{ Sono già in caduta libera
~ File 11}
Sulla Strada Per il Tennessee
Autostrada
2013
Alla radio trasmettevano Arms, di Christina Perri. In una situazione differente sarebbe
stato un sottofondo perfetto per qualcosa di ben più intimo –Intimo? Doveva avere le sinapsi ridotte a
scoppiettante pop corn- una di quelle situazioni che ricalcavano la scena
di una commedia romantica, col protagonista al volante che racconta, ma non ha
parole da far uscire, è tutto sottinteso, tutto lasciato all’immaginazione
dello spettatore; e c’è lei, illuminata dal sole o da un pomeriggio autunnale,
che guarda avanti e ride, gira gli occhi su di lui, una sintesi perfetta di
complicità e armonia.
Quante ne ha viste, di sciocchezze simili, con
Pepper? In realtà nessuna. O forse una, di sbieco, mentre si occupava di
stilare la lista di qualche componente per una qualche invenzione di qualche
importanza. La musichetta melodica, strimpellata da una voce al dolcificante,
gli arrivava all’orecchio sotto forma di tintinnaboli cinguettanti e non vi
aveva mai prestato viva attenzione: li aveva accantonati in una parte recondita
del cervello, dove prendevano polvere gli scatoloni coi ricordi di Peggy e di
Jarvis, dell’infanzia in collegio, del cibo ungherese di Hanna.
Forse, gli sovvenne il pensiero, avrebbe dovuto
avere maggior considerazione per quei film dalle tinte color miele. Non tanto
per il loro dubbio gusto, né per la trama infarcita di crema e panna, bensì
perché guardarli significava essere seduto sul divano con Pepper accanto e un cartone
di pizza e un commento sarcastico sulle labbra. Avrebbe significato essere normale, una volta tanto, anche per soli
novanta minuti. Normale e senza grilli per la testa, senza supercattivi da
combattere, senza cose da costruire, senza vita da riparare, da sistemare col
nastro adesivo per darle una parvenza di solidità.
E anche se era Happy a fare gli occhi dolci a
Pepper, non importava. Anzi, Happy poteva stare con loro, gli piacevano quei
filmetti allo zenzero, avrebbe fatto la
mossa e…
Happy è morto.
La consapevolezza arrivò simile allo schianto di un
camion contro un calesse. Lui, ovviamente, era il calesse: antiquato e
sgangherato, ridicolo dinnanzi alla crudeltà della vita, inutile al
rumoreggiare e stridere di ruote e asfalto, dei nemici che guadagnavano terreno
e lo ghermivano nella notte, peggiori di un incubo –Peggiori perché non erano un incubo, erano reali e non sarebbero
scomparsi all’avvicendarsi del mattino.
Happy è morto. E anche
Rhodes. E adesso sono qui, in una macchina presa in prestito
insieme ad un Agente di Livello Sei e cerco di salvarmi la vita nell’unico modo
che mi riesce –Improvvisando.
“Dovresti dormire, non arrovellarti su pensieri che
ti tolgono sonno ed energie.”
Non è la prima volta che Colin gli fa la paternale.
Ma è la prima volta che la paternale assomiglia ad
un ordine da campo di battaglia. Della serie: Se non dormi, soldato, non sarai pronto per l’arrivo dei crucchi e
allora ci ritroveremo i crauti in posti decisamente poco piacevoli.
“Pensa a guidare, Hendrick, e dimmi se ti serve il
cambio.” Tagliò corto Stark, piccato.
È un fatto personale, con lui, una scaramuccia di
proporzioni belliche epocali. Tony non ha intenzione di dimenticare il suo
insulto tanto presto –E concentrarsi sulla ripicca contro l’Agente, su quanto
gli abbia fatto rodere lo stomaco e abbia costituito uno schiaffo imperdonabile
al suo io-bambino-che-legge-in-un-angolo lo aiuta ad allontanare la testa da un
mondo troppo da adulti consapevoli
perché gli possa piacere.
“Non sento la fatica.” Gli ricordò l’altro “Guiderò
io per tutto il tragitto. Tu hai bisogno di riposare, io di un caffè di tanto
in tanto.”
“Guarda che
non serve fare l’ubermensch. Non hai
la Hill e nemmeno il vecchio pirata Fury da impressionare per avere una
stellina in più sulla lista degli Agenti buoni. Fury è morto, bellimbusto, lo
S.H.I.E.L.D. è stato rivoltato come un calzino e tu sei soltanto un innocuo,
ingenuo, patetico reietto che cerca di darsi un tono, fingendosi più grande di
quel che è.”
Quant’era facile ferire gli altri. Irrobustire il
dolore, farne una lama, un coltello da affondare più e più volte contro gente
innocente, contro gente abbastanza coraggiosa da affrontare la sofferenza, da
sobbarcarsene il peso sulle spalle senza recriminare, senza cedere –Senza
cercare un colpevole, consci che l’unica cosa utile in certe situazioni è la
necessità di mettere sempre un piede davanti all’altro.
“L’innocuo, ingenuo, patetico reietto sta anche
cercando di salvarti la vita” E d’improvviso, sotto la sferza degli occhi
azzurri di Colin, Stark avvertì il morso della vergogna sbranargli lo stomaco,
togliergli il fiato, recidere e strappare il respiro dai polmoni “Non c’è di
che.”
Il magnate abbassò lo sguardo –Chi mai era riuscito
a tanto?- e riacchiappò in silenzio il fumetto comprato alcune ore prima alla
stazione di servizio. Lo aveva afferrato con la stessa voracità di un bambino,
attirato dai colori sgargianti in puro stile anni ottanta, dalle inconfondibili
stelle e strisce, dallo scudo in bella vista che pareva fendere l’aria nella
sua direzione: una vecchia perla, apparsa come una pura epifania divina, cui
Stark si era aggrappato con trasporto da vero fedele.
Hendrick aveva inarcato le sopracciglia, quando lo
aveva appoggiato sul rullo untuoso della casSa, uno sguardo confuso, perplesso,
a tratti non si capiva se infastidito o meno dalla presenza della carta
stampata in mezzo alle merendine, ai fazzoletti e altre millanta porcherie a
poco prezzo prese per il viaggio fino in Tennessee.
Ed era stato proprio il fumetto il motivo della loro
litigata –Litigata, che vocabolo da
vecchia coppia di sposini che si contende il telecomando-, il casus belli. Le continue occhiate
lanciate da Hendrick al fumetto, mentre Tony lo leggeva attento contro le ginocchia
–Una posizione abbastanza scomoda, ma Agente Perfettini gli aveva già
rimbrottato la mania di mettere i piedi sul cruscotto gnè gnè gnè-, lo avevano stizzito alquanto.
Che c’è?
Mi chiedo come tu
faccia a leggere quella porcheria, aveva sibilato Colin, con malcelato disprezzo, le labbra strette in un
cordone stretto e rancoroso.
E’ Capitan America,
Hendrick. Tutti leggevano Capitan America, quand’ero bambino. Tu no? Non che la
cosa mi stupirebbe, si intende.
No. Non lo leggevo. E’
soltanto propaganda.
Scelta di parole sbagliata. Se anche aveva
cominciato a provare una certa compatibilità
emotiva dovuta alle circostanze contingenti nei confronti di Colin, lo
sconsiderato commento rivolto al suo idolo lo aveva depennato dalla lista di
coloro cui far mandare, ad opera della
santa Pepper, gli auguri di Natale.
Non parlarono per lungo tempo.
Cominciò a nevicare e volteggii e sbuffi bianchi
rotearono loro intorno; dai bocchettoni della macchina ruggì un boato di aria
calda, in netto contrasto con la patina argentea che si arrampicava pian piano
sui finestrini.
Nessuno dei due avvertiva il bisogno di parlare.
Entrambi, considerò Stark, erano troppo esausti. Pensare, cercare un contatto
umano abbisognava di energie che non potevano permettersi di spendersi: la
solitudine era l’unica compagnia cui affidarsi, cristallizzando il mondo in un
attimo che non era prima e non era dopo, dove il passato scompariva sotto il
manto nevoso ed il futuro era impossibile da intravedere oltre i vetri
appannati.
Un’insegna attirò l’attenzione del magnate, che
chiuse il fumetto e pulì il finestrino con la manica.
“Fermati!” intimò all’altro “Fermati subito!”
Il Texaco T, come recitava il traballante cerchio di
metallo posto sopra il parasole gravido di neve, era una sottospecie di minimarket
pseudo messicano, una struttura dismessa, un rettangolone di muratura sgraziato
che le lampeggianti lucine natalizie rendevano grottesco e ridicolo. A Tony non
interessava la merce in scadenza all’interno, né le grandi occasioni
sponsorizzate da tranci di scatoloni aperti alla meglio su cui campeggiavano
scritte in pennarello indelebile, bensì
la cabina telefonica, quel relitto
dei tempi andati, l’armadio preferito di Superman, la sua ancora di salvezza.
L’orlo dei pantaloni si inzaccherò di neve nel
correre verso l’affare di vetro lurido e le mani, a contatto con la cornetta
gelida, si riempirono di brividi; con Hendrick a fare da palo, intabarrato in
una giacca gonfia di imbottitura, ed un indiano di legno che osservava con
occhi vuoti le profondità dell’infinto, il magnate digitò veloce alcune cifre
ed attese lo scatto dall’altra parte della cornetta.
“Pepper sono io.” Esordì, la voce resa incerta dal
freddo e dalla linea altalenante “Non ho molto tempo. Perciò, innanzitutto,
perdonami per averti messo in pericolo. Sono stato un egoista e uno stupido,
non accadrà più. Inoltre è Natale e…Avevo preso un regalo. Happy aveva preso un
regalo.” Si corresse “Un coniglio.” Un sorriso stanco “Enorme, Pepper. Grosso,
troppo grosso. L’ho consigliato io ad Happy. E’ a casa. Dovevi entrare, di
ritorno all’ospedale, e vederlo lì e Happy avrebbe…” un groppo alla gola, un
cappio a lutto a serrare la carotide “Devi anche perdonarmi perché non posso
tornare. Devo trovare questo tipo. Tu devi stare al sicuro, so solo questo. C’è
anche Agente di Livello Sei, qui con me. Saremo al sicuro. Non temere.”
Fuori il vento gli trapassò il costato, violento, lo
ghermì di neve, di ghiaccio. Colin si spazzolò i capelli biondi con le dita,
per far cadere i fiocchi incastrati tra le ciocche; alzò la testa e il sorriso
rassicurante che gli rivolse, insieme al poncho preso in prestito, come gli ricordò, dall’Indiano di legno fu
abbastanza per compiere il primo passo e mettere un piedi davanti all’altro.
Da qualche parte, Queens
Marciapiede
2013
Dalla casa proveniva il profumo famigliare di una
torta, lasciata a raffreddare sul davanzale. Murdock non la vedeva, tuttavia ne
percepiva la consistenza, la durezza fragrante della crosta a contatto con
l’aria, il respiro morbido dell’impasto e del ripieno gonfio, denso di
marmellata di more. Sapeva anche a chi apparteneva, quel prodigio culinario: il
canto mormorato a mezza bocca, scivoloso tra le rughe delle labbra; la spuma
del sapone per piatti che inanellava le dita affusolate e forti, nonostante gli
anni; il tintinnio degli orecchini contro il lobo ed il principio della gola,
quando piegava la testa…
“Buongiorno, May.”
Un sussulto di sorpresa, un gemito della ceramica
all’impatto improvviso con la spugna ruvida. La finestra, al piano di sopra,
che si apriva ed un cuore in allerta, che batteva e batteva e batteva e
rimaneva guardingo. Mani strette alla balaustra, presa salda, oltre il limite
umano, il propagarsi catarroso di crepe all’interno del cemento –Peter Parker
era appena accorso per capire il perché della visita di Matt Murdock ed il suo
allegro rivolgersi alla zia.
“Matt, caro!” esclamò la donna e l’avvocato si fece
sfuggire un sorriso, genuino, spontaneo alla sua voce sinceramente cordiale
“Che piacere vederti.” Frullare di pelle e tessuto, May si stava asciugando le
mani in una pezzuola ruvida, ancora impregnata da precedenti lavaggi e lavori
domestici “Qual buon vento ti porta qui da noi?”
“Lavoro, May. Il ragazzo che devo difendere dovrebbe
abitare da queste parti, ma non mi riesce di trovarlo. Mi chiedevo se…”
“Ma certo che ti aiuto Matt, caro.” Lo prevenne May,
senza nemmeno dargli il tempo di finire la frase “Dove dovrebbe abitare questo
giovanotto?”
“A Cypress Avenue.” Rispose l’avvocato, appoggiando
il palmo della mano sinistra sul dorso della destra, ancorata al bastone bianco
“Si chiama Colin Hendrick, lavora per un market indiano qui vicino. Il suo
appartamento dovrebbe trovarsi al numero ventisei, non poco distante dal
Cascada.”
Un lieve tentennare –Perplessità, dubbio- percepì il
collo di May tendersi per un attimo, segno che quanto gli era stato appena
detto non rientrava tra le sue conoscenze contingenti.
“Ci deve essere un errore.” Disse infatti la donna
“Quel palazzo è sfitto da anni.”
Rosehill, Tennesse
Strada Principale
2013
Rosehill si presentò ai loro occhi sottoforma di un
filare di palazzetti tracagnotti, campagnoli, tutti uguali a se stessi e
intervallati di tanto in tanto da un bar o da una drogheria, un unico negozio
di scarpe e vestiti, un sarto, un market che vendeva ogni cosa, dal terriccio
al sapone per le mani. Le macchine erano per lo più camioncini scrostati,
stracolmi di robaccia per i campi e attività manuali di sorta; gli uomini
indossavano per la maggior parte camicione a scacchi, erano per la maggior
parte baffuti e indossavano, per la maggior parte, stinti cappellini con
visiera. Le donne avevano addosso magliette sformate, trafugate da qualche
outlet che metteva tutto a due dollari, e macchiate lì dove si era staccata più
di una manciata di lustrini e paillette; i capelli di molte di loro erano
stoppie incollate da polvere e neve, poche, invece, avevano cercato di
agghindarsi e acconciarsi come insegnava una rivista di moda vecchia di almeno
cinque anni.
Tony affondò le mani in tasca, soffiando via un
refolo di fiato condensato; Colin, al suo fianco, indicò una rientranza nella
via, uno spiazzo rettangolare illuminato a giorno dai bagliori sussurranti
delle candele; sciogliendosi, la cera era colata fin sull’asfalto, bianche,
sempiterne lacrime a memoria della tragedia. L’asfalto divelto si apriva sotto
le croci e le cornici simile ad uno spruzzo di schiuma cementificata; filoni di
fiori grassocci, finti, dai colori spenti tempestavano l’intorno, cingendo la
zona in un cordone di petali stinti e corolle a poco prezzo.
Colin superò Tony in silenzio, per andare ad accovacciarsi
davanti a quell’altarino popolare che ancora sapeva di cenere e carne
maciullata. Socchiuse gli occhi chiari e le candele disegnarono strani riflessi
nel suo sguardo fattosi improvvisamente lontano.
Stark si morse la lingua prima di chiedergli cosa
gli fosse preso, anche perché la sua voce dovette lasciare il posto al pigolio
curioso –E finanche guardingo- che giunse dietro di loro.
“Siete qui perché vi piace il turismo nero?”
Hendrick girò la testa, sorridendo da sopra la
spalla.
Il bambino, imbacuccato in una felpa più grande di
lui, mise su l’espressione più sospettosa del suo repertorio, con labbro sporto
e sopracciglio destro inarcato compresi nel prezzo; somigliava ad un buffo
ammasso di grigio e marrone, convinto di sembrare più grosso di quel che era,
con la sciarpona di lana grossa e i guanti senza dita –Fuori dall’orlo, la
pelle era arrossata dal freddo e dal nevischio scioltosi sui capelli castani.
“Qual è la
versione ufficiale?” gli chiese l’Agente, alzandosi in piedi e facendo un cenno
a Tony perché si mettesse più in ombra. Erano in un paesello dimenticato da Dio
nel Tennesse, certo, ma non era comunqueo una ragione valida per essere meno
prudenti.
“Una fuga di gas.” Il bambino si allontanò di un
passo, non appena Colin piegò il ginocchio a terra per essere alla sua stessa
altezza. Probabilmente odiava il comportamento semi-paternale degli adulti nei
suoi confronti, a Tony non occorse molto per capirlo. Riconosceva anche un paio
di comportamenti di quando era in collegio…
“Tu sei Tony Stark?”
“No, non lo sono.” Ribatté il magnate, schiarendosi
la gola e calcando meglio il cappello con la visiera sulla fronte “Affatto.”
“E tu chi sei?” gli chiese Colin, spostando per una
frazione di secondo l’attenzione del bambino su di sé “Vuoi dirci come ti
chiami?”
“Harley.” Rispose il piccolo, tendendo il collo per
osservare meglio Tony da oltre le spalle dell’Agente “Lo sai che i giornali ti
hanno dato per morto?” lo informò.
“Sì, i giornali dicono cose come questa, in assenza
di notizie migliori.”
Colin permise ad un sorriso di trasparire sulle
labbra –Sorriso che contagiò anche Harley, diamine,
pensò Tony, quell’uomo è un genio della manipolazione.
“Cos’è successo?” chiese ancora, una volta che
Harley ebbe di nuovo gli occhi nei suoi “E’ importante.”
“Dicono che questo tipo abitasse qui intorno.” Il
bambino scrollò le spalle, aggirò Hendrick e andò a sedersi dinanzi al cerchio
di luci. L’alone bianco-argenteo filò striature e carezze e bagliori tra le
ciocche un tempo tagliate a scodella ed ora un mero guazzabuglio di nodi; gli
occhi, intelligenti e vivi, ruotarono per cercare le figure di Stark e di
Hendrick nel momento in cui essi gli si accomodarono accanto “Aveva vinto un
sacco di medaglie nell’esercito. La gente dice che un giorno è impazzito e ha
fatto, sai…” fece un gesto con le mani, un incrocio tra una palla da rugby e una
sfera un po’ storta “Una bomba. E si è fatto saltare in aria. Qui”
Colin scosse piano la testa, drizzandosi in piedi.
Tony non disse una parola, non emise suono, e studiò i suoi occhi, il suo
sguardo, la tensione della mandibola nello sfiorare a punta di dita le ombre
nere impresse sui muri di mattoni –Istantanee di morte, macabre polaroid che
avevano catturato l’ultimo respiro di persone la cui sola colpa era stata
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
“Sei persone morte, giusto?” domandò Hendrick,
lasciando cadere la mano e girandosi appena a guardare il bambino “Sei. Non
cinque. Sei.”
Harley annuì.
“Sì.”
La mente di Stark volò immediatamente al
ragionamento che Colin aveva formulato, guardando le ombre. Tra le sei vittime
era annoverato lo stesso autore della tragedia, il che voleva dire…
“Pensaci.” Tony si voltò verso il piccolo, la cui
espressione rifletteva in maniera assai eloquente la sua perplessità “Sei
morti. Solo cinque ombre.”
“Sì, ma…” Harley si strinse nelle spalle –Probabilmente,
da come abbassò gli occhi, non credeva nemmeno lui alla replica che stava per
fare “Dicono che le ombre sono i segni delle anime salite in cielo. Tranne che
per l’uomo-bomba, lui è finito all’Inferno perché non è rimasta la sua ombra.
Per questo sono solo cinque.”
“E tu ci credi?”
“E’ quello che dicono.”
Era un bambino, in fondo, e la tragedia, salvo che
per pochi, era unicamente una fonte inesauribile di trafiletti sui quotidiani,
di servizi televisivi a cadenza mensile, interviste pilotate, gente mai vista
che si faceva ritrarre davanti alle ombre. Se i grandi dicevano che le ombre
erano i segni delle anime, cosa gli importava? Non avrebbe cambiato la sua
vita, qualunque essa fosse. Era una nota a margine, un qualcosa da tirare fuori
qualora si fosse ritrovato nella situazione in cui, durante un discorso, il suo
interlocutore avesse ricordato il nome di Rosehill soltanto per l’eco della
tragedia.
“Sai cosa mi ricorda questo cratere…?”
Tony colse il rizzarsi delle spalle di Colin, un
fiotto di azzurro nella penombra delle candele, ma fu troppo occupato a
contenere lo spasmo sofferente ai polmoni per accorgersi di come l’Agente si
fosse prontamente messo in allarme al vago accennare del bambino agli eventi di
sei mesi prima.
“Non ne ho idea.” Borbottò Stark, avvertendo la voce
mancare e le parole farsi balbettanti “E non—Non mi interessa.”
Ma Harley, estatico, desideroso di sapere, di
conoscere, di ascoltare da uno dei diretti interessati, reclinò la nuca
all’indietro e alzò le braccia al cielo, le allargò per dare l’idea dello
squarcio che si era nel cielo della Grande Mela.
“Quel gigantesco portale a…” rise, lo sguardo
luminoso ed eccitato “A New York! Lo ricorda anche a te?”
Uno. Due. Tre. Quattro. Per ogni respiro Tony aveva
cominciato a contare un numero, perché la mente si allontanasse dal fiato
affannato ed ogni numero era un cerchio che il dito scavava sulla tempia,
perché il cervello andasse in loop e silenziasse l’estasi di Harley, facendo
tacere il rombo devastante che gli stava frantumando le orecchie e torceva i
polmoni e disintegrava la trachea.
“Non ne voglio parlare.”
“Ritorneranno?” impossibile frenare la curiosità di
un bambino, era una valanga di sensazioni ed emozioni e ricordi e immagini e
ruggiti ed esplosioni lampi scrosci urla sangue boati fiamme fuoco vuoto vuoto
d’aria vuoto nel petto vuoto pneumatico oltre lo spazio vuoto vuotovuotovuoto v
u o t o “Gli alieni.”
“Forse.” La voce rapida il respiro rarefatto nella
trachea “Non…”
“Questo argomento ti mette a disagio?”
“Non lo so posso prendere fiato un secondo---?” come
se fosse facile, come se l’aria potesse davvero arrivargli ai polmoni, come se
davvero potesse respirare –Ma non era facile l’aria non arriva ai polmoni non
poteva respirare non poteva non poteva.
“Ci sono cattivi a Rosehill? Ti serve una busta di
plastica per soffiarci dentro?”
Respira. Respira. R e s p i r a.
“Prendi medicine?”
“No.” La voce che balza alla bocca, un singhiozzo
disperato, un urlo acido ricacciato a forza nell’esofago.
“Dovresti prenderle?”
“Probabile.”
“Hai lo stress post-traumatico?”
“N—“
“Stai diventando completamente pazzo?”
Sì. No. Forse. Non sono pazzo. Forse lo sono. Forse
la pazzia è umana e io non sarei umano se non fossi pazzo e pazzo è questo
mondo e questo mondo è normale e pazzo è ciò che è successo e sarebbe da pazzi
non esserne sconvolti e sarei pazzo se non lo fossi e forse pazzo è normale è
normale la pazzia in un mondo pazzo dove nulla c’è che non lo sia---
“Vuoi che la smetta--? Posso smetterla se vuoi!”
“Mi mandi fuori di cervello---“
Click. No, click non rendeva l’idea, no. Era un rumore troppo infinitesimale.
Troppo parodistico. Gli ingranaggi si scardinarono con un boato metallico di
dentelli, le viti si disarticolarono in ogni loro più minuscolo componente che tlingtlangtlong andò a cozzare contro le
pareti del cranio e si rovesciò nel cuore una cascata di fitte e scariche
allucinanti che abbagliarono gli occhi e scoccarono un unico, salvifico,
ossessivo ordine nella sua testa Fuggi
scappa fuggi corri voi mettiti in salvo corri corri corri fuggi corri scappa
corri corri scappa scappa scappa scappacorrifuggi---Un corpo caldo, nel
gelo che irretisce le ossa. Battito cardiaco armonico, regolare, che dà il
tempo, che scandisce il respiro, cadenzato nel ronzio ovattato e anestetizzato,
vibrante del cervello. Un contatto umano, nella girandola animale di pensieri
sconnessi, un punto saldo nella realtà che si sfalda e si sfascia e si sgretola
e schegge di cielo che si staccano dalla volta dell’universo e si frantumano e
spuma di stelle che rovente brucia i bordi del Creato.
La mia armatura mi serve la mia armatura la mia
armatura la mia armatura la mia armatura metallo freddo metallo calotta guscio
guscio dove nascondermi calotta da cui rinascere protezione difesa attacco
nascondiglio fuoco e ghiaccio la mia armatura la mia armatura non ti serve
l’armatura Tony cerca di respirare cerca di prendere fiato concentrati su di me
concentrati sulle mie parole non ti serve l’armatura l’armatura è ciò che mi
tiene lontano dal mondo anche se sono circondato niente piò ferirmi niente ti
ferirà qui Tony sei al sicuro concentrati su di me qui nessuno vuole farti del
male dentro l’armatura sono protetto ma qui ti proteggerò io ci sono io al tuo
fianco non ti devi preoccupare devi soltanto respirare respirare
respirarerespirarerespirare r e s p i r a r e r
e s p
i r a
r e.
Colin lo aveva fatto sedere e Tony nemmeno se n’era
accorto. Ne prese coscienza riemergendo dal panico, dalla confusione che aveva
ovattato i pensieri e, come una pressa, stretto il suo corpo fino a far
scricchiolare le ossa, inaridire il sangue nelle vene. Cominciò a tossire,
perché l’aria era fredda nella gola e non si aspettava di ingoiare un fiotto
tanto veloce tanto in fretta tanto improvvisamente, aveva dimenticato per secondi
eterni cosa significasse respirare e che si dovesse fare. L’ossigeno aveva il
sapore della neve, ma era rancida quanto la paura e divenne acido nello stomaco
e corrose l’intestino, sbranandolo a poco a poco.
Tony artigliò una manata tremante di neve e la gettò
contro Harley, non essendo in grado di formulare un’accusa più articolata di
quella. Si avvide poi delle dita di Colin sulle spalle, sulle braccia che
sfregava e frizionava per riattivare la circolazione, del torace che gli
premeva sulla schiena, del suo fiato che gli rizzava i peli sulla nuca.
“Il tipo che è morto.” Tony, in un moto di stizza,
spintonò via Hendrick, nonostante l’aiuto che gli aveva dato per riprendersi,
nonostante la mano tesa con cui lo aveva appena rimesso in piedi –Il freddo alle
membra non si acquietò, i brividi della debolezza sghignazzarono lungo la spina
dorsale “Parenti? Una madre? La signora Davis dove sta?”
Harley si grattò il naso con la manica della camicia
a scacchi che teneva sotto il giaccone; pensò un poco alla cosa, valutando la
distanza a spanne.
“Dove sta sempre.” E Colin non poté impedirsi di
girare gli occhi al cielo e far arrivare le sopracciglia direttamente al
principio della fronte.
“Visto.” Sebbene ancora livido in volto e col fiato
mozzo, Tony annuì in una approvazione a bocca spalancata –Unicamente, però, per
ossigenare cuore e cervello “Ora sei di aiuto.”
Cypress Avenue, Queens
Appartamento di Colin Hendrick – O supposto tale.
2013
“Tana per il Diavolo.”
Matt se lo aspettava. Non era andato a casa di May
Parker con l’unico intento di parlare con la vecchia zia: gli interessava anche
e soprattutto lanciare l’esca, attendendo con pazienza che il Ragno
fuoriuscisse dal buco zampa dopo zampa e si incamminasse verso la tela di bugie
e macchinazioni di cui stava cominciando ad intravedere la trama.
“Qual buon vento ti porta qui, Uomo Ragno?” gli
domandò Devil –Il cui udito, tranne lo zampettare dei topi ed il respiro del
ragazzo, non avvertiva nulla- voltandosi nella sua direzione “Cerchi casa?”
“In effetti mi sto proprio accertando che il padrone
non ci sia.”
Ftump. L’Uomo Ragno si era appena appeso
ai muri e dallo scivolio dei piedi Matt ne individuò il cammino dalla parete
fino al soffitto.
“Cosa sta succedendo?” sotto la patina di
noncuranza, l’avvocato colse nella voce del ragazzo una nota di urgenza, i
primi barlumi di panico “C’entra il Mandarino?”
Il Mandarino. Un’entità astratta e pubblica allo
stesso tempo. Un burattinaio di paura, di fiato sospeso, di menzogna, di
omicidio, l’uomo del Chinese, l’uomo che aveva ucciso Happy, l’uomo che aveva
sulle mani il sangue di Rhodes e, sebbene non ci credesse –Vuoi per
testardaggine, vuoi per istinto- Stark.
Fury morto. Il Mandarino. Un Agente senza dimora
dalla temperatura corporea insolitamente alta. Doveva esserci una connessione,
doveva esserci, Devil si rifiutava di credere a simili, catastrofiche
coincidenze. Che il Mandarino fosse la causa e la morte di Fury l’effetto? No,
era improbabile. L’omicidio di Fury non era stato scenografico: aveva sì
colpito l’America, ma diametralmente opposto alla maniera in cui il Mandarino
operava. Egli, in fondo, si poneva come Maestro ed un Maestro insegna, un
Maestro usa immagini e scene se non tangibili quantomeno riconoscibili. La morte del Direttore era stato un colpo inferto
con crudeltà ad una cerchia ristretta di persone, rispetto alla totalità del
popolo americano –E, da quanto aveva potuto apprendere e capire, il Mandarino
non dava lezioni private.
“E’ uno specchio per le allodole.” L’Uomo Ragno lo
trasse via dal guazzabuglio disordinato di pensieri “Questo appartamento. Non
capisco il motivo per cui avrebbero dovuto darti un indirizzo sbagliato.”
Parlata agitata, frettolosa, tentativo di nascondere il fatto che conosceva il
motivo ed il nome per cui Matt era lì “E’ soltanto uno specchio per le
allodole.”
“Un’illusione.” Concordò Matt “Per nascondere
qualcosa di più grande.”
Uno specchio per le allodole. Un riflesso che
attirasse l’attenzione, mentre il vero male serpeggiava nascosto, dietro le
quinte, assai meno visibile di un terrorista orientale dai modi magniloquenti…
Rosehill, Tennesse
Walker’s
2013
Stark sollevò il bavero della giacca, che spuntava
dal poncho malandato. Sì, non lo aveva ancora tolto, gli teneva caldo. Colin,
al suo fianco, affondò le mani nelle tasche del giaccone di pelle, dando
un’occhiata veloce al magnate.
“Come pensi di fare?” gli domandò, indicando il
locale con un cenno impercettibile della testa.
“Improvviserò.”
“Ti serve un piano.”
“Io ce l’ho un piano: improvvisare.”
E mentre tornava a girare il volto verso il Walker’s
con un sorriso tronfio sulla faccia, il cozzare di una spalla ben tornita
costrinse Tony a voltarsi, di nuovo, chinarsi a terra per raccogliere un
vecchio cellulare e quindi allungare la mano in direzione di…Beh, una donna
assai piacente, con occhi neri da paura, una sventola un po’ selvaggia –Dannazione, era così che Happy aveva
chiamato Pepper quando lei se n’era andata dall’ufficio la prima volta,
impettita, infastidita dal tono superficiale e decisamente misantropo con cui le
si era rivolto al colloquio; nonostante il grosso nodo cicatriziale che le
tagliava in obliquo la guancia sinistra, da sopra la radice fino all’angolo
della bocca, il suo viso aveva un’attrattiva particolare, olivastro e circondato
da una svolazzante e disordinata chioma fulva. La camicetta bianca era l’unica
cosa con una parvenza innocente, nella sua figura, il resto –Dagli stivali alti
alla giacca nera con cappuccio e pellicciotto- le conferivano un’aria di sfida
e pericolo –Aria che, lo si sapeva, per Stark era un ordine a chiare lettere di
oltrepassare il perimetro di sicurezza.
“Bel taglio di capelli. Le dona.” Lo sbuffo di
Colin, dietro le spalle, era un chiaro monito a sbrigarsi e rimandare a dopo
gli incontri romantici.
“Bel poncho.” Rispose lei, le labbra piegata un
un’ironia sfrontata.
“L’ho preso da un indiano. E’ un regalo prezioso.”
“Oh, non ne dubito.” La donna arcuò le sopracciglia
nere –Il sinistro, notò Tony, era tagliato in maniera non intenzionale, una
cicatrice piccola, minuta, un barbaglio bianco impercettibile “Le auguro una
buona serata.”
“Possibile che tu debba correre dietro ad ogni gonna
che vedi anche in una situazione del genere?” fu il rimbrotto velenoso di
Hendrick, nel mettere la mano sopra i tre cerchi di vetro incastonati
verticalmente sulla porta di ingresso.
“Dovresti divertiti di più, Colin. Altrimenti dov’è
il vantaggio di essere morti?” Stark bloccò l’Agente prima che potesse fare un
solo passo dentro al locale “Tu rimani qui e fai da palo.”
Col senno di poi, sarebbe stato meglio che Colin
entrasse con lui. Purtroppo il senno di
poi è una di quelle meraviglie umane che non funzionano mai perché,
appunto, costituiscono dei lampi di genio troppo
tardivi per essere di una qualche utilità.
Col senno di poi se Colin fosse entrato con lui, di
certo Tony avrebbe avuto meno possibilità di trovarsi ammanettato e con la
faccia sbattuta contro il tavolino sporco di noccioline dalla donna-faina –A conti
fatti, non possedeva un’aura pericolosa. Lei era pericolosa a livelli schizzoidi, con evidenti manie di
protagonismo ed una dose di sadismo niente male.
Il col senno
di poi, evidentemente, non aveva funzionato e fu con i polsi stretti dietro
la schiena che Tony schizzò fuori dal Walker’s e fu ad occhi sgranati che
Hendric lo fissò, stralunato, e fu con un gesto di immediato allarme che gettò
via il fiammifero con cui stava per accendersi la pipa e fu con un moto di
stizza che lo riprese Stark perché non era proprio quello il momento di fumare
e avevano un problema dietro le spalle quindi che si sbrigasse ad usare una
qualche manovra alla Chuck Norris dello S.H.I.E.L.D. prima che finissero arrosto.
E fu con un moto di orrore che Tony si accorse come
al problema della donna-faina fosse appena andato a sommarsi il problema dell’uomo-noce,
uscito da una macchina nera e lucida al pari del carapace di un insetto: non ci
voleva un genio per capire che l’obiettivo era il fascicolo di Davis.
Gli occhi dell’uomo-noce fiammeggiarono, lo sguardo
di Colin virò in freddo metallo.
“A lui ci penso io.”
“Hendrick, io sono ancora ammanettato!” provò a
protestare il magnate.
Protesta che cadde nel vuoto. L’Agente scattò in
avanti, agguantò il coperchio di un bidone dell’immondizia e lo scagliò senza
complimenti verso l’uomo-noce, colpendolo sotto la mandibola ed impedendogli di
fare fuoco.
Tony rimase interdetto per un istante, per poi, l’istante
dopo, gettarsi a corpo contratto dentro la vetrina del negozio immediatamente
opposto al Walker’s. Nel turbinio seghettato delle schegge che gli volavano
attorno s’immaginò Pepper immersa fino alla gola dalle scartoffie per pagare
tutti i danni arrecati a Rosehill. Grazie a quella prospettiva rassicurante, il
cervello alla deriva gli evitò di accusare totalmente
il dolore dell’impatto contro il pavimento. Non fu lo stesso nell’involarsi
oltre il bancone –Una tavola calda? Interessante- quando la donna-faina ebbe
alzato il fucile per fare ficcargli un pallettone in mezzo agli occhi.
Non doveva più fidarsi delle rosse –A parte Pepper.
Erano subdole, al pari della Romanoff. Ed erano dannatamente veloci, notò, cozzando
contro il muro. Non l’aveva sentita arrivare. Un attimo prima era ancora fuori,
sulla strada, e l’attimo immediatamente dopo eccola a stanarlo dal suo
nascondiglio –C’era tattica, nelle sue mosse, strategia, era un passo davanti a
lui perché ragionava come si ragiona sul campo di battaglia per cogliere di
sorpresa il nemico.
Il che voleva dire che, per farla finita e portare a
casa la pelle, era necessario essere due passi avanti e adattare il pensiero ad
una logica militare, migliorandolo con una sana dose di inventiva e
improvvisazione.
Punto uno, impedirle il contatto visivo con occhi,
volto e altre parti del corpo scoperte. Le sue mani bruciavano, la sua carne ustionava,
era un’arma al pari di Davis, ma, al contrario del ragazzo, era perfettamente
collaudata e non avrebbe fatto cilecca.
Punto uno bis, sfruttare il fuoco a proprio vantaggio.
Essere una persona capace di estrarre conigli dal capello porta al rischio che,
se non si è attenti, chiunque può rubare il cappello ed estrarre una volpe:
schivando, saltando, usando le suppellettili della tavola calda come trampolini
di lancio per un modus operandi suicida,
Stark fu in grado di avvolgere gli anelli delle manette alla carotide della
donna-faina e quella, in risposta ad un furioso istinto di sopravvivenza, aumentò
la propria temperatura corporea al punto di liquefarle. Bingo. Impedimento
maggiore superato, ora restava la pazza ad orologeria.
Punto tre. Scienza.
Un sottotitolo perfetto alla sua autobiografia Un trucchetto sfigato ed una battutaccia –A Tony venne quasi da
ridere al pensare a quanto i bulli si assomigliassero, così convinti di essere
al di sopra di ogni cosa grazie ad un paio di muscoli ben sviluppati,
strampalati poteri mistici ed una presa di acciaio. Un microonde e le medagliette
di Davis strappate al dossier che la madre, convinta di avere a che fare con la
donna-faina, gli aveva mostrato mescolati insieme erano una ricetta perfetta –Insieme
ad un bel liquido per pulizia infiammabile, ovviamente. Il muro di fuoco non l’avrebbe
mai fermata, tuttavia era un ottimo escamotage per prendere tempo e
rallentarla: il vero spettacolo venne annunciato dal trillo fischiante del
microonde e dal crocchiolio picchiettante delle tags.
La deflagrazione si gonfiò vermiglia dentro lo
stomaco metallico dell’apparecchio, unito al soffio rovente del gas che Stark
aveva liberato staccando di netto la presa del bocchettone.
L’esplosione fu uno schiaffo bollente, una rapida,
cocente staffilata che fece vibrare il portellone dietro cui Tony aveva trovato
riparo. Le orecchie ronzavano e la testa doleva, faticava a mettere insieme i
pezzi, a far combaciare gli eventi; dentro il cranio rimbombava il silenzio
assordante della detonazione improvvisata, il naso era incrostato di polvere e
di cenere, del lezzo della carne dilaniata. Le ginocchia tremarono quando si
mise in piedi, unica figura eretta tra le pareti sventrate della tavola calda.
Cercò Colin, tra le teste della gente schiamazzante che correva da una parte
all’altra di Rosehill, ma non lo vide.
Un cigolio scoppiettante attirò l’attenzione del
magnate: la donna-faina dondolava disarticolata sugli alti cavi della corrente,
una figura gibbosa e fumante, una marionetta senza vita gettata via alla fine
dello spettacolo. Una visione terrificante, che segnava però la fine di uno dei due problemi.
La domanda era…E l’altro?
Un brivido attraverso la spina dorsale.
Suono liquido di metallo che si scioglie.
Tony si girò di scatto, il fiato rappreso in gola.
La cisterna d’acqua, sopra la sua testa, emise un gemito raccapricciante e
doloroso. L’uomo-noce sogghignò, la mano che brillava di arancio e di oro
mentre liquefaceva le possenti gambe di sostegno. I lacci che trattenevano il
corpo metallico si staccarono con uno schiocco secco, la cisterna traballò
senza più alcun appiglio e Stark, maledicendo se stesso, maledicendo Hendrick
di cui non vedeva nemmeno l’ombra, cercò una via di fuga dal disastro
imminente. Non trovò altro che una rete protettiva a bloccargli il passaggio: l’acqua
gli si rovesciò impietosa addosso, un muggito gelido, mani umide artigliate
alla pelle e ai vestiti, marosi ringhianti che gli strapparono il fiato e più
di un battito cardiaco. La cisterna, ormai divelta e spaccata, rovinò a terra
coi resti dei sostegni, bloccando in parte la gamba di Tony, chiudendogli ogni
possibilità di fuga, trattenendolo, costringendolo a terra. L’uomo-noce,
fradicio ma illeso, fece scintillare gli occhi maligni e la cornea si velò di
fuoco crepitante.
Un passo, un altro, un altro ancora, vicinò ad ogni
secondo di più –E Stark non poteva muoversi, non poteva reagire, non poteva
fare nulla se non cercare di liberare la gamba. I centri nervosi gridavano
allarme e pericolo, trasmettevano scariche di panico –L’uomo sempre più vicino,
troppo vicino…
Stonk.
Il coperchio del bidone scavò un solco nella tempia
destra dell’uomo noce e, prima che questi potesse reagire, Hendrick gli fu
addosso. Schiantò una mano sulla nuca e sfruttò il proprio slancio per
conficcare il volto dell’uomo-noce direttamente nell’asfalto; ancora a
ginocchia piegate l’Agente saltò verso Stark, che ringraziò quei dannati cento
kili per un metro e novanta, abbastanza in forma da sollevare gli spessi
tralicci e liberargli la gamba.
Hendrick agguantò il magnate per le braccia,
sollevandolo di peso e spintonandolo via, convincendone il corpo a muoversi con
sonore manate sulla schiena. Stark incespicò, le caviglie ridotte a polvere, la
vista che andava e veniva, la lucidità ridotta a meno di niente a causa del
dolore lancinante delle ossa. Si voltò, non sentendo i passi dell’Agente dietro
le spalle, e lo spettacolo dell’uomo-noce che si rimetteva in piedi gli
ghiacciò il sangue.
“Colin!”
Ma l’Agente doveva già aver colto il movimento dell’avversario:
facendo perno sulla gamba sinistra, ruotò il torso e la violenza del calcio che
arrivò allo zigomo dell’uomo-noce fu tale da sradicare ogni connessione tra le
vertebre cervicali, tranciando a metà il fascio filamentoso dei nervi.
Località Sconosciuta
Laboratorio
2011
Non avrebbe mai potuto far loro del male. Erano
persone innocenti, private di volontà e coscienza, che agivano per ordini
perversi instillati nel loro inconscio dalle parole seducenti del Dottore. E
mentre il corpo doleva e i muscoli trasudavano scariche elettriche e il sangue
impazziva nelle vene, si disse che per nulla al mondo avrebbe mai alzato le
mani per ferirli: tenerli a distanza, senza ucciderli, aprirsi una via di fuga,
senza che fosse bagnata di sangue.
I legacci gli scavarono i polsi, quando provò a
tirare per spezzarli. Digrignò i denti e vide l’uomo col doppiopetto sorridere
del suo tentativo: aveva la preda in pugno, lo comprese immediatamente.
La preda era in lui. Impotente, costretto ad un
sedile che bruciava la pelle come le fiamme dell’Inferno, stretto al torace, ai
polsi, alle gambe, al collo perché non potesse muoversi più del dovuto
–Abbastanza libero, però, perché avvertisse col cuore e la mente una via di
fuga. Il corpo continuava a lottare, dove trovava una boccata di respiro, si
contraeva e si disfaceva in grugniti di dolore. Per l’uomo era piacevole
vederlo combattere contro l’inevitabile, lo comprendeva dai suoi occhi lustri
di ferina soddisfazione.
Quale che fosse, comunque, il desiderio di ludibrio
del suo aguzzino, non avrebbe smesso di muoversi, di tendersi, di fare forza e
tentare di recidere i legacci che lo costringevano indietro.
Le macchine singultavano a ritmo del suo cuore
impazzito, alla pressione cardiaca che si schiantava contro le costole, alla
temperatura che aumentava ringhio dopo ringhio, al gonfiarsi dei muscoli, del
fiato che erompeva dalle narici dilatate. Le tempie, pressate da un semicerchio
di metallo, erano un tormento di sofferenza e fiamme tanto spostava la testa e
faceva strusciare il capo contro gli uncini gelidi.
Si fece avanti il medico, gli occhi incolori, la
mascella sbilenca, le dita lasse attorno ad un morso di cuoio.
Serrò i denti ancor più strettamente, il mento
alzato in segno di sfida, gli occhi azzurri che vibravano di sdegno e spirito
che mai si piega.
Un ruggito di dolore artificiale nelle ossa, un
urlo eruttato dalla bocca ora aperta
–Quando la richiuse, il morso scricchiolò per la violenza della sofferenza, per
il tentativo di mordersi della lingua, di soffocare nel proprio sangue
piuttosto che respirare e sottomettersi. Il cervello pompava informazioni alla
velocità della luce, gli riempiva il cranio di immagini, di piani per evadere,
di smentite, di lucida constatazione di tali, mirabolanti follie.
Coi capelli appiccicati alla fronte per il sudore,
sollevò il capo, perché lo sguardo incenerisse il suo aguzzino, ora seduto al
suo fianco per non perdersi nemmeno un istante.
“Non c’è alcun bisogno di essere testardi, Capitano.” Lo derise “Presto il dolore non sarà nemmeno più un ricordo.”