibravano di sdegno e spirito che mai si piega.
Un ruggito di dolore artificiale nelle ossa, un urlo  eruttato dalla bocca ora aperta –Quando la richiuse, il morso scricchiolò per la violenza della sofferenza, per il tentativo di mordersi della lingua, di soffocare nel proprio sangue piuttosto che respirare e sottomettersi. Il cervello pompava informazioni alla velocità della luce, gli riempiva il cranio di immagini, di piani per evadere, di smentite, di lucida constatazione di tali, mirabolanti follie.
Coi capelli appiccicati alla fronte per il sudore, sollevò il capo, perché lo sguardo incenerisse il suo aguzzino, ora seduto al suo fianco per non perdersi nemmeno un istante.
“Non c’è alcun bisogno di essere testardi, Capitano.” Lo derise  “Presto il dolore non sarà nemmeno più un ricordo.

   
 
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